Gigantomachie d’Etruria. Noterella iconologica sui rivestimenti bronzei dei carri di età arcaica
p. 17-30
Texte intégral
1Se dobbiamo immaginare per l’età arcaica un modello di trasmissione di racconti mitici dalla Grecia verso l’area tirrenica, la dominante, per non dire esclusiva, forma per questa trasmissione, in un’epoca di pervasiva cultura orale e di straordinaria mnemotecnica, quale è stata quella greca fino alla piena età classica, è giocoforza pensare che il veicolo fondamentale sia stato quello poetico. E così, nei decisivi decenni tra la seconda metà dell’VIII e l’iniziale VII secolo a.C., le classi dominanti d’Etruria e del Lazio, ben presto e largamente edotte della lingua greca, hanno scoperto la magia e il potere persuasivo dei racconti mitici, che gli affabulanti artigiani greci della parola con i loro cantari venivano trasmettendo ai loro barbari ospiti nel corso di fastosi simposi, che rappresentano ancora un altro recente e fondamentale acquisto culturale tirrenico di quella fase. Da quel momento in poi in Etruria e nel Lazio non si cesserà mai di attingere al vasto patrimonio mitico greco espresso in forma poetica, oltre che per il diletto dell’ascolto, per creare discorsi per immagini sempre più elaborati e accattivanti, che, sotto i travestimenti del mito greco, erano largamente destinati alla costruzione dell’autorappresentazione dei ricchissimi signori di questa parte della penisola. Sono appunto le immagini, destinate a glorificare le imprese militari o l’intraprendente spirito della idie prexis di quei principes, a dirci che i vertici della popolarità sono stati raggiunti dai poemi omerici e del Ciclo, cui le rappresentazioni etrusche da subito si ispirano; tuttavia, accanto a questo vastissimo corpus poetico, è indubbio che in tale dinamico processo di trasmissione culturale possono aver avuto il loro posto anche altre composizioni, che potevano andare da scolii a composizioni aediche create all’impronta, anche se degli eventuali testi originari greci non abbiamo alcuna contezza. È questo ad esempio il caso dei miti di Teseo, da subito assai popolari fra i principes etruschi: di questi miti non conosciamo versioni poetiche1, anche se i suoi riflessi sono stati prontamente raccolti in Etruria: penso qui alla celeberrima oinochoe di Tragliatella2, nella quale il mito di Teseo è addirittura rifunzionalizzato, per rappresentare un Teseo-Mamarce, il quale, affiancato da una nutrice divenuta una per noi misteriosa Velelia, viene fatto segno del dono del gomitolo da una Arianna qui chiamata, quasi si fosse dimenticato il nome dell’eroina, Thesatei, letteralmente “quella di Teseo”: il lettore antico del vaso immediatamente partecipava alla Spielerei sottesa alla sostituzione dell’eroe ateniese con il princeps etrusco, essendogli noti sia il referente mitologico greco che il significato della sua figura ai fini dell’autorappresentazione del committente.
2Il mito della gigantomachia, di cui ci stiamo qui occupando, ha avuto scarsa fortuna letteraria in epoca molto arcaica: a parte fuggevoli citazioni esiodee (Omero, che conosce i Giganti, sembra ignorare il racconto della loro lotta contro gli dei), trattazioni più o meno compiute sembrano doversi ascrivere ad autori come Ibico o anche Pisandro con la sua Herakleia degli anni centrali del VI secolo a.C.3: non è un caso che questa sia l’epoca in cui la gigantomachia fa la sua comparsa nella ceramografia attica4 e subito dopo nella grande scultura greca con le prime, imponenti rappresentazioni di un mito, che diventa subito un soggetto ritenuto adatto ad opere assai impegnative, come il frontone del tempio dei Pisistratidi di Atena Polias5 o il fregio del thesaurós dei Sifnii6. Discutibile a mio avviso il ruolo, che nella diffusione del racconto avrebbe avuto la Gerioneide di Stesicoro, nella quale molto ha creduto in un primo tempo F. Vian7, il quale però nei suoi lavori più tardi su questa pretesa rilevanza stesicorea sembra aver messo la sordina; parimenti sovrastimata senza argomento alcuno è l’importanza che in area etrusca avrebbe avuto questo poeta, la cui fortuna molto deve alla cultura alessandrina. Coerentemente con questo tardivo interesse della poesia e dell’arte dei Greci per la gigantomachia, l’area tirrenica è stata avara di testimonianze figurative del mito: fanno eccezione sia un gruppo di vasi del Pittore di Micali (e collaboratori), l’unico ceramografo etrusco che presenti la lotta di Eracle al fianco di divinità, principalmente Atena/Menerva8, che la serie delle lamine bronzee da Bomarzo e altre a queste collegate9, mentre nutro forti dubbi circa l’appartenenza alla schiera dei figli di Ghê delle figure isolate di combattenti presenti su una dozzina di scarabei etruschi, che P. Zazoff interpreta come Giganti10, ma che ai miei occhi hanno più senso se rappresentazioni dell’eroe-guerriero per eccellenza come Achille, nel quale il proprietario dello scarabeo sicuramente amava riconoscersi11. Altra cosa è invece la sezione autonoma del racconto, che riguarda Tifeo, presente su molti oggetti di epoca arcaica e classica, tra i quali ricordiamo un vaso del Pittore di Micali12 e più stele felsinee13: il mito, di probabili origini orientali14, ha avuto speciale fortuna in Occidente forse come mito eziologico connesso alla presenza di grandi vulcani in Italia e in Sicilia. Ma di questo altri meglio di me discuteranno in dettaglio nel corso di queste giornate e a loro lascio volentieri il compito di analizzare questi aspetti paralleli del mito.
3In conclusione, in terra etrusca la gigantomachia ha avuto un solo monumento arcaico di grande impegno, il rivestimento bronzeo di un carro, il c.d. currus I, proveniente dalla tomba principesca di Castel San Mariano presso Perugia. Questo straordinario oggetto, in passato dimenticato come accade a molti oggetti del museo di Perugia, è tornato di recente al centro di particolare attenzione, assieme agli altri splendidi materiali del corredo, andato purtroppo disperso durante e dopo lo scavo: la dinamica e il luogo preciso del ritrovamento sono stati appena ricostruiti dalle pazienti indagini di M. Cipollone, che le ha rese note in un opuscolo celebrativo del bicentenario della scoperta del 181215. Il tema della lotta tra gli dei e i Giganti è presente sulle due fiancate di quel carro con figure di scala monumentale, su quella di sinistra Zeus in atto di colpire con un fulmine un Gigante e quella di destra Zeus ed Eracle, che si stringono la mano, mentre sulla fronte era rappresentata la lotta tra Peleo e Teti: quantunque in larga misura perduta, questa scena è tuttavia di ricostruzione sostanzialmente sicura in termini iconografici. Per valutare in maniera compiuta la logica strutturale e il significato di questo programma figurativo, finora mai ricostruito, dobbiamo partire dai termini di fondo di un tale programma, e in particolare dal sistema semantico costituito dall’insieme della funzione e della logica strutturale che governa la decorazione figurata di tutti i carri etruschi di epoca arcaica.
4Partiamo dunque dalla funzione. Non c’è, credo, bisogno di spendere molte parole sul fatto che all’epoca della tomba di Castel San Mariano, questi veicoli avevano da tempo cessato di essere uno strumento bellico, dopo essere stati di largo impiego militare nel secondo millennio, come nella celebre battaglia tra Egiziani e Hittiti a Qadesh, pur mantenendo intatta in area tirrenica–e solo in quella–tutta la loro carica di persuasione ai fini dell’acquisto e della conservazione del potere da parte delle classi dominanti. Nel corso dell’arcaismo della penisola16, questi carri, che troppo spesso sono stati chiamati “da guerra”, erano contraddistinti da un uso puramente cerimoniale e ideologico: carri guidati da guerrieri fanno di frequente comparsa in rappresentazioni di processioni di tali veicoli su oggetti cerimoniali di alto valore propagandistico tra tardo VII e l’intero VI secolo a.C., dalle uova di struzzo17 alle preziose situle d’avorio18, e soprattutto nei fregi fittili che, oltre ai templi, ornavano i cortili e le facciate delle residenze principesche di VI secolo a.C. In questi monumenti19 scene come la “partenza del guerriero”, presentata nell’iconografia tradizionale greca dell’apobates o anche semplicemente del trasporto, e il “ritorno dell’eroe”, spesso immaginato nella forma dell’apoteosi con carri trainati da cavalli alati, assumono i contorni dell’ossessione, dal momento che quasi non si conoscono decorazioni di edifici con questo tipo di fregio, che non presentino il protagonista della glorificazione nelle vesti di chi è montato o sta montando su carro e guidi le sue truppe oplitiche, oplita fra gli opliti, ma sempre significativamente mostrato mentre sta salendo o incede su un carro; come vedremo più avanti questo stesso tipo di veicolo fa la sua apparizione anche in processioni di tutt’altro significato. Il mero carattere ideologico del veicolo appare ulteriormente enfatizzato dal fatto che, come ha opportunamente osservato G. Colonna20, nell’Etruria più avanzata, quella delle grandi metropoli centro-meridionali, l’uso di deporre carri entro le tombe appare concluso già nel corso del VII secolo a.C., epoca dei celebri carri di Vulci21 e di Populonia22, mentre dopo quella data resta un fenomeno periferico rispetto alle grandi città (Colonna parla di “frontiera”), presente com’è in centri etruschi marginali quali indubbiamente sono Castel San Mariano o Ischia di Castro23, dove i carri appartengono tutti al pieno VI secolo a.C. Per l’epoca seriore, il veicolo ha una grande diffusione in zone umbro-picene, con interessanti propaggini nella Campania interna e nell’area dauna, dove giungono a lambire il IV secolo a.C.24 Questa considerazione a mio parere non fa che accrescere l’interesse volto a comprendere la preferenza accordata a questo veicolo e a questa forma di autorappresentazione, il cui evidente scopo è quello di esaltare l’indi scutibilità del primato e la pienezza del potere esercitato in società manifestamente arretrate in termini di sviluppo urbano dai loro detentori, reguli e chieftains, i quali amano presentarsi come eroi degni dell’epos greco.
5Questa è dunque la mentalità di siffatti personaggi, una realtà che occorre tenere ben presente per valutare il significato delle immagini che decorano questo e altri carri di VI secolo a.C. Come è noto, il carro più completo e per noi più importante per giungere alla definizione del programma figurativo è quello proveniente da Monteleone di Spoleto, del 560 a.C. circa, giunto agli inizi del secolo scorso al Metropolitan Museum di New York in seguito all’acquisto del corredo di una tomba appartenuta al capo della locale comunità umbra di montagna: il Metropolitan ne ha fatto di recente l’oggetto di uno splendido restauro, ottimamente pubblicato da A. Emiliozzi25. Sulla fronte del carro (fig. 1), decorata a sbalzo con incrostazioni d’avorio solo in parte conservate, figura la consegna delle armi ad Achille da parte di Teti: asse geometrico della composizione e al tempo stesso asse portante del messaggio figurativo sono lo scudo di tipo beotico, dalla singolare decorazione di una gorgone nella parte alta e di una testa di pantera nella parte bassa, e l’elmo, che, come il celebre esemplare magnogreco al museo di Saint Louis26, appare ornato da una protome di ariete; altro dettaglio compositivo di grande rilievo concettuale è il passaggio delle armi dalla dea all’eroe, raffigurato presentando scudo ed elmo tenuti tanto da Teti, vestita di un abito riccamente ornato che le copre il capo, quanto da Achille, il quale indossa gli schinieri e una corta tunica, mentre completano la scena, in una sorta di horror vacui, due uccelli predatori slanciati dall’alto su un cerbiatto, che occupa la parte inferiore del campo figurato, un dettaglio decorativo sul quale si è voluto sin troppo speculare in termini di significato. Le due fiancate amplificano e precisano il programma. La fiancata sinistra (fig. 2) presenta uno scontro tra due opliti di profilo, in genere identificati con Achille e Memnone27, i quali, seguendo l’abituale schema arcaico della monomachia oplitica, si fronteggiano sul corpo di un caduto, privo delle armi, riconosciuto di conseguenza in Antiloco, figlio di Nestore ed amasio di Achille. La fiancata destra (fig. 3), vestito di corta tunica, è alla guida di un carro trainato da due cavalli alati che si innalza verso l’alto, mentre in basso, sotto la pancia dei cavalli, è una figura femminile distesa e poggiata sul braccio destro: costei, quasi a schermirsi o ad allontanare un pericolo, tende in alto la mano sinistra, gesto e posizione che l’hanno fatta identificare con la vergine Polissena, destinata ad essere sacrificata all’eroe morto. Per la ricostruzione della semantica delle immagini sbalzate sulle fiancate del carro e per decrittare l’importanza del veicolo agli occhi del committente va sottolineato in maniera particolare il fatto che l’assunzione in cielo dell’eroe sia immaginata avvenire su di un carro, un’innovazione iconografica senza precedenti espliciti. Non è certo il caso di discutere in dettaglio le interpretazioni delle scene, che sono state esaminate a fondo più volte nei cento anni di presenza del capolavoro nel dibattito scientifico. Anche nel caso in cui si propongano interpretazioni iconografiche diverse, il senso del programma, in sé sufficientemente chiaro, non muta. Da un lato siamo sicuri, per la ricca serie di confronti iconografici di ambito greco, ma anche etrusco28, che la scena della consegna delle armi non possa essere che la (seconda) consegna delle armi ad Achille da parte di Teti; dall’altro, aldilà del riconoscimento esatto delle scene, assolutamente inequivocabile è il significato ultimo delle scene sulle fiancate. L’identificazione dei protagonisti del duello oplitico della fiancata sinistra è inifluente per la ricostruzione del programma, dal momento che scopo principale del racconto è di mettere in risalto il valore militare del possessore. La posizione del carro e ancor più il traino di cavalli alati29 sulla fiancata destra, che costituisce un topos ricorrente dell’allusione all’apoteosi del protagonista nelle processioni sulle più volte citate lastre fittili di I Fase, rendono virtualmente certa l’identificazione della scena come quella di un’apoteosi, identificata ragionevolmente mezzo secolo fa da R. Hampe ed E. Simon30 con quella di Achille, che hanno proposto di riconoscere nell’uomo sul carro Achille e nella fanciulla atterrata Polissena. Vista la sostanziale irrilevanza dell’esatta identificazione di molti dei protagonisti, il programma figurativo resta in ogni caso fissato.
6Possiamo ora affrontare la costruzione del programma figurativo. Poiché è impossibile riconoscere una sequenza cronologica o anche soltanto logica tra le tre scene, che sarebbero tenute insieme dalla sola figura di Achille, e poiché la lettura general mente accettata prescinde dalla dislocazione delle singole immagini, credo sia difficile ricostruire quel programma come un mero epainos di Achille e del suo biou kyklos, come molti, da R. Hampe ed E. Simon a M. Cristofani31 ed A. Emiliozzi32, hanno voluto immaginare, anche se è più che probabile che il committente abbia scelto Achille come proprio modello culturale e sociale. La ricostruzione del significato complessivo delle immagini non può prescindere dal fatto che vi è una gerarchia nella dislocazione delle singole scene, dalla quale scaturisce la costruzione retorica dell’intera rappresentazione, tipica della mentalità arcaica, incentrata com’è sul tema della concessione divina di armi prodigiose: proprio questa scena della consegna delle armi costituisce il fulcro di quel discorso ed è perciò effigiata nella parte principale del carro, quella fron tale, in quanto evento dal quale discendono i due momenti successivi a quella consegna, presenti sulle fiancate, da una parte la conquista della gloria, dall’altra l’apoteosi. In poche parole, a prescindere dall’anteriorità o dalla posteriorità cronologica della monomachia rispetto alla consegna delle armi, questi due accadimenti da quella consegna traggono origine: l’areté e l’eroizzazione del guerriero sono infatti subordinate a quelle armi. La cosa è tanto perspicua da risultare quasi banale: il carro, vera e propria ipostasi e simbolo riassuntivo di quelle armi, che condurranno il possessore alla gloria e all’apoteosi, rappresenta l’alfa e l’omega della narrazione, ed è perciò dal carro stesso, dall’intero oggetto in quanto arma per eccellenza, che discende il programma. La lettura del programma figurativo va fatta sulla scorta della collocazione delle singole parti del veicolo e delle relative scene, partendo dal centro dell’enfasi narrativa, che risiede in particolare sulla fronte, dalla cui immagine il committente certo si attendeva l’effetto desiderato dall’esibizione solenne di un oggetto tanto risplendente quanto dispendiosa doveva esserne stata la commessa: poiché il regulus umbro avrà senz’altro immaginato di raggiungere il massimo della persuasione dalla prima apparizione del carro e dall’incedere della processione, che con il carro si apriva, non è difficile immaginare che doveva essere la fronte, ossia la parte del veicolo prima ad apparire, alla quale egli si affidava per proporsi, con un vero e proprio “coup de théâtre”, come un ἡμίθεος fra la sua gente. Una conferma che il messaggio del possesso di armi prodigiose fosse quello principale e che la lettura del programma figurativo dovesse partire appunto dalla fronte ci viene da un altro carro purtroppo frammentario, un tempo ritenuto proveniente da Chiusi, ma che io stesso33 ho potuto ricondurre ad un altro regulus umbro, questa volta di Todi: mi riferisco alle c.d. “Lamine Ferroni” (fig. 4), oggi al museo di Firenze, un altro frontale di carro ancora una volta da un’area contigua all’Etruria, nel quale la scena rappresentata è la consegna delle armi ad Achille, mentre sulla fiancata superstite figura il mito di Teseo e il Minotauro. Quest’ultimo particolare, che certifica la diversità dei protagonisti dei racconti mitici del carro di Todi, appare di grande interesse per la ricostruzione del programma figurativo che intendo proporre per il currus I di Castel San Mariano, poiché ci dice che l’unicità della figura eroica del carro di Monteleone di Spoleto risulta comunque secondaria rispetto alla costruzione di un programma che può servirsi di più eroi come referenti e modelli impliciti del committente, legato ad una narrazione e non ad una specifica figura del mito, risultato di un legame istituito tra i significati profondi di ciascuna scena.
7Veniamo ora al centro del nostro discorso, il carro del ricchissimo princeps di Castel San Mariano. Il corredo della tomba esibiva una serie di spettacolari oggetti metallici, che, oltre a vasellame, armi e suppellettile varia in bronzo e persino il rivestimento in argento dorato ed elettro di una kibotos (?) con scena di amazzonomachia34, conta ben tre veicoli dal rivestimento in bronzo decorato a sbalzo, due carri maschili e un calesse femminile, cui d’abitudine ci riferisce chiamandoli rispettivamente currus e carpentum. Tralasciamo quest’ultimo, che sul piano funzionale è tutt’altra cosa dagli altri due e che perciò esibisce un programma figurativo completamente diverso, e veniamo ai due carri maschili. Con la sua unica lamina, in origine ripiegata così da costituire il rivestimento di un carro a pianta sostanzialmente ellittica, il currus II35 mostra di appartenere ad una tipologia di veicolo differente dall’altro carro maschile; prodotto da un’officina assai diversa e più tarda (520 a.C.) di quella di tutti gli altri, è decorato da una scena unica, che raffigura l’amazzonomachia di Eracle (fig. 5). In questa sede interessa mettere in risalto il dato che anche in questo carro il programma figurativo, che contiene ben due rappresentazioni tratte dalla gigantomachia, appare incentrato sulla figura di Eracle, un dato questo che trova preciso riscontro nella decorazione del currus I, il monumento dal quale abbiamo cominciato. Il currus I del 540-30 a.C., dal caratteristico bordo superiore baccellato, presenta una fronte (fig. 6), giunta a noi in minima parte, ma non in condizioni tali da non consentirci di riconoscere il soggetto della decorazione, la lotta tra Peleo e Teti: della figura di Peleo è conservata solo la chioma, mentre della dea restano parti della capigliatura e della veste in basso, oltre alla testa appartenente a un leone, uno degli animali nei quali Teti si trasforma per sottrarsi all’assalto di Peleo, visibile in alto a destra. Relativamente meglio conservate sono le due fiancate del carro: su quella sinistra (fig. 7) Zeus si accinge a scagliare il fulmine contro un gigante semiatterrato, che gli ha tuttavia afferrato il braccio sinistro, mentre su quella destra (fig. 8) Zeus, munito di scettro terminato da palmetta (difficilmente può trattarsi, come pure qualcuno ha pensato, di Poseidon armato di tridente), stringe la mano di Eracle, efficace gesto di pattuizione, identico a quello che Kleitias ha dipinto sul Cratere François36 per raffigurare la engyesis, la promessa scambiata tra Chirone e Peleo per le nozze di quest’ultimo con Teti (fig. 9).
8È questo il gesto-chiave dell’intero programma. Come narra Apollodoro37, «gli dei conoscevano una profezia secondo la quale nessuno dei Giganti poteva perire per opera loro: sarebbero morti solo se si fossero alleati con un uomo mortale… [Zeus] mandò a chiamare Eracle. Eracle trafisse Alcioneo…». Nel dilagare della figura di Eracle nelle rappresentazioni figurate del VI secolo a.C., questo momento centrale del mito della gigantomachia, secondo il quale sono gli dei stessi ad aver bisogno di un mortale come Eracle per debellare le forze del Male, assurge a motivo di fondo per la scelta che all’epoca si fa di rappresentare quel mito innanzi tutto come exemplum per rappresentazioni grandiose, destinate ad opere atte a decorare le dimore degli dei in terra, ma soprattutto come paradigma del “titanismo eracleo”, dal quale sono afflitte tutte le aristocrazie della Grecia e in primis i tiranni, come insegnano da una parte Pisistrato e i Pisistratidi38 e dall’altra gli oscuri estloi della piccola Sifno39, fino alla stessa Etruria, passando per la grecità occidentale, dove il grande atleta crotoniate Milone sarebbe andato all’assalto dei nemici Sibariti coperto come Eracle dalla leonté40: un’eco precisa di questo modello raggiunge il princeps di Castel San Mariano, che evoca per la propria autorappresentazione la figura di Eracle, come ha già peraltro fatto con il currus II, dove Eracle è protagonista unico della lotta contro l’anomia femminile impersonata dalle amazzoni. In questo caso, la scena che orna la fronte del carro di Castel San Mariano ai nostri occhi può apparire più ambigua di quella posta sulla fronte del carro di Monteleone di Spoleto: agli occhi del committente e per le sue aspettative, la lotta tra Peleo e Teti può infatti evocare più cose, dalla glorificazione della fatica sostenuta per il possesso di una dea alla promessa di un figlio prodigioso come Achille. Di sicuro nel nostro currus, diversamente da quanto accade per il carro di Monteleone di Spoleto, la fronte non è l’incipit, ma il punto di arrivo del programma figurativo, esattamente come gli sponsali di Peleo sono la conclusione del bios esemplare dell’aristocratico disegnato da Kleitias sul Cratere François41. In altre parole, se sulla fronte è la conclusione del programma, le premesse sono date dalle scene effigiate sulle fiancate, nelle quali figura l’athlon di Eracle, che ha il sapore di un ibristico comportamento paranomos, consistente nell’essenziale e ineludibile contributo dato dall’eroe agli dei nella loro battaglia contro i Giganti: culmine e conseguenza dell’athlon è la conquista della sposa divina.
9Alla luce del peso semantico che nella decora zione figurata costantemente si attribuisce alla fronte, è forse possibile avanzare un’ipotesi sulla funzione di questo currus, che intende esaltare le nozze con una dea come premio delle fatiche e della gloria acquistata e al tempo stesso promessa di una prole eccezionale, eterna aspettativa dell’uomo e massime dell’homo aristocraticus. Come ho ricordato poc’anzi, già molti anni or sono ho presentato la mia interpretazione delle due duplici processioni presenti nella complessa serie Roma-Veio-Velletri delle lastre di c.d. I Fase42 (fig. 10) come una grande metafora della successione al potere, presentata nella forma di una doppia celebrazione di sponsali, terrestri e celesti, questi ultimi distinguibili dagli altri – come si è detto in precedenza – grazie alla presenza di cavalli alati. Poiché i protagonisti di questa cerimonia, sia uomini che donne, incedono su carri del tipo del nostro currus, dobbiamo chiederci se questo currus I non fosse specialmente destinato alla messa in scena della processione realizzata in occasione delle nozze del nostro princeps, mentre l’altro carro, il currus II decorato con l’amazzonomachia di Eracle poteva invece essere riservato alle “epifanie” di tipo militare dello stesso princeps, il quale, autoidentificandosi come il grande eroe tebano destinato ad essere accolto nell’Olimpo, con tutta evidenza proponeva di accreditarsi presso i suoi subordinati come eroe “dell’impossibile”, quale appariva senz’altro Eracle.
10Messa dunque a fuoco la ricezione della gigantomachia in termini di autorappresentazione, propria delle élites locali etrusco-italiche, possiamo ora volgerci al Lazio, terra vicinissima all’Etruria, di fatto da questa indissolubile per gran parte della loro storia più antica, dove sullo scorcio della fase arcaica abbiamo un altro eccezionale monumento che raffigura l’epica lotta tra dei e Giganti: mi riferisco alla lunga sfilata di statue fittili grandi quasi al vero, collocata nel 490-80 a.C. come serie di gruppi acroteriali di cresta del nuovo tempio di Mater Matuta di Satrico, nel quale possiamo riconoscere il vero e proprio canto del cigno della latinità della città prima dell’invasione volsca43. La straordinaria perizia di P. Lulof è riuscita a ricostruire una sequenza di statue (fig. 11), che, oltre a due figure di Giganti morenti, conta molte divinità, fra le quali è stato possibile restaurare le figure di Zeus, di Hera, di Atena, di Dioniso, di Apollo, di Artemide, di Afrodite (piuttosto che Mater Matuta-Leucotea), e naturalmente di Eracle (fig. 12). L’eccezionalità del soggetto e la monumentale, enfatica sua presentazione meritano tutta la nostra attenzione e alcune fortunate scoperte vecchie e nuove che offrono alla nostra riflessione più di un’occasione, inducendomi a proporre un’ipotesi che ovviamente non è nulla più di un paradigma indiziario. È a tutti ben noto il Lapis Satricanus44, un’iscrizione dedicatoria significativamente definita «a provocation to history»45, di pochi anni precedente la realizzazione del tetto tardo-arcaico del tempio di Mater Matuta46. La dedica è stata posta nel santuario dai Popliosio Valesiosio suodales mamartei, ossia dei sodales martiales di P. Valerius, nei quali dobbiamo riconoscere una sodalitas capitanata da P. Valerio Publicola, una delle molte “compagnie di ventura” che a partire da quella di Aulo e Celio Vibennae lungo tutto il VI secolo a.C. devono aver infestato le zone più ricche d’Italia47. Poiché la tradizione colloca la morte di Publicola nel 503 a. C., possiamo senz’altro escludere il primo console di Roma dal ruolo di ispiratore (e finanziatore) di quest’opera di straordinario livello. Restano, com’è ovvio, i sodales dell’iscrizione, uno o anche più d’uno di questi, che forse si annida dietro qualcuno dei nomi più incolori registrati dall’annalistica negli anni iniziali della repubblica: purtroppo sulla sodalitas di Poplicola non abbiamo notizie paragonabili a quelle sui Vibennae che hanno circolato sin dal VI secolo a.C., per l’intuibile ragione costituita dal coinvolgimento in quelle gesta di un personaggio come Servio Tullio. Tuttavia, possiamo immaginare che sia stato contagioso l’esempio dei Vibennae, che hanno lasciato a Servio-Mastarna il controllo di Roma, o quelli dei figli del Superbo che hanno agito come rappresentanti del padre in vari luoghi del Lazio e soprattutto a Gabii, una circostanza di cui ora le fortunate scoperte di Marco Fabbri e Stefano Musco ci danno in buona misura la “prova archeologica”: alla luce di questi precedenti, del tutto certi, non è impossibile che Publicola abbia lasciato qualcuno dei membri della compagnia da lui capitanata come suo “delegato” al potere su Satricum e che questi, a memoria imperitura di una vittoria conseguita intorno al 490 a.C. su ignote Forze del Male, avrebbe fatto erigere questo straordinario monumento. Sulla biografia di Publicola grava notoriamente il sospetto di ricostruzioni annalistiche, soprattutto su quelle del tutto inattendibili elaborate da Valerio Anziate, che non è certo il caso di discutere in questa sede. Ma aldilà di alcune evidenti iperboliche fantasie dell’annalistica, circolava largamente una tradizione che, in controtendenza con la visione positiva sparsa a piene mani per esaltare uno dei fondatori della repubblica, registrava una qualche contiguità del Publicola con atteggiamenti di tipo tirannico. Tale insieme singolare di notizie può partire da quella relativa al tempio di Vica Pota, un edificio sorto sulla casa di Publicola alle radici della Velia, la cui storicità non può essere messa in dubbio, ancorata com’è alla registrazione del dies natalis del tempio: di recente ho collegato la costruzione di questo tempio con l’uso, frequente nell’alta repubblica, di costruire templi sulle case di esponenti della società romana dell’alta repubblica colpevoli di adfectatio regni48. Nella biografia romanzata di Publicola composta da Plutarco, compare anche la singolare notizia, secondo la quale Publicola, per porre fine alle continue accuse di adfectatio regni, avrebbe «volontariamente» distrutto la propria casa che sorgeva sulla sommità del colle49, fonte primaria di tale accusa: la motivazione era costituita dal fatto che, quando egli discendeva da quella casa, «il suo apparire produceva un effetto grandioso e la pompa del suo seguito ricordava quella del re»: questa preoccupazione, scrive sempre Plutarco50, gli avrebbe addirittura suggerito di proporre che tutti coloro i quali venivano sospettati di attentare alla libertà repubblicana potessero essere passati per le armi da qualunque cittadino anche senza processo, notizia visibilmente infondata, se non altro perché si scontra con l’altra che assegna a Publicola l’instituzione della provocatio. Correvano insomma memorie che attribuivano a Publicola quello che i Greci chiamavano σχῆμα τυραννικόν e al tempo stesso che egli avrebbe avuto interessi nella periferia del mondo latino, dove avrebbe fondato la colonia di Signia, un evento marcato archeologicamente dalla decorazione architettonica del tempio di Giunone, del tutto coeva a quella di Satricum51, che si pone in diretta continuità con la deduzione della colonia da parte del Superbo. D’altro canto se, com’è stato autorevolmente proposto, Satricum è solo il nome volsco della mai individuata Suessa Pometia, la città latina conquistata dal Superbo alla fine del suo regno52, avremmo un’ulteriore conferma del nesso stretto esistente tra le attività dell’ultimo dei Tarquinii e quella del Publicola, così come non ci stupirebbe che di questa conquista e del suo favoloso bottino, di cui già Fabio Pittore53 racconta, usato dal Superbo per il tempio di Giove Capitolino, abbia potuto profittare l’anonimo sodale di Publicola per edificare il tempio satricano di Mater Matuta: questo edificio, ornato com’era dalla potente rappresentazione dell’epica vittoria conseguita dagli dei sui Giganti, intendeva segnalare a tutti che l’autore era in tutto simile all’eroe e che senza di lui, così come era accaduto all’inizio dei tempi, gli dei non potranno mai vincere sul Male.
Bibliographie
Des DOI sont automatiquement ajoutés aux références bibliographiques par Bilbo, l’outil d’annotation bibliographique d’OpenEdition. Ces références bibliographiques peuvent être téléchargées dans les formats APA, Chicago et MLA.
Format
- APA
- Chicago
- MLA
Bibliografia
Boardman 1972: J. Boardman, Herakles, Peisistratos and Sons, RA, 1972, p. 57-72.
Boitani 1987: F. Boitani, La biga etrusca di Castro, Antiqua 5-6, 1987, p. 215-233.
Calame 1990: C. Calame, Thésée et l’imaginaire athénien. Légende et culte en Grèce antique, Lausanne, 1990.
Cifarelli 1997: F.M. Cifarelli, Le terrecotte architettoniche di Segni nella fase tardo-arcaica, in Deliciae Fictiles 2. Proceedings of the Second International Conference on Archaic Architectural Terracottas from Italy, Held at the Netherlands Institute in Rome, 12-13 June 1996, Amsterdam, 1997, p. 23-34.
Cifarelli 2003: F.M. Cifarelli, Il tempio di Giunone Moneta sull’acropoli di Segni. Storia, topografia e decorazione architettonica, Roma, 2003.
Cifarelli c.d.s.: F.M. Cifarelli, Segni e il suo territorio dalla nascita dell'abitato alla colonia di Tarquinio, in The Age of Tarquinius Superbus. A Paradigm Shift? Proceedings of the Conference, Rome 7-9 November 2013, c.d.s.
Cipollone 2013: M. Cipollone, Il luogo di rinvenimento dei bronzi: una scoperta all’Archivio di Stato di Perugia, in P. Bruschetti, A. Trombetta (edd.), I Principes di Castel San Mariano due secoli dopo la scoperta dei bronzi etruschi, s.l. (ma Corciano) 2013, p. 21-37.
Colonna 2005: G. Colonna, L’aspetto epigrafico del Lapis Satricanus, in Italia ante Romanum Imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane, Pisa, 2005, p. 1635-1665.
Cristofani 1996: M. Cristofani, Paideia, arete e metis. A proposito delle pissidi della Pania, Prospettiva, 83-84, 1996, p. 2-9.
Cristofani-Martelli 1983: M. Cristofani, M. Martelli, L’oro degli Etruschi, Novara, 1983.
D’Acunto 2007: M. D’Acunto, Ipponatte e Boupalos, e la dialettica tra poesia e scultura in età arcaica, RA, 2007, p. 227-268.
de Waele 1996: J.A.K.E. de Waele, The Lapis Satricanus and the Chronology of the Temples of Mater Matuta at Satricum, Ostraka 5, 1996, p. 231-242.
Di Filippo Balestrazzi c.d.s.: E. Di Filippo Balestrazzi, Il mostro “anguipede” e il “dio in battello” nelle stele felsinee, c.d.s.
Emiliozzi 1997: A. Emiliozzi (ed.), Carri da guerra e principi etruschi. Catalogo della mostra, Viterbo, 24 maggio 1997-31 gennaio 1998, Roma, 1997.
10.1086/668454 :Emiliozzi 2011: A. Emiliozzi, The Etruscan Chariot from Monteleone di Spoleto, JMM, 46, 2011, p. 9-132.
Ernst 1996: W. Ernst, Archaeology as a Provocation to History. The Case of the Lapis Satricanus, in Archaeo logy, Ideology, Method. Inter-Academy Seminar on Current Archaeological Research 1993, Rome, 1996, p. 19-38.
Hampe, Simon 1964: R. Hampe, E. Simon, Griechische Sagen in der frühen etruskischen Kunst, Mainz a.R., 1964.
10.3406/mefr.1999.2100 :Harmon 1999: E. Harmon, Le Lapis Satricanus et la colonisation militaire au début de la République, MEFRA, 11, 1999, p. 847-881.
Höckmann 1982: U. Höckmann, Antikensammlung München. Katalog der Bronzen. Die Bronze aus dem Fürstengrab von Castel Mariano, München, 1982.
Lo Porto 1977-79: G.F. Lo Porto, Una tomba metapontina e l’ elmo di Saint Louis nel Missouri, AMSMG, 18-20, 1977-79, p. 171-187.
Lulof 1996: P.S. Lulof, The Ridge-Pole Statues from the Late Archaic Temple at Satricum (Scrinium XI, Satricum V), Amsterdam, 1996.
Maggiani 2003: A. Maggiani, Il cavallo (alato e aggiogato) in Etruria, in G. Cresci Marrone, M. Tirelli (edd.), Produzioni, merci e commerci in Altino preromana e romana. Atti del convegno, Venezia, 12-14 dicembre 2001, Roma, 2003, p. 161-178.
Marconi 2006: C. Marconi, Mito e autorappresentazione nella decorazione figurata dei thesauroí di età arcaica, in Stranieri e non cittadini nei santuari greci. Atti del convegno internazionale, Firenze, 2006, p. 158-186.
Martelli 1983: M. Martelli, Il «Marte» di Ravenna, Xenia 6, 1983, p. 25-36.
Menichetti 1992: M. Menichetti, L’oinochoe di Tragliatella. Mito e rito tra Grecia ed Etruria, Ostraka, 1,1992, p. 7-30.
Palombi c.d.s.: D. Palombi, Pometia e Cora, in The Age of Tarquinius Superbus. A Paradigm Shift? Proceedings of the Conference, Rome 7-9 November 2013, c.d.s.
Santi 2010: F. Santi, I frontoni arcaici dell'acropoli di Atene, Roma, 2010.
Sassatelli 1984: G. Sassatelli, Una nuova stele felsinea, in Culture figurative e materiali tra Emilia e Marche. Studi in memoria di Mario Zuffa, Rimini, 1984, p. 107-125.
Spivey 1987: N.J. Spivey, The Micali Painter ad his Followers, Oxford, 1987.
Stibbe, Colonna, de Simone 1980: C.M. Stibbe, G. Colonna, C. de Simone, Lapis Satricanus. Archaeological, Epigraphical, Linguistic and Historical Aspects of the New Inscription from Satricum,’s-Gravenhage, 1980.
Strazzulla 1997: M.J. Strazzulla, L’altorilievo mitologico del tempio tardo-arcaico di Segni, in Deliciae Fictiles 2., Proceedings of the Second International Conference on Archaic Architectural Terracottas from Italy, Held at the Netherlands Institute in Rome, 12-13 June 1996, Amsterdam, 1997, p. 202-217.
Torelli 1982: M. Torelli, La società della frontiera, in Verso un Museo della Città. Catalogo della mostra, Todi 1981, Todi, 1982, p. 54-58.
Torelli 1992: M. Torelli, I fregi figurati delle regiae latine ed etrusche. Immaginario del potere arcaico, Ostraka I, 1992, p. 249-274.
Torelli 2000: M. Torelli, Le regiae etrusche e laziali tra Orientalizzante e Arcaismo, in Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa. Catalogo della Mostra, Bologna, 1 ottobre 2000-1 aprile 2001, Venezia, 2000, p. 67-78.
Torelli 2002: M. Torelli, Autorappresentarsi. Immagine di sé, ideologia e mito greco attraverso gli scarabei etruschi, Ostraka, XI, 2002, p. 101-155.
10.1163/9789047402664 :Torelli 2004: M. Torelli, Un dono per gli dei: kantharoi e gigantomachie. A proposito di un kantharos a figure nere da Gravisca, in K. Lomas (ed.), Greek Identity in the Western Mediterranean. Paper in Honour of Brian Shefton, Leiden, 2004, p. 211-227.
Torelli 2007: M. Torelli, Le strategie di Kleitias, Milano, 2007.
Torelli 2019: M. Torelli, Fictilia tecta. Riflessioni storiche sull’arcaismo etrusco e romano, in Deliciae Fictiles IV, Architectural Terracottas in Ancient Italy: Images of Gods, Monsters and Heroes. Proceedings of the International Conference Held in Roma-Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Royal Netherlands Institute-and Syracuse-Museo Archeologico Regionale ‘Paolo Orsi, October 21.25, 2009, Oxford-Oakville, 2010, p. 3-15.
Torelli 2011: M. Torelli, Bellum in privatam curam (Liv. II, 49, 1). Eserciti gentilizi, sodalitates e isonomia aristocratica in Etruria e Lazio arcaici, in C. Masseria-D. Loscalzo (edd.), Miti di guerra, riti di pace. La guerra e la pace: un confronto interdisciplinare (Atti del Convegno, Torgiano, 4 maggio 2009 e Perugia 5-6 maggio 2009), Bari, 2011, p. 225-234.
Torelli c.d.s.: M. Torelli, Templi sopra case. Archeologia dell’adfectatio regni, in The Age of Tarquinius Superbus. A Paradigm Shift? Proceedings of the Conference, Rome 7-9 November 2013, c.d.s.
Versnel 1966: H.S. Versnel, Saliei of I(o)vniei? Over nieuwe interpetaties van en een nieuwe conjectuur in de Lapis Satricanus, Lampas, 29, 1996, p. 46-61.
Vian 1952: F. Vian, La guerre des Géants, Paris, 1952.
Vian 1960: F. Vian, Le mythe de Typhée et le problème des ses origines orientales, in Éléments orientaux dans la religion grecque ancienne, Colloque de Strasbourg 22-24 mai 1958, Paris 1960, 17-37.
Vian 1985: F. Vian, Nouvelles réflexions sur la Gigantomachie, Sileno, 11, 1985, p. 255-264.
Waarsenburg 1996: D.J. Waarsenburg, Lapis Satricanus. Nieuw licht op een oude foto, Lampas, 29, 1996, p. 5-9.
10.2307/504829 :Watrous 1982: L.V. Watrous, The Sculptural Program of the Siphnian Treasury at Delphi, AJA, 86, 1982, p. 159-172.
Zazoff 1968: P. Zazoff, Etrukische Scarabäen, Mainz a.R., 1968.
Notes de bas de page
1 Su questo tema v. l’esaustivo lavoro di C. Calame 1990.
2 Menichetti 1992.
3 F. Vian, in LIMC IV, 1988, 197 (F. Vian); cfr. anche Vian 1985.
4 Per l’argomento, v. Torelli 2004.
5 Cfr. Santi 2010, p. 238-279.
6 Cfr. Watrous 1982; Marconi 2006; D’Acunto 2007.
7 È la tesi esposta in Vian 1952.
8 LIMC IV, 1988, p. 236 s., nn. 406-412; collegato ai vasi del Pittore di Micali e la sua scuola è il vaso con scena consimile appartenente al Gruppo di Orvieto di cui LIMC IV, 1988, p. 237, n. 413.
9 LIMC IV, 1988, p. 237, nn. 414-418.
10 Zazoff 1968, p. 155, con lista di figure isolate di combattenti, da lui interpretate come Giganti.
11 Sul tema v. Torelli 2002.
12 Cfr. Spivey 1987, p. 15, n. 76.
13 Cfr. Sassatelli 1984.
14 Vian 1960; v. ora anche Di Filippo Balestrazzi c.d.s.
15 Cipollone 2013.
16 Ben analizzato da vari autori, in Emiliozzi 1997, p. 15-44.
17 Torelli 2011.
18 Cristofani 1996.
19 Queste scene di “partenza del guerriero” sono state da me analizzate in dettaglio in Torelli 1992.
20 G. Colonna, in Emiliozzi 1997, p. 15-23, partic. 21.
21 A.M. Sgubini Moretti, in Emiliozzi 1997, p. 139-145; A. Emiliozzi, ibid., 145-158.
22 A. Romualdi, in Emiliozzi 1997, p. 155-162; A. Emiliozzi, in Emiliozzi 1997, p. 163-177.
23 Boitani 1987, p. 215-233.
24 L. Cerchiai, G. Colucci Pescatori, G. d’Henry, in Emiliozzi 1997, p. 25-32.
25 Emiliozzi 2011 (con bibl. prec.).
26 Lo Porto 1977-79.
27 M. Bonamici, in Emiliozzi 1997, p. 183-190, partic. p. 185 s.
28 Sintetica trattazione in LIMC, I, 1981, p. 211 s. (G. Camporeale
29 Come ho più volte ribadito nei miei lavori sui fregi fittili architettonici della c.d. I Fase (Torelli 1992; Torelli 2000, p. 249-274; Torelli 2010), i cavalli alati alludono all’apoteosi del protagonista; v. anche Maggiani 2003.
30 Hampe, Simon 1964, p. 54-60.
31 Cristofani 1996, p. 7.
32 Emiliozzi 2011, p. 41-46.
33 Torelli 1982; cfr. anche Martelli 1983, p. 33.
34 M. Cristofani, in Cristofani-Martelli 1983, p. 302, n. 198.
35 Höckmann 1982, p. 42, n. 8.
36 Torelli 2007, p. 37 s.
37 Apollod. Bibl. I (35-36), 6 (trad. Scarpi).
38 Il tema è stato a lungo dibattuto dopo il classico saggio di Boardman 1972.
39 Paus. X, 11, 2: sul programma del fregio v. nota 6.
40 Diod. Sic. II, 9,5.
41 Discusso in Torelli 2007.
42 Torelli 1992, partic. p. 265-267.
43 Lulof 1996.
44 Editio princeps di Stibbe, Colonna, de Simone 1980; ma v. anche Waarsenburg 1996; Versnel 1996; Harmon 1999; Colonna 2005.
45 Ernst 1996.
46 E. de Waele 1996.
47 Torelli 2011.
48 Torelli c.d.s.
49 Plut. Publ. 10, 1-5
50 Plut. Publ. 12, 1-2.
51 Cifarelli 1997; Strazzulla 1997; Cifarelli 2003; Cifarelli c.d.s.
52 Palombi c.d.s.
53 Fab. Pict. fr. 13 P, ap. Liv. I, 53, 2; cfr. Dion. Hal. IV, 50, 5-6.
Auteur
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Les bois sacrés
Actes du Colloque International (Naples 1989)
Olivier de Cazanove et John Scheid (dir.)
1993
Énergie hydraulique et machines élévatrices d'eau dans l'Antiquité
Jean-Pierre Brun et Jean-Luc Fiches (dir.)
2007
Euboica
L'Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente
Bruno D'Agostino et Michel Bats (dir.)
1998
La vannerie dans l'Antiquité romaine
Les ateliers de vanniers et les vanneries de Pompéi, Herculanum et Oplontis
Magali Cullin-Mingaud
2010
Le ravitaillement en blé de Rome et des centres urbains des début de la République jusqu'au Haut Empire
Centre Jean Bérard (dir.)
1994
Sanctuaires et sources
Les sources documentaires et leurs limites dans la description des lieux de culte
Olivier de Cazanove et John Scheid (dir.)
2003
Héra. Images, espaces, cultes
Actes du Colloque International du Centre de Recherches Archéologiques de l’Université de Lille III et de l’Association P.R.A.C. Lille, 29-30 novembre 1993
Juliette de La Genière (dir.)
1997
Colloque « Velia et les Phocéens en Occident ». La céramique exposée
Ginette Di Vita Évrard (dir.)
1971