L’allume di Napoli nel XV secolo
p. 97-103
Texte intégral
1La storia che sto per raccontare è una storia di sottosviluppo economico che ha come protagonista uno dei principali giacimenti d’allume della Cristianità nel corso del Quattrocento, situato tra Napolie Pozzuoli, laddove oggi è la conca vulcanica della Solfatara ad Agnano. Si traita di una vicenda di non semplice lettura considerata la frammentarietà della documentazione: circostanza che impone il ricorso a fonti diverse, asistematichee di differente provenienza, che vanno assemblate con cura per consen-tire un quadro esauriente della storia del giacimento.
2Il mio saggio sarà suddiviso in tre parti. La prima sarà dedicata ai modi di produzione; la seconda alla gestione della miniera; la terza alla distribuzione commerciale dell’allume napoletano.
La produzione
3Intorno agli anni Cinquanta del XV secolo, sotto la spinta della crisi delle importazioni di allume in Europa conseguente alla caduta in mano turca di Chio, un gruppo di imprenditori genovesi guidati dal mercante Bartolomeo Pernice1, ricevettero da re Alfonso d’Aragona il privilegio di sfruttamento di tutta l’area tradizionalmente definita la Solfatara, di cui, purtroppo, conserviamo soltanto la menzione.
In tempo di re Alfonso I... per uno genoese fu opte-nuto privilegio da li dicti signuri nde lo fare de dicto alume... e crede che dicto genoese se chiamasse Bartholomeo Pernice come pare per privilegio ad ipso concesso quale è registrato in la Summaria2.
4Il giacimento della Solfatara sorgeva al centro di un territorio impraticabile, coperto in massima parte da paludi, acquitrinie foreste. Tuttavia, tra il XIVe il XV secolo, esso è tutto tranne che un deserto. Vi fioriva una vita dinamica fatta di attività protoin-dustriali che imponevano un continuo awicendarsi di manodopera : cavatori di tufo delle colline flegree provenienti da Pozzuoli, trasportatori di lino che giungevano dall’entroterra per sfruttare come luogo di macerazione le rive del lago d’Agnano, gestori, per lo più ecclesiasticie napoletani, delle molteplici terme sulfuree presenti nella zonae dalle importan-ti virtù curative. E poi, scavatori di zolfo : dal Due-cento al Quattrocento, la miniera della Solfatara era stata adoperata soprattutto per la produzione di questo minerale. Ma si era trattato di una lavo-razione di limitata importanza, condotta fino al 1270 dalla famiglia Brancaccioe in seguito dai Griffi del seggio di Portanova. Nel 1415 Lemmoe Mazzeo Griffi vendettero la collina dove sorgeva l’al-lumiera a Saverio d’Annae a sua figlia Cicinella. Costei, nello stesso anno, portava in dote a Jacopo Sannazaro, nonno del poeta, «li territori dove se dice la bolla overo munti de Agnano, consistenteno in de li dicti munti, rivi et paduli aquosi, sulfe et de alume, vitrioli et altri territori de ipsi terre»3. Dei terreni, insomma, considerati di limitata importan-zae di valore economico secondario, almeno sino aU’arrivo dei Genovesi.
5Difatti, gli uomini di Bartolomeo Pernice, dotati di un diverso know how, crearono nell’antica Solfat ara un complesso industriale particolarmente avanzato. Una dettagliata descrizione del 14524, in occasione della visita a Pozzuoli di re Alfonsoe del re d’Ungheria, descrive tutte le sue parti. L’allumiera era distinta in due settori, disposti lungo la cresta del cratere. Il primo occupava il lato esterno, rivolto verso il lago d’Agnano, ed era adibito principalmente alla estrazione dello zolfo. Questo tratto appariva caratterizzato da un pianoro dove erano collocate le fornaci per la raffinazione del minerale, alle quali erano adibiti dei lavoranti addetti alla sua purifi-cazionee distillazione, con tempi di lavoro prolungati (mold huomini lavoranti delli quali alcuni affi-navano et altri raffinavano, nottee di lavorando). Da questo pianoro si dipartivano, lungo la cresta vulcanica esterna, numerose capanne (moite pagliare) collegate ad un edificio più grande (grande pagliara) dove venivano portati i barilie i carratelli contenenti lo zolfo raffinato.
6Al secondo settore si giungeva attraverso una strada fatta costruire dallo stesso sovrano arago-nese, che conduceva alla verae propria allumiera, collocata all’interno del cratere:
«circa un miglio più innanzi alle spalle di quella montagna trovaro una strata la quale sua maestà aveva fatto spianare quale discesa per un miglio trovaro una pianura grande et alla parte di quello piano la mede-sima montagna di zulfo. Da mezzo quella montagna nasce una pietra la quale biancheggia ed è tutta vena-ta rossa. E quella si taglia con artiglio di picconi di ferro, zappe, magli qual è durae quella si coce. Perché in quelli lochi sono multi puzzi d’acqua assai che ser-vono per adacquare molti aparecchi delle dete pietre. Da mano a mano stanno moite carcare dove quelle pietre s’abbrusciano come calcee bagnate prima diven-tano polvere. Quella polvere si pone dentro certi stagnait anzi conche, overo caccavi di rame grandissimi, e tuti stanno locati dentro certri magazzini a filara. Sono circa dieci per magazzeni molto larghi, tutti coverti d’embrici. Poi intorno detti magazeni vi sono moite stanzee casamentie moite poteche di ogni arte, ferrari, carpentarii, pizzicaroli, taverne, molti forni di panettieri. Perché in tale officio sono di bisogno molti huominie faticatori, che quando si lavora sono di bisogno come dissimo haverno trovati da 600, che a vedere pareva che si fusse una piccola città».
7Questa seconda struttura contava, tra minatorie operatori dell’indotto, circa 600 unità. La lavora- zione era condotta a mano, tagliando la pietra più profondamente possibile « con artiglio di picconi di ferro, zappe, magli »e creando delle trincee in legno per impedire le frane. Da qui il materiale veniva trasportato nella conca, dove l’uno a fianco all’altro (a filara) erano disposti dieci magazzini per la purificazione dell’allume : edifici ben differenti dalle capanne utilizzate per il deposito dello zolfo, verosimilmente in muraturae ricoperti da travature in legno (embrici), larghi a sufficienza da contenere delle grosse caldaie di rame (dette stagnati) e circondati da numerosi pozzi che fornivano l’acqua per i diversi processi di cristallizzazione.
8Il cronista ricorda due fasi distinte di lavora-zione. Con la prima, la pietra veniva cotta «corne calce» all’interno di bacini (calcare), dove l’allume veniva ridotto in polvere : un’operazione complessa che, secondo il tipo di pietra, richiedeva tra le diecie le dodici ore di bollitura. Questa polvere veniva poi passata negli stagnati, nei quali si completava la cristallizzazione;e poi deposta all’interno di casse di legno, dove il processo chimico terminava5.
9Intorno ai magazzini sorgevano gli alloggi degli operai (stanze e casamenti), le botteghe dei fabriferrai per la costruzione degli utensilie i laboratori per la lavorazione del legno. E, per soddisfare le esigen-ze degli estrattorie degli operai alla raffinazione, qualche magazzino alimentare (di pizzicaroli e pa- nettierinettieri) e delle taverne.
10Questa è l’unica testimonianza concernente l’impresa genovese. Probabilmente essa rimase grave-nivamente danneggiata dal violento terremoto del 1456 e, in seguito, abbandonata. Nel 1477 essa infatti ve-niva considerata la allumiera vecchia, come si legge significativamente in una scrittura di quell’anno.
11A partire dagli anni Sessanta del secolo, fu la famiglia reale a interessarsi direttamente alla produ-zione deU’allume. Tutte le miniere esistenti nel regno furono sottratte al controllo dei privatie ascritte al demanio regioe quella di Agnano, la più importante, fu affidata nel maggio del 1465 a Guglielmo Lo Monaco, per un suo sfruttamento più modernoe redditizio.
12Nato a Parigi, Guglielmo è conosciuto nelle carte quattrocentesche come il gubernator regie artegliarie. Egli aveva riorganizzato l’artiglieria regia fondendo delle bombarde in bronzo, alcune delle quali di di-mensioni enormi. Inoltre, durante la ricostruzione del palazzo reale di Castelnuovo, realizzô, usando tecniche particolarmente avanzate per l’epoca, i grandi portali in bronzoe le campane dell’orologio dell’edificio, per le quali furono pagati nel 1457 1117 ducati6.
13Nel 1462, Guglielmo ricevette l’ordine dal re di creare la nuova industria dell’allume che entrò a regime tre anni dopo. Solo allora si stabilirono i ter-mini dell’accordo7, che prevedeva innanzitutto l’avvio della struttura, che era costituita da due edifici : il primo era lungo venti canne e conteneva sette recipienti per bollire il materiale; nel secondo, an-ch’esso di venti canne, veniva effettuato il processo di raffreddamentoe di stoccaggio del prodotto, che veniva depositato in recipienti di circa 90 chilo-grammi-detti cantara – pronti per la vendita8.
14Inoltre il giacimento doveva disporre di « tucte le artigliarie necessarie per dicta lumera», cioè le ap-parecchiature in ferroe bronzo per le diverse fasi di lavorazione; di 45 paia tra buoie bufale, per caricare 25 calcarate di pietra d’allume al mesee sei ani-mali da soma per prendere la legna in alcuni punti dove i carri non potevano arrivare; di una grossa quantità di legname (200 passi de legnae forse più) da utilizzare ogni anno « per cuocere la pietrae bol-lire l’allume»; di 130 operai che soprintendessero alle diverse fasi di lavorazione, dalla sua estrazione allo stoccaggio; di un intendente che riportasse i conti delle spese fatte ogni mese ; di una taverna.
15Tra le altre richieste, peraltro, figurava anche quella di poter raccogliere la legna secca nella zona circostante l’allumierae di poter far pascolare libe-ramente le proprie bestie impedendo ad ogni altro contadino della zona di poter utilizzare gli stessi pascoli, sotto la pena di una multa di dieci once. La quantité prodotta stabilita avrebbe dovuto essere di circa 2400 cantara (2160 tonnellate) l’anno.
16Il contratto fornisce inoltre dei ragguagli sul ruolo dell’autorité statale nell’industria. Si chiarisce infatti che «Lo dicto Guliermo se contenta che la maestà predicta habia la metate de l’allume se far-rano ne la dicta lumera czioè si la dicta lumera faré ducento cantara de alume per ciascuno mese cento ne abiano essere da essa Maestée li restant! cento del dicto Guliermo». I due soci stabilirono, in defi-nitiva, di dividersi la produzione, senza però che uno dei due avesse una posizione privilegiata rispetto all’altro : una metà andava a Guglielmoe l’altra al re. Inoltre, il re non veniva pagato in denaro, ma in materia prima. In secondo luogo, il re doveva sostenere meté dei pagamenti effettuati da Guglielmo per la strutturazione della miniera in un lasso di tempo di sei mesi: fatto che mette in luce una certa mancan-za di liquidité del sovrano.
17Una delle clausole principali riguardô i criteri di vendita. Si stabilì che Guglielmo non vendesse l’allume nel regno ma solo al suo esterno. Ma, nel caso che l’allumiera non avesse fornito il quantitativo di minérale desiderato, egli avrebbe avuto la possibilité di venderlo nel reame per una somma corrispon-dente a 300 ducati al mese. D’altra parte, nel caso di difficoltà, il re si riservava la possibilité di comprare da Guglielmo l’allume al prezzo più favorevole di un ducato in meno per ogni cantaro. Infine il Lo Monaco venne esentato dal pagamento di ogni diritto do-ganale (debia essere franco de dohana et gabella).
18La capacité produttiva dell’allumiera fu consi-stentee tale da rivaleggiare per qualche tempo con quella di Tolfa. Nel corso del secondo Quattrocento, risultò difficile per Roma neutralizzare la concor-renza d’Agnanoe si rese necessario giungere ad un accordo, particolarmente vantaggioso per Napoli9.
19Esso, scritto l’11 giugno 1470, fu concluso tra i com-missari pontificie il mercante napoletano Aniello Pierozzi, rappresentante di re Ferrante. Con questo atto, si stabiliva innanzitutto che le miniere papalie quelle napoletane avrebbero formato un’unica società o maona e l’allume fabbricato sarebbe stato vendutoe esportato per conto di questa società. Commissari dei due stati avrebbero potuto visitare i diversi giacimentie avrebbero posseduto le chiavi dei differenti depositi. Gli stessi poi avrebbero dovuto prowedere a tenere un conto esatto delle quantité di minerale fabbricatoe venduto.
20Inoltre, le spese sulla fabbricazione, sul trasportoe per l’assicurazione marittima sarebbero state divise a metà. L’allume della compagnia avrebbe dovuto essere venduto da due commissari, uno pontifi-cioe uno regnicolo. I ricavati delle vendite sarebbero stati ripartiti in due parti uguali, anche se furono inserite delle clausole eccezionali concernenti accordi già presi dall’autorità pontificia a Brugese a Venezia. Il prezzo non doveva essere né maggiore né minore di quello stabilito dai soci. Le vendite, infine, sarebbero state effettuate in cambio di denaroe non attraverso l’uso del baratto ;e il credito fatto agli acqirenti non avrebbe dovuto superare un anno.
21Come rileva J. Delumeau, due cause tuttavia apportavano delle restrizioni al carattere collettivo dell’impresa : se per qualche ragione una quantité di allume fosse risultata invendibile ο di cattiva qualité, la parte responsabile ne avrebbe pagate le spese. E, d’altra parte, se uno dei due contraenti avesse avuto difficolté a fornire la propria meté, l’altro asso-ciato avrebbe garantito completando la quantité totale della produzione.
22Questo accordo, che avrebbe creato un cartello tutto italiano, fu probabilmente cancellato in fretta. I motivi risiederebbero nell’incapacità napoletana di rivaleggiare col bacino produttivo laziale, tanto che per soddisfare le attivité industriali regnicole tra il 1476e il 1478 furono spedite da Civitavecchia a Napoli 1306 cantara di allume. Tuttavia l’allumiera di Agnano, nonostante non riuscisse a contrastare le imprese romane, continuò a produrre con efficien-zae in maniera costante, garantendo alle casse reali introiti annui per 11. 000 ducati.
La gestione
23La gestione della miniera fu affidata a delle personalità di spicco, strettamente legate al sovrano. Ma essi non le controllarono direttamente, preferendo darle in subappalto a mercanti, sia regnicoli sia catalani, che avevano fatto del rapporto con lo Statoe con il re l’elemento principale della loro prosperità economica. Erano pero personaggi che non facevano parte di un gruppo omogeneo di ammini-stratori civili, anzi essi componevano una élite che, alla tutela dell’interesse pubblico, preferiva la salva-guardia dei propri utili. Una categoria di commercianti-appaltatori che si awantaggiava della difficile situazione economica in cui versava l’apparato finan-ziario dello Stato, che fu costretto, giocoforza, a la-sciare il controllo su importanti settori dell’ammini-strazione a singoli operatori (mercanti, banchieri, uomini d’affari), senza che si potesse creare una vera distinzione fra settore pubblicoe privato.
24La situazione degli appalti nella miniera di Agnano risulta articolata. Poco dopo essere diventato «amministratore delle reali fabbriche del regno», Guglielmo Lo Monaco cedette di volta in volta in subappalto il giacimento. Subentrarono a lui Aniello Pierozzi, appaltatore delle doganee delle gabelle in Capitanatae in Terra di Barie armatore in société con re Ferrante; il mercante catalano Guglielmo Scales, il mercantee governatore dell’arsenale reale Jaume Calatayud e, infine, il presidente della Regia Camera della Sommaria Colantonio Gagliardo10.
25A partire dal 1484, subentrò nel controllo del giacimento di Agnano il mercante di drappi Gaspare Scozio, che fu, tra l’altro, gabellotto della gabella quartuci et boni denari e della gabella platee maioris et publicam. Egli affidò la gestione di Agnano a Cola Gagliardo e, poi, a Loise Lauritano, entrambi mercanti.
26Il sistema che si venne a creare, sotto il controllo sempre più marginale dello Stato, si basé sulla spartizione tra appaltatorie subappaltatori delle ricchezze provenienti da un bene di pubblico dema-nio. Un modello in linea con altri settori della finanza pubblica, come quello del fisco, nel quale la debolezza dell’autorité statale permise al subappalto di diventare una pratica costante, che diede a molti speculatori la possibilité di rapidie facili guadagni a spese dell’istituzione statale.
27In ogni caso, le ricchezze accumulate dagli appaltatori furono ingenti, tanto da modificare la loro posizione sociale. Guglielmo Lo Monaco, ad esempio, « per lo guadagno lo quale era pervenuto de dicta alumera fece una gran parte dela rechezza sua»; Colantonio Gagliardo divenne «da poverissimo ricco»; mentre i più grandi progressi sembra farli Gaspare Scozio, il quale « se sapea essere non multo facultuso innante havesse fatto esercitare dicta alumera de po lo si sape essere facto richissimo et homo de una grande rechezza et homo addenarato et si cre-de havere dicta robba per causa de dicta Lumera».
28L’investimento maggiormente seguito fu quello dell’acquisto di beni immobili, sia in città sia nel distretto : un tipo di iniziativa sicura, non soggetta a grosse oscillazioni di prezzo, che garantiva rendite stabilie la possibilità di una certa ascesa sociale. Per esempio, Guglielmo Lo Monaco acquistô « tutte le case che stanno da lo Molo piccolo per fino ad San Pietro martiro da tuttee due le bande et altri edifici facte fora a la porta de lo Castello Novo et... certe masserie a Succavo et... uno bello fundico di panni». Una strategia adottata anche da Gaspare Scozio, il quale investi nella stessa zona portuale somme che superarono i 1 000 ducati11.
29È chiaro che tale scelta impedì che il denaro guadagnato fosse reimpiegato nel potenziamento del-l’industria dell’allume ο concentrato in altre attività commerciali, probabilmente considerate da loro troppo incerte, rischiose ο poco prestigiose. Un comportamento economico dove le ragioni di scambio venivano subordinate ad altri fattori (innanzitutto la crescita di status ο le stabilie sicure entrate provenienti dalla gestione degli immobili), che impedirono che crescesse in maniera sensibile il ruolo di questi operatori nella vita economica cittadina.
Il commercio
30L’allume si vendeva a Napoli al prezzo di due ducati per cantaro. I documenti spiegano che «andando uno ducato de spesa per ciascun cantaro de alume un altro ducato se ne piglia de guadagno »: un ricavato, alla vendita, del 50%. Bisogna però doman-darsi chi commerciasse l’allume. Lo Stato gestiva in proprio la vendita di metà della produzione, che veniva in parte convogliata nelle industrie locali del – l’arte della lanae della seta. Nel 1464 il re affidò al mercante veneziano Marino Ca’da Ponte 1 000 ducati in allume da vendere allo scopo di ottenere denaro da investire nella nascente industria delle seta. Tre anni dopo, lo stesso Marino comprò con i suoi associati certam quantitatem aluminis presso la Regia Curia per la produzione di tessuti in seta.
31A discapito poi di quanto stabilito con il Lo Monaco, il sovrano destinò una parte della sua produzione all’estero, specialmente verso Firenzee verso la Catalogna. Il 30 giugno 1472 il commissario regio Carlo Brancaleone consegnò alla famiglia mercantile fiorentina dei Martelli 450 cantara d’allume: « Charlo Branchalione, chostì conmessario del S. re, promettiate a chi lui vi dirà chantara quattrociento – cinquanta d’allumi al peso di qui». Mentre l’anno seguente, il re faceva pagare 3386 ducati a Guglielmo Scales per 1963 cantara di allume da consegna-re a Jaume Calatayude da smerciare a Barcellona12.
32I giacimenti napoletani alimentarono una corrente di vendita piuttosto intensa sia nel Mediterra-neo occidentale sia verso le Fiandre. Però in questo ambito la funzione dei mercanti-appaltatori napoletani fu molto limitata. Il loro ruolo fu soprattutto di intermediazione,e generalmente terminava nei luo-ghi di imbarco del prodotto-Napoli, ma soprattutto Pozzuoli, Nisidae Bagnoli13 – dove i mercanti stranieri non pagavano né diritti né dazi doganali, come sosteneva nel 1517 il mensurator Regii maioris fundici et dohane civitatis Neapolis Raimo Ciolla secondo il quale « mai havere inteso dicti alumi che se lavoravano in dicta Lumera de Agnano fossero stati obligati ne havessero pagato dericto alcuno de quelli che se esigono in dicta banca de dohana»14.
33In questa fase di intermediazione, i mercanti napoletani adoperarono in genere il baratto, dal quale, come rilevano i contemporanei, si traevano introiti più alti : si diceva infatti che « l’alume se sole vendere in Napoli alla ragione de due ducati lo cantaro ma a baratto se ne ritraeva molto di più ». Una situazione che tornava a tutto vantaggio degli operatori stranieri, che ricevevano da questo scambio inegua-le allume in cambio di manufatti spesso a basso co-sto, come i drappi di lana di cattiva qualità15.
34Ancora una volta, il gruppo napoletano appare schiacciato dalla rete commerciale straniera, che rendeva difficile la formazione di solide strutture locali autonome. E, di fatto, i grandi guadagnie le speculazioni legate al rialzo ο al ribasso del prezzo deU’allume erano legati alle scelte imprenditoriali dei grandi investitori esteri, coordinati al sistema del commercio internazionale, i quali organizzavano l’esportazione deU’allume dal regno.
35Il controllo del commercio deU’allume fu con-teso tra Fiorentinie Catalani. Circa i primi, tutto l’allume consegnato ai tintori di Firenze negli anni Sessanta del secolo proveniva da Agnano, smerciatoe trasferito dalla compagnia del banchiere Filippo Strozzi. La rete dei Catalani si basava su mercanti insediati a Napoli, come Johan Berardo, Pere Valles, Johan Falcòe Pere Rossetta, collegati alle grandi compagnie di Gaspar Muntmany, Pere Rovirae Gabriel Porrassa. Essi, a partire dal 1453, garantirono la fornitura d’allume napoletano a Barcellona, utilizzando non solo navi catalane, ma anche veneziane, florentinee francesi. L’altra cor-rente di esportazione fu quella verso le Fiandre, coperta da navi genovesie biscagline, che trasportarono carichi di allume che talvolta superarono gli 800 cantara16.
36Anche il commercio deU’allume fu, nel complesso, appannaggio delle grandi compagnie mercantili straniere. Mentre la funzione del ceto medio napoletano, caratterizzata da meccanismi come il baratto, appare relegatoe marginale, alla mercè del capitale internazionale, che determinava le scelte di merca-toe le strategie economiche da adottare.
Epilogo
37La pressione esercitata dalla grande finanza straniera ebbe un’influenza determinante sul declino della produzione napoletana. Alla fine del XV secolo, la debole presenza dello Stato permise l’aumen-to della pressione dei privati nello sfruttamento del giacimento di Agnano. I membri della famiglia San-nazaro, antichi padroni della miniera, ne rivendicarono la proprietà. Per aggirare l’ostacolo di un intervento regio, Jacopo non domandô il possesso del terreno, che almeno formalmente apparteneva al demanio, ma solamente il diritto di sfruttamento del sottosuolo.
38Pero, nello stesso periodo, alcune grandi compagnie straniere che producevano l’allume fuori di Napoli cominciarono ad interessarsi al giacimento. Nel 1494, in considerazione delle benemerenze acqui-site da casa Medici verso gli Aragonesi, Alfonso II concedeva in fitto la miniera a Pietro de Medici per una somma complessiva di 7 000 ducati17.
39Il 19 maggio 1501 il senese Agostino Chigi, appaltatore per la Camera Apostolica dell’allumiera di Tolfa, si accordava con Jacopo Sannazaro per l’utiliz-zazione del giacimento di Agnano18. Le condizioni prevedevano di non fabbricare più di 5000 cantara (250 tonnellate) l’annoe che il Sannazaro potesse vendere lui stesso tutta ο una parte di questi 5000 cantara ma solo all’interno del regno, senza alcuna possibilità di esportazione:
di decte cantara 5000 d’allume... di quelli vendere, alienare et finire tutta quella quantità che li piacerà in la città di Napoli et in questo regno, dummodo che for del regno non lo possi decto messer Iacobo aliquo modo extrahere né per sé né per altra persona.
40Il prezzo convenuto per la vendita fu più basso del solito : il prodotto sarebbe stato smerciato a meno di due ducati, ossia per i primi cinque anni « a ragio-ne di carlini 17, quatrini 2e 1/2» per cantaro e per altrettanti a soli 17.
41In realtà questo contratto fu ben presto annullato. Negli anni immediatamente successivi, Agostino Chigi preferi versare un compenso annuo (all’incirca 1000 ducati) al Sannazaro affinché tenesse chiuso il giacimento. Le testimonianze in tal senso sono numerose19. Cominciamo dal catalano Pietro Vaglies, per il quale «al tempo de Agostino Ghise l’alume non lavoro... e da Carlo VIII in poi cioè per nove anni l’Alumiera non lavorò», mentre Antonio Regulano nel 1517 attestava che «dicta Alomera la teneva affictata da li dicti signori Sannazari lo ma-gnifico Augustin Ghise lo quale la tenne per cirche tridece anne serrata che non lavoro». Tommaso Borello da parte sua depose « ch’ey vero che ante che fosse afictata dicta lumera al dicto Antonio Regolano per assay tempo stecte serrata et arrendata per Augustino Ghise de Roma lo quale pagava tanto lo anno a li patruni senza farele lavorare le Alume». Aggiungendo che « Agostino Ghise tenne l’Alumiera et la tenne chiusa per far lavorare quella di Civitavecchia »20.
42Da queste testimonianze affiora con precisione la volontà della società del Chigi di bloccare la pro-seguitaduzione napoletana, pagando i proprietari perché non attivassero la lavorazione. Una linea che fu proseguita nel corso del Cinquecento dalla Camera apostolica : la produzione ad Agnano fu infatti ripre-sa nel 1517 ma interrotta nel’39, anno in cui la santa sede promise al nuovo proprietario, Cesare Mormile, la somma di 1000 ducati annui per l’arresto della lavorazione.
43La pressione vaticana si fece più incalzante nel 1551, quando il giacimento passò sotto il controllo di Pietro de Stefano che tentò un ripristino dell’impianto. La reazione si concretizzò in un interdetto col quale venne proibito a tutti gli operai di acce-dere ai luoghi di lavoro: opificibus interdixit ne ad ea loca accederent. Ne nacque, come scrive Benedetto Croce, « un serio conflitto giurisdizionale, in quanto la santa sede considerava quei terreni mediati ed immediati suoi soggetti ed essendo il regno soggetto mediato alla santa sede lo Stefano fu condannato »21.
44La logica di monopolio sottesa a tutta la vicenda è evidente. La spinta protezionistica pontificia, gra-zie al suo potenziale economico, riuscí ad eliminare dal mercato un antagonista pericoloso ma in piena crisi. L’industria napoletana dell’allume soffriva infatti di tutte quelle carenze tipiche del mercato napo-letano, che pagava continuamente le conseguenze della sua posizione gregaria, dotata di scarso spirito di iniziativa, pronta più ad accogliere le facili opportunité offerte da rendite sicure piuttosto che a lanciarsi in iniziative commercialmente rischiosee solo marginalmente legato ai grandi flussi interna-zionali. Un destino difficile, che si chiuse definitivamente circa cento anni dopo il suo inizio, agli inizi degli anni Settanta del Cinquecento, quando gli ultimi proprietari della miniera di Agnano ricevettero da papa Gregorio XIII 25. 000 ducati d’oro per inter-rompere una volta per tutte le attivité del giacimentoe demolire le strutture per la lavorazione.
45La particolare vicenda fin qui descritta rappre-senta un episodio sintomatico délia strutturale incapacité dell’economia napoletana, continuamente sog-getta alla forza di iniziativae di gestione degli ope-ratori forestieri. Entrepeneurs genovesi, venezianie francesi, mercanti catalani, Aorentinie fiamminghi, Strozzi, Medicie Chigi condizionarono la creazionee la produzione delle minière, i loro Aussi di esportazionee persino la stessa durata delle imprese napoletane, strangolate, nel corso del Cinquecento, dalla forza monopolistica dello Stato Pontificio. In questa situazione, l’apporto délia casa régnante aragonese risultô del tutto insuAiciente, considerata la sua évidente debolezza finanziaria, che impedi una durevole pianificazionee alimentô il controllo per appaltie sub-appalti concessi ai privati: una debolezza a cui peraltro si aggiunse, in periodo vicerea-le, l’assenza di una pur minima politica protezionistica. Mentre, d’altra parte, resta solo sullo sfondo il ruolo degli imprenditori locali, che si mostrarono del tutto incapaci di competere con la concorrenza stranierae poco interessati a reinvestire nello stesso settore i proventi tratti dallo sfruttamento dei gia-cimenti.
Notes de bas de page
1 Per l’attività genovese di sfruttamento di nuovi giacimenti, cfr. M. L. Heers, Les Génois et le commerce de l’alun à la fin du Moyen Âge, Revue d’histoire Économique et sociale, XXXII, 1954, p. 31-53; e J. Heers, Genova nel’400, Milano 1991, p. 279 ss. Va rilevato, peraltro, che Bartolomeo Pernice fu una figura di primo piano nella ricerca e nello sfruttamento di miniere di allume in tutto il territorio della Penisola e specialmente in Toscana, dove, come rileva Didier Boisseuil, tra il 1451 e il 1463 il Genovese ebbe la possibilità di creare tre giacimenti usufruendo di condizioni particolarmente vantaggiose (Cfr., in questo volume, D. Boisseuil, L’alun en Toscane à la fin du Moyen Âge : une première approche, infra, p. 105-117).
2 La notizia del privilegio è riportata in G. Cestari, Anecdoti istorici sulle alumiere delli monti Leucogei, Napoli, 1790, p. 62.
3 Oltre che nell’opera del Cestari, op. cit., passim, notizie sul-la miniera tra XIV e XV secolo sono in R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi., Firenze 1922, I, p. 249; E. Percopo, Vita di Jacobo Sannazaro, ASPN, LVI, 1931, p. 95 s. ; B. Croce, Le Allumiere di Agnano nei secoli XV e XVI e la Santa Sede, in : Varietà di storia civile e letteraria, serie I, Bari 1949, p. 36 ; e D. Ambrasi e A. D’Ambrosio, La Diocesi e i vescovi di Pozzuoli, Napoli, 1990, p. 25 e 225.
4 Cfr. Racconti di storia napoletana, Archivio Storico per le Province Napoletane (= ASPN), XXXIII, 1908, p. 494 s.
5 Sulle diverse fasi di preparazione dell’allume, si consiglia la descrizione tratta dalla Pirotechnia di Biringuccio riportata in J. Delumeau, L’alun de Rome (XVe –XIXe siècle), Parigi, 1962, p. 60-64. Circa la lavorazione dello zolfo ad Agnano nel corso del XV secolo, qualche indicazione è possibile trarla da Napoli. Francesco Pappacoda, a cura di A. Leone, vol. VIII della collana Cartulari notarili campani del XV secolo, Napoli, 2001, docc. 25, 26, 27, dove si menziona soprattutto la vendita effettuata da Masello di Antonio de Cobello, di Sessa, di « ollas seu pignatas centum quinquaginta magnas bonas et mercantabiles actas ad faciendum zulfur» da consegnare a Nicolangelo Mormile «in maritima civitatis Putheolorum».
6 Su di lui, cfr. G. Filangieri, Indice degli artefici delle arti mag-giori e minori, II, Napoli, 1891, p. 179 s. ; C. de Lellis, Famiglie nobili del Regno di Napoli, rist. anast. Bologna, 1968, II, p. 76-78; e Napoli. Notai diversi 1322-1541, a cura di A. Feniello, vol. VI della collana Cartulari notarili campani del XV secolo, Napoli, 1998, p. 78 n. 38.
7 Cfr. Cestari, op. cit., p. 26-31.
8 La costruzione degli edifici fu affidata al cavese Barto-lomeo Pisacane, che ricevette dal mercante pisano Bartolomeo Bonconti sei ducati «per ogni venticinque canne di muro fabbricato».
9 Questo atto è riportato quasi integralmente in Delumeau, op. cit., p. 24-26.
10 Su Aniello Pierozzi, cfr. A. Feniello, Marchandises et charges publiques : la fortune des d’Afflitto, hommes d’affaires napolitains du XVe siècle, Revue historique, CCCII, 1999, p. 96; su Jaume Calatayude Guglielmo Scales, cfr. Il Giornale del Banco Strozzi di Napoli (1473), a cura di A. Leone, Napoli, 1981, p. 546, n. 57e p. 547, n. 60; Su Cola Gagliardo, ivi, p. 577, n. 398.
11 Questa testimonianza è riportata in Cestari, op. cit., p. 35 s. ; e Percopo, op. cit., p. 100 s.
12 Per il ruolo sostenuto dalla Corona nella vendita dell’allu-me, cfr. Pescione, op. cit., p. 177; Silvestri, SuH’attività bancaria napoletana durante il periodo aragonese. Notizie e documenti, Bollettino dell’Archivio storico del Banco di Napoli, II, 1954, p. 11 ; e Giornale, op. cit. p. 13 e 721.
13 Cfr. Cestari, op. cit., p. 54 s. ; G. Yver, Le commerce et les marchands dans l’Italie méridionale au xiiième et au xivème siècle, Parigi, 1903, p. 133; B. Ruggero, Chiesa e società in una “universitas” del Mezzogiorno angioino, AS/W, XCII, 1975, p. 76; P. Lopez, Pozzuoli nell’età moderna (Quattrocento e Cinquecento), Napoli, 1986, p. 48.
14 Cestari, op. cit., p. 44 s.
15 Sul tema dello scambio ineguale nel Mezzogiorno, cfr. S. Tognetti, Uno scambio diseguale. Aspetti dei rapporti commerciali tra Firenze e Napoli nella seconda metà del Quattrocento, Archivio Storico Italiano, CLVIII, 2000.
16 Sul ruolo sostenuto dai Fiorentini, cfr. Heers, op. cit., p. 279; Sui Catalani, vedi soprattutto M. Del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona nel secolo XV, Napoli, 1972, p. 218 s. Sulle navi mandate in Fiandra, vedi Cestari, op. cit., p. 57.
17 Per la concessione ai Medici, vedi Regesto delle pergamene di Castelcapuano (a. 1268-1789), a cura di J. Mazzoleni, Napoli 1942; e Silvestri, op. cit., p. 104; A. Grohmann, Le fïere del regno di Napoli in età aragonese, Napoli, 1969, p. 276.
18 Cfr. O. Montenovesi, Agostino Chigi banchiere e appaltatore deU’allume di Tolfa, Archivio della Regia Deputazione romana di Storia patria, XVI, 1937, p. 107-147, articolo che contiene alle pagine 132-134 il contratto da questi stipulato con Jacopo Sannazaro.
19 Cfr. Cestari, op. cit., p. 56-58.
20 Ivi, p. 52 s.
21 Le vicende concernent! le ultime fasi di vita del giacimento sono descritte in Croce, op. cit., p. 38 s.
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