Scarti di ceramica comune di età ellenistica dallo scavo di piazza. Nicola Amore a Napoli: dati preliminari sulla produzione
p. 117-132
Texte intégral
1. Premessa1
1Le indagini archeologiche effettuate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli e Caserta in concomitanza con i lavori per la costruzione delle stazioni della linea 1 della
2metropolitana di Napoli, hanno arricchito il patrimonio di informazioni sulle modalità insediative della fascia costiera della città (Giampaola 2004a, Giampaola 2005b, Carsana 2007b) e sulla sua cultura materiale (Carsana 2004, Carsana 2007a) in un largo arco temporale dalla preistoria ad età moderna. In questo contributo sono presi in considerazione alcuni contesti ceramici di età ellenistica rinvenuti nel sito di piazza Nicola Amore, oggetto della realizzazione del pozzo della Stazione Duomo (Bragantini à paraître). Questi hanno restituito un significativo numero di scarti di ceramica comune e di anfore del tipo greco-italico recente MGS VI, databili alla prima metà del II secolo a.C., che consentono di identificare una produzione ceramica locale (Febbraro à paraître) sviluppata nella stessa zona dove si era già ipotizzata la presenza delle officine di Campana A (Johannowsky 1960, p. 490; Morel 1986, p. 343, n. 164; Laforgia 1997). Sebbene dall’indagine non siano emerse strutture pertinenti a fornaci, il dato risulta di particolare interesse poiché i materiali in esame, unitamente ad altri scarti da contesti stratigrafici dello stesso scavo, offrono per il periodo tra la fine del IV e il II secolo a.C. punti di riferimento per l’impostazione di una seriazione tipologica e cronologica delle ceramiche comuni neapolitane di età ellenistica. Inoltre le nuove evidenze di ceramica comune e di anfore integrano e articolano il quadro generale della produzione ceramica di età ellenistica del golfo di Napoli (Morel 1986, p. 325-356) nota soprattutto per la vernice nera Campana A (Morel 1985, Morel 1986, p. 335-343, Olcese 2001, p. 24-25) e per le anfore greco-italiche (Morel 1986, p. 352-354) delle officine di Lacco Ameno a Pithecusa-Ischia (Olcese 2001, Olcese 2004). Lo studio affronta i seguenti argomenti: 1) presentazione dei dati dello scavo di piazza Nicola Amore, con illustrazione dei contesti stratigrafici e delle cronologie (§ 1.1); il contesto di rinvenimento delle ceramiche comuni esaminate (§ 1.2). 2) La ceramica comune: analisi degli impasti (§ 2.1); repertorio morfologico, con proposta di evoluzione tipologica alla luce dei contesti stratigrafici (§ 2.2). 3) L’organizzazione delle produzioni ceramiche del Golfo di Napoli: gli indicatori dallo scavo di piazza N. Amore (§ 3).
1.1. Lo scavo
3Piazza Nicola Amore è localizzata sulla spiaggia alle pendici dell’altura su cui è fondata Neapolis fra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. Nel VI secolo a.C. la linea di battigia corre vicina alla base della scarpata del pianoro della città antica, in corrispondenza della quale è edificato il tratto meridionale delle fortificazioni con un tracciato ricostruito da via Mezzocannone a Forcella (Giampaola 2004a, p. 42-43) (fig. 1). Gli scavi per la stazione Duomo non hanno arrecato elementi puntuali per la cronologia dell’allineamento più antico delle mura urbiche genericamente datato al V secolo a.C., ma hanno chiarito le fasi di frequentazione del litorale immediatamente esterno ad esse. Dai livelli di spiaggia provengono materiali databili alla fine del VI secolo a.C., un frammento di lastra architettonica di rivestimento databile intorno alla metà del VI secolo a.C., benché recuperato come elemento residuale in un contesto della metà del V secolo a.C., costituisce un importante indizio dell’esistenza di un più antico edificio sacro, forse poco lontano dal luogo di rinvenimento e, nel contempo, ripropone il problema della presenza di evidenze più antiche della data della fondazione della città, di recente retrodatata alla fine del VI secolo a.C. (D’Agostino 2005, p. 49-63). La spiaggia, solcata da alvei naturali regolarizzati agli inizi del IV secolo a.C., è occupata da un edificio del quale si sono riconosciute solo tre cortine parallele in blocchi di tufo alternati a scaglie di tufo legate da cinerite, delimitato da fossati destinati ad uso rituale, dove sono stati rinvenuti incinerazioni di infanti, deposizioni di animali e resti di libagioni. Sullo stesso sito è realizzato, tra la metà e la fine del IV-inizi III secolo a.C.2, un complesso monumentale che si sviluppa su entrambi i lati di una strada (fig. 2): nel settore a nord del tracciato sono emersi due muri perimetrali che delimitano a nord e ad ovest uno spazio pavimentato nel quale si dispongono, su due allineamenti paralleli, basi di pilastri o di colonne; nel settore a sud si dispone un edificio composto a nord da una grande sala rettangolare, divisa lungo l’asse longitudinale da basi per pilastri o colonne posti a sostegno della copertura, a sud da tre ambienti a pianta rettangolare. Sul lato breve orientale della sala si conserva un vano per banchetti con banchine per le klinai e pavimento in signino, la cui presenza lascia ipotizzare la sua pertinenza ad un hestiatorion. Nel primo quarto del III secolo a.C., nello spazio esterno immediatamente a sud dell’edificio sono realizzati battuti di cinerite, terra e frammenti ceramici, anche di scarto, fosse con argilla ed una piccola struttura di combustione. Questi elementi sembrano rappresentare la testimonianza più antica di una destinazione a carattere artigianale dell’area che risulta incrementata nel corso della prima metà del III secolo a.C. (fig. 3), quando le strutture ormai rasate fino alla fondazione, e l’ultimo livello pavimentale dell’edificio, quasi completamente lacunoso, risultano obliterati da un livello di uso (fig. 4), costituito da argilla, sabbia, frammenti ceramici anche di scarto, parti di vasi in essiccazione (fig. 6). In esso sono incavate fosse, per lo più di forma circolare, talvolta riempite o rivestite con un impasto argilloso, destinate, forse, alla conservazione e umidificazione dell’argilla o alla sua miscelatura; in alcuni casi sul fondo delle fosse si trovano resti di legni combusti e pani di cenere. Nell’area del complesso sono costruiti pozzi fittili per attingere acqua (fig. 3), anfore e dolii in fossa per conservare l’argilla o altri materiali, vasche rettangolari rivestite con tegole per la decantazione dell’argilla, associate ad un pozzo fittile, una vaschetta rivestita in cocciopesto collegata mediante un tubulo ad un’anfora greco-italica (MGS V) utilizzata come scolo (fig. 5). La pavimentazione in signino dell’ambiente tricliniario è tagliata per l’inserzione come discendente di un’anfora greco-italica (MGS V), che si lega ad una canaletta connessa ad un pozzo (fig. 7). La strada in tale momento presenta vari livelli di uso connessi al suo utilizzo in relazione all’area artigianale. Nel settore del complesso a nord del tracciato viario, su livelli di drenaggio, costituiti essenzialmente da anfore greco-italiche (MGS IV) in butto, si rinvengono due grandi vasche rivestite in tegole, adiacenti ad un pozzo per attingere l’acqua (fig. 8). Tali evidenze marcano la defunzionalizzazione del complesso originario con l’organizzazione di spazi destinati a lavorazioni per la produzione ceramica le cui fornaci dovevano essere localizzate all’esterno dell’area considerata, anche se non lontano da essa. Nella seconda metà del III secolo a.C., a sud è impiantata una nuova strada orientata in senso est-ovest, costruita con battuti di frammenti ceramici, scarti, laterizi, strumenti di officina, la quale rappresenta con ogni probabilità il principale asse di collegamento con il vicino porto. Agli inizi del II secolo a.C., scarichi di materiali ceramici, spesso di scarto, sono gettati ad obliterare i pozzi per l’acqua; contestualmente si verifica un profondo riassetto monumentale testimoniato dalla costruzione nel settore meridionale di un portico in blocchi di tufo in assise piane delimitato a sud da una strada che si sovrappone al tracciato della seconda metà del III secolo a.C. La presenza di indicatori secondari di produzione rinvenuti nei battuti della strada costiera almeno sino alla metà del I secolo a.C. dimostra la continuità di vita delle attività artigianali nell’area circostante quella indagata. Diversamente la costruzione del portico segna la monumentalizzazione dell’area che dagli inizi del II secolo a.C. sino alla metà del III secolo d. C. rivestirà un carattere pubblico pregnante: la fase meglio documentata archeologicamente coincide con la realizzazione del complesso monumentale dei giochi isolimpici istituiti in onore di Augusto incentrato su un tempio delimitato a sud da un porticato (Bragantini à paraître).
1.2. I contesti dei pozzi
4I materiali ceramici presi in esame provengono dai riempimenti di due pozzi del quartiere artigianale. La scelta è motivata dalla peculiarità del contesto riferibile ad un’azione unitaria, racchiusa entro una forchetta cronologica compresa tra la metà del III secolo a.C., momento in cui si data la costruzione dei pozzi, e la seconda metà del II secolo a.C., quando essi sono spoliati. Il contesto di obliterazione restituisce forme di scarto, integre o ricostruibili, che risultano punti di riferimento per la crono-tipologia degli esemplari rinvenuti, poiché si tratta di vasi in uso, o meglio, nel caso degli scarti, ancora in produzione al momento della disattivazione dei pozzi. Il contesto è costituito da circa 500 frammenti e da 20 esemplari integri o ricostruibili, rappresentati quasi esclusivamente da ceramica comune acroma (44%) e da anfore greco-italiche (45%), e solo in minima percentuale da ceramica comune da fuoco e da vasellame da mensa di Campana A, in stato molto frammentario e mai di scarto (fig. 9). La maggioranza dei vasi in ceramica comune e di anfore risultano invece di scarto, ipercotti e deformati e, in molti altri casi, con errori di cottura o di essiccazione, come fessurazioni, ingobbio poco aderente, viraggio del colore e lievi deformazioni. Al materiale ceramico sono inoltre associati frequenti nuclei di argilla non cotta e anche scarti di laterizi, ipercotti e quasi vetrificati, alcuni dei quali forse riferibili a piani di cottura di fornaci. La ceramica comune acroma è rappresentata soprattutto da situle (fig. 11, n. 5-9) e bacini (fig. 13, n. 4-6) a cui si accompagnano brocche, scodelle, mortai (fig. 9, n. 3-9). Minima è la presenza di ceramica da fuoco, rappresentata da una pentola/kakkabé (fig. 9, n. 13), che trova confronto in esemplari di Corinto, datati al 150 a.C. (Bats 1988, fig. 7.5), da un frammento di olla (fig. 9, n. 12) e da alcuni frammenti di coperchi (fig. 9, n. 10-11), mai di scarto. La ceramica fine è limitata a pochi esemplari di pareti di balsamari e di ceramica a vernice nera Campana. A della serie Morel 1313, 2787, 3221 (fig. 9, n. 1), databili entro la prima metà del II secolo a.C. Alta è, invece, la percentuale di anfore cosiddette greco-italiche (fig. 10), attestate anche in forme di scarto, sia nel modulo grande sia in quello piccolo (fig. 10, n. 4), riconducibili soprattutto al tipo più recente MGSVI (Van der Mersch 1994, p. 81-91), e al tipo C della Lyding Will (Lyding Will 1982, fig. 85 d-e), diffusi in vari centri del Mediterraneo Occidentale nella prima metà del II secolo a.C. (Dicocer 2001, p. 47-49; Toniolo 2002, p. 703-706, n. 19). Non mancano, sebbene in percentuale minore, esemplari che, per altezza del collo, inclinazione e rapporto tra altezza e larghezza dell’orlo, rientrano nella variante più tarda, di passaggio all’anfora repubblicana Dressel 1, corrispondente al tipo E della Lyding Will (Lyding Will 1982, fig. 85 g).
2. Gli scarti di ceramica comune
2.1. Gli impasti
5Gli scarti di ceramica comune si riferiscono in particolare a due forme: situle (fig. 11) e bacini (fig. 13). Le brocche rinvenute nei due pozzi (fig. 9, n. 3-7) risultano invece di buona fattura, anche se scarti degli stessi tipi sono stati ritrovati in altri contesti stratigrafici dallo stesso scavo, dalla seconda metà del III al II secolo a.C. Ad un’analisi macroscopica, la ceramica comune acroma presenta un impasto grossolano, di colore bruno chiaro, variabile dal beige rosato al nocciola, con minuti e diffusi inclusi di origine vulcanica, rari inclusi di mica ed elementi calcarei relativi alla presenza di microfossili marini; gli inclusi sono visibili in superficie, anche nei casi di ingobbiatura, non sempre presente. La superficie, solo nel caso delle situle e non dei bacini, è talvolta rivestita con un sottile ingobbio di colore crema, spesso poco aderente per difetto di cottura; più frequente è la presenza sulla superficie di una patina biancastra, presumibilmente dovuta all’uso nel processo di produzione di acqua salmastra, che in cottura produce la risalita dei sali. I difetti di cottura fanno virare il colore dell’argilla dal verde al verde-nerastro fino a vetrificarne la superficie. Di tali ceramiche comuni, di evidente produzione locale, per la presenza di numerosi scarti e di alcuni vasi del tutto deformati in cottura, non sono ancora state effettuate analisi chimiche e petrografiche. Di recente, analisi chimiche eseguite, seppure su una campionatura ridotta, sugli scarti di anfore greco-italiche antiche (MGS IV) e recenti (MGS VI) da piazza N. Amore sembrano evidenziare la loro pertinenza al cd. «Gruppo 2»3 individuato a Ischia, per il quale è stata ipotizzata la provenienza dall’isola senza escludere un’origine da centri del Golfo di Napoli diversi dall’isola (Olcese 2004, p. 178). Le ceramiche comuni ed i loro scarti rinvenuti a piazza N. Amore presentano macroscopicamente le stesse caratteristiche delle anfore greco-italiche sopracitate, suggerendone un’origine da uno stesso centro produttore. È da segnalare, inoltre, che l’impasto sia delle ceramiche comuni acrome sia delle stesse anfore, anche non di scarto, risulta identico a quello dei laterizi rinvenuti nello scavo, pur se con una diversa macinatura e battitura. Tali osservazioni rivestono grande interesse per il problema della localizzazione delle cave di argilla nella misura in cui queste risultano assenti nell’area della città di Napoli. Se per quanto riguarda la Campana A J.-P. Morel attribuiva l’approvvigionamento dell’argilla esclusivamente alle cave ischitane (Morel 1985, p. 375), gli studi di carattere archeometrico condotti di recente sui materiali anforici e a vernice nera da S. Restituta ad Ischia (Olcese 2001, p. 24; Olcese 2004, p. 178) e da Napoli hanno individuato delle differenze di composizione chimica e mineralogica all’interno di una produzione complessivamente attribuibile al Golfo di Napoli. Una produzione neapolitana di ceramica comune è stata, del resto, già ipotizzata (De Filippis 1991, p. 78; Setari 1991, p. 55-56; Bragantini 1996, p. 173), anche se, in particolare, per il vasellame da fuoco non si è esclusa una produzione con argille di diversa provenienza da quella della Campana A o effettuata in centri che non facevano parte del territorio di Napoli (Bragantini 1996, p. 175-176). In tale prospettiva, potrebbe essere significativa l’assenza dallo scavo di piazza N. Amore di scarti di ceramica da fuoco nei contesti di III e II secolo a.C. Sulla base dei dati finora raccolti sembra quindi possibile isolare una produzione neapolitana di ceramica comune acroma che, con il prosieguo degli studi, potrà definirsi meglio tramite la tipologia dell’intero repertorio, l’osservazione delle tecniche di lavorazione e le analisi chimiche e petrografiche degli impasti.
2.2 Il repertorio morfologico
6In questa prima fase di studio si presentano due sole forme, la situla e il bacino a vasca profonda, per i quali grazie alla fitta e affidabile sequenza stratigrafica di riferimento è possibile proporre un quadro evolutivo. Tali forme sono rappresentate da esemplari integri, oltre che di scarto, e sono attestate, sebbene con varianti, in un arco temporale ampio compreso tra il V e il II secolo a.C. Si attribuiscono alla produzione locale anche vasi non di scarto che ad un’analisi empirica presentano un impasto ceramico simile e che, pertanto, con molta probabilità hanno la stessa origine locale, sebbene non si possa escludere a priori un’origine da altre officine, dato che in area campano-laziale, e ancor più nel golfo di Napoli, la comune origine vulcanica caratterizza similmente le argille (Peacock 1977, p. 153; Mannoni 1994, p. 448; Olcese 1996, p. 439-440 con bibliografia).
7Situle (fig. 11). Nel contesto preso in analisi la forma più rappresentata in ceramica comune è la situla, vaso per attingere e conservare l’acqua, caratterizzato da un fondo piatto, corpo ovoide più o meno espanso e ansa a maniglia sormontante sull’orlo a sezione circolare e beccuccio per facilitare la mescita. Tale forma si ritrova di solito in contesti di abitato, agricoli, artigianali e santuariali, laddove siano presenti pozzi per attingere l’acqua (Annecchino 1977, p. 109; Annecchino 1982); in Campania è nota a partire dall’Orientalizzante sino ad età ellenistica (Lupia à paraître (a))4 ed è diffusa in molti altri siti magnogreci in età ellenistica (Sibari II 1970, p. 391, n. 95; Greco 1989, tav, 20, n. 22; Barra Bagnasco 1989, p. 338-340, tav. LLCVI; Poseidonia e i Lucani 1996, p. 270, n. 258). Nei contesti di piazza N. Amore, la situla è ben rappresentata nella sequenza stratigrafica compresa tra il V e il II secolo a.C., pur se con percentuali differenti che tendono a incrementarsi, anche per quanto attiene gli scarti, a partire dal III secolo a.C. fino alla prima metà del II secolo a.C. Tale dato quantitativo è molto probabilmente da porre in relazione alla specificità del contesto artigianale e alla presenza nell’area di pozzi. La presenza di scarti di fornace di questa forma, nei contesti databili tra il III e la prima metà del II secolo a.C. (fig. 11, n. 5 e n. 9; fig. 12), suggerisce per questo periodo una produzione locale del tipo, da non escludere tuttavia anche per le fasi precedenti (V-IV secolo a.C.), considerata l’omogeneità degli impasti a livello macroscopico. Morfologicamente il vaso conserva nel tempo caratteristiche molto simili, dettate dalla sua specificità funzionale: presenta un corpo ovoide, più o meno rastremato, con fondo piatto o lievemente concavo, colletto breve con beccuccio e ansa a maniglia sormontante a sezione circolare, orlo a fascia. Le variazioni morfologiche riconosciute indicano in alcuni casi un’evoluzione del tipo, in altri piuttosto varietà artigianali. Il tipo più antico (Scoppetta 70. X. 10)5 è attestato nel corso del V secolo a.C. (fig. 11, n. 1) ed è caratterizzato da un’ansa ribassata, da un colletto svasato con labbro che si raccorda al corpo all’interno con profilo continuo e all’esterno con gola breve e poco profonda al di sopra di una spalla sfuggente; l’ansa a bastoncello è impostata a ponte sull’orlo e il beccuccio è lievemente marcato; il corpo è ovoide e il fondo piatto. Di tale forma si conservano due soli esemplari, con un diametro dell’orlo di circa 17 cm, realizzati con un’argilla compatta, di colore rosato, ricca in inclusi di tipo vulcanico e con una forte concentrazione di grani di sabbia di medie dimensioni e di quarzo. In Campania il tipo è presente in età tardo-arcaica ad Acerra (Giampaola, 1997, p. 32, n. 29), si ritrova in argilla grezza nei terrapieni arcaici delle fortificazioni settentrionali di Cuma (tipo 70. X. 10 in Nigro 2006, p. 75, tav. 15, n. 12-14; p. 86, tav. 18, n. 13-17) e dal VI al IV secolo a.C. a Pontecagnano, sia in argilla grezza (tipo110. X. 20) sia in argilla depurata (tipo 60.(X).10) (Lupia à paraître (a)). Nei contesti stratigrafici di fine IV secolo a.C. la situla è rappresentata da un numero più significativo di esemplari ed è caratterizzata ancora da un corpo ovoide che si lega ad una spalla espansa, sormontata da un’ansa eretta a sezione circolare lievemente più alta rispetto ai tipi più antichi (fig. 11, n. 2). Un progressivo innalzamento dell’ansa caratterizza le situle databili tra il III e la metà del II secolo a.C., che presentano sempre, sebbene con diverse varianti, un corpo ovoide maggiormente rastremato alla base, spalla espansa, più o meno tesa, sormontata da un’ansa eretta a sezione circolare molto alta e beccuccio più marcatorealizzato tramite impressione digitale (fig. 11, n. 3-10). Le variazioni nel profilo dell’orlo, diritto, svasato, obliquo o modanato internamente, sembrano al momento attribuibili ad una variabilità dovuta alla personalizzazione dell’artigiano piuttosto che a significative differenze cronologiche; diversamente le variazioni del profilo della spalla, che tende nuovamente ad ammorbidirsi alla metà del II secolo a.C., sembrano indicare un’evoluzione cronologica (fig. 11, n. 10). La forma corrisponde al tipo che si diffonde tra la fine del IV e gli inizi del III secolo in diversi siti campani, come a Pontecagnano (tipo 110. X. 30, Lupia à paraître (a)) e Fratte (Santoriello et al. 1998, p. 29, tav. IX, n. 40-42); a Napoli sembra proseguire senza sostanziali variazioni fino alla prima metà del II secolo a.C., attestando la continuità d’uso, di un modello più antico che del resto perdura anche nei periodi successivi persino nelle produzioni metalliche (Tassinari 1996, p. 115, fig. 2 a-b).
8Bacini (fig. 13). Un’altra forma che è possibile attribuire ad una produzione locale è un tipo di bacino a vasca profonda, del quale si conservano diversi esemplari di scarto (fig. 14), oltre che molti esemplari di buona fattura. Si tratta di un contenitore per il quale è stato proposto l’utilizzo per la preparazione di farine per impasti di cereali, in particolare la maza e il pane, secondo abitudini tipiche soprattutto della culture urbane della Grecia e del Mediterraneo greco (Bats 1988, p. 33-37, fig. 4, 4-26). Il vaso è di grandi dimensioni, con un’imboccatura che varia tra i 30 ed i 45 cm. ed una altezza che può raggiungere ca. 25 cm. La vasca è profonda a pareti curvilinee svasate e carena appena accennata, l’orlo estroflesso, a tesa più o meno ricurva, è ingrossato all’estremità, due anse a bastoncello sono ripiegate e impostate orizzontalmente o talvolta obliquamente sulla vasca sotto l’orlo, il piede è piano e distinto. L’orlo presenta profilo variabile all’estremità che risulta generalmente triangolare, ma può apparire più o meno ingrossato o modanato (fig. 13, n. 4-6). Gli esemplari di scarto (fig. 13, n. 4-6 e fig. 14), ritrovati nel contesto di obliterazione dei pozzi degli inizi del II secolo a.C., trovano confronto in contesti della prima metà del II secolo a.C. ad Atene (Bats 1988, fig. 4, n. 17, 22), e risultano diffusi, sebbene con minime variazioni del profilo, in ambito mediterraneo dal III-II secolo a.C. in Spagna a Muniguae e a Pollentia, in Italia a Cosa, Gabii, Luni, a Cabalette, (Chiaramonte 1984, con bibliografia relativa), in Campania a minturno (Kirsopp Lake 1934-1935) e nella villa Regina di Boscoreale (De Caro 1994, p. 157, fig. 135, n. 96-98). A Pompei tale tipo di bacino è attestato a partire dal II secolo a.C., si diffonde nel corso del I secolo a.C. perdurando fino all’eruzione del 79 d. C. (Annecchino 1977, p. 109; Gasperetti 1996, p. 26-27, fig. 1, n. 7 e 9). Interessante risulta anche l’attestazione di esemplari analoghi nel Sannio Irpino, nel quartiere artigianale di Cerrarulo a Benevento a testimonianza di una omogeneità del linguaggio arigianale (Cipriano, De Fabrizio 1996, p. 209, fig, 6 , n. 5-6). Nonostante la forma nello scavo di piazza N. Amore sia attestata soprattutto nei contesti stratigrafici di II secolo a.C., dove risultano tra l’altro concentrati il maggior numero di scarti, sembra possibile seguirne un’evoluzione morfologica (fig. 13) dai prototipi più antichi presenti in contesti stratigrafici databili a partire dalla fine del V a.C. Questi, attestati da soli nove esemplari in argilla più o meno depurata, sono caratterizzati da vasca profonda a pareti tese e labbro a tesa con orlo arrotondato o scanalato, diametro variabile dai 34 ai 38 cm (Scoppetta 100. X. 25). Essi trovano confronto con un esemplare in argilla depurata rinvenuto a Cuma in un contesto databile alla fine del V secolo a.C.6 e sono attestati a Locri nel corso del IV secolo a.C. (Barra Bagnasco 1989, p. 301, tav. XL, n. 353). Nei contesti di piazza N. Amore di fine IV secolo a.C. i bacini presentano una tesa piana con orlo ingrossato sul quale si imposta l’ansa a bastoncello a sezione circolare (fig. 13, n. 1); nel III secolo a.C. si distingue una variante con orlo a tesa inclinata sagomata, documentata da pochi e frammentari esemplari (fig. 13, n. 2-3). Il passaggio alla variante con tesa ricurva (fig. 13, n. 4-6) si coglie nei contesti di fine III-metà II secolo a.C. in decine di esemplari: essa presenta anse a sezione circolare impostate orizzontalmente sotto l’orlo (fig. 13, n. 4), come l’esemplare deformato ritrovato nello scarico di obliterazione dei pozzi databile alla prima metà del II secolo a.C. (fig. 14). Questo stesso modello persiste, seppur lievemente modificato nel profilo, nei contesti della seconda metà del II secolo a.C., come attestato anche in altri siti (Chiaramonte 1984; Cipriano, De Fabrizio 1996, p. 209, fig. 6, 5-6). Un confronto significativo da Napoli si deve al rinvenimento a piazza G. Bovio, dai fondali del bacino portuale di età ellenistica di tre esemplari con caratteristiche morfologiche e di impasto macroscopicamente molto simili agli esemplari di scarto di piazza N. Amore (fig. 13, n. 7).
3. Le produzioni ceramiche di Neapolis in età ellenistica: gli indicatori da piazza N. Amore
9Il potenziale informativo offerto dai contesti di piazza Nicola Amore è utile non solo per l’identificazione di una produzione locale di ceramiche comuni, ma anche per le prospettive generali di ricerca sulla economia produttiva della città. Da un’analisi preliminare si evidenzia che la presenza di scarti, cioè di indicatori di produzione, riguarda oltre la ceramica comune acroma, le anfore e la vernice nera. Numerosi sono gli indicatori di produzione su un lungo periodo per le anfore greco-italiche (Febbraro à paraître): si ritrovano scarti, sebbene in percentuali differenti, sia dei tipi più antichi MGS II, MGSIV e MGSV, sia del più recente MGSVI. Per quanto riguarda la ceramica a vernice nera, scarti e numerosissimi distanziatori rinvenuti nei contesti del II e della prima metà del I secolo a.C. rimandano soprattutto alla produzione, già nota, di Campana A; rari sono invece gli scarti in vernice nera della fase iniziale della produzione del III secolo a.C. ; un consistente numero di scarti-soprattutto skyphoi, coppette monoansate e concavo-convesse-e distanziatori si ritrovano, invece, in contesti della seconda metà del IV secolo a.C. Non mancano scarti di laterizi, di pesi da telaio e matrici per la realizzazione di oggetti fittili. Tutti questi diversi indicatori di produzione, seppure in assenza di fornaci, documentano una specializzazione artigianale del sito; la loro incidenza nell’area di scavo si coglie in percentuali differenti in relazione alle diverse fasi cronologiche, alle differenti destinazioni funzionali, nonché ai contesti specifici di rinvenimento. Su tali basi, anche se non è possibile ancora proporne una perimetrazione puntuale, appare confermarsi che officine ceramiche risultano attive lungo la fascia costiera sud-orientale di Neapolis, nell’area di corso Umberto e piazza Nicola Amore, almeno a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. (vernice nera, anfore greco-italiche MGSII e MGSIV, ceramica comune da fuoco), proseguendo l’attività nel corso del III (anfore greco-italiche MGSIV, MGSV, MGSV/VI; laterizi, ceramiche comuni) e del II secolo a.C. (vernice nera Campana A, anfore greco italiche MGS VI e MGSVI/ Dressel 1a, ceramiche comuni, pesi da telaio, laterizi), con una continuità sino alla prima metà del I secolo a.C. (vernice nera campana A, ceramiche comuni). La caratterizzazione artigianale del sito è ulteriormente comprovata dalla presenza di strumenti di officina (distanziatori, sostegni, matrici e punzoni). Gli scarti di ceramica comune e di anfore sono documentati maggiormente tra la prima metà del III secolo e il II secolo a.C. Le officine dovevano con molta probabilità estendersi con il settore operativo (le fornaci e i depositi) oltre l’attuale area di scavo, comunque interessata da attività artigianali di laboratorio tra la prima metà III e l’inizio del II secolo a.C. e da scarichi d’officina nel corso del II secolo a.C. La presenza contemporanea di scarti riconducibili a classi di materiali differenti sembrerebbe suggerire una tipologia polifunzionale del quartiere artigianale (comune, anfore, vernice nera, laterizi). Certamente l’impianto delle officine, fuori delle mura, lungo la fascia costiera deve aver privilegiato non solo la vicinanza con la città e quindi il mercato locale, ma anche la prossimità al mare e al porto antico, identificato non lontano, tra piazza Municipio e piazza G. Bovio (Carsana 2005a-b, Giampaola 2005c), che facilitava una distribuzione a più lungo raggio e il rifornimento di materie prime. La posizione sulla spiaggia assicurava la possibilità di approvvigionamento della sabbia come digrassante, come mostra l’analisi degli impasti, e di captazione dell’acqua di falda tramite i pozzi che corredano l’impianto artigianale. Non è naturalmente ancora possibile valutare l’effettiva capacità produttiva dell’officina che, per la quantità e varietà dei materiali documentati, doveva inserirsi in una vasta rete redistributiva e rispecchiare lo sviluppo economico della città nella prospettiva «romana» (Lepore 1985, p. 116-117) che si afferma dalla fine del IV secolo a.C., a seguito del foedus aequum.
Notes de bas de page
1 Un ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile con la loro collaborazione e la loro disponibilità questo lavoro: in particolare il Soprintendente Archeologo dott. ssa Maria Luisa Nava e il Soprintendente Regionale prof. Stefano De Caro; l’équipe di scavo di piazza N. Amore, nelle persone di Amelia Cerrato, Virginia Ibelli, Riccardo Laurenza, Lydia Pugliese, e soprattutto Beatrice Roncella, per l’apporto fornito sia nella raccolta dei dati sul campo sia nella rielaborazione dei risultati; Aurora Lupia, per i proficui scambi di conoscenza ed esperienza di studio della classe della ceramica comune da altri contesti campani; Gloria Olcese per la collaborazione sugli aspetti archeometrici; Raffaella Pappalardo per i dati sulle ceramiche ellenistiche da piazza G. Bovio, oggetto del suo lavoro di tesi; Lydia Pugliese per la disponibilità al confronto e per le informazioni fornite sulle anfore greco-italiche da piazza N. Amore, oggetto di tesi di dottorato (Università degli Studi di Napoli «Federico II); Elda Scoppetta per i dati sulle ceramiche comuni di V secolo a.C. da piazza N. Amore, oggetto della tesi di Specializzazione (Università di Salerno). Infine desideriamo ricordare i colleghi francesi Jean Pierre Brun e Michel Pasqualini, che ci hanno dato l’opportunità di partecipare al Convegno. La rielaborazione digitale dei disegni su originali di Stefania Febbraro si deve a Alessandra Calvi dello Studio Enthasis s.r.l. (fig. 9, 11, 13); i disegni della fig. 10 sono di Giuseppina Stelo di Postscriptum; la fig. 1 è elaborata da Ida Calcagno, le fig. 2 e 3 si devono a Alessandra Calvi (Entasis) e Beatrice Roncella. La documentazione fotografica è di Patrizio Lamagna (Soprintendenza di Napoli) (fig. 6, 12, 14), e Eugenio Lupoli (fig. 4-5, 7-8). Il restauro dei vasi, in occasione della mostra «Stazione Neapolis: i cantieri dell’archeologia» è a cura del laboratorio di restauro della Soprintendenza per i Beni archeologici di Napoli e Caserta e del laboratorio di Santa maria ad Agnone.
2 La fase costruttiva principale è datata alla fine del IV-inizio III secolo a.C., grazie all’abbondante materiale restituito dai riempimenti dei cavi di fondazione delle strutture dell’edificio meridionale, per la presenza di ceramica a vernice nera (skyphoi Morel 4373 e coppette a orlo introflesso Morel 2383 e Morel 2387), e di anfore greco-italiche MGS IV.
3 Una prima notizia è stata data nel corso della Giornata di studio in occasione della mostra «Stazione Neapolis: i cantieri dell’archeologia» con la comunicazione «Produzioni ceramiche da Napoli e dal Golfo fra il IV e il II secolo a.C.: problematiche e prospettive di ricerca», curata da S. Febbraro e da G. Olcese. Lo studio archeometrico si deve a Gloria Olcese, nell’ambito di un progetto di collaborazione con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei che prevede il confronto fra i materiali ischitani e quelli napoletani ai fini della caratterizzazione delle produzione.
4 Per un quadro evolutivo della forma, una ricostruzione in: A. Lupia, «Proposta di una tipologia della ceramica di uso comune a Pontecagnano (SA)». Tesi di Specializzazione in Archeologia Roma 2002-2003, p. 33-34, tav. 10, confluito in: Cinquantaquattro, Lupia, Pontecagnano, Dizionario.
5 Tipologia redatta dalla dott. ssa E. Scoppetta in occasione della tesi di Specializzazione in Archeologia su Le ceramiche comuni di V secolo a.C. dallo scavo di piazza N. Amore–Università di Salerno–a.a. 2006-2007.
6 Si tratta di materiale inedito, oggetto di tesi di dottorato della dott. ssa M. Nigro, che si ringrazia per l’informazione.
Auteurs
Collaboratrice della Soprintendenza archeologica per le province di Napoli e Caserta, Napoli
Direttore Archeologo, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei.
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