Prefazione
p. VII-XV
Texte intégral
1Gli studiosi della Roma settecentesca saranno grati a Wanda Rupolo per la scoperta e l’edizione delle lettere di viaggio di François Eyrard, prete della Missione. Questo genere letterario, tornato in auge nell’Europa colta del XVIII secolo, tra la fine delle guerre di successione e la Rivoluzione, quando il «Grand Tour» diviene oltre che un’esigenza una moda, presenta dei capolavori, ai quali anche lo storico ricorre per confrontare i suoi documenti con l’opinione dei contemporanei. Basterà citare, per fermarsi ai più noti connazionali del P. Eyrard, Montesquieu, Labat, De Brosses, Caylus, Dupaty, Roland de la Platière. Anche il nostro li ha presenti, sebbene citi solo il Lalande, più sfortunato di lui, perché le lettere di presentazione non gli avrebbero giovato negli ambienti curiali romani. Forse perché, egli dice sorridendo, nel paese del «dolce far niente» gli astronomi sono meno favoriti dei teologi1.
2Le lettere di viaggio dell’astronomo Lalande offrono osservazioni molto acute non solo sulla cultura romana del secolo dei lumi, ma anche sulla società e il popolo della città eterna. Si collocano, perciò, insieme con le altre citate, tra le fonti contemporanee indispensabili per la comprensione storica di un’epoca tormentata.2. Queste dell’Eyrard hanno altro rilievo. Il teologo, più fortunato dell’astronomo per la frequentazione degli ambienti ecclesiastici, ha interessi diversi. È un uomo di buona cultura e il viaggio in Italia lo mette a contatto con l’arte e le memorie dell’antichità. Ma come non esita a dire che è inutile mettere sottosopra il suolo di Roma per rintracciarvi le testimonianze di un’età definitivamente sepolta con i suoi errori e le sue perversioni, così visita con occhio distratto e frettoloso i musei e le gallerie, lieto di aver assolto agli obblighi di circostanza, ma rifiutandosi alle lunghe elencazioni e agli elogi, che, del resto, molti dei suoi contemporanei traggono pari pari dalle loro guide. Non si è proposto neppure, egli fa notare, di scrivere un trattatello di storia italiana. La sua penna è guidata da una preoccupazione religiosa: «Elle voudroit pouvoir se transformer toute en sentimens, en retraçant des objets plus dignes de l’admiration d’un chrétien que tous les chefs-d’œuvre de l’art que les amateurs admirent dans Rome»3. Perciò è attento agli aspetti religiosi di quel che vede ed osserva con attenzione: «Je voulois [...] voir tout ce qui peut convenir à un prêtre qui veut s’instruire et s’édiffier»4. È un teologo, si è detto, e vuole raccogliere informazioni di studi teologici e, forse, libri; ma è contro le sistematizzazioni e lo dice anche a rischio di esser preso per un eretico. A un teologo genovese, «homme à système», che lo ha provocato a discutere sulla libertà dell’uomo, risponde che «en France nous étions assurés que les hommes sont libres et que Jésus-Christ est libre; mais que nous ne prétendions pas que des systèmes expliquent la nature de la liberté d’une manière absolue»5. Con lo stesso tono sicuro e reciso, rifiuta ogni esegesi della Bibbia che contrasti con la lettera del testo e scruta, perciò, nelle roccie del colle del Fréjus, che attraversa per scendere in Italia, le tracce di un passato geologico più recente, che non i millenni sui quali discettano gli scienziati6.
3Ha ragione, perciò, Wanda Rupolo quando definisce l’Eyrard un personaggio squisitamente religioso, o, addirittura, un mistico. E la riprova di questa asserzione potrebbe essere il rifiuto del vescovato di Ajaccio e l’insistenza, non ascoltata, per andare missionario in Madagascar, e anche la scelta dell’esilio al tempo della Rivoluzione. Roma, dunque, gli appare come un’oasi riposante, dove di continuo echeggiano cori celestiali: «la ville de Rome est un paradis continuel pour ceux qui veulent y nourrir leur piété. On y loue sans cesse Dieu [...] ce sont des triduums, des octaves, des neuvaines préparatoires toujours avec la plus grande sollenité»7. Quegli storici, come me, che hanno visto sotto questa esteriorità ritualistica trasparire una crisi della cristianità romana, attestata, d’altra parte, da tanti fatti e documenti, trasaliranno; ma l’avvertimento, che egli ci dà, non può, in ogni caso, essere trascurato anche metodologicamente, a proposito del buon uso delle fonti: «Les étrangers qui ont de la religion ne voient pas ces choses: les indévots les imaginent»8. Come dire che lo storico farà bene a sceverare la relatività dei giudizi sullo stesso evento, così come viene riferito. Specie quando questi giudizi investono la sfera della religione personale: «Leur piété, dit-on» osserva il P. Eyrard a proposito dei romani, «n’est qu’extérieure. Je ne saurais décider sur leur intérieur... »; e, poco prima, aveva scritto: «Plus j’ai étudié le génie des romains, plus je les ai trouvés différens de ce que l’on suppose»9.
4L’ottimismo inalterabile del P. Eyrard nei riguardi dei romani e, più in generale, degli italiani, gli fa dire nella stessa lettera «ce n’est donc qu’après avoir condamné la France qu’on doit parler contre l’Italie»10. Una esclamazione sorprendente, ma che ha, anche questa, un suo fondamento e che andrebbe meditata dagli storici di oggi, anche francesi, non per concludere grossolanamente che nella comunanza del male si può trovare una consolazione, ma per riconoscere che una ricostruzione storica valida non può isolare un giudizio particolare da un contesto generale e che il male non si attenua, certo, quando è diffuso, ma si precisa meglio. In ogni caso sull’invincibile ottimismo del P. Eyrard si avrà modo di tornare. Che in questo stato d’animo di lui non costituisca motivo di scandalo il fasto delle cerimonie romane e, al contrario, lo entusiasmi, non sembrerà forse una incongruenza. Del passaggio del papa sul Corso, descritto in ogni particolare, dice: «Jamais on ne vit rien de plus grave. On pouvoit contempler à loisir tout cet appareil qui a véritablement beaucoup de majesté»; della cerimonia in S. Maria del Popolo, dove il papa si è recato con il suo maestoso corteo, il lettore riterrà certamente la scena dei cardinali, che rendono omaggio al pontefice: «Chaque cardinal montoit en face avec une longue queue traînante, qui prenoit du bas du degré jusques au trône, et descendoit après son salut par côté de manière que les hommes et les queues ne s’embarassoient pas»11. Anche la decorazione sontuosa delle chiese sembra non disturbarlo, nelle infaticabili visite che dedica loro in ogni città e soprattutto a Roma: «De beaux tableaux, des statues précieuses, des chandeliers immenses, des autels même d’argent massif n’y sont pas rares. Les bougies annoncent dans toutes les églises une sainte profusion»12. Una «santa» profusione di ricchezza nelle chiese, nei cortei, nelle processioni che cerca di giustificare: «Si les solemnités ne peuvent point se faire sans frais, pourquoi veut-on se plaindre de la dépense? La pompe ne conviendra-t-elle pas autant pour faire honneur à des envoyés d’un prince qui viennent gouverner quelque empire en son nom?»13. È questo un interrogativo il quale lascia supporre una risposta positiva; sebbene qualche dubbio sorga nell’animo religioso del P. Eyrard: «Heureux ceux qui peuvent vivre sans tout ce cérémonial. Un Pape doit le détester, mais sa place exige qu’il soit asservi. Selon moi sa vie est une espèce d’esclavage»14. Una sorta di schiavitù in virtù di quale prospettiva ultima? Qualche perplessità traspare anche dai giudizi entusiasti. Per esempio quando annota che pochi sono i romani che assistono al grande corteo che passa sul Corso, o quando interviene nella polemica del suo tempo sul danaro che veniva a Roma, e più sul suo impiego, giustificandolo con le esigenze della carità: «Ceux qui exagèrent les dépenses qu’on y fait, ceux qui crient contre ce gouffre qui absorbe une quantité de leurs richesses devraient faire attention que Rome n’est qu’un dépôt duquel on fait passer d’immenses aumônes pour les besoins les plus pressans [...] L’argent ne seroit-il donc bien employé que lorsqu’on le prodigue pour le faste et la vanité, et doit-il être regretté lorsqu’on le consacre à la gloire de la religion?»15.
5Il suo amico, e mio, Benedetto Giuseppe Labre, assetato dell’assolutezza delle Beatitudini, non si sarebbe accontentato di queste spiegazioni, anche se la sua scelta di santità evitava la spettacolarità della protesta. Preferiva attendere silenzioso alla porta della residenza del card. de Bernis i resti dei sontuosi banchetti e ricevimenti (anche P. Eyrard ne descrive uno)16 che vi si tenevano ogni giorno. Di Benedetto Giuseppe si era interessato avendo raccolto, per incarico del suo vescovo, una testimonianza su di lui per il processo canonico e gliene era restato il ricordo e l’amicizia, per la concordanza, che egli sentiva per un cristianesimo senza cedimenti. A Roma e a Loreto interroga chi l’ha conosciuto. Loda la cautela con la quale la Chiesa conduce il processo e la ricorda ai detrattori: «On ne juge pas qu’après de faits authentiques, comme on le voit dans la cause de Benoît Joseph. La diligence de son ponant, la facilité des preuves, le cri général n’ont rien acéléré»17. Forse ignora, o ai suoi tempi erano venuti meno, i contrasti che in certi ambienti ecclesiastici proprio il favore popolare aveva suscitati. In ogni caso si commuove ascoltando il popolano, che l’aveva raccolto morente alla Madonna dei Monti e portato a casa sua18; interroga a Loreto un sacerdote che l’aveva invitato a confessarsi e ascolta la misteriosa condizione che Benedetto aveva posto, quasi a salvaguardare non la sua scelta, ma quella che Dio aveva fatta per lui19; va nella casa della famiglia, che a Loreto lo aveva più volte ospitato, con eroica carità, e sente dalla viva voce del figlio il presentimento, che ebbe della sua morte20. P. Eyrard conosceva a quali eccessi si era condotto il popolo romano ai funerali di Benedetto e certo aveva letto nelle testimonianze del processo e nelle prime biografie gli ammonimenti, che Benedetto aveva fatto ai romani, troppo fiduciosi della loro incolumità, sull’imminenza del giorno tremendo, del giorno del Signore, e, forse, quanto già stava avvenendo in Francia, nei giorni del suo viaggio a Roma, gli stava svelando l’arcano della profezia. La predilezione per i romani, però, non ne veniva sminuita: «Plus j’ai étudié le génie des romains, plus je les ai trouvés différens de ce que l’on suppose. Je crois bien que ce peuple a des vices comme les autres, car personne ne peut en être exempt (...) Ceux que j’ai vus m’ont paru intelligens, honnêtes et religieux»21. Certo vi si commettono tanti assassini e tanti crimini, ma Roma è una città che ospita gente di tutte le nazioni e di quel che vi avviene di male non può essere incolpato il solo popolo romano22. Giunge fino a dire: «Rome ne manque pas de personnes édifiantes qui viennent s’y cacher et je ne sais pas si c’est pour faire un contraste qu’on supporte tant d’assassinats et d’hypocrisie»23.
6A questa simpatia irriducibile si debbono anche alcuni quadri di vita romana molto coloriti; per esempio il mercato di piazza Navona, «mieux tenu et mieux fourni, qu’aucune des places de Paris», con il ritratto vivace del «cantastorie» e del suo piccolo pubblico, che lo ascolta incantato; il buon mangiare, con le minestre tanto saporose che «il falloit être presque italien pour en manger la moitié»; le piramidi di cocomeri tagliati a metà ed esposti su due, o tre piani e qualche volta perfino dodici, adorni di foglie di viti e di ghirlande, e i richiami dei venditori; gli eccellenti gelati e il cioccolato bollente24. Nei caffè nota un gran numero di personaggi con il collarino e il mantello corto come portavano gli ecclesiastici, ma che non lo sono. Questa confusione di abbigliamento lo sorprende e, più ancora, quella dei ruoli. Si disinteressa volutamente del governo «civile» di Roma (contro il quale scagliano i loro strali i suoi connazionali, che visitano Roma)25 ma si meraviglia che molte cariche, che meglio converrebbero a dei laici, siano esercitate da ecclesiastici, e non si accontenta della spiegazione, che si vuol, in questo modo, allontanare dalle magistrature chi non è chierico, perché così lo stato ecclesiastico viene abbracciato solo come mezzo per inoltrarsi in una carriera, con le inevitabili lotte tra fazioni rivali: alla morte di un papa «deux partis sont comme deux plats d’une balance, dont l’un ne peut pas s’élever sans que l’autre s’abaisse à proportion»26. In questa commistione di spirituale e temporale egli vede un grave pericolo: «La politique d’un pape doit lui tenir lieu de soldats et de fortifications, et la gloire à laquelle il est élevé ne lui fait pas oublier que la malice des hommes peut l’en faire descendre dans un instant. La tiare ne rassure donc pas celui qui la porte contre les coups du glaive suspendu sur sa tête par un cheveu»27.
7Alla metà del secolo, Benedetto XIV ricordava al card, de Tencin che l’indefettibilità promessa dal Cristo riguardava solo il potere spirituale e, per parte sua, invidiava i papi dei primi secoli del Cristianesimo, che non avevano potestà temporale. Sorprende trovare un pensiero analogo nel padre Eyrard, che Wanda Rupolo non esita a chiamare un ultramontano, avant la lettre s’intende. Solo dieci anni dopo la stesura di queste lettere, la spada sospesa a un sottile filo si sarebbe abbattuta sul potere temporale, facendo del P. Eyrard un volontario profeta, come lo era stato, mosso dallo Spirito, il nostro amico Benedetto. Ora, nonostante tutto, egli trova conforto in una visione storica del papato, che sembra anticipare le meditazioni notturne sulle tombe degli Scipioni di Alessandro Verri: la scomparsa degli antichi dominatori, che avevano messo in catene l’universo, per essere finalmente, a loro volta, ridotti in schiavitù, la caduta di Roma imperiale avevano preparato «une gloire bien plus solide que ses triomphes», quella di essere divenuta un centro di unità nella fede28. Della Roma padrona del mondo non restavano che ruderi in rovina: i nomi dei santi e dei martiri avevano sostituito quelli degli dei e Romolo non aveva più un suo tempio29.
8Una di queste sue lunghe e un po’retoriche meditazioni si conclude con l’ammissione di essersi lasciato andare fuori del suo compito, che era quello (vero, o immaginario che fosse) di riferire al suo vescovo: «Je sens que je m’éloigne fort du style épistulaire; mais vous me demandez mon voyage, je ne puis peindre cette partie qu’avec des couleurs aussi vives»30
9Veramente il P. Eyrard è uno scrittore molto colorito. Il lettore di queste sue lettere rimarrà ammirato dei quadri, che riesce a dipingere con efficacia: l’incanto delle riviere liguri; il golfo della Spezia; Siena dopo il Palio; l’erta di Radicofani, che appare inaccessibile al viaggiatore, che la scruta dal basso; la «città ideale» costruita dagli architetti di Pio VI a S. Lorenzo Nuovo; la cupola di S. Pietro intravvista dal ciglio della Cassia. E insieme ai paesaggi le figure che vi si muovono: i camerieri che tengono alzate le loro lanterne per far luce ai convitati, che pranzano nell’alta barca arenata sulla spiaggia; l’estrazione del lotto a Montecitorio; le zitelle, che hanno ricevuto la dote, avvolte in un manto, che le fa rassomigliare alle antiche vestali; i canonici di Rignano, che lo invitano a dissetarsi con il vino della loro cantina...
10Il mio vuole essere essenzialmente un invito alla lettura di un diario di viaggio, che, se non raggiunge l’altezza dei più celebri di quel secolo, ci mostra un personaggio interessante, con i suoi limiti, ma anche con le sue aperture e le sue capacità espressive. Al merito di aver scoperto il manoscritto e di averne accertato l’autore (impresa non facile), Wanda Rupolo aggiunge quelli di una lettura attenta e sicura del manoscritto e di una edizione perfetta di esso, nonché (e il lettore sarà certo riconoscente) del ricco corredo di note che ne facilitano la comprensione, e che sono il frutto di ricerche pazienti e di un assiduo rigoroso studio di tutte le fonti utilizzabili.
Notes de bas de page
1 Lettera del 9 febbraio 1788 (p. 72).
2 Si vedano sulla letteratura di viaggio la bibliografia e gli studi critici in appendice alla mia Roma nel Settecento, Bologna 1931, pp. 329-333.
3 Lettera del 19 aprile 1788 (p. 105).
4 Lettera del 9 febbraio 1788 (p. 66). Alle osservazioni che seguono vorrei aggiungere un cenno rapido ai suoi giudizi sul diffìcile cammino della Devozione al Sacro Cuore, che, egli nota, continua ad essere contrastata anche dopo la soppressione dei Gesuiti (lettera del 14 giugno 1788, pp. 129, 130); sul Sinodo di Pistoia e l’Assemblea dei vescovi toscani (lettera del 12 gennaio 1788, p. 55); sulle Congregazioni romane e soprattutto su Propaganda Fide e il Collegio Urbaniano.
5 Lettera del 1° dicembre 1787 (p. 38).
6 Lettera del 17 novembre 1787 (p. 31).
7 Lettera del 18 maggio 1788 (p. 114)
8 Lettera del 3 maggio 1788 (p. 111).
9 Lettera del 12 luglio 1788 (j. 144).
10 Ivi.
11 Lettera del 28 giugno 1788 (p. 136). Si veda anche la descrizione del corteo del pontefice, che si reca a S. Pietro, nella lettera del 23 febbraio 1788 (p. 73). A Genova il suo entusiasmo aveva avuto per oggetto il Doge e il Senato (Lettera del 15 dicembre 1787, p. 43).
12 Lettera del 15 dicembre 1787 (p. 40). Si veda anche la descrizione delle preziose decorazioni della «Santa Casa» di Loreto (lettera del 26 luglio 1788 p. 152).
13 Lettera del 18 maggio 1788 (p. 117).
14 Lettera del 22 marzo 1788 (p. 92).
15 Lettera del 31 maggio 1788 (pp. 123-124).
16 Lettera del 9 febbraio 1788 (p. 67).
17 Lettera del 18 maggio 1788 (p. 116).
18 Lettera del 3 maggio 1788 (p. 110).
19 Lettera del 26 luglio 1788 (p. 151).
20 Ivi (p. 152).
21 Lettera del 12 luglio 1788 (p. 144).
22 Lettera del 3 maggio 1788 (p. 111). Cfr. L. CAJANI, Pena di morte e tortura a Roma nel Settecento, in Atti del Convegno «La Leopoldina », Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del Settecento europeo (Siena, 3-6 dicembre 1986), in corso di stampa.
23 Ivi.
24 Lettera del 12 luglio 1788 (pp. 140-143).
25 Ivi (p. 143).
26 Lettera del 22 marzo 1788 (p. 90).
27 Ivi (p. 87).
28 Lettera del 12 luglio 1788 (p. 145).
29 Lettera del 26 gennaio 1788 (p. 64).
30 Ivi (p. 65).
Auteur
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