Discussion et chronique des travaux1
p. 131-159
Texte intégral
1La direction des discussions est confiée à E. Lepore, qui donne d’abord la parole à B. d’Agostino: «La relazione di A. Mele rimette ordine nei problemi che Bakhuizen ha affrontato in maniera molto schematica, liberandosi di argomenti di grande portata, come ad esempio quello della lavorazione del bronzo a Calcide, con argomentazioni semplicistiche. Nella relazione di Mele mi sembra particolarmente stimolante il modo in cui viene visto lo stretto legame tra il ree l’artigiano metallurgo nella tarda età del bronzo; fenomeno attestato anche in Italia allo stesso livello cronologico; basta pensare all’anaktoron di Pantalica; un piccolo «palazzo» che sembra plasmarsi su modelli micenei all’interno del quale avviene la lavorazione del bronzo. Cosa succede quando questi legami si rompono, quando l’autorità regale non controlla più la lavorazione del metallo? Per questa via possiamo forse impostare, su basi diverse, il problema.
2I Calcidesi, gli Euboici di Bakhuizen che portano metallo per il bacino del Mediterraneo sotto forma di spade, barre ο anche di pani, sono un’immagine certamente concreta, ma meno credibile di chi invece porta con sé soltanto la propria capacità tecnica. Andare a portare barre di ferro a Pitecusa è come andare a portare vasi a Samo, dal momento che quegli stanziamenti nascono, come molti di noi ora danno per scontato, in previsione di rapporti con l’Elba; ecco che allora si ripropone il problema: è molto più semplice,e rispondente alla situazione antica, esportare capacità tecniche, in questo caso capacità di lavorare il metallo che non esportare barre. In questo modo è possibile inserirsi nel processo produttivo localee diventare componente essenziale di un ambiente di frontiera, tra grecoe indigeno. Questi fenomeni sono proprio i figli di quella capacità tecnica, connessa allo sviluppo della metallurgia, al passaggio dal Bronzo al Ferro, che Mele ha illustrato così bene».
3E. Lepore prend la parole:
4«L’intervento di D’Agostino mi sembra interessante perché non solo risolve certi problemi rispetto a Bakhuizen su cui abbiamo avuto tutti quanti dei dubbi, ma anche perché con il problema della esportazione di capacità tecniche si pone in età storica un problema di eredità del controllo. Cioè sappiamo che a una società di tipo verticistico, con basileus, succede una società di tipo oligarchico, di homoioi; si pone quindi il problema di come l’artigianato in parte resti ancora legato alle reti clientelari di questi hippobotai calcidesi e come ad un certo momento queste reti clientelari si rompano. Non so se al momento della colonizzazione noi possiamo pensare a una diaspora artigianale già libera da reti clientelari come invece possiamo pensarvi per la diaspora ionica in età più tarda, che ha liberato una serie di forze artigianali che sono andate a collocarsi anche in Italia meridionale, centrale; mi pare che siamo ancora in un momento intermedio dove indubbiamente si esportano capacità tecniche; sarebbe interessante capire da chi però sono gestite queste capacitàe che legame finisce per esserci ancora con il mondo della hippotrophia e degli hippo botai; naturalmente questo rende ancora più vicino l’ambito della metallurgiae quello dell’allevamento equino che altrimenti vedremmo camminare parallelamentee indipendentemente. Questo non pare possibilee induce ancora a riflettere sul problema».
5A. Mele revient lui aussi sur le problème de l’exportation des techniques: «Sono d’accordo con B. d’Agostino su Pitecusa; conosco la sua interpretazionee la accetto in pieno; non vedo infatti questi Calcidesi girare per il Mediterraneo portando barre di metallo, li vedo invece come esportatori di tecniche; accetto quindi quel ciclo economico che d’Agostino aveva ricostruito nella relazione di Taranto (Atti XII Convegno). Sul rapporto che si viene poi a stabilire tra l’artigianoe questi homoioi, mi pare che proprio quello che stiamo dicendo — cioè il problema dell’esportazione delle tecniche — ci permette di riflettere un po’di più sul tipo del rapporto. Intanto noi abbiamo dei gruppi di artigiani che si spostano; dato, questo, che ci aspettiamo se analizziamo la documentazione omerica; l’artigiano omerico è errante, si sposta, va dal committente. Il secondo punto è il problema del rapporto tra gli homoioi e gli artigiani; l’artigiano omerico (come quello esiodeo) non controlla la materia prima, tanto meno la controlla l’artigiano che va a Pitecusa, se è un esportatore di tecniche; la materia prima l’artigiano la riceve dal signore. Per poter ricevere la materia primae quindi entrare in quel ciclo economico che B. d’Agostino ricostruiva, occorre una difesa — le famose navi che secondo Livio (VIII, 22) rappresentano la forza dei pitecusani primae dei cumani poi —; occorre poi un’organizzazione a partire da Pitecusa dei rapporti con l’Etruria, perché —e su questo ha insistito M. Torelli — il rapporto con le fonti del metallo (specialmente nelle fasi più antiche,e la fase pitecusana è fra queste) non è un rapporto diretto con i luoghi di produzione del metallo dell’Etruria; questo presuppone anche sul versante etrusco tutto un problema di rapporti interni. La vita di Pitecusa, in quanto vita legata alla acquisizione, alla lavorazione del metalloe alla messa in circolazione del metallo lavorato, richiede tutta un’organizzazione politica, economica, militare, per cui anche se a Pitecusa i famosi guerrieri non sono per ora venuti fuori, in realtà Pitecusa senza guerrieri, senza padroni delle navi, senza investimentie rapporti regolati nel mondo etrusco, non può esistere...».
6Β. d’Agostino reprend la parole:
7«Ringrazio il prof. Leporee l’amico Mele per le loro domande, alle quali tenterò di rispondere. Il controllo del metallo è stato, certo, uno dei grossi problemi della protostoria italiana ed europea; ed ha contribuito non poco al formarsi delle strutture politichee sociali; ma non credo che il caso di Pitecusa possa ricondursi a questo schema; credo che, per Pitecusa, si debba applicare un modello diverso, quello del piccolo scambio; certo anche questo modello presuppone contatti con aree intermedie, altrimenti non riusciremmo a spiegarci — ad esempio — la fioritura dei centri dell’Etruria meridionale costiera; la circolazione del metallo può essere gestita da un potere politico centrale, ma può anche avvenire per canali più minuti, gestita da piccoli artigianie mercanti; teniamo presente che oggi conosciamo abbastanza bene le necropoli pitecusane: divaricazioni tra questee quella cumana ci sonoe non è necessario ipotizzare per Pitecusa fenomeni come le tombe principesche che non sono finora attestati».
8E. Lepore intervient sur cette question:
9«Io mi rendo conto che ci sono queste divaricazioni, però se noi ammettiamo questi canali minuti, dovremo ammettere dei movimenti che poi sarà difficile supporre riassorbiti quando poi ci troveremo di fronte al modello cumano: ο dovremmo ammettere che Pitecusa rappresenta una crisi nel mondo euboico in cui si liberano una serie di energie che poi si estinguono, quando si innesta il momento cumano, ο altrimenti finiremo per configurarci un " protomercato " che poi non esiste piùe questo mi pare difficile da concepire. Si può essere modernisti quanto si vuole, ma una volta ammesso uno sviluppo è poi difficile spiegarne l’involuzione quando poi c’è, invece, una costanza di ritmi; ο noi dobbiamo ammettere che questi canali minuti non si distaccano da una dominanza sociale — che non è detto che debba essere centralistica, se intendiamo uno strato di vertice, anche di homoioi — ο ammettiamo che questi movimenti siano in qualche modo controllati; questi tipi di controlli, a distanza per intenderci, noi li abbiamo nel mondo anatolico, perché le colonie cappadociche sono completamente controllate dai re assiri, ma sembrano libere se le si guarda «prima facie» (ormai abbiamo capito come funzionava il tamkarum e rispondeva a certe determinate organizzazioni, con compromesso tra centralismoe autonomia, per esempio con prezzi amministratie piccoli guadagni individuali).
10Dovremmo supporre per il mondo euboico una evoluzione di questo tipo, ma mi sembra non pertinente ad esso».
11A. Mele pose un certain nombre de questions à Β. d’Agostino:
12«A Bruno volevo porre alcune domande. Che peso dà al problema della pirateria calcidesee della pirateria etrusca; un fenomeno del tipo da lui immaginato può essere concepito in una simile situazione? Se d’altra parte noi pensiamo, oltre che al problema della pirateria, al problema delle distanze tra Calcidee Pitecusae quindi ai problemi posti dalle μαϰραὶ ναυτιλία, e in un mondo in cui si può incontrare il pirata greco ο quelο indigeno, come possiamo immaginare un gruppo di artigianie commercianti di tipo l«esiodeo», immerso nella rete dei commerci minuti? Un gruppo di artigianie commercianti per giunta legati alla produzionee commercializzazione dei chryseia. In realtà, se si riflette ai presupposti economici socialie politici che rendono possibile la vita di un centro come Pitecusa, non si può pensare ad esperienze diverse da quelle proprie della prexis aristocratica euboica».
13B. d’Agostino reprend donc la parole:
14«Il problema che pone Mele è di portata molto vasta, ed esige di inquadrare nel suo insieme lo scambio “coloniale” anche al di là del fenomeno pitecusano. Sono convinto che Pitecusa è l’ultimo fenomeno precoloniale, ed accolgo l’aut-aut del prof. Lepore: è certamente un mondo che entra in crisi; altrimenti non si spiega la discontinuità Pitecusa-Cuma. La dimostrazione che Pitecusa sia l’ultimo fenomeno precoloniale si ha dal fatto che nel momento stesso in cui nasce sul golfo di Napoli la prima colonia stanziale, la prima colonia di popolamento — come è Cuma — il destino di scambi, di iniziative di tipo pitecusano, a mio giudizio, è segnato. Non scompare Pitecusa come insediamento, ma termina la fortuna dell’isola (e questo Buchner lo ha messo egregiamente in luce), con quel «décalage» che esiste nei fenomeni storici, per cui alla causa non segue un crollo repentino, ma il chiudersi di certe prospettive, il venir meno di certe esigenze che determinano l’esaurirsi del fenomeno.
15In questa prospettiva, la risposta all’amico Mele è in qualche modo implicita; possiamo immaginare che gruppi isolati si muovano sulle lunghe distanze? Non posso rispondere che sì, se effettivamente il fenomeno dei prospectors, della avventura occidentale nasce da un fenomeno di crisie trae origine dalla crisi delle strutture della madre patria ed implica una particolare funzione dei cadetti dell’aristocrazia; possiamo anche immaginare che l’apertura di nuove strade avvenga secondo il modello da me proposto piuttosto che con il modello del controllo a distanza citato dal prof. Lepore.
16Come gioca la pirateria, sinceramente non so, anche se sono convinto della importanza del problema, specialmente nel modello dei piccoli scambi; l’aspetto essenziale, in questo modello, mi sembra quello della reciprocità, senza il quale, se non ci fossero beni di andatae beni di ritorno, perderemmo quegli elementi in base ai quali abbiamo ipotizzato certi circuiti, la vitalità di questo genere di processi finirebbe per sfuggirci. Tra l’altro, sono convinto che pirateria è un termine sotto il quale possono andare, al livello cronologico in cui ci muoviamo, molte cose, che noi chiamiamo scambio».
17P. Pelagatti intervient pour exposer les résultats des données de la nécropole chal-cidienne de Naxos. On y a trouvé une centaine de tombes, dont quelques-unes assez anciennes, qu’on peut dater de la fin du VIIIe jusqu’à tout le VIIe siècle. Il s’agit de tombes modestes, qui contiennent un squelette, un objet et, de temps en temps, un bracelet. Il faut remarquer l’emplacement de la nécropole, juste à l’intérieur de la baie. La tombe la plus intéressante est celle qui contenait un aryballos de type sub-globulaire, un peu plus récent que celui de la nécropole du Fusco: c’est une tombe de femme avec deux enfants. Elle refuse, d’aborder la question de la première génération, femme grecque/femme indigène et rappelle encore un autre fait relatif au mouvement des artisans, bien que lié au monde corinthien: on a trouvé à Camarina une antéfixe avec diopos. La tombe est du milieu du VIe s., l’antéfixe pourrait même être un peu plus ancienne. De toutes façons, voilà un témoignage «historique» d’un artisan de VIe s., un artisan diopos.
18L. Cerchiai pose une question à A. Mele, pour avoir des éclaircissements sur l’emploi du mythe, en soulignant la nécessité d’expliquer le mythe de façon indépendante de la réalité. Il s’ensuit un long dialogue polémique au cours duquel A. Mele rappelle qu’il est d’accord sur un point: il faut bien connaître et tenir compte de la spécificité du mythe; cependant, même s’il faut être prudent, dans l’analyse, on ne peut pas oublier que le mythe a une signification pour la société qui l’a créé. Et, à ce propos, il renvoie à la discussion de l’interprétation du problème des Métionides donnée par Fr. Frontisi-Ducroux (Dédale. Mythologie de l’artisan en Grèce ancienne, Paris, 1975, p. 90 sq.) (cf. supra l’article de A. Mele, p. 17).
19E. Lepore intervient à son tour pour appuyer les thèses de A. Mele, rappelant que le mythe est civilisation, dans le sens le plus ample du mot, et que civilisation et société s’accordent parfaitement. Le mythe est le reflet symbolique d’une matrice; c’est un reflet qui n’est pas immédiat, mais médiat; et, en réalité, sa lecture ne peut pas être immédiate: on ne peut l’atteindre qu’après plusieurs passages qui sont indispensables pour saisir ce qui est au-delà du symbole. La relation présentée par A. Mele trouve là sa raison d’être.
20A l’appui de sa thèse, L. Cerchiai cite ce que J. -P. Vernant dit dans les dernières pages de Mythe et société. E. Lepore ne voit aucune contradiction entre l’analyse de A. Mele et l’étude de J. -P. Vernant. En plus, il faut considérer que les mythes examinés par Vernant ne sont pas tous du même type que celui auquel on s’intéressait; les témoignages cités par A. Mele sont des arbres généalogiques, des généalogies mythiques, ce que les anthropologues appellent des charters; ils ne peuvent pas être traités de la même façon que les mythes possédant une prégnance mythique différente de celle des généalogies mythiques.
21A cette longue discussion (résumée dans ses points essentiels) suit la discussion sur la relation de D. Ridgway.
22Une première question concerne les comparaisons qu’il a faites entre Pithécusses et Otrante; mais ce dernier site reflète toute une série de rapports commerciaux qui n’impliquent pas nécessairement une volonté politique d’instaurer ces rapports. Pithécusses, au contraire, appartient à un moment successif, c’est la création consciente d’un emporion, en vue d’un but spécifique. Il s’agit donc de deux phénomènes qu’on peut difficilement comparer.
23D. Ridgway répond qu’il s’agit certainement de phénomènes différents, mais pas nécessairement de deux moments successifs. De toutes façons, le matériel archéologique, les matières premières constituant les reflets respectifs de ces phénomènes, sont sans aucun doute différentes: D’Andria a trouvé à Otrante des coupes à chevrons. Mais il ne posait pas un problème de phénoménologie, mais de chronologie: les types de céramique sont les mêmes, aussi bien à Otrante qu’à Pithécusses, mais naturellement ils sont arrivés en des circonstances et en des moments différents.
24B. d’Agostino intervient:
25«Vorrei riprendere brevemente due punti della relazione concisa, ma molto densa, di Ridgway. I frammenti che egli ha mostrato di per sé non spostano il discorso cronologico. Appena alcuni anni fa ci saremmo scontrati per datare il coccio al decennio; oggi, per fortuna, poniamo i problemi in maniera diversa. Il mio interesse va invece a un problema di tipologia. I frammenti a «chevrons» sospesi mi sembrano il presupposto per un gruppo di vasi di tipo greco di produzione locale; le cose quindi si complicano, perché se quei frammenti sono i padri di quei figli è probabile che abbiano un minimo di spazio per aver generato addirittura una sorta di tradizione, sia pure limitatissima. Il fenomeno comincia però ad essere culturalmente rilevante, perché se addirittura abbiamo l’imitazione di questo orizzonte, questo un minimo di peso deve averlo avuto.
26Fino ad adesso avevamo vasi di Calatia, però in un orizzonte più tardo per quel che riesco a capirne,e che pure parlavano di «chevrons» sospesi,e non avevamo niente per agganciare la tradizione dei «chevrons» sospesi all’Eubea. Infatti l’unica coppa a «chevrons», ma non sospesi, dall’Eubea che ho presente è quella miniaturistica pubblicata nella guida di Eretria, quindi tutte le volte che noi agganciavamo «chevrons» sospesi a una possibile tradizione euboica galleggiavamo un po’nel vuoto, oggi invece da un punto di vista filologico l’aggancio lo abbiamo. Questo è uno dei problemi. Quanto al problema di Otranto che è stato sollevato, io credo che qualitativamente non ha niente a che fare con Pitecusa; è un fenomeno di circuito chiuso, è un fenomeno che nasce sulle coste greche, passa attraverso Aidros, forse Corcira, arriva a Otrantoe si ripiega su se stesso senza riuscire a stravolgere la fisionomia dell’Occidente ellenizzato, come invece riesce a fare Pitecusa che è appunto un elemento di innesco di un processo di elle-nizzazione, anche se la miscela è la stessa,e su questo sono perfettamente d’accordo».
27G. Buchner confirme ce qui a été dit par D. Ridgway.
28E. Lepore fait remarquer que Ridgway a été très fin dans l’individualisation des modèles, car il a parlé d’une communauté organisée qui n’est pas encore une cité. Voilà une définition très subtile et avisée, qui ajoute des nuances à la définition de O. Murray, précise, mais en même temps vague, possédant une réalité de contenus sans toutefois préciser les vraies formes d’organisation de ces contenus réels. E. Lepore demande à Ridgway de confirmer s’il a bien dit que ce n’est pas une apoikia, mais qu’il existe une communauté organisée, mais qu’il ne peut pas préciser quelles autorités administratives l’ont organisée.
29D. Ridgway croit qu’on n’a pas les éléments, du moins dans son domaine, pour pouvoir donner ces précisions.
30E. Lepore conclut donc qu’il ne s’agit pas d’un emporion administré par les populations indigènes; on ne sait pas non plus jusqu’à quel point il est sous le contrôle des Grecs; de toutes façons ce contrôle ne devrait pas être politique, parce qu’alors on aurait déjà une communauté politique.
31On passe ensuite à la discussion de la communication de L. Breglia Pulci Doria.
32E. Lepore constate que «naturalmente diverge, concependo questi problemi di una mitica apoikia greca in Sardegna, dalle affermazioni più recenti su questa assenza greca in Sardegna. Questo dovrebbe appunto sollevare la discussione. Vorrei far notare comunque come questa apoikia, ai livelli mitici a cui siamo, non è una vera apoikia perché la tradizione stessa di quei passi di Diodoro insiste sulla partecipazione di barbari da una parte; dall’altra si esprime in maniera molto generica perché dice che furono invitati a partecipare all’apoikia tutti quelli che volessero, con una formula che è tipica dei bandi coloniali greci; ma poi questa formula si traduce nel resto della tradizione in una partecipazione di barbari che imbarbariscono, essendo, come è detto precisamente, più numerosi dei Greci in questa apoikia, e provocano questa involuzione culturale, questo ritiro sulle montagnee quindi questa disgregazione, diciamo così, della presenza ellenica. Ci sono, cioè, degli elementi che sembrano molto strani per una apoikia in senso pieno; benché ci siano poi degli elementi come quelli connessi soprattutto ad Aristeoe a Daidalos, che alludono naturalmente a regime agrario da una parte,e a costruzioni di tipo greco dall’altra. Accanto a tutto questo c’è poi questa tradizione che fa ritirare questi elementi thespiadai a Cuma, in’Ιταλία e tutto quello di cui ha parlato L. Breglia, che connette in fondo abbastanza strettamente questo elemento beotico all’elemento euboico in questa corrente verso occidente che naturalmente si spingerebbe al di là di Cuma. C’è chiaramente uno slittamento verso il modello dell’apoikia di una realtà che nella tradizione stessa non sembra corrispondere tipicamente a un’apoikia».
33W. Johannowsky demande la parole et, après avoir précisé qu’il n’est pas un spécialiste de la Sardaigne, exprime son opinion:
34«I dati archeologici sono praticamente inconsistenti a tale riguardo, almeno fino a questo momento. Per l’VIII secolo inoltrato, per il periodo della colonizzazione euboica in Occidente, abbiamo soltanto un vaso geometrico di tipo euboico, non so se di produzione euboica oppure fatto a Pitecusa, di forma non molto corrispondente a quanto conosciamo per Pitecusae per Cuma. Purtroppo i dati di ritrovamento non sono affatto chiari. Dal V secolo in poi, c’è della ceramica attica per lo più nei centri punici ο sotto fortissimo influsso punico, il che si spiega ovviamente con la presenza commerciale; d’altra parte la colonizzazione punica comincia molto presto in Sardegna a giudicare da tutta una serie di dati che abbiamo. Sappiamo anche degli stretti contatti tra il mondo fenicio, punico compreso,e l’ambiente euboico; sia in Grecia, sia in Occidente a Pitecusa, abbiamo elementi sicuri della presenza fenicia; mi pare abbastanza logico perciò che commercianti greci, euboici in particolare, siano stati presenti in Sardegna nelle zone puniche ο sotto influsso punico. D’altra parte, non si deve trascurare il fatto che ci sono stati contatti tra la Sardegnae il mondo egeo anche nell’Età del Bronzo; basta pensare a quei pani di bronzo di provenienza probabilmente cipriota trovati in Sardegna in un contesto intorno al XIV secolo. Anche la presenza di costruzioni megalitiche ha certamente influito sulla tradizione relativa a Dedalo. Quanto poi alla tradizione letteraria antica c’è, da un lato, il tentativo di spiegare certe navigazioni greche dell’Età del Bronzo, certe omonimie tra popolazioni localie popolazioni greche, ma c’è certamente anche — soprattutto nella tradizione del V e IV secolo — la propaganda ateniese che è, come ormai sembra abbastanza chiaro, alla base delle pretese ateniesi sulla Siritide all’epoca della seconda guerra persiana, che è evidentemente anche alla base — anche qui le fonti sono tarde, siamo già all’epoca di Timeo — di quello che si dice circa la presenza di Ateniesi a Neapolis nel V secolo, salvo il fatto di Diotimo che rientra evidentemente nella politica di espansione ateniese non prima del 428. Purtroppo la documentazione non esiste. Quanto al fatto dei Serdaioi, continuo a non essere persuaso di un loro qualsiasi rapporto con i Sardi. La cosa più probabilee più logica è che si tratti di una popolazione dell’Italia meridionale che viveva nella zona dove Sibari voleva affermarsi economicamente non molto lontano da Poseidonia».
35E. Lepore remercie W. Johannowsky pour avoir rappelé cette situation pour laquelle il n’existe naturellement aucune preuve. Lui aussi, il reste perplexe face au problème présenté par cette tradition que l’on retrouve dans la chronique cumaine, et de fait, le fragment d’Hyperochos est bien lié à ces événements puisqu’on y trouve la mention explicite de Cumes.
36A. Mele intervient:
37«Volevo semplicemente aggiungere qualche cosa a quello che Luisa Breglia ha detto sul problema delle navigazioni calcidesi verso Tartesso. L. Breglia ha citato le fondazioni euboiche sulle coste della Tunisia. In realtà bisognerebbe anche citare qualcos’altro. Stamattina abbiamo visto che vi è una presenza cultualee mitica, nell’Eubea, di Bria-reo; abbiamo visto Briareo legato all’isola con culto a Calcidee a Caristos, nel sud del-l’Eubea. Ora, bisogna ricordare che Briareo ha una proiezione occidentale anche lui; vi sono notizie secondo cui quelle che poi furono chiamate le colonne d’Eracle, in realtà si sono chiamate prima colonne di Briareo. In pratica constatiamo la presenza di questa figura cultuale tipicamente calcidese ed euboica in una zona che è punto terminale della rotta tunisina prima citata; una presenza che deve essere anteriore alla presenza di Eracle in quella zona, data la statura diversa di Briareo rispetto ad Eracle. È chiaro che una tradizione di colonne di Briareo non può essere che anteriore alla tradizione di colonne d’Eracle. Diversamente, si sarebbe difficilmente spiegato un toponimo di questo genere; se già Eracle, figura panellena, figura di statura, diciamo, internazionale, figura legata poi a Gerione, a Tartesso, ecc., se già Eracle fosse stato lì presente, non sarebbe nata, secondo me, la tradizione di Briareoe delle colonne di Briareo in quella zona. Questo quindi è un indizio di un interesse arcaico, di elementi appunto euboicie calcidesi, alle zone delle colonne di Eracle».
38D. Ridgway fait une brève intervention à l’appui des thèses de L. Breglia Pulci Doria:
39«Il dott. Johannowsky ha nominato la ben nota urna di Sulcis nel Museo di Cagliari: penso che valga la pena ricordare anche l’aspetto euboico della decorazione dipinta di quest’urna, già precisato dal Coldstream (Greek Geometric Pottery, 1968, p. 388). Dello stesso cimelio, il dott. Tronchetti ha identificato altri elementi euboici ancora più sicuri,e cioè quelli pertinenti al coperchio (da lui ritrovato in frammenti dentro il vaso), sul quale ha fatto un breve intervento al Convegno di Taranto del 1978 (v. anche Id. in Rivista di Studi Fenici, in corso di stampa). Se non erro, il Tronchetti ha potuto stabilire, una volta per tutte, che la forma dell’urna stessa non è fenicia; per me, infatti, un confronto valido sarebbe un’urna (inedita, credo) scavata dalla Signora Zancani a Franca-villa Marittima, ed ora esposta nel Museo di Sibari. In altre parole, lo stesso vaso ci fornisce una decorazione perlomeno euboicizzantee una forma italica: ed è adibito a un rituale puramente fenicio. La miscela mi sembra simbolica del crocevia costituito dal Mediterraneo centrale alla fine dell’VIII sec.
40Indizio della stessa situazione «internazionale» sono le due fibule identiche di tipo iberico, sulle quali la dott. ssa Lo Schiavo ha recentemente fermato la nostra attenzione (St. Etr. xlvi, 1978, p. 40, fig. 7): l’una sporadica, dalla necropoli euboica di San Montano a Pithekoussai;e l’altra dal deposito votivo scoperto nel’68 nella Grotta di Pirosu a Su Benatzu (Santadi, Cagliari), nel retroterra chiaramente frequentato dai fenici di Bithia. Dallo stesso contesto, anche se di data anteriore (fine IX - inizio VIII), viene il tripode miniaturistico studiato dal prof. Lilliu (Estudios dedicados a Luis Pericot, 1973, pp. 283-313), e discusso in termini del tutto analoghi a quelli d’uso corrente fra gli intenditori della ceramica greca ο di tradizione greca dell’VIII sec. nell’Italia centralee meridionale: fu fatto da un fenicio a Cipro? E poi esportato? Ο fu fatto da un artigiano emigrato? Ο da un allievo (cipriota ο sardo che sia) di un maestro simile?
41Insomma, non va dimenticato che l’iniziativa euboica dalle nostre parti (con le sue mire alle Colline Metallifere dell’Etruria) segue un lunghissimo periodo di sfruttamento delle risorse metallifere della Sardegna, organizzato da quegli elementi comunemente denominati fenici dai greci (A. Mele, Il commercio greco arcaico, Cahiers Bérard iv, 1979, pp. 87-91) — elementi, si badi bene, che non attraversavano un «Dark Age» di tipo greco. Molto giustamente, il dott. Johannowsky ha menzionato a questo proposito i lingotti cosiddetti «a pelle di bue» («ox-hide»): ma si tratta di una storia di frequentazionee di scambi che comincia ben prima (forse addirittura durante il Bronzo Medio: il ripostiglio di Ottana)e si prolunga ben dopo.
42Le mostre che si sono susseguite nella zona della Soprintendenza di Sassari, corredate in modo davvero esemplare da splendidi cataloghi, insieme con gli studi della dott. ssa Lo Schiavo, ci stanno portando a un ridimensionamento radicale anche dei fatti nostri. Alludo in particolare ai volumi Nuove testimonianze archeologiche della Sardegna centrosettentrionale (Sassari: Dessi, 1976) e Sardegna centro-orientale dal neolitico alla fine del mondo antico: Nuoro, Museo civico speleo-archeologico (Sassari: Dessi, 1978) — e all’informazione ivi contenuta fra l’altro sulla fonderia nuragica di Sa Sedda’e Sos Carrose sui calderoni dalla Grotta Su Benticheddu. Per non parlare, poi, della fonderia in corso di scavo dal prof. Atzeni a Genna Maria (Villanovaforru),e le ricerche metallurgiche effettuate dall’équipe americana diretta dalla prof. ssa Balmuth (J. Field Archaeology iii, 1976, pp. 196-201). Ho cercato di fare un sommario dell’importanza di questie di altri contributi per gli studi protocoloniali (greci) in Archaeological Reports for 1979-80, a cui rimando (pp. 54-62) per ulteriore bibliografia».
43E. Lepore remercie Ridgway pour son intervention qui lui paraît «enormemente interessante soprattutto per questa sua conclusione sulla " mistura della fine dell’VIII secolo " con la quale quadra molto bene questa oscura, confusa, tradizione letteraria che noi abbiamo di fronte. Vorrei aggiungere che tutto il contesto che avvolge i nuclei che si possono estrarre da questa tradizione, è un contesto fenicizzante; perché la figura di Eracle, specie quando è legata all’Eracle Dattilo, ci porta immediatamente a tutto l’arco egeo che va verso Ciproe Tiro. Quindi, questa tradizione di tipo beotico è trasportata in deriva, diciamo così, da elementi fenicizzantie va a saldarsi poi alla fine dell’episodio — perché anche nel racconto mitico è alla fine dell’episodio — a Cuma in Italia. Un aspetto interessante del problema è appunto la confusione con cui si presenta questa realtà che la tradizione ci vuole trasmetteree che non ci sa trasmettere con chiarezza. Questo è molto importante dal punto di vista del recupero di questo pezzo di tradizione, che pur non offrendo dei dati ancora molto precisi, ci dà degli elementi interessanti che andranno poi ulteriormente approfonditi per poter leggere il problema».
44L. Breglia Pulci Doria exprime à D. Ridgway sa reconnaissance pour avoir mentionné ce vase que, d’ailleurs, elle connaissait déjà. Elle souligne l’importance de toute la documentation archéologique de VIe s. qu’il ne faudrait pas négliger. Puis elle ajoute:
45«Ho dimenticato di dire che uno dei personaggi mitici che arrivano in Sardegna, sempre secondo la tradizione timaica, è Aristeo. Questi avrebbe introdotto l’εὐϰαρπία in Sardegnae avrebbe lasciato due figli: Χάρμος e Καλλίϰαρπος che di nuovo riportano al contesto di coltivazione. Dunque, con la figura di Aristeo, ci troviamo in Sardegna in un contesto che da una parte è legato al mondo beotico, dall’altra ci riporta a Cuma, in Italia meridionale — ricordiamo l’epigrafe, dedicata ad Aristeo, di II sec.,e la fratria napoletana degli Aristaioi. Cioè, non abbiamo solamente elementi che riportano la datazione alta, ma anche elementi che ritroviamo di nuovo legati alla tradizione euboica». Pour ce qui concerne la tradition des Thespiadai, ensuite, L. Breglia Pulci Doria invite les collègues à prendre garde d’affirmer que c’est une tradition récente, parce que, outre la source de Timée, on a celle, qui fait autorité, d’Aristote (cf. p. 84 s.).
46E. Lepore prend encore la parole pour «sottolineare ancora una volta che la tradizione si esprime precisamente col termine εὐϰαρπία per questo problema della fondazione della ἀποικία; naturalmente tutti ricordano l’εὐϰαρπία straboniana di Pithe-cusae che quel tipo di contesto cultuale è un contesto culturalmente alto, perché è un contesto di riti sciamanici, come si capisce, cioè di quel tipo che noi ritroviamo alla periferia barbarica ai confini greci per altri tipi di personaggi; qui, appunto, sono i Thespiadai ο è Iolao, altrove è l’Odysseus di Trampiae di altri centri epiroti che presenta lo stesso tipo di cultoe di livello culturale. Questi sono elementi cultuali-culturali di cui non ci si può liberare molto rapidamente, perché sono legati a delle realtà che non sono meramente mitiche, ma che riposano su ricordi precisi di tradizioni religiose, che sono una cosa un po’diversa».
47B. d’Agostino prend la parole: «Innanzitutto sento il bisogno di esprimere la mia ammirazione per il lavoro di grande impegno che N. Valenza sta conducendo sui corredi tombali cumani: una evidenza che poteva credersi perduta,e finora inutilizzabile nella forma in cui era stata pubblicata dal Gabrici.
48Quanto al merito della relazione, così ricca, che affronta con spirito sistematicoe con vastità di interessi la complessae difficile materia, molti ed ampi sono i consensi. Vorrei sottolineare alcuni punti che mi paiono particolarmente felici: per esempio l’aver ritrovato un rapporto strutturale tra alcuni elementi che distinguono le tombe del gruppo egemone,e l’aver saputo cogliere i mutamenti, densi di implicazioni ideologiche, che questi complessi di elementi subiscono nel tempo. Mi riferisco in particolare all’opposizione tra il complesso calderone-spiedi-ricettacolo, proprio del gruppo egemone di VIII-VII sec., e quello ricettacolo-cratere, tipico delle tombe arcaiche, accomunati dall’uso dell’incinerazione. Mi sembra che il valore di questa opposizione sia stato delucidato in maniera pienamente persuasiva,e che sia illuminante la connessione con l’ideologia del simposio per le sepolture arcaiche caratterizzate dal complesso ricettacolo-cratere. Mi sembra anche valida la suggestione che l’introduzione dell’ideologia del simposio abbia potuto funzionare come elemento di rottura nell’unità del gruppo egemone.
49Un altro elemento importante merita di essere ulteriormente sottolineato: mi riferisco a quel turbamento nella stratigrafia orizzontale, che la Valenza coglie tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a. C.: a partire da questo momento si invadono con nuove sepolture le aree di necropoli più antiche, ciò che sembra manifestare una sostanziale rottura nelle tradizioni locali. Se tutto ciò viene messo in relazione, come ha fatto la Valenza, con la figura di Aristodemoe con quanto essa significa nella storia politicae sociale di Cuma arcaica, ecco che i dati che sono scaturiti dalla lettura della stratigrafia orizzontale sembrano assumere una particolare rilevanza.
50Ai consensi che — come si vede — riguardano la sostanza della relazione, occorre aggiungere qualche marginale elemento di riflessione: a volte forse l’evidenza dalla necropoli sembra un po’tenue per sorreggere le interpretazioni proposte e, mentre fornisce lo spunto per l’ipotesi, non dà gli elementi per una dimostrazione conclusiva: questo è del resto un limite che si profila spesso in questo genere di ricerche. Per esempio mi suscita qualche perplessità l’immagine di un comportamento «compatto» del gruppo egemone di VIII-VII sec. nell’ambito del rituale funerario. Certo una immagine del genere può essere suggerita dal ricorrere di alcuni elementi rilevanti: il calderone, l’incinerazione, il ricettacolo, soprattutto se si considera il gruppo di tombe più antico in opposizione con il gruppo delle tombe «egemoni» del periodo medio-arcaico ο tardo-arcaico. Se invece esaminiamo più da vicino le tombe ad incinerazione del periodo più antico, l’immagine di questa compattezza si attenua, ed affiorano sensibili differenze: per esempio le armi di offesa abbondano nella t. 104, sono presenti nella t. 1, mancano invece nelle altre tombe. A ciò si contrappone l’ostentazione dell’arma da difesa, lo scudo, che in alcune tombe (t. 11, 56, 50, 104) apparee in altre no,e che forse ha il valore non tanto di segno della funzione guerriera, ma piuttosto di elemento da parata che serve a connotare il rango sociale del morto. Resta poi da capire se queste tombe ad incinerazione sono sia maschili che femminili, problema difficile soprattutto se si ha ben presente una certa promiscuità nell’uso dei diversi tipi di fibule, che caratterizza fin dall’Età del Ferro la necropoli di Cuma, ed altre affini1.
51Qualche perplessità mi suscita il discorso sulla diminuzione delle distanze tra giovani aristocraticie giovani«democratici», suggerito soprattutto dall’uso di una custodia per le ceneri. Una lettura dei particolari presupporrebbe infatti la possibilità di cogliere le articolazioni interne della compagine sociale,e invece questa articolazione è appena indiziata da alcuni elementi di cui non riusciamo a valutare appieno la portata: ad esempio il complesso cratere-incinerazione-strigi le sembrerebbe alludere ad una specificità del ruolo maschile, legata forse ad una particolare classe di età, come sembra suggerire il richiamo al mondo della palestra;e tuttavia non si evince, dall’esame dei corredi, l’opposizione primaria, maschile-femminile, che permetta di situare al suo interno il gruppo di tombe con cratere-strigile, e l’atteggiarsi dei gruppi di tombe relativi ai diversi livelli della scala sociale. Queste lacune indicano che la nostra conoscenza della necropoli è ancora incompleta: certo, dopo la relazione di N. Valenza, possiamo dire di conoscerla infinitamente meglio di quanto non consentisse l’opera di Gabrici: vi sono tuttavia — ed è naturale — aspetti non marginali che sfuggono.
52Ancora un problema: dall’immagine della società di Cuma, quale emerge dalla relazione di N. Valenza, si evince una totale coerenza nel rituale funerarioe nell’atteggiamento mentale con le situazioni coeve di Ischiae di Eretria: quest’immagine mi sconcerta se la confronto con quella, che mi è più familiare, di Cuma, città di frontiera, ibrida, che esprime la t. 104 del fondo Artiaco: un miscuglio di rituale greco, etrusco,e perfino «indigeno», di una Cuma che ha quelle oreficerie che Buchner ritiene greche, ma che hanno la loro massima diffusione in Etruria, ed ha gli scudi da parata tipicamente etruschi.
53La ricchezza dei problemi, chiariti ο ancora da approfondire, che nascono da questa relazione, mette in evidenza la straordinaria importanza del lavoro intrapreso dalla Valenza,e creano una grande attesa per il suo completamento, sia per quel che concerne l’edizione dei materiali, sia per quanto riguarda lo studio sistematico delle implicazioni relative alla storia economicae sociale,e allo studio dell’ideologia funeraria.
54Naturalmente sorvolo sulle differenze di linguaggio, che pure esistono: non mi riuscirebbe mai di parlare di «classearistocratica» ο di «borghesi»: ma si tratta di differenze che in questo caso non alterano la sostanza del discorso».
55Cl. Albore-Livadie intervient très brièvement à la suite de B. d’Agostino; une réflexion postérieure lui a suggéré les remarques qui suivent:2 «Vorrei, prima di congratularmi con Ν. Valenza per la sua interessante relazione, tornare brevemente su quello che ha appena detto B. d’Agostino. In particolare, non mi sento di condividere il suo parere in merito alla promiscuità nell’uso dei diversi tipi di fibule che caratterizzerebbe le necropoli greche della Campania. A Cuma, come d’altronde a Pithecussae, si può infatti, a mio parere, definire — almeno per i corredi dell’VIII e del VII sec. a. C. — il sesso dei defunti, in base alle fibule (fibule ad arco a curva semplice nelle tombe femminili, ad arco serpeggiante nelle tombe maschili). Inoltre Pithecussae, per la quale possediamo dati statistici piuttosto ampii, oltre che attendibilie precisi, ci illumina su particolari consuetudini: le donne portavano una ο più fibule su ciascuna spalla; gli uomini vestivano indumenti di foggia semplice che richiedevano una sola fibula, ο addirittura nessuna. Queste norme nel vestiario, ben documentate nelle tombe a fossa, permettono di determinare il sesso dei cremati. Pertanto ritengo che non può esser messo in dubbio che delle 11 tombe ad incinerazione con corredo, appartenenti all’Orientalizzante anticoe medio di Cuma, quattro vanno riferite ad individui di sesso maschile (1, 43, 59 Gabrici e, ovviamente, la tomba 104 del fondo Artiaco), anche quando non vi sono armi,e tre (tombe 2, 11e 56) ad individui di sesso femminile. Le tombe 69 e 70, prive di fibulee di ogni altro elemento significativo in tal senso, potrebbero essere attribuite, però con largo margine d’incertezza, a tombe maschili.
56Due delle tombe (11 e 56 Gabrici), che ho considerate sepolture femminili in base alle numerose fìbule, ma anche — per la tomba 56 — alle spiraline d’argento che dovevano serrare sottili trecce ricadenti ai lati del viso, ed alle due leggiadre armillae, d’argento anch’essee usate certamente come braccialetti, erano chiuse da uno scudo sbalzato in bronzo.
57La presenza dello scudo in tombe di donne non deve, a mio parere, stupire. Infatti, più che un’arma reale, difensiva, che ovviamente ha anche potuto essere usata, è anche,e direi soprattutto, un segno di distinzione sociale. Ne è chiaro indizio, la presenza di più esemplari (t. 21 di Decima; t. Castellanie forse t. Bernardini di Palestrina) ο di esemplari di formato piccolo nelle tombe orientalizzanti (tomba 83 di Bisenzio). Più che oggetti «da parata», dunque, erano beni-emblema del casato gentilizio e, come tali, custoditi in casa, a volte per più generazioni, prima di essere posti in tombe (è il caso degli scudi della tomba Castellani, della tomba del Circolo degli Avori, ο della tomba 62 di Marsiliana d’Albegna), anche in tombe di donne — spose di aristocratici guerrieri (tomba 70 della Laurentina, forse tomba Castellani) — come simbolo del loro status, quando gli scudi non erano scolpiti nella sepoltura del morto (anticamera della tomba Regolini-Galassi, t. Campana di Veio, t. degli Scudie delle Sedie di Caere, ecc.), ο dipinti a mo’di blasone, nelle tombe del primo ellenismo in Etruriae in Messapia.
58B. d’Agostino, inoltre, si dichiara non d’accordo sull’immagine di un comportamento «compatto», a livello di rituale, del gruppo egemone dell’VIII sec. e del VII sec. a. C., e, inoltre, ritiene ci siano differenze all’interno di questo gruppo. Ma mi pare che siano due cose diverse.
59La compattezza del rituale c’è: la norma «aristocrazia — incinerazione — ricettacolo» è sempre rispettata in questo periodo. Lasciamo da parte il «calderone» che non è sempre necessario, ο che lo è solo per le tombe di adulti «aristocratici». Infatti, a questo proposito, vorrei attirare l’attenzione su due sepolture a ricettacolo diverse dalle altre (tombe 13e 14); esse sono prive di«calderone»e — fatto eccezionale — sono ricche di ceramica PCA. A mio parere, si tratta di due tombe di ragazzi incinerati (una di esse contiene uno scarabeo). Si vede dunque che la norma «ragazzo –inumazione» non viene sempre rispettata. A conferma di questo, vediamo a Pithecussae che un ragazzo sui 10 anni era stato incinerato sotto un tumulo (tomba 168-PCA detta della «coppa di Nestore»): si tratta di un giovanetto del ceto medio. Quello che appare, dunque, sempre rispettato, è, invece, il tipo di sepoltura (ricettacoloe tumulo), a seconda dei ceti sociali.
60Per quello che riguarda la differenza nell’esprimere il proprio status nelle tombe a ricettacolo, sono pienamente d’accordo con B. d’Agostino. Ci sono delle tombe del ceto egemone più «ricche», altre meno, come d’altronde ad Eretria, anche se in modo meno vistoso.
61Vorrei ora congratularmi con la Valenza per l’analisi molto accurata dei riti funerari,e del loro rapporto con le classi di etàe con le classi sociali, che ella ha compiuto sul materiale proveniente dagli scavi Stevens. L’attenta osservazione dei dati archeologici sembra rivelare per il VI ed il V sec. due fenomeni:
- incrinamento dell’originaria compattezza ed uniformità del ceto egemone testimoniata a)vaso di bronzo nel corso del VI sec. a favore del cratere fittile, il che indicherebbe anche una modifica del costume politico-religiosoe dell’equazione banchetto eroico = calderone bollitolo; simposio = cratere fittile b) utilizzazione delle tombe a cassa, più specificamente riservate agli inumati, anche per depositare le ceneri, il che indicherebbe la diminuzione delle discriminazioni tra adultie giovani aristocraticie un minore rispetto delle classi dì età.
- attenuazione delle differenze tra aristocraticie demos, a) tra aristocratici adultie borghesi adulti: gli unie gli altri usano una protezione per le ceneri, testimoniando un comportamento imitativo da parte del demos degli usi funerari dell’aristocrazia b) tra aristocratici giovani e borghesi adulti: gli uni e gli altri usano dei vasi contenitori (anfore, hydrie e mai crateri).
62Sul punto 1 a, vorrei fare due osservazioni.
63Non sono completamente d’accordo sull’abbandono del recipiente di bronzo nel VI sec. avanzato, ipotizzato dalla Valenza. Accanto al cratere fittile, che troviamo già nella prima metà del VI (cratere corinzio Gabrici tomba 106 — Raccolta Cumana 85531), ma che avrà lo sviluppo che conosciamo con la ceramica attica, sono ancora usati regolarmente, dal ceto aristocratico, i recipienti di bronzo. Scarse sono le tombe della fine del VIIe del VI nello scavo Stevens (tuttavia ne conosciamo perlomeno tre, con ciste a cordoni di bronzo): esse dovevano essere in ogni caso assai più numerose nello scavo del conte di Siracusa, come si può constatare attraverso i vasi di bronzo della Raccolta Cumana ed altri, provenienti dallo scavo del signor Granata nei terreni Correale, sistemati nei depositi del Museo Archeologico Nazionale,e spesso ancora riempiti di ossa combuste. Da questi nuclei provengono vari bacini ad orlo periato con un’unica fila di bugnette eseguite a sbalzo, spesso di grandi dimensioni (di cui non è chiara la fabbrica, campana ο etrusca), qualche piatto di fabbrica etrusca con omphalos e doppia fila di punzoni, numerosi lebeti a corpo sferoidale con espansione maggiore alla spalla che riecheggiano la forma del dims corinzio ο attico, un bacino con orlo decorato con tre ordini di punzoni curvilinei ed a punta. Per la fine del VI sec. e per il V sec., nella Raccolta Cumana, troviamo una situla a kalathos (tipo D di Giuliani Pomes), due situle stamnoidi anch’esse di fabbrica etrusca, varie «caldaie» formate da due lamine inchiodate con ο senza anse (figg. 206e 207 Gabrici), un tipo che ritroviamo nel Piceno, a Campovalano, nonché nell’Italia padana (S. Martino in Gattara) in contesti dove non mancano bronzi etruschi. Funzione di cinerario aveva, forse, pure il grande lebete su tre piedi a rocchetto con due anse semicircolari ed «appliques» in forma di sileni (fig. 208 e tav. LVIII, 2 Gabrici), di cui si conosce un esemplare identico in una tomba di Eleonte, associato con una lechythos attica a figure nere (seconda metà del V sec. a. C.). Accanto a questi cinerari di bronzo è attestato a Cuma il rito dell’incinerazione in una cista circolare di piombo (scavo del 22-7-1889 nella prima zona colmata del lago di Licola: nei depositi del Museo Arch. Naz. di Napoli), ove il corredo era costituito da numerose armi di ferro (spade, lance) e, forse, spiedi,e da un elmo di tipo apulo-corinzio in bronzo, che testimonia chiaramente l’appartenenza di questa sepoltura ad un nobile guerriero dell’inizio del V sec. a. C., fedele alle tradizioni dei suoi antenati, malgrado la presenza della cista di piombo, invece che di bronzo.
64Il secondo problema sul quale intendo ritornare riguarda la presenza del cratere nelle tombe che la Valenza spiega con un’innovazione introdotta sulla scia della diffusione del simposio nel VI sec. a. C. Premetto che sono pienamente d’accordo sul fatto che nel corso del VI sec. si sviluppa l’uso del simposio per influenza del costume attico, cioè l’abitudine di pranzare sdraiati, come d’altronde è ben mostrato dalla presenza delle klinai nelle tombe a camera. Non v’è dubbio, però, che l’uso del banchetto con vino (testimoniato, ad esempio, dalla fossa di scarico contenente tutto un servizio da banchetto distrutto nell’incendio della casa 5 A sull’altopiano di Ficana) (2— ed in particolare del banchetto funerario dove il vino ha senz’altro un valore ritualee metafisico ben preciso — è di data ben più antica come è attestato dalla presenza di anfore vinariee dalla diffusione della ceramica potoria già a partire dalla fine dell’VIII sec.,e soprattutto nel corso della prima metà del VII sec. nelle tombe «principesche» della Campania, del Lazioe dell’Etruria. In queste tombe anche i crateri sono presenti — crateri verie propri sono i«calderoni» su sostegni di bronzo delle tombe Bernardini, Artiaco, ecc., le tazze-crateree gli holmoi delle tombe laziali — come ha ben sottolineato Fausto Zevi. Anche in Campania i crateri sono presenti nel rito funebre, come testimoniano i crateri fittili bruciati sul rogo, i cui frammenti sono stati trovati nei tumuli di Pithecussae e nelle varie aree di cocci bruciati sparsi nella necropoli ischitana. In particolare, dalla tomba della «coppa di Nestore» vengono quattro crateri (di cui uno recante, fatto interessante, un’iscrizione incisa sul vaso in posizione capovolta!). Questa necessaria presenza del vino nel rituale funerario (libagioni avvenute forse durante la combustione del cadavere, spegnimento delle ultime fiamme del rogo) è a Cuma palesemente ricordata dai recipienti di bronzo usati per contenere le ceneri anche nel VI e V sec. a. C. Infatti sono usati come cinerari contenitori di vino per eccellenza: stamnoi, ciste a cordoni, situle, dinoi. Ci si può dunque chiedere se anche i bacini ad orlo periato ο con labbro ornato da una triplice serie di punzoni curvilineie a punta non fossero anch’essi recipienti per miscelare il vino, come pare indicare la loro presenza in tombe comprendenti verie propri servizi da bere, in Etruria, in Campania, in Sicilia,e la circostanza che, quando sono esportati (in Gallia, nel Piceno, ecc.), lo sono assieme con vasi potori (canthari di bucchero, per esempio) ο oggetti legati all’uso del bere (simpulum, infudibulum di bronzo). Lo stesso potrebbe essere ipotizzato anche per certi grandi lebeti, in particolare quelli con labbro ripiegato orizzontalmente all’interno, spesso troppo sottili per essere usati come calderoni per la bollitura della carne ο comunque per essere posti sulla fiamma; ancora meno convincente è la loro supposta utilizzazione come semplici piatti da portata.
65Vedrei dunque un preciso aggancio tra i «calderoni» del periodo orientalizzante antico (il cui nome andrebbe peraltro riveduto), i recipienti per vino (bacili, situle, ciste, stamnoi, sempre di bronzo, spesso di provenienza vulcente) nell’orientalizzante recente e, verso la fine del VI sec., il cratere fittile. L’innovazione consisterebbe solo nel fatto che ormai il recipiente non è più metallico.
66Quest’adozione di un contenitore di tipo nuovo, che conserva il carattere intrinseco del recipiente — il tradizionale vaso da vino — ma si allontana dall’ideologia funeraria dell’aristocrazia euboica arcaica (tradizione del banchetto solenne, pieno di profonda religiosità), è avvenuta naturalmente, sotto l’influenza del commercio attico, che immetteva massicciamente sul mercato cumano i crateri dipinti, nello stesso tempo in cui diffondeva le nuove istituzioni di vita sociale, con i numerosi «revers» pedagogicie politici che rappresentò per i Greci il simposio.
671 b) L’utilizzazione delle tombe a cassa dagli incinerati è un dato particolarmente interessante, che, come ha ben sottolineato la Valenza, indica probabilmente l’attenuarsi delle discriminazioni tra adultie giovani del ceto aristocratico, ed un minor rispetto delle classi di età. Però la circostanza più sopra ricordata,e cioè che in epoca più antica è attestato l’uso dell’incinerazione per i giovani, invita alla prudenzae fa lamentare la lacunosità dei dati archeologici in nostro possesso.
682) Il secondo aspetto considerato dalla Valenza riguarda l’attenuazione delle differenze tra aristocraticie demos a) gli adulti dell’unoe dell’altro gruppo sociale usano una protezione per le ceneri b) solo gli adulti aristocratici usano il cratere come cinerario; i giovani aristocraticie gli adulti del demos usano vasi contenitori (olla, anfora, ecc.).
69Mi chiedo a questo punto a chi si debbano attribuire i crateri attici con ossa cremate con protezione di tegole (tomba del 22-10-1888, per esempio; Diari Stevens Ι, p. 88) ο di un semplice lastrone di tufo (tomba del 20-6-1888; Diari Stevens I, p. 80), ο i crateri attici, posti come le pelikai attiche, nella nuda terra (tomba del 20-12-1888; Diari Stevens I, p. 56). Se ad aristocratici, andrebbero attribuiti sempre ad aristocratici i crateri fittili a colonnette d’argilla rossiccia acroma — tipo 19 dello Stevens —, del V sec. (non riprodotti nella tav., ma vedi Not. Sc., 1883, tav. V), certamente di fabbricazione locale, che contenevano anch’essi delle ossa cremate (tombe del 14 e 20-12-1886 — Diari Stevens I, pp. 54 e 56), ma che troviamo anche in tombe a cassa monolitica ad inumazione (tomba del 14-6-1889 — Diari Stevens I, p. 111 — non segnalata nella tav. V, con corredo della fine del V sec. costituito da due skyphoi a v. n. di fabbrica atticae due piatti — tipo 69 — anch’essi a v. n.) e che non sono altro che crateri meno pregiati di quelli dipinti.
70Mi chiedo ancora se non si debba vedere nella generalizzazione della presenza del cratere, delle anfore,e in genere dei vasi potori, nei corredi funerari, sia degli aristocratici che dei ceti medi, un fenomeno legato in primo luogo alla maggiore diffusionee consumo del vino nel corso del VI sec. a. C. — vino importato (anfore ionico-massaliote tipo 13 dello Stevens due delle quali erano usate come cinerario: tomba del 20-4-1886, cf. Diari Stevens I, p. 3 e tomba del 10-5-1886, Diari Stevens I, p. 5, vedi tav. V di Not. Sc. 1883) e prodotto anche in Campania, sicuramente a Pithecussae e nell’agro nocerino (anfora di tipo etrusco 1/2 — tipo 14 dello Stevens, vedi Not. Sc., art. cit., tav. V). Consumo propagandato attraverso gli schemi decorativi della ceramica atticae dagli ambienti etruschi3 con il vasellame potorio in bronzo, che non fece che sovrapporsi all’uso del vino nel costume funerario di antica tradizione.
71Farò solo un accenno al valore escatologico che viene solitamente dato agli strumenti della palestra nell’esegesi della ceramica attica ed italiota, come marginale elemento di riflessione sull’ideologia funeraria del mondo greco-campano, sottolineando il valore ambiguo dello striglie, tra l’altro, che serve da offerta funeraria come attestano le stele funerarie greche,e delle scene di ginnasio, in generale, considerate «sub specie aeternitatis», cioè come riunioni nell’ai di là».
72Nazarena Valenza Mele répond à cette intervention, hors séance, de Cl. Albore Livadie: «Ringrazio la dott. Claude Albore Livadie delle sue meditate osservazioni sul testo della mia relazione. Tanto più poi ringrazio l’amica Livadie dal momento che mi offre l’opportunità di alcune precisazioni metodologiche che diversamente sarebbero restate implicite nel mio scritto.
73Mi par di capire che secondo la Livadie l’evoluzione dal banchetto-sacrificio al simposio non si trova riflessa nel rituale funerario cumano tra VIII e V secolo a. C. Questo dissenso mi sembra nasca dal fatto che la Livadie non è sicura della funzione (e quindi della denominazione) da attribuire ai calderoni-cinerari di Eretriae di Cuma.
74Sugli aspetti più specifici di questo problema, che richiedono una analisie una trattazione molto articolate, mi si consenta di rimandare ad un mio prossimo lavoro sull’argomento; per ora mi limito solo ad osservare che per tutti i contenitori bronzei citati dalla Livadie nelle loro denominazioni più tradizionalie correnti (calderoni, stamnoi, ciste, situle, dinoi, bacili) il discorso è in gran parte ancora aperto come Ella stessa riconosce quando solo ipoteticamente avanza delle spiegazioni di carattere funzionale a proposito ad es. dei lebeti ο dei bacili perlinati. Mi pare comunque opportuno in via preliminare precisare due punti assai importanti nell’analisi di questo materiale, tanto più che si tratta di considerazioni metodologiche suggerite da fatti sui quali non può sussistere dubbio.
75Il problema di fronte a cui ci troviamo è quello del valore che l’aristocrazia euboica di età arcaica assegna al consumo del vinoe alla relativa suppellettile. Per poter giudicare in modo corretto questo problema, occorre non mescolare dati eterogenei come quelli provenienti da ambienti italici, che non conoscevano il vinoe che imparano a conoscerlo grazie ai Greci,e quelli provenienti da ambienti greci, come appunto quello euboico, che al vino sono abituati fin dall’età micenea.
76La presenza di vasellame destinato alla conservazionee al consumo del vino è destinata perciò ad assumere valenze diverse in ambito italico ed in ambito greco. In ambito italico il vino è un prodotto recentee di lusso consumato da aristocrazie «ellenizzanti»; in ambito greco il vino è un prodotto di largo ed inveterato consumo. Di conseguenza nell’ambiente per es. degli eroi omerici, ambiente i cui ideali costituiscono un modello per la classe dominante euboica, l’aristocratico non si qualifica come consumatore di vino ma come consumatore di carne rispetto alla massa degli uomini mangiatori di panee di farina. Perciò nella tomba Artiaco, l’anfora SOS, allusione tra l’altro al possessoe al consumo del vino, si presenta come un elemento esterno ed aggiuntivo che rompe l’originario rituale nobile euboico. L’innovazione, l’ha sottolineato B. d’Agostino, connette questo rituale a quello delle tombe principesche, in particolare di Ponte-cagnano, dove, di nuovoe simmetricamente, ricompare l’anfora vinaria, ma sempre in uno spazio diverso da quello dove si colloca la cista.
77Secondo punto di capitale importanza per poter correttamente interpretare la funzionee il valore del richiamo al consumo del vino tra VIII e V secolo, è la distinzione tra consumo del vino in quanto talee simposio. Si tratta di una distinzione che bisogna assolutamente tener presente se non si vuole calare tutta la storia del vasellame potorio connesso al vino in una specie di notte in cui tutte le vacche appaiono nere. Il simposio non è un deipnon che si consuma sdraiati su una kline; durante il deipnon il vino non ha una funzione di particolare rilievo. La differenza tra deipnon e simposio è netta proprio in relazione al consumo del vino: nel deipnon, come si è detto, esso non ha un ruolo di primo piano come invece lo ha nel simposio, che è momento successivoe diverso dal deipnon vero e proprioe connesso, non a caso, all’apparire di deuterai trapezai. In questo contesto si realizzano le condizioni per una valorizzazione «autonoma» del consumo del vinoe del connesso vasellame potorio. Questa è la realtà che trionfa nel corso del VI secolo ed è a quest’ultima che va riportato, secondo me, l’affermarsi del cratere rispetto al lebete.
78Pertanto osservazioni che si riferiscono genericamente al consumo del vino, e inoltre in ambiti non solamente greci, non possono arrecare un vero chiarimento alla questione di cui abbiamo discusso.
79Passiamo ora alle osservazioni più puntuali.
80I cinerari bronzei di VI e V che in qualche modo continuano la tradizione del calderone-cinerario, rientrano in quei fenomeni di tradizionalismoe conservatorismo che ho già segnalato sia a proposito del rituale aristocratico che «borghese».
81Per quanto riguarda la forma 19 Stevens, devo subito dire che si tratta di un vaso di fabbricazione locale di uso comune: un’olla con brevi anse a colonnetta non immediatamente assimilabile ad un cratere. È comunque bene tener presente che tale vaso è usato come cinerario solo una volta: tomba scavata il 14-12-1887 = taccuini Stevens p. 54.
82Le indicazioni date in proposito dall’amica Livadie non sono esatte.
83Il 14-12-1886 = taccuini p. 28 fu ritrovata dallo Stevens solo una «fossa egiziana», mentre per il 20 dicembre dello stesso anno si annota che si è dovuto «rinunziare all’opera iniziata (tomba «piana») per la copia d’acquae la violenza con cui sorgeva» (taccuini p. 29). Il 2 dicembre 1887 = taccuini p. 56, un’olla fu ritrovata ma in un tombone» con ossa cremate.
84Della tomba del 14-6-1889 non mi sono occupata in questa sede in quanto il contesto, dalla Livadie già attribuito alla fine del V sec., non sembra in realtà risalire più in su del 400 a. C.: siamo in un momento successivo a quello di cui mi sono occupata. Siamo cioè in epoca sannita. Ricordo inoltre che anche la tipologia della tomba si accorda alla datazione da noi data. Si tratta infatti di quella che Stevens chiama tomba piana: tombe di questo tipo sembrano comuni nel IV sec. a Cuma, ma non prima.
85Dei craterie pelikai attiche usati come cinerarie seppelliti senza alcuna protezione, citati dalla Livadie, non trovo traccia nei taccuini Stevens né in data 2-12-1888 = p. 95, né a p. 56.
86I crateri attici protetti da tegole (tomba 22-10-1888 = taccuini p. 88: cratere cinerario protetto da un tegolone poggiato su due verticali) ο da un lastrone di tufo (immagino che la Livadie si riferisca alla sepoltura del 28-6-1888 = taccuini p. 80), sono quelli a cui mi sono riferita quando ho parlato di «volgarizzazione» del ricettacolo stesso. Se poi in questi casi si debba pensare a persone di estrazione aristocratica oppure no, è allo stato dei fatti questione insolubilee del tutto secondaria. Il problema vero è inserire queste sepolture nella storia ed evoluzione del rituale aristocratico ο «borghese», che sono i termini esatti nei quali ho posto il problema nella mia relazione; domandarsi poi, una volta riconosciuto in queste sepolture una volgarizzazione del rituale aristocratico, quale sia l’esatto’pedigree’del defunto, è porre un problema, allo stato dei fatti, oltre che insolubile, superfluo».
87E. Lepore remercie ceux qui sont intervenus et donne la parole à W. Johannowsky.
88«Anch’io ho tentato in passato di determinare le principali fasi della necropoli di Cuma, soprattutto per quelle più antiche (VIII e VII sec.), meno per la fase del VI e IV sec. che presenta una certa abbondanza di tombe, ma anche, proprio per questo, la difficoltà di poter rintracciare i corredi, in quel momento; mentre invece per la fase più antica, almeno per alcune sepolture, siamo abbastanza documentati anche dal volume del Gabrici. Certo, si conosce ancora molto poco della necropoli di Cuma; soprattutto le sepolture dell’VIII secolo sono state assai poco esplorate perché si trovano ad occidente della Via Vecchia Licolae in massima parte sotto il pelo dell’acqua, il che è stato sotto certi aspetti anche un vantaggio perché non hanno potuto essere scavate; solo in pochi casi si è arrivati a questa profondità recuperando del materiale, ma è probabile che il grosso resta da scavare, sia pure con larghi mezzi. Sembra chiara la distinzione fra le tombe ad incinerazionee quelle ad inumazione, soprattutto fra quelle ad incinerazione-ricettacolo in cui, in almeno due casi, abbiamo lo scudo che copre il lebete che è normalmente il contenitore delle ceneri, magari con un altro contenitore minore. Anche per il VI secolo (almeno per la prima metà) abbiamo in qualche caso la presenza di lebeti che possiamo forse supporre, ma purtroppo non abbiamo la prova, contenitori di ceneri. Per quel che riguarda poi il V secolo, la situazione pare più complessa, così come viene fuori dalla relazione della Valenza. Condivido quanto ha detto per il periodo più antico, ma per quel che riguarda il V, francamente, avanzerei delle perplessità sul fatto, per esempio, che il cratere debba essere visto esclusivamente come retaggio della classe aristocratica, mentre l’anfora debba essere in rapporto con l’appartenenza ad una classe inferiore. Ormai siamo in un periodo in cui la ricchezza, ricchezza anche molto relativa, viene ostentata in tombe ad incinerazione. D’altra parte, come si è visto, dei crateri, anche figurati, sono stati pure usati come cinerario senza ricettacolo. Doveva esserci probabilmente una maggiore diffusione della ricchezza anche nell’ambito della classe non propriamente aristocraticae proprio questo credo abbia generato anche un certo superamento di distinzione fra le classi nell’ambito proprio del rituale funerario. È utile ricordare a tale proposito la presenza a Cuma di un sarcofago in marmo, purtroppo andato perduto, trovato nello scavo Granata, di cui abbiamo come unica testimonianza una breve descrizione,e anche una fotografia, nel volume del Gabrici; a giudicare da questa fotografia, si tratta evidentemente di un sarcofago in marmo cicladico di tipo abbastanza diffuso in Grecia (anche in Attica ne abbiamo qualche esempio), della prima metà del V sec. Il sarcofago è andato perduto perché fu preso per un sarcofago di età romana, malgrado l’esistenza di precisi dati stratigrafici. Evidentemente anche la presenza di un sarcofago in marmo, testimonianza di notevole lusso, è in rapporto da un lato con la presenza della tradizione aristocratica dell’incinerazione, dall’altro con l’affermazione economica di altre classi. D’altra parte ci sono anche altri problemi di notevole interesse che potranno venir fuori da uno scavo condotto con criteri scientifici a Cuma stessa. La mia prossima pubblicazione del materiale delle necropoli di Capua porterà, spero, un contributo per una migliore conoscenza del periodo più antico fino a tutto l’orientalizzante recente. A Capua abbiamo tombe a ricettacolo, almeno fin dalla fine del VII sec., ma contemporaneamente ο poco dopo appare anche la tomba a cassa in un unico blocco; verso la fine del VII sec. appaiono anche le tombe con coperturae poi anche a cassa in tegole. Comunque sempre nell’orientalizzante recente appare il contenitore sotto forma di vaso, spesso con cratere (si tratta anche di crateri figurati corinzi), al posto del lebete che perdura comunque fino alla fine del VII sec. ο agli inizi del VI. Questa è la documentazione che conosciamo da Capua. In ogni caso il cratere, nella maggioranza dei casi accertati, è messo nella nuda terra; molte delle tombe a ricettacolo sono state violate durante i saccheggi del secolo scorsoe quindi non ci hanno dato, salvo qualche caso eccezionale, nessun elemento, neanche di datazione. Speriamo che si possa arrivare ad affrontare il problema dello sviluppo anche di Capua, parallelamente a quello di Cumae a quello di altre necropoli della Campania. Purtroppo mancano ancora dati per gli altri centri importanti come per esempio Nola, dove pure ci sono stati saccheggi nel secolo scorso».
89M. Giangiulio revient aux problèmes de Pithécusses:
90«Innanzitutto mi sia consentito rivolgere un ringraziamento al Centre Jean Bérard per avermi offerto la possibilità di partecipare ad un convegno così stimolante. Vorrei tornare su Pitecusa, forse saldando così l’anello delle discussioni della giornata,e fare qualche osservazione, appuntando in particolare l’attenzione sull’aspetto che chiamerei della ‘comunità organizzata’, convinto come sono che questa sia una prospettiva da valorizzare. Vorrei dunque richiamare alcuni indizi che possono contribuire a chiarire questo aspetto, e poi fare qualche confronto spostandomi all’altra estremità del Mediterraneo. I dati che dalla necropoli pitecusana emergono sono noti; è comunque opportuno notare che la divisione in classi di etàe la presenza di inumazioni senza cassae senza corredo nell’ambito di recinti familiari sembrano due fatti che, come abbiamo visto oggi, si prospettano quali elementi in qualche modo tipici della società coloniale euboicae tali da rimandare, nel caso di Pitecusa, alla presenza di una compiuta strutturazione della vita della comunità, di un’articolazione sociale che appare significativa proprio perché la si coglie in una fase della ricerca che non ancora ha rivelato tombe dell’aristocrazia guerriera.
91Ulteriori elementi di riflessione mi pare offra il problema dell’artigianato, sul quale acutamente intervenne alcuni anni fa il prof. D’Agostino. Ricordiamo tutti, ad esempio, che il prof. Boardman caratterizzò la ceramica geometrica fine nel senso che qualsiasi «house-wife» euboica l’avrebbe contusa con quella di casa propria4: dunque buona, notevole qualità delle imitazioni pitecusane della ceramica tardo-geometrica euboicae corinzia; poi c’è questa’scuola figurativa’pitecusana, a partire dal famosissimo cratere del naufragio, con tutti gli altri esempi che sono emersi, caratterizzati da schemi figurativi originalie fecondi di cui intravediamo ora i riflessi nell’area centro-tirrenica: dunque presenza di una ceramica decorata, a figure, di alto livello tecnico ed artistico.
92Ora, per quanto riguarda l’artigianato, se il discorso sulla qualità è da fare a livello del destinatore, cioè di chi struttura il manufatto, e coinvolge l’apprezzamento del livello della sua perizia tecnica, è ovviamente da fare anche a livello del destinatario, nel senso che un artigianato di tale livello suppone in qualche modo un pubblico, e delle utilizzazioni in loco di questo tipo di manufatto, dato che non si ipotizzerà, anche per il ritrovamento in necropoli, la produzione per esportazione, di cui non abbiamo grossi indizi.
93Pure interessante è la presenza di quella che risulta la più antica firma di vasaio conosciuta. Sembra di poter dire che a Pitecusa si sia in qualche modo riprodotta quella situazione — illustrata ora dal Prof. Mele5 — che vede, insieme a forme di distacco degli artigiani dalle casate aristocratiche, lo sviluppo, all’interno del mondo degli artigiani, di momenti competitivie di’scatti’dell’autocoscienza professionale. Ma pare evidente che una situazione siffatta implica pur sempre l’inserimento del mondo dell’artigiano in un contesto più ampioe variegato, tale da consentire l’innescarsi della dinamica orgoglio professionale — riconoscimento da parte della committenza. In altri termini, questa sembra una realtà consona non tanto ad una comunità composta esclusivamente di artigianie commercianti, quanto ad una comunità stanziale dall’organizzazione complessa.
94Altro elemento da tener presente è la diffusione della tecnica scrittoria. Ora, questa diffusione testimonia da un lato un livello di conoscenzee di capacità tecniche da parte degli articolatori del messaggio; ma d’altra parte presuppone la ricezione, vale a dire l’uso sociale della scrittura, che sarà certamente embrionale, ma che tuttavia è presentee ha delle premesse che Goodye Watt in un noto articolo hanno acutamente sottolineato6. Ed è qui che entra nel discorso la coppa di Nestore. I dati salienti che in questo contesto mi preme sottolineare sono senza dubbio l’esecuzione, la padronanza del sistema di incisione, l’osservazione accurata della coincidenza tra fine del versoe fine della linea inscritta, la padronanza metrica — che è un dato che meriterebbe di essere analizzato a fondo —, la sensibilità prosodica — penso al raddoppiamento del lambda di ϰαλλιστεφάνο che aveva fatto pensare ad una incisione successiva all’epoca della produzione del vaso —7; e questo per quanto riguarda il destinatore del messaggio. D’altra parte un epigramma come quello della coppa di Nestore ci fa pensare a quale doveva essere la ‘cultura’ del destinatario; e qui si potrà cogliere quella che vedrei come una dimestichezza disincantata con l’epos, continuando a riconoscere il senso dell’epigrafe nella contrapposizione scherzosa tra la coppa di Nestoree la coppa in cui si bevee da cui si promettono meraviglie8. Significativamente qui la tradizione epica non appare tanto come ‘enciclopedia tradizionale’ quanto già, sia pure solo in una sua parte, quale il quadro di riferimento per un gioco raffinato di allusionie di ‘pointes’ che verrebbe fatto di collocare all’interno di un rapporto tra ospitee convitato. C’è poi il problema dell’attività metallurgica rivolta ad oggetti di pregio; se ci poniamo nell’ottica, come in effetti pare ci si debba porre, di interpretazione dei χρυσεἷα pitecusani come il riflesso, sia pure mediato, della coscienza coloniale di un’attività di oreficeria in età orientalizzante, dovremmo, anche per questa, porci il problema della utilizzazione di questa produzione, probabilmente sia per una destinazione esterna che per una destinazione interna;e con questo torneremmo al nodo della nostra impostazione, dovendo pensare ad un’articolazione della società sufficiente a consentire momenti di uso’simbolico’ο di prestigio delle scarsee pregiate risorse metalliche.
95La provvisoria suggestione che trarrei da quanto sopra accennato è che tutto ciò che sappiamo sulla’cultura’, sull’artigianatoe sul commercio pitecusani, così come i dati archeologici della necropolie topografici dell’insediamento di Monte Vico, nonché i dati della tradizione letteraria (la stasis, la supremazia sul mare), ci rimandano all’esistenza di un momento di vita associata articolata, complessa, fondata su di un importante fatto stanziale, che riesce ad attingere ai più alti standard di vita materialee culturale degli insediamenti della madrepatriae che appare aver goduto di grandi potenzialità di sviluppoe crisi che non sembrano essere caratteristiche di altre strutture esclusivamente finalizzate allo scambio commercialee contenute in tale ambito specifico.
96Può essere ora utile provare a fare un salto all’altra estremità del Mediterraneo, ad Al Mina, perché spesso si tende ad appiattire sulla lunga rotta Al Mina-Pitecusa la specificità di quest’ultima. Ora, ad Al Mina noi non conosciamo necropoli, e neppure riscontriamo quei fenomeni socio-culturali riscontrati a Pitecusa; troviamo invece un peculiare rapporto con la situazione locale, in ragione del quale l’elemento greco si dispone in una posizione marginalee non certo egemone: significativamente la poca ceramica greca ivi prodotta si rifà ai modi di quella orientale che vi perveniva. Ad Al Mina possiamo riscontrare quasi tutti quegli elementi che erano stati alla base della delineazione del concetto polanyiano di port of trade9: sostanzialmente, non solo il luogo di scambio, ma il commercio amministrato, la posizione di frontiera, la subalternità nei confronti di una grossa entità territorialee soprattutto un certo tipo di rapporto, perlomeno di’collateralità’nei confronti dell’elemento indigeno. A Pitecusa non troviamo tutto questo; credo pertanto che non si possa descrivere la realtà pitecusana univocamente per mezzo del concetto di port of trade·, e tanto meno si possa usare il termine, che poi allude ad un preciso schema di pensiero, di comptoir, ο port of call. Queste funzioni possono essere state inglobate, a mio parere, nell’ambito, all’interno, di una comunità di cui si intravede una organizzazione complessa, tale da non suggerire di identificarne la natura in una di tipo esclusivamente emporico. Ora secondo me si deve stare in qualche modo assai attenti, alla luce di quel che ho cercato di dire, a schiacciare il fatto pitecusano in una prospettiva epigonale rispetto alla logica precoloniale: cioè, indubbiamente questo fenomeno si muove sui binari che caratterizzano il movimento precoloniale, ma quello che sembra da sottolineare è che il fatto stanziale, con tutto ciò che di organizzativo necessariamente comporta, è, in qualche modo, non un prodotto minore ma un momento forte, direi un salto di qualità rispetto a questa stessa logica precoloniale; perché, se il momento precoloniale non è solo prospezione ma media anche delle tensioni acquisitive, allora il fatto stanziale pitecusano, se deve avere assorbito, deve anche indubbiamente aver potenziatoe strutturato questi momenti precedenti, in una maniera che rende non di frattura il rapporto con la successiva fase agraria della colonizzazione, intendo dire Cuma. Cioè, probabilmente, Cuma, vi si accennava anche prima, è ancora una volta fatto di frontiera,e di cerniera, per così dire;e non sappiamo quanto la Cuma di VIII secolo, pur con questa forte presenza aristocratica che intravediamo, non ereditasse anche qui degli aspetti di apertura esterna, di funzione’commerciale’di Pitecusa.
97Sintetizzando: da un lato mi pare di intravedere questa comunità strutturata; dall’altro mi sembra che il rapporto col momento precoloniale sia di debito, ma anche di accrescimento quantitativoe di strutturazione qualitativa; da un altro ancora, infine, mi pare che, quanto al rapporto con Cuma, si debba vedere Pitecusa non solo come l’erede, come l’epigona di una logica precoloniale, ma anche in qualche modo come la prefiguratrice di un’esperienza stanziale che poi a Cuma dovette trovare la sua codificazione. E non so se poi Pitecusa possa rimanere un unicum, perché qui il discorso si fa lungoe non lo faccio, ma probabilmente si deve guardare all’Oriente, alle colonie pontiche, dove comunità organizzate poi diventano polis, pur ospitando dei momenti improntati fortemente all’artigianato, allo scambio, all’emporia».
98E. Lepore remercie Giangiulio «per aver fatto un po’ una sutura tra stamattinae questo momento; ha fatto delle osservazioni molto interessanti. Credo che la nozione di società complessa che lui traeva in fondo a proposito della coppa di Nestore dai modelli di Goody-Watt possa essere applicata,e non solo in senso culturale, linguisticoe scrittorio, ma anche in senso più ampio strutturale;e tutto quello che ha detto dopo mi pare che risponda molto bene a questo modello. È inutile dire che in un rappresentante di Pisa mi aspettavo questa dinamica che non ignora modelli che Momigliano ha illustrato a Pisa da molto tempo, anche in rapporto con questo studio dell’epos, al quale Di Donatoe altri rappresentanti di Pisa hanno portato dei contributi. Mi pare molto interessante l’aver insistito sul momento amministrativo, diciamo, di questa comunità strutturata,e vorrei dire che a parte le colonie pontiche, modelli vengono anche dall’estremo occidente mediterraneo, perché il passaggio da emporio ad apoikiai sotto il patronato massaliota si può ripresentare per alcune delle comunità focee in Iberia,e anche ìl c’è dietro una forte potenza strutturante, come ancora quella metropolitana per le colonie euboiche che può spiegare quel passaggio ο per lo meno spiegare dei momenti di accelerazione di questa evoluzione».
99N. Valenza Mele conclut la discussion en répondant aux questions soulevées par B. D’Agostino.
100«A B. D’Agostino, che ringrazio per aver discusso con me il mio lavoro, la risposta che posso dare è questa. Siamo d’accordo sul fatto che la documentazione offerta dalla necropoli di Cuma non è completa in tutti i suoi elementi, da un lato a causa delle deficienze di scavo, dall’altro perché, se facciamo un calcolo partendo dalla battaglia di Cuma, abbiamo 600 cavalierie 4.500 opliti, cioè un contingente di circa 5.100 persone, per Cuma e chora, nel 525: ma non solo non troviamo 5.100 tombe a Cuma in questo periodo, ma non le troviamo per tutti i secoli dell’età greca. Quindi, quello che resta è solo un frammento rispetto a quella che è stata la realtà. Comunque alcune cose appaiono evidenti dallo studio dei taccuini Stevens. Primo punto su cui non è d’accordo B. D’Agostino: l’uniformità di VIII-VII sec. Io non mi sono occupata in particolare di VIII e VII e ho fatto semplicemente riferimento a studi precedenti (quello di CI. Albore-Livadiee di Buchner per Cumae di Buchnere Ridgway per Pithecusa). Proprio tali scritti mi sembrano confermare questa uniformità; noi troviamo comunque a Ischia, Cuma ed Eretria una divisione per «classes d’âge» tra inumatie incinerati. Questo è un fatto che troviamo comunque in tutto il mondo euboico, da quello che mi risulta, in questo periodo. Seconda cosa, non troviamo a Ischia l’aristocrazia, i principi, troviamo però inumati giovani in cassae adulti incinerati: è un dato acquisito per quella che noi chiamiamo ‘borghesia’. Da Eretria proviene il terzo dato: non ci sono solo incinerati in nuda terra, ma ci sono incinerati in ricettacoloe lebete.
101Queste stesse cose noi le ritroviamo a Cuma per l’VIII e il VII sec. e non troviamo altri tipi di sepoltura: troviamo l’inumazione in cassa lignea; troviamo l’incinerazione in nuda terra; troviamo l’incinerazione in ricettacoloe lebete con assenza di ceramicae corredo limitato a oggetti di metallo; ora tutto questo presenta secondo me un mondo uniforme per Pithecusa, Cuma ed Eretria.
102D’Agostino parla della tomba 104 e Cuma la definisce città di frontiera. Io ho una idea un po’diversa della tomba 104, adesso. A Cuma troviamo 11 tombe ad incinerazione, in cui elementi costanti sono ricettacolo litico, calderone, assenza di corredo ceramico, solamente corredo in metallo, quindi oggetti di ornamento personalee armi, in alcuni casi, per quelle prettamente maschili; tutto questo mi sembra identico a quello che si trova ad Eretria. Ci sono delle differenze ad Eretria: la copertura invece di essere fatta con lo scudo è fatta ad es. con un blocco di piombo; comunque alcuni punti restano fermi, cioè il ricettacolo, il calderone, l’assenza di corredo ceramico, le armi in tombe maschili.
103La tomba 104 indubbiamente è un’eccezione, ma una tomba che si distacca su undici non dà l’idea di Cuma città di frontiera. In un’uniformità di costume funerario, di rito funerario, c’è un’eccezione, la tomba 104, con certi elementi che chiamerei di ‘cafoneria’: gli oggetti — simboli di status — maggiorati; non una ricchezza di oggetti ripetuti ma un accumulo di simboli di status per cui effettivamente questa tomba si distingue dalle altree si avvicina alle tombe dei ‘principi’ studiate dal D’Agostino. Però questo non sta ad indicare nella maniera più assoluta che sia questo il modo di sepoltura tipico ο comunque normale a Cuma; rappresenta soltanto l’eccezione su undici tombe che invece si ricollegano direttamente all’ideale eroico di Eretria. In conclusione mi sembra evidente che a Cuma, a parte questo caso abbastanza atipico della tomba 104, non si trovano assolutamente altri riti di sepoltura che siano diversi da quelli presenti a Ischia ed Eretria con divisioni per ‘classes d’âge’ e con divisioni per stato sociale.
104Scendendo nel tempo, anche se la documentazione dello Stevens è monca da molti punti di vista, per cui molti valori della necropoli sono andati perduti, si possono evidenziare dei tipi abbastanza caratterizzati di sepolture. L’inumazione, così come era stata praticata a Ischia, si sdoppia; la cassa lignea diventa cassa monolitae compaiono gli inumati in tegole con vasi potorie privi di oggetti personali; gli inumati in cassa monolita presentano invece vasi contenitori. Non sono in tutte le tombe, però la presenza di essi solo nelle tombe a cassa monolita le differenzia nettamente da quelle a tegole; inoltre in questi casi abbiamo oggetti di ornamento personalee presenza dello striglie. Questo risulta abbastanza evidente dalla documentazione. Non c’è una differenziazione, ma solo uno sdoppiamento del rito funerario rispetto al precedente. Uno sdoppiamento nel rituale dei giovani; per me sono i giovani e non vedo perché si dovrebbe pensare che siano anche adulti, tanto più che v’è una testimonianza per l’età di Aristodemo, che pone il passaggio all’età adulta a 20 anni, e le casse monolite di m. 2,15, misura a cui arrivano le tombe di Cuma, non meravigliano più. Se passiamo invece all’incinerazione troviamo incinerati in vaso. È la prima volta per quel che mi risulta che compare a Cuma una cosa del genere. Questi vasi, che non sono crateri, presentano comunque assenza di ricettacolo, presenza di corredo ceramico, assenza di quello che io considero un simbolo di status, cioè lo striglie, emblema del mondo ginnicoe militare.
105A questo punto il confronto più diretto che mi viene, data la presenza del corredo ceramico,e l’assenza del ricettacolo, è, ritornando ai rituali precedenti, l’incinerazione in nuda terra. La mia è un’ipotesi, però mi sembra abbastanza fondata nella linea di continuità dall’VIII-VII al VI.
106Troviamo poi gli incinerati in ricettacolo, in questo ricettacolo che si articola in tante forme; abbiamo il ricettacolo tipico, la cassa monolita usata come ricettacolo, il cratere, Per rispondere a Johannowsky, non vedo perché si debba considerare il cratere come simbolo di ricchezza. Il fatto che in una necropoli il cratere compaia solamente in alcune tombe abbastanza tipiche, cioè nelle tombe che si vogliono comunque riportare all’ideale aristocratico, data la presenza del ricettacolo — è un conservatorismo ancora abbastanza preciso — mi lascia perplessa, se non diamo anche al cratere un valore simbolico; tanto più che questi morti che vogliono ricollegarsi all’ideale aristocratico non hanno neanche più le armi, non hanno nessun altro segno distintivo se non il ricettacolo che è ormai una forma standardizzata da tre secoli, per questo tipo di classe sociale. Questa presenza costante del cratere — abbiamo soltanto un caso di pelike, come risulta dallo Stevens, da mettere probabilmente in relazione con l’influenza ateniese a questo punto abbastanza ovvia — non è solamente un simbolo di ricchezza perché allora il cratere l’avremmo trovato anche presso gli inumati in cassa monolita, per i quali troviamo altri vasi figurati che sono certamente ricchie troviamo oggetti personali che sono certamente simbolo di ricchezza, ma non troviamo il cratere. Mi sembra quindi evidente che a questa forma di vaso si dà un valore particolare. Johannowsky aveva anche parlato del sarcofago di marmo cui avevo fatto cenno anch’ioe che è stato recentemente ristudiato in Festschrift Matz e ricollegato appunto ai sarcofagi di tipo samio in marmo; anche questo dà un’idea di ricchezza, però è da considerare insieme alle casse monolite che sono quelle che già, per me, rappresentano l’aristocrazia. Esso è un unicum ed avvalora l’ipotesi che comunque gli inumati in cassa lapidea sono di ceto elevato. Quanto al fatto che crateri con resti di incinerazione compaiono a Capua anche primae non siano posti, come a Cuma, in ricettacolo, interessa ovviamente la storia interna di questa altra necropoli. Diversa mi sembra la situazione per quelle tombe a ricettacolo che per chiari segni tendono a ricollegarsi all’aristocrazia euboica. In questi casi esse non offrono solo interessanti prove nell’ambito capuano di volute relazioni con la polis greca a livello sociale elevato, ma anche il preciso riscontro col rituale euboico può servire a sua volta a riempire forse dei vuoti nella documentazione cumana.
107Quanto al problema delle tombe femminili ο maschili che poneva D’Agostino, non vorrei parlarne io. Io parto da quello che ne hanno scritto G. Buchnere Cl. Livadie; certamente il numero ο il tipo di fibule possono anche non avere alcun significato: in certi ambiti non significano immediatamente donna. Però nella documentazione di Pithecusa sembra abbastanza regolare questo fatto; cioè lì dove lo studio si è potuto fare, anche in base allo scheletro, si è notato che le fibule a drago sono fibule maschilie la presenza di due fibule ad arco semplice ο a sanguisuga indica tombe femminili. Se ritrovo questa stessa situazione nelle tombe di Cuma, proprio perché siamo agli inizi della colonia, siamo in un ambito ben circoscritto del mondo euboicoe Pithecusae Cuma sono strettamente legate,e non andrei a cercare altri esempi lontano, ma mi atterrei all’esempio di Ischia, che sembra dare una caratterizzazione abbastanza precisa alle fìbule in senso maschile ο femminile.
108Seconda cosa: il problema dell’assenza delle armi e dello scudo nell’VIII e nel VII. Se noi guardiamo le tombe di Eretria, vediamo che come copertura del lebete lo scudo non appare; compare invece una chiusura qualsiasi di piomboe quello che le caratterizza, semmai, sono le armi. Quindi la connessione significativa è proprio tra lebete ed armi per identificare le tombe maschili, il coperchio non ha nessuna importanza. A Cuma alcune volte troviamo lo scudo, ma da parata. Lo intenderei come simbolo di statuse non altro, mentre privilegerei il fatto di aver trovato in associazione delle fibule che nel mondo ischitano identificano le tombe come maschili ο femminili».
Notes de bas de page
1 Su questi problemi, cfr. le opinioni di C. Albore Livadie, Remarques sur un groupe de tombes de Cumes, in Contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes, Napoli, 1975, pp. 53 ss. ; cfr. anche B. d’Agostino, MEFR, 82, 1970, p. 578, 600 ss.
2 Scavo A. Rathje (1976-80), dell’Accademia di Danimarca; il materiale è datato al periodo IV A (730/20-640/30) — IV Β (640/30-580), cf. il catalogo della mostra di Ficana (in corso di stampa).
3 Un’anfora etrusca (tipo 1/2) con spalla convessa, ricoperta da un’ingubbiatura diluita che ricorda le anfore alla «brosse», con iscrizione dipinta sulla spalla con vernice bruno-rossiccia e sottolineata con una linea orizzontale dello stesso colore «Mi Vetes Xielas», proviene dalla necropoli sud-occidentale di Calatia (recupero da scavo clandestino, 1979). È assai simile all’anfora vulcente con iscrizione di dono proveniente dalla tomba Hercle 59 e conservata nei depositi dell’Antiquarium di Vulci. I pochi oggetti ceramici recuperati, e che appartengono, come sembra accertato, alla medesima tomba, permettono di inquadrarla, tra l’ultimo quarto del VII sec. ed il principio del VI sec. Altre anfore affini dall’agro vulcente (Montalto di Castro?), da Tarquinia ed un’ultima conservata nel Museo Gregoriano Etrusco, di provenienza incerta, rientrano in una precisa classe di recipienti per vino (tina) oggetto di dono «propagandistico». L’anfora di Calatia testimonia chiaramente il precoce interesse dei produttori etruschi per la Campania. Vedi ora G. Colonna, Studi Etruschi, 1981 (in stampa).
4 V. Euboean Pottery in West and East, DArch, III, 1969, pp. 103-14, p. 111.
5 Cfr. Il commercio greco arcaico. Prexis ed emporie, Napoli, 1979, pp. 70-71.
6 J. Goody-T. Watt, The Consequences of Literacy, CSSH, V, 1963, pp. 304-45.
7 Per l’ipotesi, ormai rigettata, v. R. Carpenter, AJPh, LXXXIV, 1963, pp. 83-5.
8 In questo senso v. ora P. A. Hansen, Pithecusan Humour, Glotta, LIV, 1976, pp. 25-44.
9 V. Κ. Polanyi, Ports of Trade in Early Societies, The Journ. of Econ. Hist., XXIII, 1963, pp. 30-45.
Notes de fin
1 J'exprime ma reconnaissance à Maria Francesca Buonaiuto et à Marina Pierobon pour leur aide précieuse et efficace pour l'élaboration de ces Actes et des index.
2 Bien qu'il s'agisse de propos qui ont mûri en réalité après le colloque, il nous a semblé utile et fructueux d'intégrer à sa place logique, à l'intérieur de la discussion, cette contribution (cfr. infra p. 143-148) qui est la preuve de l'intérêt suscité par la communication de N. Valenza Mele. Pour la même raison nous avons donc inséré la réponse de l'auteur concerné (cfr. infra, p. 148-150).
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Recherches sur les cultes grecs et l’Occident, 2
Ettore Lepore, Jean-Pierre Vernant, Françoise Frontisi-Ducroux et al.
1984
Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes
Centre Jean Bérard (dir.)
1982
La céramique grecque ou de tradition grecque au VIIIe siècle en Italie centrale et méridionale
Centre Jean Bérard (dir.)
1982
Ricerche sulla protostoria della Sibaritide, 1
Pier Giovanni Guzzo, Renato Peroni, Giovanna Bergonzi et al.
1982
Ricerche sulla protostoria della Sibaritide, 2
Giovanna Bergonzi, Vittoria Buffa, Andrea Cardarelli et al.
1982
Il tempio di Afrodite di Akrai
Recherches sur les cultes grecs et l'Occident, 3
Luigi Bernabò Brea
1986