Cuma: una produzione di ceramica a vernice rossa interna
p. 225-233
Texte intégral
1Desidero cominciare questo intervento ringraziando innanzitutto gli organizzatori del convegno ed il Soprintendente prof. Stefano De Caro per avermi permesso di condurre questo studio; il dott. Paolo Caputo, funzionario responsabile per il territorio di Cuma, per la sua grande disponibilità; l’architetto M. Calcaterra che ha eseguito i lucidi a china che qui si presentano. La ricerca ha avuto inizio in occasione del riordino e della schedatura sistematica del materiale presente nel deposito di Villetta Vergiliana a Cuma.
2La presenza a Cuma, in un recupero proveniente dall’area dell’ingresso orientale della “Crypta Romana”, di scarti di fabbricazione di quei tegami di ceramica comune romana più comunemente detti “a vernice rossa interna” permette di attribuire a questo centro una produzione di tale ceramica in un periodo compreso tra la tarda età repubblicana ed i primi due secoli dell’età imperiale. È quindi necessario esaminare questi reperti sia per una maggiore definizione di questa produzione, sia per una più precisa determinazione cronologica.
3Il gruppo di reperti studiati è stato rinvenuto in deposito con la seguente indicazione: “Sotto scala accesso est Crypta Romana” ed “Accesso est Crypta Romana”, non corredata da alcun altro dato relativo al recupero. Ciò non ha consentito di precisare le circostanze del rinvenimento e neppure le ricerche eseguite presso l’archivio della Soprintendenza hanno dato frutti.
4In base ai dati disponibili si ritiene comunque che questo recupero non sia avvenuto in anni recenti. Quindi per tali materiali la determinazione della cronologia non può basarsi solo sui dati “interni”, relativi cioè al contesto di rinvenimento ma deve necessariamente trovare una verifica nel confronto con realtà “esterne”. Si è ritenuto prudente pertanto non usare i dati derivati dalle associazioni nel medesimo contesto di rinvenimento, per limitare meglio la cronologia della produzione a vernice rossa interna (= VRI) di Cuma. Si segna la comunque che tra la ceramica fine associata ai tegami sono presenti: due coppe in sigillata italica con bollo in planta pedis L(ucius) RASIN(ius) PIS(anus), databili tra l’età tiberiana e l’età flavia; un frammento di piatto in sigillata orientale B2, databile tra il 75 ed il 150 d.C.; un frammento di coppa carenata Hayes 8A in sigillata chiara A’, databile tra il 90 e la metà del II d.C., un frammento di Dressel 6 del I secolo d.C. ed un paio di frammenti di lucerne con becco a volute forse di età augustea, ma vi sono anche materiali di cronologia incerta.
5Tuttavia l’omogeneità tipologica e tecnica, di argilla, vernice e fattura, riscontrata negli esemplari esaminati, oltre che derivare dalla standardizzazione propria delle produzioni di ceramica d’uso comune sembra indicare anche una realizzazione contemporanea degli stessi.
6La definizione “Pompejanisch-rote Platten” (Loeschcke 1909, 271) e l’ipotesi di un’origine italiana di questa (Ritterling 1913, 378) risalgono agli inizi di questo secolo ma solo negli anni’70 quest’ipotesi ricevette la dovuta attenzione (Goudineau 1970; Vegas 1973), pur se contemporaneamente andò definendosi meglio l’idea dell’esistenza di molteplici centri di produzione. Di conseguenza emerse la necessità di individuare le fornaci ο le differenze nella tipologia e nelle argille adoperate per potere affrontare concretamente i problemi di diffusione e di distribuzione come suggerisce Peacock (Peacock 1977, 147-148) il quale però sembra lasciarsi trasportare dalla suggestione del nome e propende per un’origine pompeiana all’interno dell’ipotesi campana per la produzione di tale classe.
7Dei 148 frammenti attribuibili a questa classe, 60 sono gli esemplari esaminati in dettaglio che, seppure non integri, conservano almeno l’intero profilo ο particolari ritenuti significativi.
8Non sono stati considerati in questa sede i numerosi coperchi a bordo ingrossato e con pareti arrotondate ο tese che formano “servizio” con i tegami ma che in nessun caso presentano vernice all’interno1.
9Sono stati distinti due tipi di argilla che sono tuttavia molto simili tra loro.
10Il primo tipo di argilla, I (CY13), è di colore arancio (M. 2.5YR 4/8 yellowish red), di tessitura abbastanza omogenea, a frattura irregolare, ruvida al tatto, di consistenza dura e porosa. Presenta molti inclusi vulcanici neri, tra cui pirosseni, vetro vulcanico, inclusi di feldspati (qualche incluso di biotite e di sanidino) oltre che di plagioclasio, qualcuno di quarzo, alcune segregazioni di ferro, rare segregazioni di carbonato di calcio.
11Sono realizzati in questa argilla 22 dei 60 esemplari esaminati pari al 37% ca. del totale (fig. 1, n. 1-6; fig. 2, n. 16-26; fig. 3, n. 41-45).
12Il secondo tipo di argilla, II (CY14), è di colore marrone scuro (M. 5YR 5/4 reddish brown), a frattura irregolare, ruvida al tatto, di consistenza tenera e porosa. Presenta inclusi vulcanici neri e marroni, tra cui alcuni pirosseni, inclusi di feldspati, di quarzo, qualche plagioclasio e qualche sanidino, nonché diversi inclusi di carbonato di calcio.
Il tipo I in particolare sembra corrispondere alla Fabric 1 di Peacock (1977, 149-150), per la quale l’autore propone un’origine campana ed in particolare pompeiana. Alla luce dei nuovi dati di Cuma, pur non potendo escludere che nella zona vesuviana vi fossero centri di produzione di tale ceramica, sinora non attestati, si può forse considerare possibile un’origine cumana della Fabric 1 di Peacock, tanto più che i tegami a vernice rossa interna continuano ad essere esportati ancora nel II secolo d.C., dopo la distruzione dei centri vesuviani2 . Potrebbero essere quindi di produzione cumana le attestazioni in Britannia e forse anche quelle sul limes renano, unici esempi di questa classe esportati dall’Italia centro-meridionale verso le regioni occidentali dell’impero. Tuttavia riguardo le implicazioni a livello storico ed economico che questa identificazione potrebbe comportare, si preferisce attendere più prudentemente i risultati definitivi delle analisi petrologiche e chimiche tutt’ora in corso da parte del dott. F. Terribile3.
Il colore della vernice interna varia di poco nelle tonalità del “rosso pompeiano”, dal rosso scuro tendente al marrone al rosso brillante (M. 10 R 4/6 - 4/8). Questa vernice è per lo più liscia ed opaca, spessa, compatta, omogenea e, nella maggior parte dei casi, è uniformemente distribuita sulla superficie interna del recipiente fino a comprendere l’orlo esterno e spesso è stesa a strisce che seguono l’andamento del tornio. I tegami recano in alcuni casi (ca. il 13,5% del totale) tracce del loro uso come recipienti da cottura sulla parete esterna, che era immediatamente a contatto con il fuoco, e perciò non verniciata.
La rifinitura è abbastanza curata e quasi tutti i tegami (tranne nove: fig. 1, n. 5-6, 8-11; fig. 2, n. 34; fig. 3, n. 47, 52, 54) hanno sul fondo interno della vasca una decorazione di solcature circolari concentriche, incise singolarmente oppure a gruppi di due e tre. Esse sono tra loro variamente combinate e rese. In un solo caso la vernice e le solcature si trovano sul fondo esterno oltre che all’interno (fig. 3, n. 53).
Le dimensioni dei tegami variano sensibilmente senza che questo possa costituire un elemento tipologico discriminante.
Con le due argille sopra descritte sono realizzati tre tipi di recipienti, al primo dei quali afferisce la gran parte del materiale in esame.
Il primo tipo consiste di tegami con orlo c.d. piano, indistinto, assottigliato ο più generalmente arrotondato, vasca bassa e fondo piatto ο appena convesso. Il fondo in alcuni tegami presenta un leggero inspessimento al bordo interno, presso la parete. Il suo profilo mostra una certa variabilità, sfumando in modo tale che si è preferito distinguere delle semplici varietà mantenendole unite in un solo tipo.
In base al profilo dell’orlo e della vasca si distinguono tre varietà.
Gli esemplari di questo tipo e le tre varietà distinte sono realizzati sia nell’argilla I sia nell’argilla II.
Tale tipo (tipo I), corrispondente prevalentemente alle forme Goudineau 28-30 (Goudineau 1970, 168, pl. II) ed al tipo 15 c Vegas (Vegas 1973, fig. 16,6,9), è quello più ampiamente diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e nelle province romane. In questa sede, per brevità si citano i confronti presenti a Luni, con il tipo 3 (Cavalieri Manasse 1973, 280-281, tav. 59, 6) vicino al tipo IA e IB di Cuma e databile tra I sec. a.C. e I sec. d.C., e soprattutto con il tipo 5 (ibid., 280-281, tav. 59, 7-7-9; Cavalieri Manasse 1977, 116, tav. 82, 11-12) vicino al tipo IC di Cuma e databile tra la seconda metà del I sec. a.C. e l’inizio del III sec. d.C., ad Ostia, dove in particolare si nota che la varietà A è più vicina al tipo Ostia II, 340 (Giannelli 1970, 89, tav. XX, 340) mentre la varietà Β è più vicina al tipo Ostia III, 213 (Giovannini 1973, 407, tav. XXXII, 213), datati tra il I sec. d.C. e la prima metà del III secolo d.C., ed in Campania con i siti vesuviani e flegrei. È attestato infatti a Pompei (Di Giovanni 1989-1990, tipo 21 11)4, sia nei Granai che dallo scavo della Regio VI insula 5 (Volonté 1984, 135-137, tav. 86, specialmente nn. 3-4), ma qui, a differenza che a Cuma, sembra maggiormente attestata la varietà A, ad Ercolano (Scatozza Höricht 1988, 83-84, tav. I.1 corrispondente alla varietà A di Cuma e tav. II, 5-6 corrispondenti alla varietà Β) ed a Stabiae (De Caro 1988, 56, fig. 76, 8), dove sembra maggiormente attestata la varietà A e non sembra esservi la varietà C; è attestato ancora a Pozzuoli (Cratere Senga e Rione Terra ad esempio: Garcea 1984, 315, fig. VI,5) ed a Napoli (v. ad es. Morselli 1987, 51, 184-185, fig. 31, B74). In base a questi confronti l’arco cronologico di questo tipo è compreso tra la seconda metà del I sec. a.C. e la fine del II/inizi del III sec. d.C. (con maggiore diffusione tra l’età flavia ed i primi decenni del II d.C.). Sembra inoltre che le varietà ΙΑ e IB siano maggiormente diffuse in età augustea e fino al I secolo d.C. mentre la varietà C appartenga ad un momento più avanzato della produzione, diffuso dall’età di Claudio fino agli inizi del III secolo d.C. (Celuzza 1985, 107; Goudineau 1970, 30-31, tav. II, 28-29, tav. III, 33).
Tale forma, attestata a Pompei anche da esemplari non verniciati, viene poi sostituita agli inizi del III secolo d.C. dalla forma 9A in sigillata africana a strisce e senza strisce.
Il secondo tipo di tegame (tipo II: fig. 4, n. 55-58) ha l’orlo ingrossato all’esterno, vasca alta e profonda a pareti arrotondate (fig. 4, n. 56-58) ο tese (fig. 4, n. 55) con leggera carena poco sotto l’orlo. Due esemplari (fig. 4, n. 56-57) presentano piccole pseudo anse a maniglia atrofizzate, impostate appena sotto l’orlo. Si deve osservare che questo secondo tipo è realizzato esclusivamente nell’argilla II.
Per la sua diffusione si rimanda a quanto puntualmente esposto in questa stessa sede da Vincenzo Di Giovanni (v. supra). Qui è utile soltanto richiamare i confronti con Pompei, dove il tipo è attestato anche senza la vernice all’interno (Scavi per l’impianto elettrico), Ercolano (Scatozza Hôricht 1988, 84, tav. II.9), e Pozzuoli (Via Ragnisco)5. Per la cronologia un dato stratigrafico significativo forniscono gli esemplari di Ostia, rinvenuti in strati databili tra il 90 ed il 160 d.C. (Giovannini 1973, 407-408, tavv. XXXVI, 257; XLI, 319).
Il terzo tipo di tegame (tipo III: fig. 4, n. 59) presenta orlo appena ingrossato all’esterno, vasca bassa e poco profonda a pareti tese. L’unico esemplare di questo tipo è realizzato nell’argilla II.
Esso trova un confronto con un esemplare da Napoli (Morselli 1987, 36-37, fig. 31, cat. B294) e con uno simile da Settefinestre (Celuzza 1985, 108, fig. 31.2), datati tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del III d.C.
Di dimensioni almeno doppie rispetto a quelle più grandi sinora considerate è il n. 60 a fig. 10 che rientrerebbe nel tipo I, ma che si è preferito tenere distinto da questo proprio in conseguenza della sua grandezza. Di dimensioni analoghe è un esemplare da Rione Terra a Pozzuoli6.
Solo tre esemplari (pari al 5% del totale) presentano numerali: I (fig. 3, n. 44), II (fig. 3, n. 51) ο lettere: KI (fig. 3, n. 54), incisi nell’argilla fresca prima della cottura presso l’estremità del fondo esterno. Tale proporzione rispecchia quella conosciuta in altri siti, dove tali segni sembrano pochi (ad es. Pompei: Di Giovanni 1989-1990; Ercolano: Scatozza Höricht 1988). Il significato di queste sigle viene variamente interpretato e forse si può mettere in rapporto, come si è visto anche stamane, col processo di produzione ed il controllo quantitativo della merce (numerali) ο della manodopera servile (lettere).
A Cuma sono presenti scarti di fabbricazione dei tegami, più ο meno deformati da una cattiva cottura i quali non avrebbero potuto essere adoperati. Essi appartengono a tutte le tre varietà del tipo I:
Gli scarti di fabbricazione presentati sembrano in definitiva fornire una prova archeologica per l’identificazione delle “cumanae testae”, di cui parlano le fonti letterarie (tra gli altri si ricordino: Apicio - ad es. IV, 2, II, 138-; Marziale, XIV, 114; Stazio, Silvae IV, 9, 43; Tibullo, II, 3, 47), con i tegami a vernice rossa interna, proposta da Pucci (1975, 368-370). Purtuttavia restano significative le distinzioni nell’uso della terminologia riscontrate tra i vari autori antichi, che forse indicano in parte anche produzioni di ceramica fine da mensa, attestate a Cuma da matrici (Soricelli 1982). Bisogna comunque notare che tra i tipi di tegami a vernice rossa interna attestati nel contesto cumano in esame, non sembrano presenti, come si è visto, proprio quelli comunemente ritenuti i più antichi di questa classe, il tipo con orlo ingrossato, a mandorla e con innesti per il coperchio (Goudineau 1970, 180). La limitatezza dei dati disponibili non permette quindi di chiarire se tali recipienti siano stati prodotti inizialmente anche a Cuma (Ricci 1985, 27).
Questo recipiente da forno non è una forma di origine greca poiché appare ad Atene alla fine del II secolo a.C. mentre è presente già alla metà del III secolo a.C. a Cosa (Dyson 1976, 21, 40, ad es. fig. 7, FG 4) ed a Bolsena (Goudineau 1970, 171-172, pl. IV), la qual cosa ha fatto avanzare l’ipotesi di una creazione dell’Italia centrale (Bats 1988, 69). È chiaro comunque che Cuma deve aver svolto un ruolo importante nella diffusione di questa forma di ceramica da forno, al punto da giustificare la terminologia in uso presso gli antichi. Comunque la base di dati di cui attualmente disponiamo sembra attestare un momento già sviluppato nella produzione di questa classe7.
Tuttavia l’omogeneità di questo nucleo di materiali, il grado di conservazione degli stessi e la presenza degli scarti di fabbricazione, sono tali da lasciar supporre che esso provenga da un’officina molto vicina all’ingresso della Crypta. L’ubicazione della fabbrica di tali tegami, posta allo sbocco della Crypta e nei pressi dell’incrocio della via proveniente dal porto con la Domitiana, sembra infatti di importanza “strategica”. L’officina è strettamente connessa con la Crypta stessa e con la necessità di poter trasportare, smerciare ed imbarcare i vasi lì fabbricati, e destinati certamente al grande mercato, oltre che alle esigenze del mercato interno, per il tramite del porto della città. Si potrebbe forse immaginare una piccola fabbrica/bottega sul modello degli ateliers noti a Pompei nello stesso periodo (nei pressi di porta Nocera: Morel 1979, 261-262). La costruzione della Crypta costituisce dunque forse un terminus ante quem per l’impianto della fabbrica a vernice rossa interna di Cuma.
Non si è ritenuto opportuno affrontare qui il problema del legame tra la ben nota vocazione agricola di Cuma ed il ruolo che essa svolge nella diffusione di questa forma, specializzata per la cottura di focacce a base di cereali. Nè è sembrato il luogo ove considerare il grado della dipendenza della produzione cumana dalle commissioni militari (Pucci 1981, 107).
Come è noto, la “Crypta Romana” era la galleria che congiungeva il foro con il porto di Cuma8. Tale percorso sotterraneo, scavato sotto l’Acropoli, unitamente alla Grotta di Cocceio sotto il Monte Grillo, era parte di un articolato sistema di collegamento tra il porto di Cuma ed il Portus Iulius (Maiuri 1954, 132-133). Anche la “Crypta Romana” è dunque, in origine, un’opera a carattere prettamente militare, uno di quei grandiosi apprestamenti, realizzati da Agrippa per conto di Ottaviano nel 37 a.C. durante la guerra civile tra questi ed Antonio, che trasformarono non poco tutta la morfologia e la viabilità dell’area tra Cuma, Miseno e l’Averno9.
È già stato osservato come la realizzazione di queste grandi opere militari costituisca solo l’inizio di un «vasto programma di restauro, di sistemazione e soprattutto di monumentalizzazione» della città di Cuma, che continua dalla prima metà del I sec. a.C. e per tutta l’età giulio claudia e flavia (Tocco 1987, 163). A questo grande fervore nelle opere pubbliche e nell’edilizia sembra corrispondere ora quindi anche l’impegno nella produzione di ceramica comune, ed in particolare di quella a vernice rossa interna, che va ad aggiungersi alla già nota produzione della terra sigillata (Soricelli 1982, 193-194). Questo dato contribuisce pertanto a fornire un quadro più articolato, rispetto all’immagine forse un po’troppo stereotipata di semplice città residenziale che talvolta le fonti letterarie tramandano della Cuma di questo periodo (Maiuri 1958, 110; Gigante 1986, 77; ma v. anche Tocco 1987, 166).
Se l’inizio di questa produzione della VRI a Cuma pare legato alle opere pubbliche di età augustea resta ancora da verificare se e quanto la fine di questa produzione possa esser messa in relazione con i problemi di insabbiamento del porto, di cui Cuma comincia a soffrire proprio verso la fine del II sec. d.C.
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Referenze bibliografiche
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Annexe
Sono realizzati in questa argilla 37 dei 60 esemplari esaminabili pari al 62% ca. del totale (fig. 1, n. 7-15; fig. 2, n. 27-40; fig. 3, n. 46-51, 53-54; fig. 4, n. 55-60).
La varietà A (fig. 1) ha orlo arrotondato ο assottigliato, vasca a pareti tese, più aperte (15 esemplari su 60 pari al 25% del totale).
La varietà Β (fig. 2) ha orlo arrotondato ο assottigliato, rientrante, vasca arrotondata più chiusa che nel tipo precedente (25 esemplari su 60 pari al 41% del totale).
La varietà C (fig. 3) ha orlo arrotondato, fortemente rientrante, vasca a parete convessa, più chiusa che nel tipo precedente (12 esemplari su 60 pari al 20% del totale).
Fig. 2 - Ceramica a vernice rossa interna. 16-40: tegame tipo IB. Scala 1:4.
Fig. 3 - Ceramica a vernice rossa interna.41-52: tegame tipo IC. 53-54: fondi di tegami. Scala 1:4.
Fig. 4 - Ceramica a vernice rossa interna. 55-58: tegame tipo II. 59: tegame tipo III. Scala 1:4.
un esemplare (fig. 1, n. 15) è di varietà ΙΑ;
la maggioranza degli scarti appartiene alla varietà IB (fig. l, n. 25, 26; fig. 2, n. 40);
un altro è pertinente alla varietà IC (fig. 3, n. 52).
Notes de bas de page
1 Rare sono le attestazioni di coperchi con vernice all’interno (cfr. ad es. i coperchi in argilla 3 e 5 di Peacock 1977, 156-158). Tra gli esemplari di Cuma, realizzati negli stessi due tipi di argilla dei tegami, vi sono anche scarti di fabbricazione.
2 Sulla possibilità, sinora esclusa, della presenza di giacimenti di argilla a Cuma potenzialmente utilizzati per la produzione ceramica v. Arthur 1991, 10.
3 Le analisi sono effettuate dal dott. F. Terribile, ricercatore presso l’ISPAIM del CNR - Ercolano (NA), che colgo qui l’occasione di ringraziare. Sui tipi di esami incrociati di analisi ceramiche applicati alla V.R.I. v. anche Blakely 1989, 203-204 e si noti anche la prudente posizione di Peacock sull’ipotesi formulata dagli autori (lettera in calce all’art. cit.).
4 Per la metodologia applicata recentemente allo studio della ceramica comune si veda da ultimo Di Giovanni/Gasperetti 1993.
5 Per questa notizia si ringrazia l’amico dott. Francesco Garcea nonché la dott.ssa Costanza Gialanella, funzionario della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta competente per il territorio di Pozzuoli.
6 Ringrazio la dott.ssa C. Gialanella per l’informazione.
7 Tali tegami servivano per cuocere cibi tradizionali, come ad esempio una sorta di focaccia a base di cereali: la puls. È da ricordare che a Pompei alcuni recipienti al momento del rinvenimento contenevano ancora questi pani pronti per la cottura (per i quali v. da ultimi Goudineau 1970, 165; Morel 1979, 248; Bats 1988, 69).
8 Scavata negli anni tra il 1925 ed il 1930 da A. Maiuri: Maiuri 1958, 135-143.
9 Per un inquadramento generale sul Portus Iulius e gli apprestamenti ad esso collegati v. ad es. Zevi 1987, in particolare 64-65.
Auteur
Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta
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