Produzione e consumo di ceramica da cucina nella Campania romana (II a.C.- II d.C.)
p. 65-103
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Dédicace
Alla memoria di mia madre
Texte intégral
Parte 1
1Questo lavoro ha come primo obiettivo l’analisi del repertorio morfologico della ceramica da cucina di produzione campana e delle sue evoluzioni nell’arco di circa tre secoli; una classe di materiali che, paradossalmente, sembra essere meglio conosciuta e studiata all’estero che non in Italia (Bats 1993).
2Nell’esposizione si è privilegiata l’analisi del materiale ceramico, ancora in massima parte inedito quello proveniente dai siti campani, tralasciando i problemi di metodo e l’aspetto antiquario inerente agli usi alimentari legati a questo tipo di ceramica (Bats 1988, 201 ss.; Gras 1989).
3La ceramica da cucina di produzione campana, dal punto di vista morfologico ha un suo repertorio formale specifico ed alquanto standardizzato che si inserisce in una tradizione produttiva “tirrenica” (Olcese 1993, 150 passim) e sembra essere prodotta con argille vulcaniche con caratteristiche petrologiche omogenee.
4All’interno di questa classe sembra opportuno inserire anche la produzione a vernice rossa interna, che deve la sua maggiore notorietà al fatto di essere più riconoscibile a causa del trattamento delle superfici interne dei vasi, ma che dal punto di vista produttivo (argilla e morfologia) sembra essere del tutto assimilabile agli altri tipi non verniciati, come si vedrà in seguito.
5Forse sarebbe oggi il caso di incominciare a chiamare semplicemente questa classe “ceramica italica da cucina” sul modello della più tarda e meglio conosciuta “ceramica africana da cucina”.
6Il punto di partenza della ricerca è stata la schedatura e la sistemazione tipologica del materiale contenuto nei depositi dei Granai del Foro di Pompei.
7La vastità del campione disponibile a Pompei (circa quattrocento pezzi interi) e la sua omogeneità cronologica, fanno di questo contesto, unico, una solida base da cui è possibile trarre un modello confrontabile con altri giacimenti campani.
8Purtroppo, per quanto riguarda la ceramica conservata ai Granai del Foro di Pompei, solo una percentuale risibile (tre pezzi su circa 400) ha una precisa provenienza topografica nell’ambito del tessuto urbano antico. Le descrizioni degli scavi, tratte dal “giornale dei soprastanti”, pur minuziose e complete, sono tuttavia troppo vaghe per permettere di formulare una ipotesi rispetto agli usi attestati ed alle provenienze specifiche dei reperti. Per questa ragione si è ritenuto opportuno trattare tutta la ceramica comune di Pompei come se si trattasse di un unico contesto di scavo, contesto di cui conosciamo bene soltanto la data di chiusura, il 24 agosto dell’anno 79 (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 268).
9L’organizzazione tipologica della ceramica comune di Pompei è stata pensata come uno schema gerarchico aperto (Gasperetti, supra). Al primo gradino dello schema tipologico sono state divise le due sottoclassi principali, sulla base del discrimine funzionale: la ceramica da mensa e da dispensa e la ceramica da cucina.
10Nella sottoclasse ceramica da cucina, per i recipienti, sono state individuate tre categorie formali sulle base del rapporto altezza/diametro del vaso in ordine numerico crescente: tegami, pentole, olle; alla fine sono stati inseriti i coperchi (cfr. parte 2, introduzione).
11All’interno delle categorie: tegami, pentole, olle, i tre tipi più attestati sono: i tegami con orlo bifido (tipo 2130), le pentole con orlo a tesa (tipo 2210), le olle con orlo obliquo e collo breve (tipo 2310). Questi tre tipi, dal punto di vista quantitativo, coprono circa il 71% di tutti gli oggetti schedati pertinenti alla sottoclasse ceramica da cucina; se a questi tipi aggiungiamo anche gli esemplari di tegami ad orlo piano a vernice rossa interna (tipo 2110), ed i piatti/coperchi ad orlo annerito (tipo 2420), la percentuale sale a oltre il 94%. Appare evidente che la produzione di questa classe nella seconda metà del I secolo d.C. era concentrata intorno a questi tre tipi (tegame con orlo bifido, pentola con orlo a tesa, olla con orlo inclinato), che tra l’altro sono tra i più attestati nei contesti archeologici del Mediterraneo occidentale dalla tarda repubblica fino a tutto il II secolo.
12Vediamo brevemente le forme più attestate rimandando alla tipologia (parte 2) per un’analisi puntuale dei tipi e delle forme.
13Il tegame con orlo bifido (tipo 2130) appare nei depositi di Pompei in settantuno unità con una netta prevalenza della forma 2131a. La fattura degli oggetti è molto omogenea ed è attribuibile, a mio parere, ad un unico ambito produttivo. Quasi tutti i tegami hanno l’orlo annerito intenzionalmente all’esterno e le pareti lisciate, probabilmente per evitare le incrostazioni delle pietanze in essi cucinate; questa tecnica di lavorazione è più corsiva rispetto all’uso della vernice nei tegami a vernice rossa interna, ma verosimilmente risponde ad un’esigenza analoga.
14Il tipo è ben attestato in Campania a partire almeno dalla fine del I a.C. Inoltre, per tutto il secolo successivo ne abbiamo attestazioni in Italia, sul limes renano, in Spagna, in Britannia, Africa e Grecia continentale. Una diffusione veramente capillare, seconda solo alla diffusione della ceramica a vernice rossa interna (per un’analisi completa del tipo cfr. p. 79 s.).
15Ovviamente, tranne che in rari casi come quello delle attestazioni di Bengasi e di Cartagine dove i tegami con orlo bifido sono riconosciuti come ceramica di importazione (Riley 1977, 248 ss.; Hayes 1976, 60), nei casi in cui la descrizione dell’argilla sia insufficiente, non si può andare oltre il ragionevole sospetto che si tratti di importazioni italiche. Per le attestazioni d’oltralpe diventa impossibile stabilire se si tratta realmente di importazioni italiche ο piuttosto di produzioni locali sviluppatesi per soddisfare la domanda delle truppe legionarie stanziate lungo i confini dell’impero e abituate all’uso di tali forme.
16Fattura analoga ai tegami con orlo bifido, con lo stesso grado di rifinitura delle superfici ed orientamento delle pareti, è attribuibile ad un unico esemplare di tegame proveniente da Pompei, con orlo leggermente ingrossato, provvisto di due piccole anse sotto l’orlo (forma 2143a). Questo tipo rappresenta l’anello di congiunzione tra la produzione non verniciata e la ceramica a vernice rossa interna. Infatti lo stesso tipo compare, ancora a Pompei, nei depositi della Casa di Bacco, provvisto della verniciatura rossa all’interno e sul bordo; ed è presente a Cuma, nel giacimento della cripta romana, con le stesse caratteristiche dei tegami ad orlo piano, sicuramente prodotti nella città flegrea (cfr. Chiosi, infra).
17L’argilla con la quale sono stati realizzati questi recipienti, sia quelli ad orlo bifido che quelli ad orlo piano a vernice rossa interna, è assimilabile alla fabric 1 di Peacock (1977, 149) ed al tipo 1 dei Granai del Foro di Pompei. Con tale argilla è stata realizzata la stragrande maggioranza dei reperti assimilabili alla produzione di ceramica da cucina provenienti dall’area vesuviana.
18Si tratta di argille di colore arancio bruno (Munsell 2.5YR 4/6-5/8), a frattura irregolare, dura e con una sensazione al tatto ruvida. Gli inclusi sono quelli tipici di altre produzioni campane, pirosseno e scorie laviche, quarzo subangolare e calcare (cfr. p. 99).
19Non solo come ipotesi di lavoro, allo stato attuale della ricerca, è plausibile attribuire a queste fabbriche campane anche la produzione dei tegami ad orlo bifido usati a Pompei ed in tutta la Campania nel I secolo.
20Il tegame ad orlo ingrossato a vernice rossa interna non sembra avere larga diffusione. Se ne conosce un altro solo esemplare a Pompei, inedito, proveniente da uno strato augusteo dello scavo del 1980 (lo scavo per l’impianto elettrico), un altro esemplare a Ostia, ed uno a Ginevra (Giovannini 1973, 407, fig. 319, tav. XLI; Paunier 1981, 259, fig. 367, n. 579).
21A questo punto è doveroso un accenno al tegame con orlo piano e pareti più ο meno svasate (tipo 2111), che rappresenta la quasi totalità dei pezzi conservati a Pompei e negli altri centri vesuviani e coincide alla variante A del tipo 1 nel già citato deposito di Cuma. Questo tegame corrisponde al N. 28 della tipologia di Goudineau/Ostia III, 340 (Goudineau 1970, 168, tav. II; Giovannini 1973, 407), che ha una distribuzione in tutto il bacino del Mediterraneo, dalle coste della Spagna e dell’Africa fino alla Palestina ed alle coste dell’Asia Minore, con attestazioni diffuse anche nell’Europa continentale ed in Gran Bretagna (cfr. infra p. 77).
22Sia sugli esemplari noti in area vesuviana, che in quelli presenti in area flegrea, si notano graffiti sul fondo, spesso composti da numerali, talvolta da lettere ο da gruppi di due ο tre lettere, nonché talvolta costituiti da simboli che sembrano riferibili a segni di valore (quattro puntini) (fig. 1). Non è possibile mettere in connessione le cifre ο i contrassegni di valore con le dimensioni del pezzo, dal momento che sia l’esemplare contrassegnato con il n. 7 che gli altri due col n. 4, hanno pressoché le stesse dimensioni e la stessa forma.
23I segni sono incisi ante cocturam sempre sul fondo esterno, in prossimità della linea del bordo.
24È interessante notare come il graffito ST (n. 6) compaia, pressoché identico, su di un altro tegame a vernice rossa interna ritrovato negli scavi inglesi di Bengasi (Kenrick 1985, 325, n. 4862, form 60).
25Il tegame con orlo piano avrà poi grande fortuna anche quando le produzioni campane incominceranno ad affievolirsi, tra la fine del II e gli inizi del III secolo. Gradatamente i recipienti a vernice rossa interna prodotti dalle fabbriche costiere vengono sostituiti da recipienti realizzati con una fattura più grossolana, molto simili dal punto di vista morfologico a quelli prodotti sulla costa, ma che non sono più prodotti in argille vulcaniche. Questa inversione di tendenza si registra precocemente e significativamente nei siti della Campania interna, dove già a partire dalla seconda metà del II secolo compaiono queste produzioni parallele con vernice molto diluita e di colore arancio chiaro.
26Ben attestato a Pompei è il tipo della pentola con orlo a tesa (tipo 2210). Sono stati schedati 92 esemplari divisi in dieci forme, anche se le sole forme 2211a e 2211e coprono il 75% del totale.
27Come è evidente dal settore esploso dello schema tipologico, il campo di variabilità del tipo è leggermente più ampio rispetto a quello dei tegami, anche se i caratteri morfologici sono omogenei e i rapporti dimensionali altezza/diametro dell’orlo sono costanti in tutti gli esemplari dai più piccoli ai più grandi.
28A dimostrazione di questa omogeneità di rapporti tra le forme afferenti allo stesso tipo ed anche per individuare l’esistenza di misure standard nei pezzi, sono stati generati due grafici xy, sulla base dell’altezza e del diametro dell’orlo (fig. 2). Nel primo caso sono state prese in considerazione le sole pentole con orlo a tesa tipo 2211, e ne è risultata una distribuzione omogenea ma quasi continua, senza nessun addensamento. Nel secondo caso sono stati invece presi in considerazione tutti gli esemplari di pentola con orlo a tesa e tutti i tegami ad orlo bifido. I risultati anche in questo caso hanno rivelato un divisione proporzionale netta tra i due tipi, che si dispongono tra gli assi cartesiani del grafico in due addensamenti ben separati.
29Forse per i tegami esiste un moderato addensamento su due misure base.
30Dal punto di vista morfologico le pentole con orlo a tesa sembrano rappresentare l’ultimo stadio evolutivo delle lopades, tegami con profondo incasso per il coperchio appartenenti ad un repertorio formale di tradizione ellenistica che rimonta, almeno in Campania, al IV secolo a.C. (Bats 1988, 48, fig. 8; Di Giovanni/Gasperetti 1993, 277, fig. 13).
31Tra gli esemplari più antichi ed inediti di lopades attestati in Campania sono da menzionare quelli provenienti dallo scavo di un santuario ellenistico nel comune di Castellammare di Stabia in località Privati, a pochi chilometri da Pompei, che sono databili tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. (Miniero 1987, 178 ss.). In questo contesto il tegame appare, nella sua forma più arcaica, associato ad un tipo di olla con orlo triangolare e collo breve (fig. 3).
32È possibile, in un certo senso, seguire l’evoluzione delle lopades dal II secolo a.C., attraverso ritrovamenti in contesti di scavo recentemente studiati in Campania (Di Giovanni 1991, 39; Di Giovanni/Gasperetti 1993, 275, fig. 13).
33Gli esemplari più antichi hanno l’incasso per il coperchio ben marcato e pareti dritte e tese, progressivamente l’orlo tende a distendersi e le pareti ad alzarsi attraverso “forme transizionali” con pareti arrotondate e orlo a tesa (fig. 4).
34Il passaggio dalle lopades alle pentole con orlo a tesa si perfeziona verosimilmente intorno agli anni centrali del I secolo a.C. e continua per i due secoli successivi.
35Anche per questo tipo non mancano attestazioni al di fuori della Campania, ma sussiste il dubbio analogo espresso per i tegami con orlo bifido. In molti casi ci si dovrà accontentare del mero confronto formale, tralasciando il problema produttivo (cfr. infra p. 84).
36Gli esemplari pompeiani schedati sotto questo tipo, ad una analisi autoptica, sembrano tutti, tranne un solo esemplare, in argilla vulcanica con caratteristiche di fattura molto simile ai tegami ad orlo bifido.
37Gli unici due esemplari che sembrano essere stati realizzati con argille differenti sono riferibili a forme di piccole pentole con anse: la forma 2213b, in argilla lievemente più granulosa del tipo 1 e molto più ricca di quarzo angolare brillante (il tipo 9 della campionatura dei Granai del Foro), e la forma 2213c, prodotta in argilla 7, che è una piccola pentola con pareti bombate e poco carenate provvista di due piccole anse ripiegate e schiacciate sotto l’orlo, e che trova confronti con materiali di produzione egea piuttosto rari in Campania in questo orizzonte cronologico, ma attestati sia in Italia che in Francia.
38Le olle con orlo obliquo (tipo 2310) da sole rappresentano circa la metà di tutta la ceramica comune dei Granai del Foro di Pompei. Si è potuta osservare una grandissima prevalenza della forma 2311a (131 esemplari), prodotta in tre dimensioni piuttosto standardizzate. È plausibile che nella sua misura più grande, alta intorno ai 30 cm, potesse avere un uso promiscuo. Sicuramente di uso promiscuo sono gli esemplari prodotti nella misura più piccola che sono attestati, in situ, nella necropoli di Porta Nocera sia come contenitori funerari che come ollae pertusae, per uso di giardino e margottiere (cfr. il commento alla forma 2311a, infra).
39Il tipo sembra derivare dalle olle a corpo ovoide con orlo a mandorla ed è attestato già a Pompei nei contesti della casa della Colonna Etrusca nel I secolo a.C., mentre sembra piuttosto diffuso in Italia tra tarda repubblica e medio impero.
40A Pompei queste olle sono tutte prodotte in argilla tipo 2 di produzione campana.
41Tra i coperchi di produzione campana sicuramente riferibili alla classe di ceramica da cucina, i più attestati sembrano quelli riferibili al tipo con orlo ingrossato e piede ad anello, meglio conosciuti come piatti-coperchi (tipo 2420). Quasi tutti gli esemplari ritrovati a Pompei hanno l’orlo annerito e qualcuno è provvisto di un foro praticato ante cocturam nel fondo, probabilmente per facilitarne la presa. Ne sono stati schedati una cinquantina: dal punto di vista funzionale essi potevano essere utilizzati sia per coprire le pentole con orlo a tesa che i tegami.
42Anche per questo tipo le attestazioni sono piuttosto precoci e sono distribuite in Italia ed in tutto il Mediterraneo.
43Dalla metà del II secolo in poi si confondono con l’analoga produzione ad orlo annerito di provenienza africana di cui gli esemplari campani sembrano costituire il modello.
44L’analisi del repertorio formale della ceramica da cucina di Pompei fotografa la situazione nella Campania meridionale alla fine del I secolo d.C., cioè circa una cinquantina di anni prima della invasione dei mercati della ceramica africana da cucina (Tortorella 1981, 211).
45Il modello che si evince è la grande supremazia delle fabbriche tirrenico/campane, che adottano un repertorio formale abbastanza standardizzato, diviso in tre categorie di recipienti ben definiti (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 279, fig. 11).
46Questo sistema tripartito in Campania si sovrappone, seppur forse in modo graduale, ad un altro sistema bidimensionale ancorato al patrimonio formale ellenistico, ed avrà certamente avuto implicazioni nelle abitudini alimentari antiche, almeno nelle cotture tradizionali dei cibi (Di Giovanni 1991, 39).
47La questione dell’organizzazione della produzione, in mancanza di officine certe e di bolli, rischia di essere un processo indiziario in cui poche sono le certezze e tante le supposizioni.
48Certamente a Pompei c’erano officine che producevano ceramica, e probabilmente queste attività avevano un’incidenza ridotta sulle attività economiche della città; inoltre non è possibile riconnetterle ad una produzione specifica di ceramica da cucina (Fulvio 1879, 280; Annecchino 1977, 106, n. 24; Morel 1979, 261).
49D’altro canto le caratteristiche di rifinitura, comuni a tutti i recipienti, l’uso disinvolto del tornio, gli orientamenti e le rifiniture delle superfici, la cottura omogenea e precisa, sono tutti elementi che farebbero pensare ad una produzione “industriale” e seriale, sul modello dei grandi opifici (Carandini 1981, 258), con una produzione specializzata ο semispecializzata legata sia ad un commercio di prossimità che ad un’esportazione a più lungo raggio come merce d’accompagnamento in carichi di derrate alimentari.
50È importante però registrare, accanto a queste caratteristiche, la possibilità che ci fossero artigiani liberi che lavorassero in proprio ο come mano dopera non specializzata presso officine altrui.
51A Pompei un graffito osceno, purtroppo mutilo nella sua parte iniziale, presso la casa di Giulia Felice, ci attesta la presenza di una persona, verosimilmente di stato libera, che ha fatto ben otto lavori, di cui tre connessi con la produzione artigianale ed uno con la distribuzione al dettaglio delle merci: Coponium fecisti, Cretaria fecisti, Salasamentaria fecisti, Pistorium fecisti, Agricola fuisti, Aere minutaria fecisti, Propola fuisti, Laguncularia nunc facis. Si connum linxeris, consummaris omnia (Della Corte 1965, 396, n 851 d-m).
52Questo versatile lavoratore quindi ha esercitato otto mestieri: servitore d’osteria, figulo, salumiere, panettiere, agricoltore, venditore ambulante, fabbricante di brocche. Il tono ovviamente è di scherno ed il gioco è volgare, ma il senso dello scherzo non reggerebbe se il soggetto non fosse libero di scegliere la propria attività.
53Per quanto riguarda la circolazione, mentre secondo uno schema di “commercio di prossimità” sembra essere molto ampia sulla costa, nei siti dell’interno, anche in quelli collegati da importanti assi stradali, la situazione sembra piuttosto diversa.
54Per controllare la distribuzione è stato schedato un contesto di scavo dalla città di Alife, nella Campania interna settentrionale, segnalato dalla dott.ssa Floriana Miele, che ringrazio per la sua disponibilità.
55Si tratta dello strato sincronico di colmatura (US 70) di un pozzo situato all’interno di una culina facente parte di una domus decorata da pitture di II stile anteriori al 20 a.C.
56La colmatura del pozzo sembrerebbe essere connessa ad una ristrutturazione completa della casa, da datarsi intorno alla metà del primo secolo d.C.
57Il contesto, dal punto di vista quantitativo, non è particolarmente rilevante, ma sembra molto omogeneo dal punto di vista cronologico.
58La ceramica fine è composta esclusivamente da terra sigillata italica di cui due esemplari, entrambi forma Goudineau 39 (Pucci 1985, 383 ss.), si segnalano per i bolli che vi compaiono: il primo, HERMEISCI in planta pedis, corrisponde ad una fabbrica puteolana (CVA 1097); per il secondo, LNACI/ARNIF in cartiglio rettangolare con angoli stondati, non ho trovato confronti. Entrambi i pezzi, databili nel primo quarto del I secolo d.C., fungono da terminus post quem per la data di chiusura del pozzo.
59La ceramica da cucina rinvenuta nello strato di riempimento ammonta a circa duecentocinquanta frammenti, tra i quali una sessantina di orli.
60L’argilla è di colore grigiastro, compatta, non granulosa, ruvida al tatto, con inclusi di calcare, quarzo e quarzite, invariabilmente dura, del tutto diversa da quella delle produzioni costiere. Mancano completamente importazioni dalla costa in argilla vulcanica. Il repertorio formale potrebbe essere simile a quello di Pompei, a parte le proporzioni tra i tipi. Nel contesto di Alife infatti le pentole rappresentano circa i due terzi sul totale delle ceramica da cucina (fig. 5, nn. 1-8).
61La morfologia delle pentole ha, per così dire, “un’aria di famiglia”, ma è abbastanza lontana dagli esemplari di produzione costiera. Cosi dicasi anche per l’unico tipo di tegame, presente con tre frammenti, di fattura molto corsiva, che ricorda molto le versioni più tarde di ceramica a vernice rossa interna. Addirittura, tra le olle, l’esemplare contrassegnato dal n. 15 (fig. 6) sembra essere modellato a mano con l’uso del tornio lento. Gli unici due esemplari d’importazione sono due frammenti di tegami ad orlo piano a vernice rossa interna, riferibili al tipo 2111 di Pompei (Goudineau 28) in argilla identica a quella proveniente da Cuma.
62L’analisi di questo contesto sembra suggerire il doppio aspetto che sempre coinvolge chi si occupa di ceramica comune: da un lato l’utilizzazione di un repertorio formale, che come modello comportamentale coinvolge vastissime aree, e dall’altro lo sviluppo di ambiti produttivi estremamente capillari, creati per mercati più ristretti e che spesso risentono delle condizioni economiche di base.
63La stessa situazione sembra verificarsi nelle aree interne della Campania orientale, Abellinum, Aeclanum, Pratola Serra, Aequum Tuticum etc., dove vicino a pochi frammenti di importazione dalla costa, invariabilmente ceramica a vernice rossa interna, circolano forme attribuibili a fabbriche dell’interno che ricordano vagamente quelle della ceramica Italica da cucina, ma che seguono poi nel corso del tempo loro linee evolutive legate a tradizioni alimentari locali.
64Ritornando al contesto di Pompei, come si è già detto, meno del 3% è importato. Si riscontrano i primi arrivi di ceramica africana da cucina a patina cenerognola che si datano, appunto, in età flavia. È presente un solo tipo (2221, Atlante CVI 8, Hayes 194) in quattro esemplari, di cui tre con un diametro di circa 30 cm, mentre il quarto è di dimensioni minori e reca scritto, probabilmente in grafia greca, stafias. Il riferimento al contenuto (uva passita), attesta un uso secondario del recipiente (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 278, fig. 18).
65Ancora di produzione africana, ma non in patina cenerognola, è da segnalare un tipo di tegame con orlo ingrossato (2151a, Atlante CIX 11), piuttosto raro e attestato ad Ostia nello stesso periodo. A Pompei ne è presente un solo esemplare.
66Sempre in argilla africana (argilla tipo 4), più compatta delle precedenti e con inclusi di quarzo arrotondato e calcare, è attestato un tegame con orlo sagomato ed incasso per il coperchio. Questo tipo (2161a) si riallaccia ai prototipi ellenistici della ceramica da cucina e non ha confronti in Italia. Anche in questo caso si tratta di un unicum.
67Ad una produzione certamente non italica, sia dal punto di vista formale che da quello di composizione delle argille, appartengono un tipo di padella ed un clibanus. La padella (2170a), attestata in quattro esemplari, è prodotta in argilla non vulcanica, con grossi inclusi di quarzo angolare. Tradizionalmente questo tipo è ascrivibile ad una produzione orientale, anche se in Africa è prodotta in argilla locale, ma con una distribuzione limitata (cfr. il commento alla forma a p. 81 s.). Non conosco, in Campania, produzioni in argilla vulcanica del tipo, che è presente nella regione fino alla fine del II secolo d.C.
68Il clibanus (tipo 2430), sorta di coperchio utilizzato per cuocere sub testa, metodo di cottura diffuso in tutto il mondo romano, è presente a Pompei in un solo esemplare con argilla molto micacea di produzione non meglio identificabile (Cubberley et al. 1988).
69Il secondo secolo segna nelle produzioni della ceramica fine e della ceramica comune l’avvento delle ceramiche africane che incominciano adesso ad invadere i mercati. Accanto alla ceramica africana, in Campania si registra anche la presenza di ceramica di produzione egea.
70Tale produzione è certamente un’ulteriore riprova dei rapporti, spesso sottovalutati, tra la Campania e l’Oriente egeo.
71Questi rapporti si evidenziano nella presenza diffusa in Campania di anfore da trasporto provenienti dalla Grecia, in particolare dall’isola di Creta (Panella 1986, 614, fig. 4), il cui numero raggiunge, in contesti di età flavia ed antonina, percentuali notevoli sul totale delle anfore da trasporto.
72Nel contempo, almeno per tutto il II secolo, si riscontra il perdurare delle produzioni campane che, come attestato ad Ostia, conosceranno una battuta d’arresto nel corso del III secolo (Coletti 1986, 59).
73Purtroppo a tutt’oggi non si conoscono in Campania contesti archeologici da scavo databili nel pieno III secolo d.C. Possiamo però disporre dei dati di uno scavo effettuato a Pozzuoli negli anni’80 dalla dott.ssa Costanza Gialanella, che ringrazio per la disponibilità. L’intervento di scavo ha interessato l’area del Palazzo Toledo, ex ospedale civico della città di Pozzuoli, sito in via Ragnisco. L’unità stratigrafica US 162 è costituita da un grosso riempimento databile alla fine del II secolo d.C. Il contesto è datato dalla presenza delle lucerne del tipo Fabbricotti 2, di produzione campana, da alcune lucerne africane di cui due sono bollate C.MEVPO e dalle attestazioni di terra sigillata africana, presente con forme riferibili all’orizzonte cronologico tra il 150 ed il 200.
74Nella ceramica da cucina, che rappresenta all’incirca il 20% del materiale schedato, continuano le produzioni campane con i tegami ad orlo piano senza verniciatura all’interno, le pentole con orlo a tesa ed i piatti/coperchi.
75Il contesto è ancora in fase di studio, ma da una prima analisi la ceramica da cucina di produzione campana, sulla base del computo degli orli, sembra ancora coprire il 70% sul totale della ceramica da cucina.
76La ceramica di produzione africana, presente con le forme Hayes 23 B, Hayes 197 ed Atlante CV 4, rappresenta in percentuale circa il 15%, mentre la ceramica di produzione egea, poco meno del 4%, è rappresentata dalle pentole con orlo inclinato e da due frammenti di olla globulare.
77Inoltre è da segnalare nel contesto di via Ragnisco a Pozzuoli la presenza di almeno tre esemplari della padella tipo Pompei 2171, che anche in questa attestazione compare con la stessa argilla già riscontrata negli esemplari conservati a Pompei. Sul fondo di due degli esemplari compare il bollo impresso V OMI.
Parte 2
INTRODUZIONE AL CATALOGO
78L’organizzazione formale della ceramica comune di Pompei è stata pensata come uno schema tipologico aperto ad albero (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 269; Gasperetti, supra). Lo schema presenta una sistemazione del materiale di tipo gerarchico su base numerica e si articola attraverso la definizione di due sottoclassi: ceramica da mensa e dispensa e ceramica da cucina, all’interno delle quali si esemplificano delle categorie funzionali, le stesse in tipi che possono avere ο non avere particolari attributi funzionali (anse, dispositivi per versare etc.); l’ultimo gradino è rappresentato dalle forme, intese come oggetti reali ed afferenti allo stesso tipo (Morel 1981, 22; Pucci 1983, 260; Di Giovanni/Gasperetti 1993, 268 s.).
79Per quanto riguarda la sottoclasse “ceramica da cucina”, il primo passo per una articolazione della ricerca è stato attuato dividendo tutto il materiale in quattro grossi gruppi, tenendo presente il concetto morfologico-funzionale: tegami, pentole, olle, coperchi (Profeta 1973).
80La divisione tra i primi tre gruppi e l’ultimo è basata su un discrimine funzionale, mentre tra i tre gruppi di recipienti si è adoperata una distinzione formale.
81Il parametro utilizzato è stato il rapporto: diametro bocca/altezza (chiamato R).
82Nel caso in cui il diametro dell’orlo sia maggiore dell’altezza del vaso, il contenitore è stato inserito nel gruppo dei tegami; nel caso in cui esso non superi la metà dell’altezza, nel gruppo delle olle; nel caso in cui esso sia compreso tra la metà dell’altezza e l’altezza stessa, nel gruppo delle pentole.
83La divisione delle forme è stata quindi attuata secondo il seguente schema basato sul valore numerico (R) del rapporto tra le due misure prese in considerazione:
84Tegami = R > 1
85Pentole = R compreso tra 1 e 2
86Olle = R < 2
87La verifica di questo metodo è stata attuata generando un grafico in cui R (un numero teorico ottenuto dividendo i diametri dei vasi per le loro rispettive altezze) è posizionato sull’asse delle y mentre i codici che contraddistinguono i vasi sono posizionati sull’asse delle x (fig. 2, grafico A).
88I tre gruppi compaiono sul grafico con tre curve abbastanza distinte.
89All’interno di questi quattro gruppi sono poi state isolate serie di oggetti che per caratteristiche formali e/o tecniche, ο perché già acquisiti come tipi noti dalla bibliografia, sembravano avere tratti comuni a cui si è dato il nome di tipo (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 268).
90Nella fase di presentazione il materiale è stato ordinato osservando all’interno di ogni tipo l’articolazione dell’orlo e la presenza ο meno di attributi funzionali.
91A sua volta l’ordine di presentazione dei tipi all’interno delle categorie funzionali va dal tipo con orlo più semplice al tipo con orlo più articolato.
92Questo tipo di analisi è estremamente difficile da esplicitare in quanto si basa su principi essenzialmente intuitivi: un orlo piano, sia pure esso distinto, è più “semplice” di un orlo a tesa (“semplice” in riferimento alla restituzione grafica del pezzo, mentre è difficile valutare la “semplicità” di esecuzione materiale per l’artigiano; probabilmente un orlo a tesa comporta meno operazioni nella sua realizzazione che non un orlo piano).
93Il modello espositivo scelto è, quindi, di mero carattere morfologico, puramente operazionale (Harris 1979, 10) e non risente di concetti quali tipo noto/tipo non identificato, oppure produzione locale/importazione.
94Le notazioni inerenti alle dinamiche produttive ed alle evoluzioni morfologiche nonché la loro distribuzione nel tempo e nello spazio, sono discusse nei paragrafi introduttivi ai tipi ο nelle schede relative alle forme.
CATALOGO
2110 Tegami ad orlo piano
95Questo tipo di tegame, che all’interno della ceramica da cucina per le sue caratteristiche di verniciatura interna forma un gruppo a sé stante, è sicuramente la classe di ceramica da cucina più studiata in assoluto, anche in tempi recenti.
96Sono noti, prodotti con la spessa verniciatura rossa interna, sia tegami con l’orlo variamente sagomato che coperchi.
97Nei depositi dei Granai del Foro è presente solo un tipo di tegame con orlo piano che è stato distinto in due forme, leggermente differenti: una con pareti più diritte e fondo convesso, che compare sempre di dimensioni maggiori, l’altro provvisto di pareti più svasate e con il fondo quasi piano.
98Entrambe le forme sono state realizzate con la stessa argilla e rifinite allo stesso modo.
99Il tipo di ceramica in questione viene generalmente denominato “ceramica a vernice rossa interna”; il nome Pompejanisch-roten Platten fu coniato da Loeschke nel 1909 nello studio del campo romano di Haltern sul limes renano (p. 271) in analogia con il colore rosso delle decorazioni parietali pompeiane ed è così tradotto in tutte le lingue (in inglese pompeian red ware; in francese engobe rouge pompéien, etc.).
100In realtà, anche negli esemplari conservati a Pompei, il colore della copertura interna varia molto sui toni del rosso cupo fino a raggiungere in qualche caso il rosso violaceo.
101Sono note molte fabbriche di questo tipo di recipienti: Peacock (1977, 149 ss., fabric 1) ne ha identificate almeno sette, ma a mio avviso in Campania è attestata solo quella in argilla vulcanica, ascritta dall’autore, su basi petrologiche, appunto all’area campana ed assolutamente analoga per composizione e caratteristiche fisiche al tipo 1 (L1) della nostra campionatura.
102Credo, quindi, che l’identificazione di questi tegami come una produzione campana sia molto probabile.
103Il problema è certamente quello di definire l’area di produzione specifica di tali manufatti. La zona vesuviana sarebbe certamente la più plausibile, se non si considerasse il fatto che i tegami a vernice rossa interna continuarono ad essere esportati, e quindi presumibilmente prodotti, anche nel secondo secolo dopo Cristo, quindi in un periodo posteriore alla distruzione di tutti i centri vesuviani.
104G. Pucci (1975, 369 ss.), su basi filologiche, suggerisce Cuma come probabile luogo di produzione di questi recipienti, definiti dagli antichi cumanae testae.
105Molti esemplari confrontabili con quelli di Pompei sono conservati nei depositi del centro archeologico flegreo, ancora inediti, e sono stati analizzati autopticamente.
106Dal materiale proveniente da uno scarico scavato nella Cripta Neapolitana, ai piedi dell’acropoli di Cuma, provengono due frammenti di tegami con orlo piano a vernice rossa interna completamente anneriti ed un altro annerito e deformato. Il rimanente materiale della stessa classe, che ammonta ad un centinaio di frammenti, quasi tutti tegami ad orlo piano con profilo ricostruibile, sembra ben riuscito dal punto di vista artigianale e l’argilla, ad una prima analisi con una lente da 10 X, appare molto simile agli esemplari pompeiani (cfr. Chiosi, infra).
107L’attestazione di scarti di fornace, prova incontrovertibile di una produzione cumana di questa classe, rende l’ipotesi di Pucci estremamente seducente. In attesa della pubblicazione integrale di tutti i materiali del contesto, si può attribuire alla chiusura del deposito la data del I secolo d.C.
108La scoperta di una fornace che produceva tegami a vernice rossa interna nei pressi di Perugia, a Gubbio, dà però la certezza che almeno nel I secolo d.C. la fabbricazione di questi oggetti non era un’esclusiva campana (Cipollone 1985, 118 e ss.).
109I pezzi provenienti da Gubbio sono alquanto più corsivi nella forma che non quelli campani e l’autrice stessa ammette che l’impressione che si ricava dal materiale, specialmente per il riscontro di errori di cottura della superficie e/o del pezzo, fa pensare più a delle prove che non ad una produzione avviata su larga scala (Cipollone 1985, 118). Potrebbe trattarsi di un tentativo di inserimento in un filone produttivo di oggetti fortemente richiesti sul mercato; del resto non sono certo rari gli esempi di imitazioni di tali forme in ambiti provinciali (Vegas 1973, 48 e s.), e giusta mi sembra l’osservazione di H. Comfort, riportata da Pucci, che: «in età imperiale parlare di cumanae testae non avrà avuto un senso molto diverso da quello che ha oggi parlare di chinaware nei paesi di lingua inglese» (Pucci 1975, 371).
110La funzione di tali recipienti come tegami da cucina mi sembra piuttosto certa, dimostrata tra l’altro dalla verniciatura eseguita solo all’interno e talvolta sul bordo esterno dell’orlo1.
111Inoltre è da notare come molti frammenti di questo tipo provenienti da contesti di scavo hanno evidenti tracce di bruciatura derivate da contatto diretto con il fuoco, tipiche della ceramica da cucina.
112Il problema della cronologia di tale classe di materiali appare complesso e piuttosto articolato. A Pompei le prime attestazioni in strato sono comprese tra la fine del II secolo a C. e gli inizi del secolo successivo (Chiaramonte 1985, 132)2 con forme alquanto differenti dai tegami con il semplice orlo piano.
113L’esportazione di tale materiale è però attestata, per esempio, in Africa e sul limes renano non prima dell’età augustea (Kenrick 1985, 321; Ritterling 1913, 136, taf. XXXV, tipo 100); in oriente le attestazioni più antiche sembrano riportarci ad epoca di poco successiva (Hayes 1973, 458, fig. 88, n. 173; Slane Wright 1980, 153, fig. 5, n. 73) mentre in Britannia i primi arrivi sarebbero da ascriversi, al più presto, all’età di Claudio, certamente connessi con la conquista romana dell’isola3.
114La cesura nelle esportazioni di questi materiali è tradizionalmente posta alla fine del primo secolo d.C. (Peacock 1977, 159), anche se già Goudineau (1970, 168, nn. 41-42) notava una produzione tarda di II-III secolo d.C., forse più per la suggestione della crisi delle produzioni vesuviane dopo la catastrofe del 79 d.C. che per prove archeologiche acquisite.
115Ritterling (1913, 337) sosteneva che già dalla seconda metà del I secolo d.C. i tegami a vernice rossa interna sparivano dalla zona renana.
116Il fatto sembra essere confutato, mi pare, dal ritrovamento del tumulo tombale di Horath, situato a nord di Hofheim, databile ai primi anni del II secolo d.C. Il tumulo ha restituito ben otto tegami, tipologicamente molto vicini a quelli di Pompei (Kilian 1969).
117Anche per l’oriente la cesura nelle esportazioni si deve porre nel corso del II secolo piuttosto che alla fine del I secolo.
118Tegami molto simili alla forma 2111b compaiono nel contesto cretese della Villa di Dionisos, datato al II secolo d.C. (Hayes 1983 126, fig. 9, n. 115) certamente non residui; ceramica a vernice rossa interna è segnalata anche nel carico del relitto inedito di Madhia, sulle coste della Tunisia, databile al 100 d.C. (Hayes 1973, 459); a Cipro è attestata nel corso della prima metà del II secolo d.C e l’importazione sembra terminare in età antonina (Hayes 1977, 97); a Cesarea Marittima nella prima metà del II secolo (Riley 1975, 46, fig. 90).
119Anche le evidenze archeologiche dalla penisola italiana sembrano confermare l’ipotesi di un continuum produttivo di questi oggetti nel corso del II secolo d.C. nella loro produzione più corsiva con pareti molto più spesse (Coletti 1986; Mercando 1974, 216, fig. 93 c; 334, fig. 252 d-f.; Mercando 1982, 128, fig. 12, nn. 4-5; Cavalieri Manasse 1977, 116, tav. 82, nn. 11-12).
120Otto esemplari su ventidue tegami a vernice rossa interna conservati nei depositi dei Granai del Foro sono contrassegnati da graffiti eseguiti sempre sull’argilla fresca prima della cottura. I segni sono incisi probabilmente con un piccolo utensile metallico a punta, sempre sul fondo esterno in prossimità della linea del bordo.
121I graffiti si possono raggruppare in due serie distinte di segni: sui tegami di medie dimensioni, tutti ascrivibili alla forma 2111a, compaiono delle cifre: si sono infatti rinvenuti sia un VII (fig. 1, n. 1) che due IIII, ottenuti con quattro segni, in un caso tracciati parallelamente tra di loro (fig. 8, n. 2111b), nell’altro leggermente sghembi (fig. 1, n. 2). Non credo sia possibile connettere tali cifre ο contrassegni con le dimensioni del pezzo, dal momento che, come già detto supra, sia l’esemplare contrassegnato con il numero VII che gli altri due con il numero IIII hanno pressoché le stesse dimensioni ed anche la stessa morfologia.
122È altresì probabile che tali graffiti potessero indicare lotti di materiale da infornare, oppure qualche altra annotazione collegata con l’organizzazione di lavoro della fornace in cui i tegami venivano prodotti4.
123La seconda serie è contrassegnata da lettere ο da gruppi di lettere oppure, in un solo caso, da simboli come quattro punti in quadrato, che sembrerebbero richiamare anche in questo caso un segno di valore non relazionabile con nessuna differenza di misura né di forma rispetto agli altri tegami contrassegnati con le lettere.
124Le lettere sembrano contrassegnare gli esemplari di dimensioni maggiori, un solo caso è riferibile alla forma 2111a, gli altri casi alla forma 2111b; compare da sola la M e così la Ρ (fig. 1, nn. 4-5) mentre compaiono associate le lettere AMB in corsivo (è l’unico caso di corsivo sui tegami pompeiani) e ST (fig. 1, n. 6).
125È interessante notare come il graffito ST compaia, pressoché identico, su di un altro tegame a vernice rossa interna, certamente importato dall’Italia, ritrovato negli scavi inglesi di Bengasi (Kenrick 1985, 325, n. 4862, forma 60).
126Forma 2111a. N. inv. 31412. Fig. 8
Tegame con orlo piano, pareti molto espanse, fondo leggermente convesso.
Vernice distribuita uniformemente sulla superficie interna, colore rosso mattone (MUS. 10R 3/6-4/6), poco aderente, saponosa, che tende a staccarsi a scaglie. Quattro serie di linee concentriche sul fondo interno. Graffito ante cocturam sul fondo esterno: forse un simbolo numerale contrassegnante il numero quattro.
Argilla tipo 1 (L1).
Diam. imboccatura 19,9 cm; alt. 3,1 cm.
La forma è stata rinvenuta in sedici esemplari di diverse misure; la più piccola è provvista di un diametro all’imboccatura di 14-15 cm, con un’altezza intorno ai 2 cm; la più grande, attestata in un solo esemplare, è larga all’imboccatura 46,5 cm ed alta 6,2 cm.
Il campione è troppo esiguo per poter cercare di definire standards di misure.
La forma sembra poter essere ascritta al n. 29 della classificazione di Goudineau (1970, 168, pl. II, e ivi bibl.) da Vindonissa, datata all’epoca claudia, anche se il tegame proveniente dal limes sembra avere pareti ancora più espanse.
Altri esemplari si sono riscontrati in Italia meridionale, nel territorio di Volcei (Dyson 1983, 119, fig. 219, n. 1269), in Britannia (Peacock 1977, 157, fig. 3, n. 3) e a Bengasi (Kenrick 1985, 324, fig. 60, n. 489.4).
127Forma 2111b. N. inv. 31402. Fig. 8
Tegame con orlo piano, pareti bombate, fondo diviso convesso.
Vernice distribuita uniformemente sulla superficie interna, sul bordo esterno dell’orlo ed a bande incrociate sulla superficie esterna, colore rosso mattone (MUS. 10R 4/6), saponosa, poco aderente, tendente a staccarsi a scaglie. Due serie di cerchi concentrici sul fondo interno.
Graffito ante cocturam sul fondo esterno: forse tre lettere in corsivo AMB.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 30,5 cm; altezza 5,3 cm.
Questa forma dovrebbe attestare l’ultima fase conosciuta nel bacino del Mediterraneo di questa produzione5. Le attestazioni più tarde hanno forma molto simile ma con pareti molto più spesse. Dovrebbe corrispondere, per grandi linee, al n. 28-30 della classificazione di Goudineau (1970, 168, pl. II) ed alla forma Ostia II n. 340 (Giannelli 1970, 89 ss., tav. 20, n. 340), ben attestata intorno alla fine del I inizi II secolo d.C. (Giovannini 1973, 407), ed al tipo b479 di Kenrick, che unisce sotto lo stesso tipo tutti i tegami con orlo piano (Kenrick 1985, 324 e ivi bibl.).
Alle attestazioni raccolte da Goudineau e da Kenrick sono da aggiungere per questa forma i confronti già citati e un esemplare da Ginevra (Paunier 1981, 258, fig. 367, nn. 587, 578).
2120. Tegami ad orlo ingrossato
128Forma 2121a. N. inv. 24453. Fig. 9
Tegame con orlo leggermente ingrossato, indistinto, pareti leggermente bombate, fondo piano.
Righe di tornio esterne ed interne. Tracce di lisciatura interna.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 18,1 cm; alt. 5,5 cm.
Sono stati rinvenuti altri cinque esemplari, le cui dimensioni si riferiscono ad un’unica misura (diametro dell’imboccatura tra 22 cm e 26 cm; altezza tra 6 e 7 cm).
Non si è rinvenuto nessun confronto per questa forma.
Il pezzo è molto simile al tipo 2130 (tegami con orlo bifido) da cui differisce per una diversa sagomatura dell’orlo.
Potrebbe trattarsi di qualche produzione occasionale in non molti esemplari e non esportata al di fuori dell’ambito cittadino. La fattura e le caratteristiche morfologiche del pezzo sono assimilabili dal punto di vista produttivo ai tegami del tipo 2130.
2130 Tegami ad orlo bifido
129Il tipo di tegame con orlo bifido, con pareti più ο meno bombate, insieme con le pentole con orlo a tesa (tipo 2210), è l’elemento rappresentativo della ceramica da cucina di epoca imperiale in gran parte del bacino del Mediterraneo.
130Sono note almeno tre fabbriche di questo tipo, di cui solo una è certamente attestata a Pompei:
argille vulcaniche, di provenienza italiana, più probabilmente campana, tegami largamente esportati;
argille africane, anch’esse esportate, almeno in Italia: esemplari di tegami di questo tipo in produzioni africane sono noti a Cosa6;
argille tripolitane, note a Bengasi, esemplari attestati dall’età augustea fino alla prima metà del II secolo d.C., ed a Leptis Magna alla metà del I secolo d.C.7.
131L’evoluzione del tipo, come per le pentole con orlo a tesa, non è molto chiara.
132Per Riley (1977, 249) un indizio di “early feature” potrebbe essere un “offset on the inside of the base”; questa particolarità però sembra comparire anche negli esemplari pompeiani (per esempio la forma 2131a) che sono in massima parte nuovi, quindi certamente in uso nel 79 d.C.
133Gli esemplari più antichi, sempre da Pompei di età augustea8 ο augusteo/tiberiana (Chiaramonte Treré 1984, 147 ss.; Bruckner 1965, Ab.1.2,4; Bruckner 1975, 208, fig. 205,3) sembrano molto simili a quelli conservati nei depositi dei Granai del Foro, anche se, in genere, è possibile notare che lo spessore delle pareti è ridotto rispetto agli esemplari di 50 ο 60 anni posteriori.
134Il tipo sembra avere antecedenti di epoca ellenistica in Grecia con pareti molto più diritte ed anse orizzontali (Thompson 1935, 419, figg. 106-107; 467, figg. 121 e 145).
135I primi esemplari rinvenuti in strato della stessa forma attestata nel nostro gruppo sono riferibili alla fine del I secolo a.C.-prima metà del I secolo d.C. in Italia centrale9 e, nello stesso periodo, in Africa importati dall’Italia10. Sono noti anche esemplari dalla Grecia continentale, per tutto l’arco del I secolo d.C., anche se la mancanza di dati quantitativi non ci permette di formulare ipotesi sul reale significato della presenza di tale materiale (Slane Wright 1980, 154, fig. 5, n. 176). Attestazioni più tarde sono anche ad Atene (Robinson 1959, G112, 33; Warner Slane 1986, 291, n. 90, fig. 15). Per la zona a nord delle Alpi, la forma è presente sia sul limes renano, in un periodo coevo alle attestazioni più antiche note nel bacino del Mediterraneo, che in Britannia, in epoca di poco successiva (da Haltern: Loeschke 1909, tipo 75d; da Camulodunum: Hawkes/Hull 1947, forma 17a). Allo stato attuale delle nostre conoscenze non è possibile dire se, negli ultimi due casi, si tratti realmente di importazioni italiche ο piuttosto di produzioni locali sviluppatesi per soddisfare la domanda delle truppe romane stanziate lungo i confini dell’impero e abituate all’uso quotidiano di tali forme.
136La battuta di arresto nella produzione di questo tipo dovrebbe essere posta tra la fine del I e la prima metà del II secolo d.C., quando diventa estremamente raro a Bengasi e ad Ostia, due siti che forniscono stratigrafie diagnostiche per il calare delle presenze di tali oggetti in due punti diversi del Mediterraneo (Riley 1977, 249; Carandini 1970, 85, tav. XVIII, n. 308; Carandini 1973, 265, tav. CXIII, n. 267)11. È probabile che la produzione di questi tegami continuasse in Campania anche dopo la distruzione di Pompei, il che fa supporre che erano attive diverse fabbriche. Infatti, un frammento di tegame ad orlo bifido è presente nel contesto della prima metà del II secolo d.C. di Cratere Senga (Garcea 1985, 276, tav. VII, n. 5) con un’argilla certamente di origine campana, lievemente differente dagli esemplari rinvenuti a Pompei12.
137I pezzi rinvenuti a Pompei, tutti riferibili ovviamente all’epoca flavia, sono stati divisi in tre forme sulla base della diversa inclinazione delle pareti, dell’attacco del fondo alla parete e della presenza ο meno delle piccole prese orizzontali. La fattura degli oggetti è molto omogenea ed è attribuibile, a mio parere, ad un’unica fabbrica operante nella zona vesuviana. Quasi tutti hanno l’orlo esterno annerito intenzionalmente e le pareti interne lisciate, probabilmente per evitare le incrostazioni delle pietanze in essi cucinate (una tecnica di lavorazione più corsiva rispetto all’uso della vernice rossa interna nei tegami ad orlo piano, con la stessa funzione e probabilmente prodotti nelle stesse officine).
138Si è notato che, in molti esemplari, il particolare orlo bifido è talvolta appena accennato, com’è chiaro dal disegno che identifica la forma 2131a, mentre altre volte è realizzato come una vera e propria scanalatura profonda per facilitare la copertura del recipiente.
139Forma 2131a. N. inv. 25282. Fig. 9
Tegame con orlo bifido, pareti espanse, fondo leggermente concavo diviso all’interno.
Superficie interna lisciata. Tracce di annerimento sull’orlo esterno.
Argilla tipo 1 (L1).
Diam. imboccatura 28,6 cm; alt. 7,1 cm.
La forma è stata rinvenuta in sessantacinque esemplari e sembra essere prodotta in tre misure diverse:
1) diam. imboccatura variabile tra 16 e 19 cm, alt. 4,5 cm;
2) diam. imboccatura variabile tra 20 e 28 cm, alt. variabile tra 5 e 6,5 cm;
3) diam. imboccatura oltre 30 cm, alt. 7-8,5 cm.
Un grafico XY generato con l’associazione delle misure dell’altezza e del diametro dell’imboccatura (fig. 2, Β), rende evidente questi addensamenti proporzionali, che potrebbero essere interpretati come la tendenza della fabbrica a produrre i tegami nelle tre misure richieste sul mercato. Le variazioni tra i pezzi della stessa misura potrebbero altresi essere ascritte al modo di produzione artigianale della fabbrica.
140A differenza delle pentole con orlo a tesa, che pure sembrano avere misure standard, i tegami ad orlo bifido compaiono nel grafico addensati in maniera più omogenea. Inoltre, la forma 2111b, oltre ad essere largamente attestata in tutto il bacino del Mediterraneo, è anche particolarmente omogenea nelle sue caratteristiche tecniche, sia di fattura che di argilla.
141È interessante notare che nel relitto della Madrague de Giens (Tchernia et al. 1978, 64), naufragato intorno alla metà del I secolo d.C., parte del carico era costituito da ceramica da cucina, compresi tegami ad orlo bifido. La forma sembra essere leggermente differente da quella rinvenuta a Pompei, e non è possibile verificarne la zona di provenienza. I tegami sono raggruppati in due misure, con un diametro indicativo di 33 e 39 cm e l’altezza di 5,5-6 e 8 cm, e dovrebbero essere compresi tra gli esemplari della misura più grande rinvenuta a Pompei. A Luni tegami simili, nella loro forma più attestata, hanno diametri compresi tra 27 e 28 cm ed anche in questo caso non è nota la zona di produzione (Massari/Ratti 1977, 617 ss.).
142Appare chiaro dai dati a nostra disposizione che le tre serie di misure non sono assimilabili, è quindi probabile che ogni tipo di fabbrica seguisse un suo standard, oppure, nel caso del relitto della Madrague, venissero esportati di norma solo esemplari di misura determinata. Purtroppo, nella letteratura sull’argomento, non è possibile verificare tali ipotesi, innanzitutto perché è particolarmente complessa l’attribuzione ad un’area produttiva in base alla descrizione dell’argilla, e poi perché i casi in cui il materiale è pubblicato, sia sotto l’aspetto tipologico che quantitativo, sono rari.
143Il tipo sembra avere una distribuzione capillare in Campania e in tutto il bacino del Mediterraneo13.
144Forma 2131b. N. inv. 24449. Fig. 9
Tegame con orlo bifido, pareti molto espanse, fondo piano.
Superficie interna lisciata, tracce di annerimento sull’orlo estemo e sul fondo esterno.
Argilla tipo 1 (L1).
Diam. imboccatura 17,6 cm; altezza 4,9 cm.
La forma è stata rinvenuta in cinque esemplari con le stesse dimensioni della forma 2131a.
La forma 2131a si distingue dalla forma 2131b per le pareti più espanse e per la mancanza di divisione interna tra pareti e fondo. Le caratteristiche tecniche delle due forme, come del resto anche per la forma 2133a, sono identiche ed attribuibili allo stesso ambito produttivo.
La forma non sembra essere attestata al di fuori dell’Italia centro-meridionale14.
145Forma 2133a. N. inv. 25302. Fig. 9
Tegame con orlo bifido, pareti espanse, fondo piano, due piccole prese orizzontali.
Argilla tipo 1 (L1).
Diam. imboccatura 17,5 cm; altezza 5,4 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
Non si sono rinvenuti confronti precisi per questo pezzo.
2140 Tegami con orlo distinto
146Forma 2143a. N. inv. 25304. Fig. 10
Tegame con orlo distinto, leggermente ingrossato, pareti espanse, fondo piano, due piccole prese orizzontali impostate sotto l’orlo.
Superficie interna lisciata.
Argilla tipo 2 (L2).
Diam. imboccatura 25 cm; altezza 9 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
Le analogie tecniche con le forme di tegami ad orlo bifido discusse in precedenza, specialmente nella sagomatura dell’ansa (cfr. supra la forma 2131a) e nella resa della lisciatura delle superfici, fanno supporre per questa forma una provenienza analoga.
Un pezzo conservato nei depositi della Casa di Bacco, a Pompei, ed un altro esemplare da Ercolano (Scatozza 1988, 85, tav. II, n. 9 [2070a]), analoghi al nostro per argilla e finitura della superficie esterna, sono provvisti di una spessa copertura a vernice rossa sulla superficie interna, identica ai tegami ad orlo piano (2111a-b), e sono attestati con queste caratteristiche anche fuori d’Italia (Paunier 1981, 259, fig. 367, n. 597 ed ivi bibl. precedente).
Questa forma si pone, dunque, come anello di congiunzione tra le due serie di recipienti con e senza vernice interna, che probabilmente hanno in comune anche la stessa funzione, entrambi di fabbrica campana.
Esemplari in ceramica da cucina non verniciata sono noti anche dagli strati augustei dello scavo per l’impianto elettrico di Pompei15, ancora inediti, e da Cosa, di produzione quasi certamente non campana (Dyson 1976, 102, fig. 37, n. PD110, terzo quarto del I secolo a.C.).
2150 Tegami ad orlo sagomato
147Forma 2151a. N. inv. 25305. Fig. 11
Tegame ad orlo sagomato e diviso, pareti bombate, fondo piano.
Superficie interna ed esterna lisciata.
Argilla 3 (A1).
Diam. imboccatura 17,7 cm; altezza 6,4 cm.
La forma è stata rinvenuta in solo esemplare.
Le caratteristiche macroscopiche dell’argilla con cui è prodotto questo pezzo ci riportano ad un ambito produttivo certamente non campano. Inoltre questa forma trova confronti molto precisi con forme di ceramica da cucina a patina cenerognola di produzione tunisina (Tortorella 1981, 223, tav. CIX, 11 ed ivi bibl.).
Ad Ostia, dove compare fin dall’età tiberiana (Zevi/Pohl 1970, 176, fig. 86, n. 243), la distribuzione cronologica nelle stratigrafie dello scavo delle Terme del Nuotatore evidenzia un addensamento delle attestazioni intorno alla fine del I secolo d.C. (sedici esemplari su ventidue, 72% circa) che tendono a diminuire nel corso del II secolo (Carandini 1973, 415, fig. 331, tav. XLII).
Si tratta quindi di un tegame di produzione africana, prodotto in almeno due tipi diversi di argilla (Carandini 1973, 43, fig. 19), diffuso in Italia nei primi due secoli della nostra era.
Malgrado i dati quantitativi che si possono dedurre dal materiale conservato nei depositi pompeiani non siano probanti per un computo sul volume di traffico delle importazioni presenti in città, il fatto che questo tegame compaia in un solo esemplare, contro la grande massa di materiali prodotti più ο meno localmente, potrebbe essere interpretato come un contatto sporadico. Lo studio, tuttora in corso, delle anfore provenienti dai depositi pompeiani forse chiarirà di che tipo ed a che livello fossero i rapporti tra il sito vesuviano e le province d’oltremare nel I secolo d.C.
2160 Tegami ad orlo estroflesso
148Forma 2161a. N. inv. 25306. Fig. 11
Tegame con orlo estroflesso e sagomato, dentello interno per la coperchiatura, divisione sotto l’orlo esterno, pareti quasi diritte, fondo a calotta.
Due profonde righe di tornio sulle pareti esterne. Superficie interna ed esterna lisciata.
Argilla tipo 3 (Al).
Diam. imboccatura 30,6 cm; alt. 10 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
Anche questa forma, senza dubbio, è da ascrivere ad un ambito produttivo africano, e sembra non essere molto diffusa.
È lecito forse supporre una derivazione da materiale di età ellenistica (II secolo a.C.) ritrovato in Tunisia (Fulford 1986, 189, n. 30: a Cartagine prima del 146 a.C.), con cui sembra possibile stabilire dei paralleli morfologici specialmente nella resa dell’orlo. Forse si può aggiungere a questo dato un altro frammento di tegame proveniente da Cosa, di produzione sconosciuta, di epoca molto più tarda, come mero confronto morfologico (Dyson 1976, 141-142, fig. 55, n. 12, III secolo d.C.). A maggior ragione, per questa forma, come per la precedente, è da supporre un’importazione casuale dalle province d’oltremare.
2170 Tegami con dispositivo per immanicatura
149Forma 2172a. N. inv. 31577. Fig. 12
Tegame ad orlo piano, pareti oblique, fondo piano, dispositivo per immanicatura rinforzato da due ο più costolature concentriche, impostato sull’orlo, presa digitalata orizzontale impostata sulla superficie esterna dell’orlo.
Superficie interna del fondo leggermente striata.
Argilla 6 (2311B).
Diam. imboccatura 30,6 cm; alt. 5 cm.
La forma è stata rinvenuta in cinque esemplari, tutti rapportabili ad una stessa misura. Solo due sono provvisti della presa sull’orlo; uno, rinvenuto in stato frammentario, manca di dispositivo per l’immanicatura.
La forma è già stata pubblicata dall’Annecchino (1977, 109, fig. 2, n. 9), che gli attribuiva il nome antico di sartago ed una funzione specifica di padella.
A parte queste notazioni di carattere antiquario, questo tipo di produzione presenta caratteristiche di argilla certamente non italiane, ed il suo particolare dispositivo per l’immanicatura ne fa un oggetto facilmente riconoscibile da materiale di scavo anche frammentario.
J. Riley (1977, 273 ss.) riconosce nei materiali da Bengasi almeno due produzioni con questa caratteristica forma, una africana ed un’altra, la cui descrizione macroscopica dell’argilla è molto simile alla nostra, importata probabilmente dal vicino oriente, cercando di dimostrare come la distribuzione di tale materiale sia molto concentrata in siti della Grecia e dell’Asia Minore nella prima età imperiale16. La forma è altresì diffusa anche in Italia: Ostia17, Cosa (Dyson 1976, 122, fig. 46), Sibari18, Albintimilium (Lamboglia 1950, 71, fig. 30, n. 53 e 83 ss.), Roma (Polia 1972, 98, tav. 7, n. 2186) ed ovviamente Pompei, con attestazioni cronologiche tutte comprese tra il I ed il II secolo d.C.
150Certamente si tratta di una forma particolare che dovette essere importata dal vicino oriente. È probabile che questo materiale fosse imbarcato sulle stesse navi che trasportavano anfore contenenti derrate dal vicino oriente, presenti nei contesti primo-imperiali campani (Napoli e Pompei) in quantità molto maggiori rispetto, per esempio, a siti come Ostia, dove la forma 2172a compare una sola volta nello strato VB2 dell’ambiente VI di fine primo secolo e una sola volta dai contesti tiberiani della Casa dalle pareti gialle (cfr. nota 17).
151Sono ancora da aggiungere attestazioni con fondo bollato dal contesto puteolano di Palazzo Toledo (cfr. parte 1, p. 73) della fine del II secolo.
2210 Pentole con orlo a tesa
152Sono state schedate in questo tipo ben dieci forme. Le caratteristiche generali sono: l’orlo a tesa variamente sagomato, talvolta leggermente inclinato verso il basso ο verso l’alto, il fondo a calotta ο il piccolo fondo piano e, talvolta, anse orizzontali ο prese digitalate, rinvenute in particolare sulle pentole di piccole dimensioni.
153Il tipo, estremamente diffuso in tutto il Mediterraneo, specialmente in Occidente, sembra comparire verso gli inizi del I secolo a.C., ed è generalmente interpretato come derivazione dai tegami a pareti oblique con grosso orlo aggettante e profondo incasso per il coperchio19, piuttosto comuni in età ellenistica in ambito pompeiano20.
154A Pompei il tipo compare in una forma simile alla nostra 2211a già dalla fine del II secolo a.C. e sembra continuare, senza poter distinguere diversificazioni evolutive, fino all’età tiberiana21. Due orli a tesa, probabilmente di pentola con vasca profonda e carenata, in argilla campana sono stati rinvenuti negli strati di distruzione della villa rustica in località Malafronte a Gragnano (Na), nel territorio dell’antica Stabiae, distrutta nella prima metà del I secolo a.C. (Di Giovanni 1991, 40, fig. 22, n. 7; fig. 23, n. 1).
155Sempre in Campania, a Neapolis, due contesti scavati nel centro antico, purtroppo ancora inediti, ci permettono di dimostrare che la forma non subisce grosse evoluzioni formali nei successivi due secoli. Dallo scavo di Santa Sofia, in un contesto di età giulio-claudia, la quasi totalità delle pentole ha l’orlo a tesa molto simile sia agli esemplari di Gragnano che alle forme 2211a e 2211e di Pompei. Dagli strati di fine I-inizi II secolo dello scavo del complesso monumentale di Santa Patrizia, le pentole con orlo a tesa sono sostanzialmente simili; di una la probabile evoluzione morfologica potrebbe essere testimoniata dagli esemplari ansati con orlo leggermente obliquo dallo scarico adrianeo-antonino di Cratere Senga, vicino Pozzuoli (Garcea 1984, 274, tav. VI, n. 9).
156Purtroppo mancano contesti sicuramente databili per i successivi due secoli (III e IV) nel centro campano, ma è importante notare come nel gruppo delle pentole dallo scavo dei Girolamini (taglio I), nell’US 52, databile alla seconda metà del IV secolo d.C., sono completamente assenti gli orli a tesa orizzontale, sostituiti da un orlo a piccola fascia analogo alla pentola di produzione africana Hayes 197. Altre attestazioni sporadiche in strati tardoantichi, dallo scavo di Carminiello ai Mannesi, sono dovuti a fenomeni di residualità (Fracchia 1994, 176, fig. 78, n. 21).
157Per quanto riguarda la diffusione del tipo in ambito più vasto, va notato che le attestazioni si concentrano cronologicamente tutte nel I-II secolo d.C.: ad Ostia, dove il tipo 2210 ha una sua evoluzione locale (Carandini 1973, 457; Arthur 1983, 88); ad Albintimilium in Liguria nel I secolo (Lamboglia 1950, 108, fig. 54, nn. 40-41; 110, fig. 55, n. 27; 114, fig. 58, n. 40); a Luni, ancora in Liguria, dove continua, sembra, almeno fino al V secolo (Massari Ratti 1977, 620 e s.); a Cosa, in Etruria, dove compare in strato alla metà del I secolo d.C. e non prima (Dyson 1976, 115) e sembra attestato, pare, fino al III; a Sutri, nel Lazio, dove compare in un contesto del terzo quarto del I secolo d.C. (Duncan 1964, 59), mentre manca nella stessa località in strati di fine II e inizi I a.C. (Duncan 1965), ed a Fregellae, distrutta nel 125 a.C. (Lippolis 1986).
158Di sospetta provenienza italiana è anche un frammento in un contesto di primo impero da Corinto (Warner Slane 1986, 293, fig. 16, n. 102), mentre a Creta, nella suppellettile della Villa di Dionisos le forme di ceramica da cucina, prodotte localmente, sembrano imitare prototipi di pentole con orli a tesa (Vegas 1973, 20).
159Il tipo è noto anche dalla Spagna, dove però non è possibile stabilire se si tratti di produzioni locali ο di materiali importati dall’Italia (Vegas 1973, 20). In Africa, a Cartagine ed a Bengasi, il tipo compare nel I secolo d.C. ed è di produzione locale o, in ogni caso in argille non vulcaniche (Hayes 1976a, 94, ERCW1; Riley 1977, 250 e s., ERCW4).
160Nel I secolo d.C. sono note attestazioni del tipo anche sul limes renano22.
161Allo stato attuale delle ricerche, molto complesso è il discorso sulle produzioni per i materiali pompeiani.
162Oltre ai due tipi locali, probabilmente connessi ad un ambito produttivo zonale, sono attestati altri tre tipi di argilla vulcanica con inclusi di quarzo, leggermente differenti dai tipi 1 e 2, e che potrebbero essere ascritti, in mancanza di dati petrografici più precisi, a zone limitrofe all’area pompeiana.
163Una sola forma, la 2213c, presenta un’argilla priva completamente di inclusi vulcanici e del tutto differente come struttura dalle precedenti.
164Potrebbe forse trattarsi di un’importazione, non so quanto casuale, dal vicino oriente. In mancanza di dati petrografici più precisi, i confronti morfologici non possono confermare tale ipotesi, che è assolutamente indicativa.
165Forma 2211a. N. inv. 25392. Fig. 14
Pentola con orlo a tesa orizzontale, leggermente scanalato in punta, leggera scanalatura esterna sotto l’orlo, pareti carenate, fondo a calotta.
Profonde righe di tornio interne.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 9,4 cm; alt. 6,1 cm.
L’esemplare disegnato è il più piccolo tra quelli conservati nel deposito dei Granai del Foro.
Sono stati schedati quarantotto esemplari di varie misure, i più grandi, pur conservando le stesse proporzioni, hanno il diametro all’imboccatura compreso tra 27 e 29 cm; altezza compresa tra 17 e 19 cm.
166È la forma maggiormente attestata di questo tipo. L’argilla, di produzione campana, è del tutto simile a quelle che ricorrono nelle olle e nei tegami ad orlo bifido, ritenuti di produzione locale. È già stata pubblicata, con un disegno molto stilizzato, dall’Annecchino (Annecchino 1977, 108, fig. 1, n. 1-2), che raggruppava tutte le forme di pentole con orlo a tesa sotto il nome antico di caccabus.
167Molti sono i confronti che si possono produrre per questa forma, attestata nella zona vesuviana: a Pompei (Chiaramonte Treré 1984, 151, tav. 91, n. 1), nel suburbio pompeiano (De Caro 1994, 158, fig. 37, n. 100), nei depositi di Ercolano23 e nel suburbio ercolanese ante 79 (Lagi De Caro 1976, 103, fig. 12, n. 18; De Caro 1987, 56, fig. 77, n. 11); a Napoli, fuori contesto (Morselli 1987, 53, fig. 34, b118-119). Nel Lazio, a Sutri (Vegas 1968, 40, fig. 15, n. 149), nella seconda metà del I secolo d.C., ad Ostia (Carandini 1970, 100, tav. XXVII, n. 480; Carandini 1973, 454), alla fine del I secolo d.C. ed in Toscana, a Cosa, nella prima metà del I secolo d.C. (Dyson 1976, 117, fig. 43, n. 10).
Un altro solo esemplare, forse anch’esso di produzione campana, è attestato in Lucania, nella villa di Vittimose, in territorio volceiano (provincia di Salerno) (Dyson 1983, 62, fig. 148, n. 78). Probabilmente è pure di produzione italiana un frammento da Corinto da un contesto primo imperiale (Warner Slane 1986, 293).
Dal giro di orizzonte delle attestazioni si può dedurre che la forma è diffusa in ambito campano e che, probabilmente, dovette essere esportata in altre zone d’Italia e forse, episodicamente, in altre parti dell’impero. In ogni caso, è difficile stabilire se gli esemplari pubblicati siano realmente importati dalla Campania oppure siano produzioni locali.
168Forma 2211b. N. inv. 25385. Fig. 14
Pentola con orlo a tesa orizzontale, leggermente scanalato in punta e sulla superficie esterna, pareti carenate, fondo a calotta.
Righe di tornio interne.
Argilla 6.
Diam. imboccatura 12,4 cm; alt. 8 cm.
La forma è presente in sei esemplari, con misure diverse. Il diametro dell’orlo varia tra 15,6 cm (un solo esemplare) e 26 cm (un solo esemplare) e l’altezza tra 10,7 e 16,5 cm.
Il recipiente si può accostare alla forma Ostia II, fig. 478, anche se il nostro esemplare ha l’orlo leggermente più inclinato. Ad Ostia questa forma sembra la più attestata negli strati tardo flavi delle Terme del Nuotatore: copre quasi il 70% del totale delle pentole con orlo a tesa negli strati di fine I secolo (Carandini 1970, 100, tav. XXVII) e non sembra essere presente negli strati di III-IV (Tortorella 1977, 114).
169Forma 2211c. N. inv. 25377. Fig. 14
Pentola con orlo a tesa leggermente inclinato e concavo, espanso verso l’interno, pareti quasi diritte, fondo a calotta.
Righe di tornio interne.
Argilla 8.
Diam. imboccatura 23, 18 cm; alt. 18 cm.
La forma è attestata in tre esemplari, di cui uno con misure simili a quello disegnato ed un altro più piccolo (diametro all’imboccatura 16,5 cm; altezza 8,5 cm).
Non si sono rinvenuti confronti precisi per questa forma. La produzione sembra essere campana.
170Forma 2211d. N. inv. 25378. Fig. 14
Pentola con orlo a tesa inclinato verso l’alto, pareti concave, piccolo fondo piano.
Profonde e frequenti righe di tornio interne.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 10,2 cm; alt. 8 cm.
La forma è attestata in un esemplare.
Non si sono rinvenuti confronti precisi per questa forma. La produzione è campana.
È interessante notare come, dal punto di vista morfologico, pur rimanendo nei parametri delle pentole, questa forma sembra essere molto vicina al tipo delle olle biansate con fondo concavo. Ciò dimostra che forme con funzioni analoghe possono avere tratti comuni, di difficile distinzione all’interno di una tipologia.
171Forma 2211e. Ν. inv. 25310. Fig. 14
Pentola con orlo a tesa, sagomato e ingrossato presso la punta, pareti carenate, piccolo fondo piano.
Righe di tornio interne.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 9,4 cm; alt. 6,6 cm.
La forma è attestata in diciannove esemplari di varie dimensioni (quello disegnato è il più piccolo). Talvolta è presente con lo stesso orlo, ma con il fondo a calotta. Le dimensioni maggiori sono: diam. imboccatura max. 26,7 cm; alt. max. 18,9 cm.
Insieme con la forma 2211a, rappresenta la pentola con orlo a tesa di produzione locale maggiormente attestata nei Granai.
La forma è presente nella suppellettile della villa del Petraro, a Stabiae (De Caro 1987, 56 ss., fig. 77, n. 12) e nei depositi di Ercolano; dalla zona flegrea (hinterland di Pozzuoli) proviene un esemplare molto simile, raccolto durante la ricognizione del Progetto EUBEA (Consorzio Pinacos), rinvenuto insieme ad altro materiale di età imperiale24.
Esemplari morfologicamente molto simili provengono da Sutri, nel Lazio, in un contesto del terzo quarto del I secolo d.C. (Duncan 1964, forma 23, 59, di cui l’esempio più simile sembra essere l’esemplare in fig. 10, n. 77); sempre dal Lazio, ad Ostia, con orlo meno inclinato (Carandini 1973, 76, fig. 602, da un contesto tardo-flavio).
Anche per questa forma, come per la forma 2211a, sembra essere certa la diffusione in ambito campano e forse nelle zone limitrofe, anche se permangono i soliti dubbi sulla pertinenza delle produzioni degli esemplari non esaminati de visu.
172Forma 2211f. N. inv. 25393. Fig. 14
Piccola pentola con orlo a tesa, inclinato verso l’alto, sagomato presso l’interno, pareti carenate, fondo piano.
Argilla tipo 2 (L2).
Diam. imboccatura 10,2 cm; alt. 7 cm.
La forma è attestata in quattro esemplari, tutti delle stesse dimensioni.
Non si sono rinvenuti confronti formali precisi.
Si tratta, probabilmente, di una piccola pentola di produzione locale che non viene esportata al di fuori dell’ambito cittadino.
173Forma 2211g. N. inv. 25346. Fig. 14
Pentola con orlo a tesa inclinato verso l’alto, pareti quasi cilindriche, leggermente bombate, leggera carenatura vicino al fondo, fondo piano.
Argilla tipo 1 (L1).
Diam. imboccatura 11,8 cm; alt. 10,5 cm.
La forma è attestata in due esemplari delle stesse dimensioni.
Non si sono rinvenuti confronti precisi per questa forma.
Vale lo stesso discorso fatto per la forma 2211f.
174Forma 2213a. N. inv. 25399. Fig. 15
Piccola pentola con orlo a tesa inclinato verso l’alto e sagomato, pareti carenate, fondo a calotta, due prese orizzontali digitalate sotto l’orlo.
Argilla tipo 1 (L1).
Diam. imboccatura 11,4 cm; alt. 6 cm.
La forma è attestata in 4 esemplari, tutti delle stesse dimensioni.
Il pezzo, probabilmente, è stato già pubblicato dall’Annecchino, ed anch’esso assimilato ai caccabi con orlo a tesa (Annecchino 1977, 108, fig. 1, n. 1).
È interessante notare come il particolare tecnico delle anse digitalate, che talvolta si ritrova anche su altre forme di ceramica da cucina campana (cfr. Vecchio 1985, 144, nn. 22-28; Camodeca 1980, 112, fig. 12), trovi anche confronti con un’altra forma di piccola pentola dalla Campania settentrionale con orlo più diritto da un contesto di I-II secolo d.C. (Cotton 1979, 151, fig. 44, n. 11).
175Forma 2213b. Ν. inv. 35397. Fig. 15
Piccola pentola con orlo a tesa inclinato verso l’alto, pareti carenate, fondo piano, due anse a bastoncello orizzontale impostate sopra la carena.
Argilla tipo 9 (N3).
Diam. imboccatura 11,6 cm; alt. 7,2 cm.
La forma è attestata in un esemplare.
Il pezzo può essere assimilato alla forma Ostia II, fig. 481 (Carandini 1970, 100). Purtroppo non sappiamo se corrisponde alla stessa produzione. L’argilla del pezzo pompeiano, pur essendo di origine vulcanica, non è tipicamente campana. Potrebbe trattarsi di un esempio di similarità di forme, fenomeno piuttosto comune nella koiné formale nella ceramica da cucina dei primi secoli dell’impero in Italia.
Altri esempi da Ostia: Ostia III, fig. 81 (Carandini 1973, 454), con pareti più carenate, da un contesto di fine I-metà III secolo; e Ostia IV, fig. 349 (Carandini 1977, 76, tav. XIX)25, da un contesto di fine II-prima metà III secolo.
176Forma 2213c. N. inv. 31690. Fig. 15
Pentola con orlo a tesa sagomato e leggermente inclinato verso l’alto, pareti carenate, fondo piano, due anse a bastoncello orizzontali impostate presso l’orlo ed unite sotto di esso.
Argilla tipo 7 (N1).
Diam. imboccatura 7,5 cm; alt. 4,8 cm.
La forma è attestata in un esemplare.
Dal punto di vista morfologico, questa forma potrebbe essere assimilata alla precedente: l’orlo è molto simile, il corpo del vaso è carenato e le anse, tranne nel particolare della giunzione sotto l’orlo, sono praticamente identiche, anche tenendo conto della produzione artigianale di questi oggetti.
La forma 2213c è però di produzione non locale. I confronti con il materiale dell’Agorà di Atene (Robinson 1959, 42, g.194-195) e con materiale da Cnosso (Hayes 1983, 122, fig. 7, n. 88; cfr. anche Hayes 1971, 266, fig. 17, n. 44)26 possono far supporre una probabile provenienza dal vicino oriente.
Non è possibile, in mancanza di dati quantitativi realmente probanti27, stabilire se la presenza di questo pezzo sia casuale ο testimoni un reale trend commerciale di questi contenitori, come sembra attestato ad Ostia nello stesso periodo (Coletti 1986, 62).
2220 Pentole con orlo diritto distinto
177Il tipo 2220 compare in una sola forma, che chiaramente non si collega alla tradizione formale italica a cui si richiamano gli esemplari trattati in precedenza.
178Infatti, rispetto ai parametri di divisione delle categorie funzionali discussi in precedenza, questa forma potrebbe essere ascritta ai tegami con vasca profonda. In genere, però, tale contenitore, nella letteratura sull’argomento viene definito come pentola ο casseruola e, per chiarezza, si è ritenuto opportuno inserirlo nella categoria delle pentole.
179Fino a questo momento, è l’unico tipo con superficie esterna a patina cenerognola di produzione africana noto a Pompei.
180Forma 2221a. N. inv. 31572. Fig. 16
Pentola ad orlo distinto e sagomato, ingrossato all’interno per il coperchio, pareti diritte, piccolo ingrosso presso il fondo esterno, fondo a calotta striato.
Righe di tornio interne. Patina cinerognola matta all’esterno.
Argilla A2.
Diam. imboccatura 11,4 cm; alt. 5,2 cm.
La forma è presente in due esemplari delle stesse dimensioni, di cui uno restaurato e fortemente integrato.
181La presenza di questa pentola fu già notata da Andrea Carandini nell’“Instrumentum domesticum di Ercolano e Pompei” (Carandini 1977, 24). Questa forma è ascrivibile a quella in Atlante I, Tav. CVI, 8 (Tortorella 1981, 216 e ivi bibl.) che corrisponde alla forma Ostia II, fig. 303-4; Hayes 194 (Carandini 1970, 84 ss.; Hayes 1972, 207 ss., fig. 36, forma 1014), nota in Italia fin dall’età augustea con attestazioni in età tiberiana e flavia (Tortorella 1981, nota 63).
A partire dal II secolo sembra essere prodotta anche in sigillata chiara (Carandini 1970, 84 ss.). Ad Ostia manca dai contesti di III e IV secolo (Carandini 1970, 85; Ricciotti 1977, 102, strati I e II), data in cui dovrebbe terminare l’esportazione di tali recipienti in Italia.
J. Hayes (Hayes 1976, 99, fig. 15 c8, ERCW2, tipo A), nella discussione del materiale ceramico da Cartagine, afferma di non conoscere attestazioni di tale forma in Campania oltre l’età flavia, e in Spagna oltre il II secolo.
Ai dati raccolti da Tortorella (1981) nel supplemento dell’EAA I si possono aggiungere altre atte stazioni, una dalla Spagna mediterranea (Pollentia) nel I secolo d.C. (Vegas 1964, 17, n. 4, tipo 7c), ed una dalla stessa città di Pompei dagli strati della Casa della Colonna Etrusca dove però sembra prodotto in argilla vulcanica (Chiaramonte Treré 1984, 152 ss., tav. 92, n. 6)28.
2230 Pentole con orlo estroflesso
182Per le due forme di piccole pentole, tutte in argilla di produzione locale, molto simili per caratteristiche fisiche a quelle degli altri recipienti, non sono stati rinvenuti confronti precisi.
183Il tipo 2230 sembra vagamente richiamarsi a prototipi più antichi di età ellenistica.
184Il dato tecnico della fattura e dell’argilla ci ha indotto ad inserirle nella tipologia della ceramica da fuoco, ma non è escluso che potessero avere usi potori (cfr., per es., l’orlo della forma 2232b) ο come contenitori da dispensa.
185Si deve però rimarcare che, in genere, i contenitori che assolvono alle funzioni da dispensa ο da mensa sono prodotti in argilla molto diversa, sempre nell’ambito delle produzioni locali, sia come colore sia come caratteristiche fisiche.
186Un’altra difficoltà si presenta per il riconoscimento del tipo: un frammento di orlo di un’olla, per esempio del tipo 2312a, oppure 2312b, di cui si conservi soltanto il profilo dell’orlo e di parte dell’ansa, apparirà assolutamente simile al tipo 2232b, perché sia il modo di sagomare l’orlo sia l’impostazione e la forma molto particolare dell’ansa sono molto simili e denunciano una provenienza da ambiti produttivi comuni.
187Forse solo nel caso della forma 2232a, che ha un orlo più sagomato, è possibile realizzare un confronto formale, seppure molto vago, con un tipo da Ostia29.
188Questo è un altro caso di forme intermedie fra olle e pentole difficilmente riconoscibili dal materiale dei contesti di scavo, generalmente frammentario.
189Il fatto che il tipo compaia soltanto in questa dimensione, potrebbe far pensare ad una sua funzione specifica, difficilmente analizzabile in mancanza dei contesti di ritrovamento.
190Forma 2232a. N. inv. 31567. Fig. 17
Piccola pentola con orlo espanso orizzontale, lievemente scanalato (forse tracce d’incasso per il coperchio) sulla superficie esterna dell’orlo, pareti fortemente carenate, fondo piano, un’ansa verticale scanalata impostata sotto l’orlo e sul corpo appena sotto la linea della carenatura.
Argilla 2 (L2).
191Diam. imboccatura 8,2 cm; alt. 5,8 cm.
La forma è attestata con otto esemplari delle stesse dimensioni.
Si segnala per questa forma un confronto con un pezzo intero da un corredo di II secolo dalla necropoli dello Scalandrone, inedita, nei pressi di Baia (Na); il rinvenimento di questa forma in ambito funerario potrebbe far pensare ad un uso promiscuo, come del resto succede per altre forme di ceramica da cucina. Non avendo rinvenuto altri confronti non è possibile dire se si tratta della norma ο di un fenomeno episodico.
192Forma 2232b. N. inv. 31566. Fig. 17
Piccola pentola con orlo svasato, pareti fortemente carenate, fondo piano, un’ansa scanalata verticale impostata sotto l’orlo e sul corpo sotto la carenatura.
Profonde righe di tornio interne presso il fondo.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 11,4 cm; alt. 5,2 cm.
La forma è attestata in due esemplari, delle stesse dimensioni.
2310 Olle ad orlo obliquo e collo breve
193Circa la metà di tutta la ceramica da fuoco conservata nei depositi dei Granai del Foro di Pompei è ascrivibile a questo tipo, articolato in cinque forme sulla base del diverso profilo delle pareti e delle sagomature degli orli.
194Tutte le olle con orlo obliquo, tranne quelle di dimensioni maggiori, sono prodotte in argilla di tipo 2 con caratteristiche di rifinitura e resa delle superfici molto simili tra di loro. Molte sono provviste di una spessa patina nerastra sulla superficie esterna e le pareti sono poco spesse. Alcuni esemplari presentano tracce di contatto diretto con il fuoco sul fondo esterno, il che potrebbe essere considerato come prova del loro uso in cucina30, anche se probabilmente questo tipo, vista la sua incidenza quantitativa, doveva essere considerato un economico e comodo contenitore anche per altri usi. Non è raro, infatti, a Pompei, l’uso di olle come urne cinerarie31.
195È interessante notare come una cinquantina di queste olle, tutte ascrivibili alla forma 2311a nella misura più piccola riscontrata, sono provviste di tre fori sulle pareti presso il fondo (in qualche caso i fori sono quattro, e l’altro foro è stato praticato sul fondo del vaso). Tutti i fori sono stati fatti intenzionalmente nell’argilla morbida, prima della cottura del vaso.
196Le attestazioni della forma 2311a anche come ollae pertusae, prodotte specificamente per un uso esclusivamente agricolo32 è un’altra prova della versatilità ed economicità di questo tipo di oggetto. Non mancano confronti tra la ceramica da fuoco e la ceramica comune conservata nel deposito pompeiano, specialmente con uso da dispensa; solo le olle in argilla tipo 2, però, sono state specificatamente prodotte per un uso agricolo. È intuibile che le caratteristiche di robustezza e leggerezza di questi oggetti, nonché la loro economicità, ne facevano dei contenitori polifunzionali facilmente adattabili ad usi disparati, dalla cucina all’uso come margottiera all’uso funerario.
197L’inserimento di questo tipo nella ceramica da fuoco, come sua funzione primaria, è dettato essenzialmente dalle sue caratteristiche di fattura e dalle argille analoghe per composizione a quelle degli altri tipi sicuramente con uso di cucina.
198Il tipo si presenta piuttosto omogeneo nelle sue caratteristiche morfologiche. Sono state individuate cinque forme sulla base della curvatura delle pareti del vaso: nelle forme 2311a-b il corpo è piuttosto globulare (anche se in qualche caso la forma 2311a si presenta con pareti leggermente più allungate, pur avendo la stessa sagomatura dell’orlo); nelle forme 2311c e 2312a il corpo è decisamente più allungato; la forma 2312b è un unicum, una versione della forma 2311a schiacciata e ansata. Oltre all’andamento delle pareti del vaso, altro discrimine è certamente l’orlo, che nelle forme 2311a-c è sagomato in modo diverso, mentre le forme 2312a-b sono state isolate perché ansate. È pur vero che questi oggetti, pur essendo differenti nelle loro parti, corrispondono ad un unico tipo che, nei suoi caratteri essenziali, sembra omogeneo.
199Gli esemplari della forma 2311a di maggiori dimensioni difficilmente, a mio avviso, potevano avere in cucina una funzione di cottura e quindi dovevano essere usati come contenitori.
200Un’altra osservazione interessante è quella che questo tipo non compare mai biansato a Pompei. Tutte le forme chiuse biansate, simili alle olle con orlo obliquo, conservate nel deposito pompeiano sono in ceramica comune.
201Forma 2311a. N. inv. 27260. Fig. 19
Olla con orlo obliquo, leggermente ingrossato, pareti bombate, fondo piano, leggermente convesso.
Patina nerastra sulla superficie esterna; righe di tornio interne presso il fondo.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 12 cm; alt. 16,2 cm.
La forma è attestata in centotrentatré esemplari, raggruppabili in tre misure. La più piccola, che è anche quella più attestata (novantanove esemplari) ha un diametro all’imboccatura compreso tra 12 e 13 cm e l’altezza tra 17 e 18 cm; la misura intermedia (diciannove esemplari) ha un diametro all’imboccatura compreso tra 15 e 16 cm e l’altezza tra 22 e 24 cm; la misura più grande (quindici esemplari) ha un diametro all’imboccatura compreso tra 17 e 18 cm e l’altezza tra 26 e 28 cm. Nessun esemplare della forma 2311a nella sua dimensione più grande ha tracce di contatto con il fuoco sulla superficie esterna e l’argilla è assimilabile a quella dei tegami e delle pentole di produzione campana (argilla 1).
L’olla con corpo ovoide e orlo inclinato è attestata a Pompei dal I secolo a.C. fino alla distruzione del 79 d.C. (Chiaramonte 1984, 163 e s., tav. 98, n. 11, tipo olle 3) È piuttosto diffusa in Italia tra la tarda repubblica ed il medio impero: a Roma in età repubblicana (Carettoni 1957, 98, fig. 24c), nel Lazio nel I secolo d.C. (Duncan 1964, 61 e s., fig. 12, nn. 109111), a Cosa in Etruria e nel suo territorio nel I e nel II secolo d.C. (Dyson 1976, 79, fig. 79; 124, fig. 47, n. 55; Papi 1985, 102, tav. 28, n. 16). Un altro esemplare fuori contesto è attestato a Napoli (Morselli 1987, 54, fig. 34, n. B120).
La stessa forma è attestata nella necropoli fuori Porta Nocera a Pompei, rinvenuta in situ ed utilizzata come olla cineraria (De Caro 1979, 87, fig. 20).
202Forma 2311b. N. inv. 28740. Fig. 19
Olla con orlo obliquo, sagomato e distinto, pareti bombate, fondo piano.
Profonde righe di tomio interne. Superficie esterna lisciata.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 13 cm; alt. 16,5 cm.
La forma è stata rinvenuta in tre esemplari della stessa misura.
L’unico confronto per questa forma si è rinvenuto con un frammento di olla simile ritrovato negli strati augustei dello scavo dell’impianto elettrico a Pompei33. Al momento dello scavo furono rinvenuti all’interno del vaso scaglie e spine di pesce.
203Forma 2311c. N. inv. 27233. Fig. 19
Olla con orlo obliquo, pareti di forma ovoide, fondo convesso.
Profonde righe di tornio interne ed esterne.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 11,6 cm; alt. 18 cm.
La forma è stata rinvenuta in sei esemplari, cinque dei quali hanno la stessa misura di quello disegnato, l’altro, più grande, ha il diametro all’imboccatura di 13,8 cm e l’altezza di 17 cm.
Attestazioni della forma a Pompei (Chiaramonte Treré 1984, 163, tav. 98, n. 1; De Caro 1994, 163, fig. 38, n. 110), a Napoli (Morselli 1987, 104, fig. 35, n. C223), nella Campania settentrionale in ceramica comune (Cotton 1979, 18, fig. 52) e nell’Italia settentrionale in contesto funerario (Mercando 1974, 302, fig. 210a, tomba 132: ultimo quarto del I secolo d.C.).
204Forma 2312a. N. inv. 28439. Fig. 20
Olla con orlo obliquo, leggermente ingrossato, pareti di forma ovoide, fondo convesso. Un’ansa verticale, scanalata, impostata sull’orlo e nel punto di massima espansione della pancia (l’esemplare disegnato è mancante di parte dell’ansa).
Profonde righe di tornio interne.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 11,4 cm; alt. 16,5 cm.
La forma è stata rinvenuta in trenta esemplari. Tutti i pezzi tranne uno (diametro all’imboccatura 13,8 cm e altezza 17 cm) hanno il diametro all’imboccatura compreso tra 10,5 e 13 cm e l’altezza tra 14 e 16 cm.
La sagomatura dell’orlo della forma è molto simile a quella della forma 2311a, come del resto a quella della forma 2312b, di cui probabilmente questi pezzi costituiscono le versioni ansate.
La forma è attestata a Pompei (Chiaramonte Treré 1984, 165, tav. 100, n. 1) ed a Napoli (Morselli 1987, 163, fig. 34, n. E122).
Ad Ostia dagli scavi delle Terme del Nuotatore una forma simile in “rozza terracotta” (forma Ostia III, fig. 710) è presente alla fine del I secolo d.C. (Carandini 1973, 455, tav. LXXIV)34; il che prova che questa forma circola in Italia in questo periodo. Olle simili compaiono anche ad Atene, ma sono di difficile connotazione produttiva35.
Anche tra i materiali in ceramica comune per uso da dispensa conservati nei depositi dei Granai del Foro di Pompei sono attestate forme molto simili a quelle prodotte con argilla da fuoco.
In particolare una forma monoansata provvista di orlo identico alla forma 2312a, attestata in 11 esemplari, dimostra che probabilmente le stesse fabbriche producevano forme simili con argille di consistenza diversa a seconda degli usi a cui gli oggetti erano destinati.
Altre attestazioni della forma in ceramica comune ad Ostia (Carandini 1973, 89, tav. XXI, fig. 105, datazione metà-fine II secolo d.C.) e nella suppellettile proveniente dalla villa di Settefinestre in Etruria (Papi 1985, 106, 30, n. 8, datazione età severiana).
205Forma 2312b. N. inv. 31565. Fig. 20
Olla con orlo obliquo, leggermente ingrossato, pareti carenate, fondo convesso. Un’ansa verticale con doppia scanalatura, impostata sull’esterno dell’orlo e sul punto di diametro massimo delle pareti.
Righe di tornio interne.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 11,6 cm; alt. 12 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
Le analogie con la forma precedente, specialmente nella resa dell’orlo e nell’attacco dell’ansa, fanno intuire che questo pezzo appartiene allo stesso ambito produttivo.
206Poche e vaghe attestazioni per questa forma: da Ostia, in epoca più tarda (Giannelli/Ricci 1970, 94, tav. XIX, fig. 396), e dai materiali di una villa imperiale nel territorio dell’odierna Buccino in provincia di Salerno (Dyson 1983, 58, fig. 145, n. 22.23); Dyson 1976, 109, fig. 1, n. 8).
207Forma 2313a. N. inv. 35403. Fig. 21
Olla con orlo obliquo, diviso, pareti carenate, fondo a calotta, due anse a nastro orizzontali scanalate, impostate sopra la linea della carena e al centro dell’ansa stessa.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 15,2 cm; alt. 17 cm
Il pezzo è stato rinvenuto in un solo esemplare.
Un esemplare ascrivibile alla forma 2313a, munito di una serie di fori praticati sul fondo, è attestato a Pompei ed è stato già pubblicato dall’Annecchino come colum (Annecchino 1977, 109, fig. 1, n. 8).
208Forma 2313b. N. inv. 31646. Fig. 21
Olla con orlo sagomato con ringrosso per il coperchio, pareti carenate, fondo a calotta, due anse orizzontali a bastone scanalate, impostate sulla linea di carena ed appoggiate alla superficie del vaso.
Righe di tornio interne.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 14,5 cm; alt. 18 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
È possibile produrre due soli confronti per questo pezzo: dalla Campania settentrionale, da un contesto non databile con precisione (Compatangelo 1985, 60, tav. XI, n. 24.8), e dalla villa di Vittimose (Salerno) (Dyson 1983, 58, fig. 145, n. 38).
2320 Olle con orlo obliquo e collo distinto
209Forma 2323a. N. inv. 31544. Fig. 23
Olla con orlo estroflesso e sagomato con ingrosso interno per il coperchio, collo svasato, pareti bombate, fondo a calotta, due anse verticali a nastro scanalate.
Profonde righe di tornio interne. Tracce di contatto diretto con il fuoco sul fondo e sulle pareti esterne.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 13 cm; alt. 18 cm.
Il pezzo è stato rinvenuto in quattro esemplari delle stesse dimensioni.
Olle simili sono custodite nei depositi di Cuma, inedite e senza indicazioni sulla provenienza. Il loro stato di conservazione, sono integre, fa supporre un uso come urne cinerarie36.
La forma è anche attestata a Corinto, in argilla italiana, da un contesto di età augustea (Warner Slane 1986, 282, pl. 62, n. 19) e, in argilla probabilmente orientale e con anse differenti, ad Atene in un contesto di fine I secolo d.C. (Robinson 1959, 33, pl. 7, 31, 72, n. g116). Un altro pezzo, molto simile a quello di Pompei, è custodito nellOntario Museum privo del contesto di provenienza, riconosciuto da Hayes come produzione italiana (Hayes 1976b, 32, pl. 19, fig. 16, n. 148).
210Forma 2323b. N. inv. 31549. Fig. 23
Olla con orlo diviso, sagomato ed estroflesso, con ingrosso interno per il coperchio, collo diviso cilindrico, pareti quasi globulari, fondo a calotta. Due anse verticali a nastro scanalate, impostate sotto l’orlo e sopra il punto di massima espansione del vaso.
Profonde righe di tomio interne. Patina nerastra sulla superficie esterna.
Argilla 2 (L2).
Diam. imboccatura 16,5 cm; alt. 21,4 cm. La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
211Forma 2323c. N. inv. 31554. Fig. 23
Olla con orlo diviso, sagomato ed estroflesso, con ingrosso interno per il coperchio, collo diviso cilindrico, pareti carenate, fondo piano. Due anse verticali a nastro impostate sotto l’orlo e sopra la carena.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 16 cm; alt. 19,5 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare e non si sono riscontrati confronti.
2410 Coperchi con orlo piano
212Il tipo, rappresentato da una sola forma, è presente nei depositi dei Granai del Foro anche con esemplari leggermente diversificati tra di loro, specialmente nella sagomatura del pomello, che appare talvolta più informe e irregolare.
213Gli orli sono tutti piani ο leggermente ingrossati. Di questo tipo non sono attestati nei depositi coperchi con presa a pomello e orlo estroflesso, come invece, di norma, compaiono i piatti/coperchi. Piuttosto difficile è la differenziazione di questi oggetti da quelli prodotti in ceramica comune, la cui argilla è molto diversa, più chiara e compatta, a volte molto dura, e probabilmente utilizzati per le forme con uso di dispensa ο mensa.
214Tra i circa centonovanta esemplari interi schedati solo pochi, quindici in tutto, sono stati inseriti nella ceramica da cucina, perché prodotti in argilla 1 (la stessa dei tegami e delle pentole).
215Il numero di esemplari è esiguo forse per la fragilità di tali oggetti, che, ritrovati in frantumi ο quanto meno lacunosi negli scavi dei secoli scorsi, non erano conservati. Tenendo però conto che i piatti/coperchi, a parità di modalità di rinvenimento e di robustezza del pezzo, sono quasi cento esemplari, è probabile che il numero dei coperchi con presa a pomello in argilla 1 fosse comunque realmente ridotto in origine rispetto a quelli maggiormente attestati.
216Forma 2412a. N. Inv. 31670. Fig. 24
Coperchio con orlo piano, pareti oblique, presa a pomello informe.
Profonde righe di tornio sia interne che esterne.
Argilla 1 (L1).
Diam. imboccatura 24 cm; alt. 6,5 cm.
La forma è stata rinvenuta in quindici esemplari molto simili tra di loro, le misure sono tutte riportabili a quelle del pezzo disegnato.
Il tipo sembra essere ben attestato nella zona vesuviana nel I secolo d.C. (De Caro 1987, 58, n. 28; Chiaramonte Treré 1984, 174, nn. 110-111).
217Forma 2412b. N. Inv. 29575. Fig. 24
Coperchio con orlo piano e pareti oblique, lievemente bombate, presa a pomello sagomato.
Superficie interna ed esterna annerita dall’uso.
Argilla 1 (Ll).
Diam. imboccatura 14 cm; alt. 3,4 cm.
La forma è attestata in un solo esemplare analogo al tipo 1410 prodotto in ceramica comune.
2420 Coperchi con orlo ingrossato e piede - piatti/coperchi
218I coperchi con orlo ingrossato e piede sono noti in bibliografia come “piatti/coperchi” e compaiono nei depositi pompeiani in quattro diverse forme prodotte con la stessa argilla e con le stesse caratteristiche di rifinitura. L’elemento di distinzione è essenzialmente il fondo, che nelle forme 2421c-d è una via di mezzo tra la presa a pomello ed un fondo piano molto rilevato, mentre nelle altre due forme è realizzato, in alcuni casi da un piccolo piede piano (forma 2421a), in altri da un fondo piano incassato (forma 2421b). Entrambi i tipi hanno un orlo espanso, più ο meno inclinato, le pareti sono sempre solcate da profonde righe di tornio. La fattura sembra piuttosto accurata nella resa delle superfici, sempre ben rifinite. Il 60% dei coperchi di questi due tipi ha l’orlo annerito intenzionalmente, talvolta l’annerimento è esteso anche alla superficie interna.
219Le forme 2421a-b, tra l’altro le più attestate (sessantatré esemplari interi su un totale di settantuno individui), presenta in sedici esemplari il fondo bucato. Talvolta il fondo è chiaramente forato prima della cottura, il foro è infatti regolare e la traccia non è slabbrata (in otto casi), mentre i fori post cocturam sembrano eseguiti per allargare e rendere più agibile il foro, già eseguito prima della cottura (in otto casi).
220Appare chiaro allora un esclusivo uso di coperchio per questi esemplari, il 25% circa sul totale delle attestazioni della forma, in quanto la presenza del foro esclude completamente il loro uso come piatti.
221Le forme 2421c-d non sono mai provviste del foro sul fondo ed hanno indici quantitativi molto più bassi; non sembrano forme molto diffuse.
222Il tipo del piatto/coperchio con questo orlo sembra essere attestato in Italia già dal II a.C. (Dyson 1976, 31, nn. 59-61, fig. 4;. 59, n. 59, fig. 16) e continua, con questa forma, fino al II-III d.C., quando probabilmente l’orlo tende ad ingrossarsi e la fattura diventa corsiva (Zevi/Pohl 1970, 92). Ad Ostia il tipo è attestato massicciamente dall’età flavia fino al II d.C.37; a Cosa compare in contesti dal II a.C. (De Caro 1987, 58, n. 28; Chiaramonte Treré 1984, 174, nn. 110-111) fino al III secolo (Dyson 1976, 77 e s., fig. 23, nn. 70-72, deposito 4; 100, fig. 35, n. 95, deposito 5; 147 e s., fig. 60, nn. 55-57, deposito 7); a Luni compare pure nel II a.C., con un picco nel I a.C.-I d.C. e una flessione nel II; nel III è quasi assente, mentre nel IV sembra essere ben attestato (Massari/Ratti 1977, 628, fig. H ed ivi bibl.).
223È interessante notare come compaia, in una forma molto simile, di produzione campana, a Bengasi, già attestato nel corso del I a.C. e dove si attesta con il massimo delle presenze (0,4% sul totale della ceramica comune) alla fine del I d.C. e scompare nel corso del secolo successivo (Riley 1977, 324 ed ivi bibl.).
224Forma 2421a. N. Inv. 24286. Fig. 25
Piatto/coperchio con orlo espanso ed ingrossato, pareti bombate, fondo a piccolo anello, foro circolare passante sul fondo.
Profonde righe di tornio esterne ed interne, orlo annerito.
Argilla 1 (L1)
Diam. 21,4 cm; alt. 4,2 cm.
La forma è stata rinvenuta in ventidue esemplari; quelli più piccoli hanno un diametro di 17 cm ed un’altezza di 2,9 cm; i più grandi hanno il diametro di 40 cm e l’altezza di 8 cm.
La forma corrisponde al tipo Ostia II, fig. 525/Ostia III, fig. 520 attestata nei primi due secoli dell’impero (Carandini 1973, 455, tav. LIX). Alle attestazioni raccolte in Luni II (Massari/Ratti 1977, 628, nn. 488 e ss.) sono da aggiungere presenze a Creta (Hayes 1971, 269, fig. 17, n. 49; Hayes 1983, 126, fig. 9, n. 111) ed in Africa a Bengasi (Riley 1977, 325, fig. 719, n. 780).
225Forma 2421b. N. Inv. 26245. Fig. 25
Piatto/coperchio con orlo espanso ed ingrossato, pareti bombate, fondo piano indistinto e incassato.
Profonde righe di tornio interne, orlo annerito.
Argilla 1 (L1)
Diam. 16,4 cm; alt. 2,8 cm.
La forma è stata rinvenuta in 41 esemplari, i più piccoli hanno il diametro di 16/16,5 cm e l’altezza di 2 cm, il più grande ha il diametro di 53,6 cm, e altezza di 7 cm (sono conservati altri tre esemplari con il diametro di 40 cm e l’altezza di 5-7 cm).
Attestazioni per questa forma sono note in Campania (De Caro 1988, 58, fig. 79, n. 27; Chiaramonte 1984, 174, tav. 110, nn. 2-15).
226Forma 2421c. N. Inv 31659. Fig. 25
Piatto/coperchio con orlo espanso, pareti molto bombate, fondo ad anello.
Profonde righe di tornio interne ed esterne. Superficie scrostata, orlo con tracce di annerimento.
Argilla 1 (L1).
Diam. 27 cm; alt. 8 cm.
La forma è stata rinvenuta in tre esemplari, di cui uno frammentario, tutti delle stesse dimensioni.
Si è rinvenuto un esemplare simile a Napoli, fuori contesto (Morselli 1987, 163, fig. 36, n. E129).
Si differenzia dalla forma precedente per lievi differenze dell’orlo e per il fondo che presenta un anello più rilevato, vicino in qualche caso ad una presa a pomello.
La quasi totale mancanza di confronti e la quantità molto limitata ci fa supporre una produzione non molto ampia, a diffusione locale.
227Forma 2421d. N. Inv. 31660. Fig. 25
Piatto/coperchio con orlo leggermente espanso, pareti bombate, fondo ad anello di forma troncopiramidale.
Righe di tornio interne ed esterne. Orlo con tracce di annerimento.
Argilla 1 (L1).
Diam. 26,4 cm; alt. 6 cm.
Non si sono rinvenuti confronti per questo tipo.
2430 Coperchi con tesa (clibani)
228L’identificazione di questo tipo di coperchio con i clibani riportati dalla tradizione letteraria latina si deve a A. L. Cubberley (Cubberley et al., 1988, 100-102) in un recente lavoro a più mani dove l’evidenza letteraria viene confrontata con le emergenze archeologiche dalla penisola italiana.
229Il metodo di cottura sub testu sembra essere attestato fin dall’età del bronzo in Italia e sembra fosse praticato in età medievale e moderna con speciali “campane” simili alle forme antiche (Cubberley et al., 1988, 99 ed ivi bibl.).
230Il funzionamento del clibanus è piuttosto semplice: su di un piano veniva posto l’oggetto della cottura (sono attestati presso gli autori antichi specialmente pane e dolci) (Cubberley et al., 1988, 100) che veniva coperto con questa sorta di campana di terracotta, su cui poi si ponevano brace e carbone ardente. La tesa, posta di norma a metà delle pareti di questi coperchi, sempre leggermente inclinata verso l’alto, ha la funzione di trattenere il materiale combustibile a contatto con le pareti del coperchio senza bisogno di coprirlo completamente. Questo metodo di cottura è molto lento, destinato a pietanze speciali, oppure in situazioni in cui non è possibile usufruire di un furnus stabile.
231Dal punto di vista archeologico i ritrovamenti sono diffusi in contesti sia urbani che rurali; resta quindi difficile connettere questa forma con determinati ambiti insediativi. Del resto a Pompei l’uso del furnus stabile è molto diffuso sia nelle case private che nei pistrina e questa forma è attestata nei depositi in un solo esemplare, sicuramente importato, più un altro proveniente dagli strati dello scavo per l’impianto elettrico (Cubberley et al., 1988, 113, n. 24).
232Forma 2431a. Non inv. Fig. 26
Coperchio con orlo leggermente ingrossato e sagomato, pareti bombate, lunga tesa sagomata e ingrossata in punta, impostata a metà della parete. Superficie esterna lisciata.
Argilla 5.
Diam. 26 cm; alt. 6,5 cm.
La forma è stata rinvenuta in un solo esemplare.
Non si sono rinvenuti confronti diretti per questo pezzo. Paralleli con oggetti vagamente simili da contesti dello stesso periodo, sono possibili con il materiale da Cosa, prodotto però in argilla diversa (Dyson 1976, 119, fig. 44, n. 20, deposito 6).
Le caratteristiche dell’argilla di questo pezzo non si riferiscono certamente ad un prodotto tirrenico. La presenza di forti quantità di biotite e di quarzi di vario colore nell’impasto e l’assenza di inclusi di tipo vulcanico fa supporre la provenienza di questo esemplare ο da zone dell’Italia meridionale ο dalle coste del vicino oriente38.
Campionatura delle argille
233Argilla 1 (L1)
Colore: rosso arancio scuro [Mus., 2.5 yr 5/8 (red)].
Frattura: irregolare
Consistenza: dura.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: piccoli, frequenti, neri (pirossene); piccoli e medi, frequenti, traslucidi, subangolari (quarzo); medi e rari bianchi (calcite), medi e rarissimi rossi, arrotondati, (chamotte) [colore: Mus., 10 r 4/6 (red)]. (Prod. campana)
234Argilla 2 (L2)
Colore: rosso arancio scuro [Mus., 2.5 yr 4/8 (red)].
Frattura: irregolare.
Consistenza: dura/friabile.
Sensazione al tatto: ruvida/vacuolosa.
Inclusi: piccoli, frequentissimi, neri (pirossene); piccoli e medi, traslucidi, subangolari (quarzo); medi, rarissimi bianchi (calcite); medi, rarissimi, arrotondati rossi (chamotte) [colore: Mus., 10 r 4/6-3/6 (red)].
(Prod. campana)
235Argilla 3 (Al)
Colore: rosso arancio medio [Mus., 10 r 5/8 (red)].
Frattura: irregolare.
Consistenza: dura/molto dura.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: piccoli, frequenti, traslucidi, arrotondati (quarzo eolico); piccoli, rari, vacuoli bianchi (calcite).
(Prod. africana)
236Argilla 4 (A2)
Colore: rosso arancio [Mus., 2.5 yr 6/8 (light red)].
Frattura: irregolare.
Consistenza: dura/morbida.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: piccoli, frequentissimi, traslucidi, arrotondati (quarzo eolico); piccoli, rari, vacuoli bianchi (calcite); piccoli, molto rari bruni.
(Prod. africana)
237Argilla 5 (O1)
Colore: marrone medio [Mus., 5 yr 3/4 (dark reddish brown)]
Frattura: irregolare.
Consistenza: friabile.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: medi, frequenti, traslucidi, angolari (quarzo?); piccoli e piccolissimi, frequentissimi di mica (biotite).
(Prod. vicino oriente/Grecia?)
238Argilla 6 (02)
Colore: giallo rosato [Mus., 5 yr 7/6-6/6 (reddish yellow)].
Frattura: irregolare.
Consistenza: dura.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: medi, frequenti, traslucidi, angolari (quarzo?); piccoli, rari, biancastri (calcite).
(Prod. vicino oriente/Grecia?)
239Argilla 7 (N1)
Colore: arancio chiaro con zone marrone bruno
[Mus., 2.5yr 6/8 (light red)].
Frattura: netta.
Consistenza: dura.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: piccolissimi e piccoli frequenti traslucidi (quarzi?), rari medi bruni, rarissimi e piccoli rossi.
(Prod. non identificata)
240Argilla 8 (N2)
Colore: marrone medio [Mus., 5yr 4/4 (reddish brown)].
Frattura: irregolare.
Consistenza: dura.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: piccoli, medi, frequenti neri (pirosseni e scorie vulcaniche); piccoli, frequentissimi, subangolari e traslucidi (quarzo); rarissimi e medi, angolari verdastri; medi e rari arrotondati rossi.
(Prod. non identificata)
241Argilla 9 (N3)
Colore: rosso arancio chiaro [Mus., 2.5yr 6/8 (light red)]
Frattura: irregolare.
Consistenza: dura.
Sensazione al tatto: ruvida.
Inclusi: moltissimi piccoli e frequenti, subangolari, traslucidi (quarzo); pochi, piccoli neri (pirosseni); pochi, piccoli bianchi (calcare).
(Prod. non identificata)
242Nella terminologia della campionatura delle argille si sono tenute presenti le direttive e i parametri promulgati dall’ICCD (PARISE F. e RUGGERI M., Norme per la redazione della scheda del Saggio Stratigrafico. Roma, 1984). Per gli inclusi, per quanto possibile, l’identificazione della natura mineralogica è stata posta tra parentesi dopo la descrizione oggettiva della particella con le seguenti caratteristiche: 1) grandezza, 2) frequenza, 3) colore, 4) grado di arrotondamento (caratterizzazione petrologica, quando possibile).
243Per la classificazione, quanto più oggettiva possibile, si sono seguiti i seguenti parametri:
2441) Grandezza:
piccolissimi: visibili solo con lentina 10 x
piccoli: meno di 0,5 mm
medi: da 0,5 mm a 1 mm
grandi: da 1 mm a 3 mm
grandissimi: oltre i 3 mm
2) Frequenza (calcolata per 2 cm):
rarissimi: meno di 5
rari: più di 5
molti: più di 10
moltissimi: più di 15
2454) Grado di arrotondamento:
angolare
subangolare
arrotondato
246Ν. B.
2471) l’analisi autoptica delle argille è stata sempre eseguita in frattura fresca e con l’ausilio di una lentina 10 x.
2482) le lettere e i numeri in parentesi vicino al codice del tipo dell’argilla si riferiscono ad una divisione delle argille per presupposte aree di provenienza, utilizzata per la creazione di un programma di Data Base per la classificazione di tutte le argille della ceramica comune conservata nei Granai del Foro di Pompei.
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 D’altro avviso fu l’Annecchino (1977, 110 e s.) che inserì questi tegami nei piatti/vassoi attribuendo loro il nome antico di lanx, che significa più propriamente “vassoio”, con uso eminentemente da mensa, interpretando la loro verniciatura come una sorta di abbellimento del materiale povero. Credo che questa interpretazione, non suffragata da alcuna prova né archeologica, né filologica in senso stretto, debba essere considerata priva di fondamento. Ancora sulla funzione, cfr. Grunewald et al. 1980, 260.
2 Per Goudineau 1970, 161, in Italia agli inizi del I secolo a.C.
3 Peacock 1977, 158 e ivi bibl. Credo sia importante far notare come, invece, altre merci provenienti dall’Italia siano diffuse in Britannia in maniera piuttosto massiccia già intorno al I secolo a.C. (Peacock 1971, 166, fig. 36; Fitzpatrick 1985, 313, in particolare fig. A).
4 Cfr. i graffiti sugli esemplari da Ercolano: Scatozza 1988, 84 e s.
5 Goudineau 1970, pl. III, nn. 41, 42. Cfr. anche gli esemplari di produzione calabrese, ascrivibili al II-III secolo. dalla villa romana di Gioiosa Ionica (Di Giovanni 1988, 128, fig. 56).
6 Riley (1979, 248), su personale comunicazione di J. Hayes, ci informa che il 50% dei tegami ad orlo bifido di Cosa sono africani, per esempio Dyson 1976, figg. 44-45, nn. 22-5. Questa produzione sembra estremamente rara in Campania.
7 Sono anche presupposte da Riley (1979, 248) fabbriche spagnole di tali oggetti, di cui però non è nota una puntuale descrizione delle argille. Cfr. per esempio il tipo 14a della Vegas (1973).
8 Pompei, Scavi per l’impianto elettrico, taglio I, strato 17, età augustea.
9 Da Ostia in età tiberiana: Zevi/Pohl 1970, 15, fig. 59, n. 297; da Roma di età augusteo-cesariana: Carettoni 1957, 98, tav. 24b; da Cosa alla fine del I secolo a.C.: Dyson 1976, 89, fig. 29, nn. 9 e 11, Oleson/Oleson 1987, 247, fig. X I, K22-25, in particolare K23, con argilla forse importata, che cita anche un esemplare da Novaesium sul limes renano; da Luni: Ratti 1977, 202 e s., fig. 131, n. 1; si veda anche la discussione della forma in Massari/Ratti 1977, 617, gruppo 26b.
10 Da Cartagine: Hayes 1976, 60, n. 12; da Bengasi: Riley 1979, 248, tipo ERCW 3; da Sabratha: Fulford 1986, 191, fig. 88, nn. 143-144.
11 La distribuzione della forma in Ostia III si addensa alla fine del I secolo con cinque esemplari e con quattro nella prima metà del II secolo. In Ostia IV (Tortorella 1977, 114) è presente in due soli esemplari in un contesto di metà III secolo.
12 Il pezzo ha certamente fattura molto più corsiva e l’argilla, pur rimanendo nell’ambito delle produzioni campane, presenta una durezza molto maggiore degli esemplari pompeiani e negli inclusi la quantità di quarzo sembra essere maggiore e di maggiore grandezza.
13 Per la distribuzione della forma, a quanto finora attestato bisogna aggiungere per l’Italia meridionale: Dyson 1983, 64, fig. 151, n. 118, dai dintorni di Buccino (SA); da Sibari: Quiri 1974, 282 e 516; da Napoli: Morselli 1987, 53, fig. 34 b1 12; Chiaramonte Trerél984, 147 ss., tav. 89, 9; 90, 1.
14 Questo tegame è confrontabile con materiale dalla villa del Petraro, nell’Ager Stabianus (De Caro 1988, 56, n. 10) e, fuori dalla Campania, con un esemplare della stessa forma, ma forse non della stessa produzione (Dyson 1983, 65, fig. 151, n. 123) da Vittimose (SA) e da Cosa (Dyson 1976, 89, fig. 29, n. 10).
15 Taglio ο strato 40, n. disegno 1109, tipo 31 (età augustea).
16 Riley 1979, 255 e ivi bibl., a cui bisogna aggiungere: da Corinto, nella prima età imperiale, Slane Wright 1980, 155, pl. 31, n. 77; Warner Slane 1976, 291, n. 91; da Creta: Hayes 1983, 126, fig. 9, nn. 99-101, dove l’autore presuppone una provenienza eginetica di questa forma.
17 Ad Ostia: Carandini 1973, 48, fig.30, tav. XV, compare una sola volta nello strato Vb2 dell’ambiente VI, datato alla fine del I secolo d.C.; Zevi/Pohl 1970, 125, fig. 59, n. 300.
18 Quiri 1974, 387, figg. 3, 64 e 381, n. 323 associato ad un quadrante di Claudio, altra attestazione Quiri 1971-72, 385, figg. 420 e 448, n. 309, mancante del dispositivo per l’immanicatura, associato a «ceramica aretina sigillata orientale (sic!) e lucerna con bollo CIUNDRAC, prima metà del I secolo d.C.».
19 Lamboglia 1950, 115, fig. 57; Vegas 1973, 20, fig. 5, tipo IV. Per la cronologia vedi anche: Vegas 1968, 38.
20 Bruckner 1965, 9, Ab. 2, nn. 1-3; Chiaramonte Treré l984, 143 e s., tav. 87, nn. 5-10; D’Ambrosio 1984, 136, tav. 10, n. 301; Di Giovanni 1991, 39, fig. 22, n. 4; fig. 17, n. 2. La forma di questo recipiente sembra a sua volta derivare dalla tradizione morfologica greca, cfr. ad esempio Sparkes/Talcott 1970, 227 ss., nn. 1964-1966; Jones et al. 1973, 386, fig. 11. nn. 110-112; Bats 1988, 48, fig. 8.
21 Chiaramonte Treré l984, 151 s., tav. 91, n. 6; tav. 92, nn. 1-5.
22 Da Haltern (in epoca augustea) compare con forme molto simili sia alla forma 2211a che alla forma 2211e (Loeschke 1909, 237 s., taf. XII, tipo 56, abb. 31, nn. 1-2); da Vindonissa (Ettlinger/Simonett 1952, 15, taf. 3, n. 7); dal sito romano di Zuerzach, a nord di Vindonissa (Tomasevich 1969-1970, 38, fig. 3b.). Dal materiale della Legio Gemina XIII, stanziata a Vindonissa dall’epoca augustea fino agli anni 45-46, il tipo sembra comparire con un orlo leggermente differente pur mantenendo le stesse caratteristiche (Tomasevich 1970, 103, taf. 18, n. 28).
23 Esemplari simili sono in corso di studio da parte della dott.ssa L. A. Scatozza-Hoericht, che ringrazio per le informazioni.
24 Sito n. 143, evidenza 001, località Fondi di Cigliano, Masseria Semido. N. disegno 155.
25 Cfr. anche Ostia IV, fig. 349.
26 Da Cnosso proviene un esemplare con pareti molto più diritte ma anse del tutto simili, di produzione locale, cronologicamente più antico.
27 Sia a Napoli (scavi di S. Patrizia e di S. Sofia) che a Pompei (ex inf. dott. F. Ruffo) le anfore di provenienza greca ο orientale sono presenti in quantità maggiore nei primi due secoli dell’impero rispetto, per esempio, ad Ostia. A Napoli il 35% sul totale dei frr/peso delle anfore dallo scavo di S. Patrizia hanno una provenienza certamente greco-orientale (molto più alto diventa il computo se si considerano solo i frammenti di orlo: oltre il 50%); a Pompei quasi il 40% ha la stessa provenienza. Ad Ostia invece gli indici di presenza delle anfore di provenienza greco-orientale sono molto più bassi: 4-5% (cfr. Panella 1986, 611).
28 L’esemplare del catalogo al n. CE850, che sembra riferirsi a quello illustrato, non è citato nella lista dei pezzi analizzati petrograficamente. L’attribuzione, quindi, di una tale forma ad un’area produttiva italica a causa della sua argilla vulcanica, è stata basata su un’analisi autoptica del pezzo, non sempre esaustiva per il riconoscimento della provenienza delle argille.
29 Ostia I, fig. 39.
30 Bisogna tenere presente che le tracce di annerimento potrebbero essere dovute anche agli incendi sviluppatisi nelle case di Pompei durante l’eruzione. Per la discussione sul tipo e la sua attribuzione alla ceramica da cucina, cfr. Vegas 1973, 10 e s., tipo 1, e ivi bibl.
31 Cfr. la scheda della forma 2311a.
32 I recipienti con il fondo bucato, di certo non destinati ad uso da fuoco, non sono stati conteggiati nel computo delle olle.
Le ollae perforatae (Plinio, NH, XVII, 11) ο pertusae (Catone, DRR, LU) non erano destinate soltanto alla messa a dimora delle pianticelle nel terreno ο per creare giardini fittizi (Annecchino 1982, 760) ma anche per il trasporto di pianticelle da un luogo ad un altro (Ibid., 761; Plinio, NH, XII, 7) e, dato il diametro piuttosto grosso del foro praticato sul fondo dei vasi, anche per ottenere l’innesto col metodo della margotta. È ovvio che in questi casi il contenitore doveva essere assicurato al ramo da margottare e doveva avere quindi caratteristiche di leggerezza e robustezza insieme (Messineo 1984, 65 e 75). Per l’uso e la distribuzione di queste olle, rinvenute in situ a Pompei, cfr. Jashemsky 1979, 238 e s., fig. 350-351; 284, fig. 428; 359 e s., note 15 e s.; a cui bisogna aggiungere altri 7 esemplari dal giardino della casa di M. Lucretius Fronto (Wynia 1984, 333, fig. 4).
Sulla produzione in loco di questi contenitori va citata la notizia riportata dai giornali di scavo degli anni 1763-84 (manoscritto conservato presso la Società di Storia Patria, coll. M. S. XXI, D 21, fol. 79 retro) di un rinvenimento di ben 109 vasetti, tutti delle stesse dimensioni, impilati a serie di sei, in un luogo imprecisato “fuori Porta Ercolano”, dove è noto un piccolo quartiere ceramico (Fulvio 1879, 280).
33 Saggio Ib, strato 17, N. disegno 83.
34 La distribuzione cronologica negli strati è la seguente: strato Va+Vb (fine I secolo d.C.): 9 esemplari; strato Vc (fine I inizi II secolo d.C.): 1 esemplare.
35 Robinson 1959, 24, pl. 7, n. g119, datato dall’autore alla fine del I-II secolo d.C. Hayes (1983, 105, nota 19) propone per il contesto ateniese una datazione leggermente più alla e più precisa: intorno agli anni 85-90, il che aggiunge ancora un’attestazione in epoca tardo flavia di questa forma.
36 Cinque esemplari, prodotti in argilla leggermente diversa dalla 1, più dura e più grossolana. I pezzi sono custoditi nel deposito della cd. “Villetta Virgiliana” ai piedi dell’acropoli di Cuma.
37 Carandini 1973, 455, tav. LIX, n. 520; la distribuzione cronologica negli strati è la seguente: saggio S-O, strato Vb + Va (datazione: età tardo flavia): 49 frammenti (65,3% sul totale delle attestazioni della forma); strato IVa + IVb (datazione: fine I secolo-prima metà II): 25 frammenti (33,3%); strato III (datazione: prima età severiana): 1 frammento (1,4%). Carandini 1973, 458 e s.; area XXVI, strato Va + Vb: 11 frammenti (78,5%); strato IV: 2 frammenti (14,3%); strato III: 1 frammento (7,2%).
38 Cfr. per esempio la divisione delle argille operata da Peacock (1977, 150) per la ceramica a vernice rossa interna.
Notes de fin
1 Desidero ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile con la loro collaborazione e la loro disponibilità questo lavoro. In particolare il Prof. Michel Bats ed il Prof. Stefano De Caro, per i loro consigli e per avermi dato l’opportunità di partecipare al Convegno. Sono grato a tutti quelli che hanno messo a disposizione materiali di scavo inedito e che mi hanno dato consigli ο informazioni, ed in particolare al Dott. Antonio D’Ambrosio, alla Dott.ssa Maria Rosaria Borriello, alla Dott.ssa Gabriella Colucci Pescatori, al Dott. Francesco Garcea, alla Dott.ssa Costanza Gialanella, alla Dott.ssa Floriana Miele, alla Dott.ssa Paola Miniero, al Dott. Michel Pasqualini, al Prof. Werner Johannowsky. Ho grande motivo di gratitudine, per la loro disponibilità e sopportazione, per Maria Vittoria de Crescenzo, Gabriella Gasperetti e Bianca Maria Sgherzi ed inoltre per il paziente Architetto Giuseppe Bruno che ha curato tutta la documentazione grafica. Vorrei ringraziare la Prof.ssa Clementina Panella, per la particolare e premurosa attenzione che ha prestato a questa ricerca quando ancora era in forma di dissertazione di laurea. Voglio infine ricordare il compianto Prof. Alfonso de Franciscis alla cui memoria sono legato da motivi di affetto e gratitudine.
I disegni dei reperti provenienti da Pompei e Pozzuoli sono stati eseguiti da chi scrive e lucidati da Michele Varchetta e William di Paolo; gli altri sono di Cinzia Morlando.
Auteur
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