Produzione e consumo della ceramica comune da mensa e dispensa nella Campania romana
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Remerciements
Molte persone hanno reso possibile questo lavoro: innanzitutto il mai dimenticato prof. Alfonso de Franciscis, che mi affidò lo sudio della ceramica comune di Pompei per la tesi di laurea; Lucia Scatozza Horicht, che seguì la tesi assieme a Stefania Adamo Muscettola; il Soprintendente Archeologo di Pompei, Ercolano e Stabia Giuseppina Cerulli Irelli, che autorizzò lo studio dei materiali, studio confermato poi da Baldassarre Conticello; il Direttore degli Scavi di Pompei, ora Soprintendente Archeologo di Napoli e Caserta, Stefano De Caro, che ha seguito con grande affetto i lavori nei depositi di Pompei e poi del Museo di Napoli; il personale della Soprintendenza Archeologica di Pompei per la preziosa assistenza, in particolare Ciro Sicignano e Franco Staiano. Sally Cann ha eseguito i lucidi dei disegni dei materiali di Pompei, su miei originali a matita; i lucidi dei disegni di S. Maria C. Vetere, di Alife e di Teano sono stati gentilmente realizzati da Giuseppe Bruno, Michele Varchetta e Cinzia Morlando. Con il collega Vincenzo Di Giovanni si è condiviso lo studio di questi anni, in un fecondo rapporto dialettico, unito ad una profonda amicizia e stima reciproca. Infine, desidero ricordare i colleghi francesi Michel Pasqualini, con il quale sono in corso proficui scambi ed esperienze di studio e di lavoro, e Michel Bats, che con grande pazienza ha atteso la consegna di questo contributo, per la pubblicazione degli Atti del Convegno, primo in Campania sull’argomento, voluto da lui e da Stefano De Caro.
Texte intégral
1. Introduzione
1Lo studio della ceramica comune in Campania prende le mosse dall’analisi dei materiali dell’area vesuviana, il cui valore paradigmatico per quantità di esemplari e varietà di forme li rende base imprescindibile di partenza per considerazioni di carattere metodologico, tipologico e di confronto per analoghe realtà documentarie nella regione e nel bacino del Mediterraneo.
2L’analisi condotta a partire dai primi anni ’80 su quell’insieme di materiali che gli scavi archeologici restituiscono in quantità generalmente molto abbondante e che va sotto il nome di ceramica comune ha posto una serie di problemi di classificazione che si inseriscono in un dibattito ancora in corso1.
3I tentativi finora compiuti di una classificazione generale della ceramica comune romana presente nel bacino del Mediterraneo hanno avuto il pregio di individuare come criterio guida quello funzionale e di effettuare una suddivisione morfologica dei tipi, ma risultano in ogni caso poco utilizzabili per l’inevitabile genericità e semplificazione nella classificazione, vista la grande varietà di forme e produzioni attestata nei singoli siti e dipendente da vari fattori, di gusto, di influsso dei materiali di pregio presenti sul mercato, di relazioni con prototipi di produzione indigena, etc. (Vegas 1973; Beltràn 1978).
4Per quanto riguarda l’Italia, l’attenzione a queste categorie di rinvenimenti è stata suscitata innanzitutto dai fondamentali lavori di N. Lamboglia sulle classi ceramiche da Albintimilium (Lamboglia 1950) e poi sul relitto di Albenga (Lamboglia 1952), che hannno avuto il merito di non creare gerarchie fra le classi di materiali. Capisaldi della storia degli studi ceramici in Italia sono stati successivamente i volumi sullo scavo delle Terme del Nuotatore a Ostia (Ostia I-IV), in cui si nota la tendenza a suddividere i materiali, in risposta alla sempre maggiore specializzazione degli studi; pertanto la ceramica comune dapprima viene raggruppata in tre grandi categorie (forme aperte, forme chiuse, fondi e coperchi vari in Ostia I), mentre nei volumi successivi si riconoscono ο si creano via via nuove classi. Lo stesso orientamento è riscontrabile nella pubblicazione degli scavi di Luni, in merito alla identificazione delle classi (Luni I-II)2. Senza voler entrare ulteriormente nel dettaglio della storia degli studi in Italia, è il caso di citare il lavoro di Dyson sull’“utilitarian pottery” di Cosa, nel quale la suddivisione tipologica tiene conto delle caratteristiche funzionali e fisiche dei materiali, individuando tre gruppi: “Kitchen Ware”, “Coarse Ware”, “Domestic Ware” (Dyson 1976). Il criterio funzionale per la classificazione è ovviamente dettato dall’esigenza di analizzare materiali di scavo, a volte difficilmente riconoscibili in base a suddivisioni morfologiche; un limite nell’analisi dei materiali è riscontrabile, però, nella mancata individuazione di produzioni ben definite, come, ad esempio, la ceramica da cucina di produzione africana. Un’analisi dettagliata del panorama di studi disponibili è stata compiuta da G. Olcese nel recente contributo sulla ceramica comune di Albintimilium, che contiene una vasta bibliografia di riferimento, con contributi relativi anche ai materiali dai relitti, dove in alcuni casi la ceramica comune non era soltanto vasellame di bordo, ma parte del carico (Olcese 1993, 43-56).
5In ogni caso, in Italia si è registrata, fino ad anni recenti, un’esiguità di studi specifici su questa classe di materiali, frutto di un atteggiamento che tendeva a privilegiare determinate categorie di dati rispetto ad altre, con la creazione di gerarchie fra le evidenze monumentali e i resti della vita quotidiana, nonché, tra questi ultimi, tra le diverse classi di materiali. In un simile modello mentale, la ceramica comune non veniva generalmente presa in considerazione. Al contrario, è necessario tenere presente che, sebbene di difficile approccio, poiché legata più di altre classi a variabili dovute ad una produzione prevalentemente a carattere locale, la ceramica comune rappresenta, assieme alle anfore da trasporto, la classe solitamente più attestata nei contesti di scavo. I dati da essa ricavabili, che difficilmente potranno essere di carattere storico-artistico, rappresentano comunque un valido contributo all’analisi socio-economica dei sistemi indagati ed alla definizione cronologica degli stessi contesti, sia in associazione con altre classi di materiali meglio definibili cronologicamente, sia per la durata della produzione e dell’uso di alcune forme. Inoltre, è ormai un dato di fatto che queste ceramiche, dapprima ritenute oggetto di una produzione esclusivamente locale, siano invece spesso documenti di complesse situazioni di scambi a piccolo, medio e breve raggio, sia di modelli formali, sia di tecniche di realizzazione, sia degli stessi vasi prodotti (Olcese 1993, passim). Nei traffici a vasto raggio, generalmente, questo vasellame accompagna come merce minore i carichi di derrate (vino, olio, cerali, etc.), ma, in ogni caso, una volta giunto a destinazione, trova mercato anche come vasellame d’uso, e non come mero contenitore di prodotti agricoli, come le anfore. Il caso più eclatante a questo proposito è costituito dalla ceramica da cucina africana, che invade i mercati mediterranei nella media e tarda età imperiale3.
6L’esperienza effettuata sul cospicuo campione pompeiano ha dato la possibilità di definire limiti tipologici, funzionali e produttivi utili a chiarire sia i confini della classe, sia la sistemazione dei vasi al suo interno.
7I rapporti individuati e l’ordinamento dell’universo documentario rappresentato da un insieme così numeroso di recipienti sono stati elaborati in una struttura tipologica, che vale la pena di esaminare dettagliatamente, per comprendere i procedimenti mentali e strumentali adottati.
8Una prima comunicazione in tal senso è stata data nel maggio 1993 nell’ambito del Convegno tenutosi a Versailles, a cura della Société Française d’Étude de la Céramique Antique en Gaule (SFECAG), attualmente pubblicata negli atti del convegno4. Si ritiene in ogni caso utile riproporre i criteri generali che hanno costituito la base della ricerca.
9Innanzitutto, è necessario considerare che le peculiarità del campione pompeiano hanno dato un’impostazione di base al lavoro che difficilmente può adattarsi alla sistemazione dei materiali normalmente rinvenuti negli scavi. Della ceramica comune conservata nei Granai del Foro e nei depositi del Museo Nazionale di Napoli abbiamo, di norma, una generica provenienza dalla città, in quanto nelle relazioni di scavo, fino agli anni recenti, non è stato possibile ritrovare alcuna notizia utile ad individuare gruppi di materiali divisi per contesti di scavo; nella maggior parte dei casi, è problematica anche l’individuazione della classe di appartenenza del vasellame ritrovato. Ovviamente, in una simile situazione, la stragrande maggioranza dei pezzi non aveva numero d’inventario di scavo5. Va precisato, inoltre, che lo scarso interesse mostrato verso questo tipo di materiale, acromo e di nessun valore artistico, faceva si che venissero conservati esclusivamente i pezzi integri, e che quelli che via via si rompevano non venissero sottoposti a restauro. Pertanto, si è operata, sia al momento dello scavo che nella conservazione, una selezione che, per quanto sicuramente rilevante, ha avuto carattere casuale, così da rendere il campione comunque valido per una sistemazione tipologica.
10Siamo, quindi, in presenza di oltre duemila esemplari integri di forme aperte e chiuse e di recipienti da fuoco; il semplice dato quantitativo fa comprendere la necessità dell’elaborazione di uno strumento di classificazione ad hoc, che consenta di ordinare le varie forme, a volte rappresentate da centinaia di esemplari. Il fatto che siano oggetti integri ha, inoltre, fortemente condizionato l’esame degli impasti, per l’impossibilità di prelevare campioni durante la schedatura, nella maggior parte dei casi; pertanto, l’esame delle argille è stato effettuato per il momento a livello macroscopico, con una lente da 10 ingrandimenti. Le diverse argille individuate sono state campionate e descritte secondo le norme fornite dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma (ICCD)6.
11Altra caratteristica del campione pompeiano (così come per gli altri centri dell’area vesuviana) è quella di poter essere considerato un unico contesto, del quale sappiamo esattamente che si è chiuso il 25 agosto del 79 d.C. Questo dato, unito al calcolo della possibile durata di un recipiente in ceramica comune, di solito estremamente ridotta in numero di anni, fa sì che i nostri recipienti costituiscano un punto fermo nell’analisi dell’evoluzione morfologica della classe.
12Nonostante queste peculiarità, la ceramica comune di Pompei è rimasta finora praticamente inedita, in quanto l’unico lavoro specifico pubblicato affronta l’analisi genericamente funzionale e filologica, con riferimento alla terminologia antica adottata per definire i recipienti (Annecchino 1977). L’esigenza di colmare la lacuna costituita dalla mancata pubblicazione delle classi ceramiche rinvenute nei siti vesuviani è stata più volte dichiarata (Rocco 1950, 279-280; Morel 1979, 241 ss.; Chiaramonte 1982, 287) e sta trovando risposta in contributi specifici, alcuni dei quali sono contenuti nel presente volume. L’episodio costituito dal volume sull’instrumentum domesticum di Ercolano e Pompei – in cui è contenuto l’articolo citato dell’Annecchino –, pur avendo il merito di riportare l’attenzione sul problema, non ha effettuato un’analisi di dettaglio dei materiali (Instrumentum domesticum). Il contributo di J.-P. Morel in occasione del diciannovesimo centenario dell’eruzione ha posto l’accento sulle “occasioni mancate” circa la messe di dati che potevano essere forniti dall’instrumentum quotidiano, in massima parte non più recuperabili (Morel 1979). Nell’ultimo decennio, tuttavia, una rinnovata sensibilità verso i resti materiali della vita quotidiana ha prodotto contributi di estrema utilità per lo studio dei contesti vesuvesuviani; per Pompei, è il caso di ricordare il volume sui saggi stratigrafici nella Casa della Colonna Etrusca (Bonghi Iovino 1984), quello sulla Casa di Lucio Elvio Severo (Gallo 1994), i risultati dei saggi nella Casa delle Forme di Creta (D’Ambrosio/De Caro 1989). A questi lavori si aggiunge l’esemplare pubblicazione di alcune ville rustiche nel territorio, in località Petraro a Stabiae (De Caro 1987) e in località Villa Regina a Boscoreale (De Caro 1994)7.
13Per quanto riguarda l’analisi della ceramica comune conservata nei Granai del Foro di Pompei, nucleo principale della presente ricerca, vi sono alcuni limiti imposti dalle circostanze stesse dei rinvenimenti: come già accennnato, la mancanza di dati specifici sulla provenienza dei materiali, genericamente attribuibili alla città, ma privi dei contesti originari, in quanto furono ritrovati in momenti diversi e sommariamente registrati al momento dello scavo8. Non è pertanto possibile risalire in nessun caso – tranne che per la Forma 1242b, ma il dato isolato non ha molto valore – alla provenienza ο agli anni di rinvenimento. Sebbene si trovi menzionata nelle relazioni di scavo una notevole quantità di arredi provenienti dalle botteghe e dalle abitazioni della città, non è possibile mettere in relazione tali notizie con il materiale; ancor meno le relazioni di scavo sono utilizzabili per calcolare la quantità degli esemplari rinvenuti per ogni forma, poiché furono raggruppati individui senz’altro morfologicamente diversi sotto nomi generici, quali “lagena”, “tazzina”, “pignattino”, e simili9. Da queste considerazioni si può facilmente comprendere come l’approccio alla ceramica comune di Pompei debba necessariamente privilegiare l’analisi morfologica e fisica degli esemplari, poiché non è possibile utilizzare, per lo studio, alcuna fonte di dati al di fuori di quelli forniti dal materiale stesso.
2. Il contesto pompeiano
2.1. La struttura tipologica (tav. 1 fuori testo)
14La realizzazione di una tipologia della ceramica comune di Pompei ha dovuto tenere conto innanzitutto proprio della definizione della classe, generalmente usata come una sorta di contenitore a cui attribuire il materiale di cui non si riescono ad identificare caratteristiche particolari, trattando come classi a sè stanti i raggruppamenti meglio definiti. È questa l’impressione che si riceve, ad esempio, dai lavori citati su Ostia e Luni e dalla recensione di C. Pavolini al lavoro di Dyson su Cosa (Pavolini 1981). In particolare, è stata generalmente considerata discriminante per l’appartenza alla classe la circolazione, tutt’al più regionale, dei materiali, usata come criterio di distinzione fra “ceramica fine da mensa” e “ceramica comune” (cfr. Pavolini 1981). Ma un simile criterio non è sufficiente per guidare la classificazione, in quanto deve necessariamente essere associato ad altre considerazioni, basate sull’aspetto fisico dei recipienti e sulle loro caratteristiche funzionali. Ad esempio, risultano evidenti le maggiori affinità di materiali oggetto di esportazioni a vasto raggio, quali la ceramica a vernice rossa interna, la ceramica da cucina africana, la ceramica grigia imperiale, con analoghi recipienti di produzione locale, piuttosto che con le classi di ceramica fine, anch’esse oggetto di scambi transmarini.
15Come già evidenziato a proposito dell’approccio metodologico allo studio della ceramica comune di Luni, i criteri guida per la definizione della classe e quindi per l’ordinamento dei materiali devono essere valutati in un’ottica di usi (Massari 1979), seppure a prescindere dalla possibilità di individuare con sicurezza le funzioni di ciascun tipo, sia per la concomitanza di più funzioni per lo stesso tipo di recipiente, sia per l’impossibilità di risalire dall’esame delle singole forme ad una funzione specifica, tranne che in alcuni casi10. Si sono, pertanto, considerati come caratterizzanti per la classe i requisiti di necessità e funzionalità, nonché quello, fondamentale, della massima convenienza nel rapporto tra costo, qualità e ricambio dei recipienti. Alla luce di tali criteri si possono spiegare fenomeni come quello della ceramica da cucina africana e delle sue imitazioni in ambiti locali.
16Da quanto fin qui esposto risulta chiaro come il problema della definizione della ceramica d’uso comune sia estremamente complesso, poiché non esiste per questa categoria di ceramiche una caratteristica che possa valere universalmente come criterio guida per la classificazione, anzi, al contrario, è necessario tenere sempre ben presenti le diverse realtà geografiche, cronologiche e culturali di cui ci si occupa. In ogni caso, è sembrato lecito continuare ad usare la travagliata espressione “ceramica comune”, come concetto molto generale, che includa gruppi distinti a grandi linee per funzioni ed ordinati secondo criteri morfologici.
17Sulla base di tutte queste considerazioni si è elaborata per la ceramica comune di Pompei una struttura tipologica “aperta”, che procede secondo criteri funzionali e morfologici, dal generale al particolare, in cui i vari rami della struttura sono indicati da una definizione e da un codice numerico11.
18Al primo gradino della tipologia sta la classe, definita ceramica comune (senza codice numerico), e che ingloba come sottoclassi i materiali fin qui studiati (ceramica da mensa e da dispensa = 1000, ceramica da fuoco = 2000), ma che consente di inserire anche altri gruppi di materiali, quali il vasellame votivo (coppe bruciaprofumi, ceramica miniaturistica, etc.) ο gli strumenti agricoli (situle, mortai, glirari, etc.), che possono costituire ulteriori sottoclassi.
19Le sottoclassi sono a loro volta divise in categorie funzionali, caratterizzate numericamente dalle centinaia. Sia per la definizione delle sottoclassi che per le categorie funzionali si sono usati criteri di distinzione il più possibile ampi, e che tengano conto dell’uso primario ipotizzabile per i recipienti, per quanto estremamente generico.
20Questo per la ceramica da cucina è senz’altro più semplice, in quanto si tratta di recipienti che per caratteristiche tecniche sono predisposti all’esposizione al fuoco, e le cui categorie formali rispondono ad esigenze strettamente funzionali12, mentre è più complesso per le forme aperte e chiuse non da fuoco, poiché per queste è presumibile, per morfologia, tipo di impasti, dimensioni, un loro uso nell’ambito delle attività connesse con la preparazione e la conservazione degli alimenti, ma non se ne possono escludere usi secondari. Ad esempio, alcuni esemplari di forme aperte di piccole dimensioni non da fuoco presentano tracce di colore all’interno ed erano probabilmente impiegati nella preparazione dei colori, oltre che, presumibilmente, per altri usi in ambito domestico (1111a, 1111b, 1111c); tra la ceramica da cucina, alcune olle sono state forate prima della cottura ed erano così impiegate nel giardinaggio. Evidentemente, nell’ambito della produzione massiccia di esemplari di olle da cucina, una certa parte, probabilmente per ragioni di economicità, era destinata ad un uso diverso, pur conservando le stesse caratteristiche tecniche e morfologiche (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 271).
21In merito alle categorie funzionali, mentre è stato relativamente semplice individuarle per la ceramica da cucina (tegami = 2100, pentole = 2200, olle = 2300, coperchi = 2400), per la ceramica da mensa e dispensa la distinzione è più problematica e si sono potute separare a questo livello solo le forme aperte (1100), le forme chiuse (1200), le forme chiuse con dispositivo per versare (le brocche vere e proprie = 1300) ed i coperchi (1400). Le ragioni di tale suddivisione sono evidenti: coppe e catini possono essere usati per preparare, miscelare ingredienti fluidi e solidi, mentre bottiglie e fiasche sono adatte alla conservazione dei fluidi; le brocche con orlo trilobato hanno la caratteristica di essere realizzate per versare e pertanto sono state distinte a questo livello della tipologia. I coperchi, pur estremamente simili tra loro per forma, sono stati divisi tra ceramica da cucina e ceramica da mensa e dispensa per caratteristiche tecniche (impasti, tipo di cottura, trattamento delle superfici); si segnala la quasi totale assenza di coperchi per le forme chiuse con imboccatura stretta, che dovevano essere prevalentemente coperte con altro materiale.
22Per l’individuazione dei tipi (nel codice numerico le decine) si è dovuto tenere conto strettamente degli oggetti, privilegiando la resa delle parti superiori dei vasi, come distintive, in quanto si è verificato che la Forma delle altre parti dei vasi non è utilizzabile ai fini della classificazione. Ad esempio, per le forme chiuse, corpo e piedi sono estremamente simili in vari tipi di recipienti, così come i fondi di pentole, olle e tegami. Per la distinzione dei tipi delle forme aperte di ceramica da mensa e dispensa si è tenuto conto delle dimensioni, sia per motivi funzionali che per esigenze strumentali della tipologia13.
23Le anse e le prese (indicate con le unità) sono collocate come attributi al penultimo livello dello schema, in quanto, seppure non rivestano carattere normativo per i tipi, contribuiscono a caratterizzare le singole forme.
24All’ultimo livello della tipologia stanno i recipienti, le forme, indicate con lettere minuscole dell’alfabeto e con la rappresentazione grafica di un esemplare, che assume valore paradigmatico «per un insieme quantitativamente variabile di oggetti del tutto simili tra loro» (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 272). Il singolo esemplare è ulteriormente individuato dal suo numero di inventario. La distinzione dei vasi segue criteri del tutto morfologici, secondo un ordine strumentale alla catalogazione che procede dal più semplice al più complesso, mentre ulteriori dati inerenti il trattamento delle superfici, il tipo degli impasti, diverse dimensioni dei recipienti, elementi epigrafici sono di volta in volta quantificati e descritti nell’analisi delle singole forme.
25In un simile sistema riteniamo non solo di avere dato un ordinamento al materiale già presente, ma anche di fornire uno strumento integrabile con eventuali nuove forme che gli scavi recenti possano restituire.
2.2. I materiali
26Esaminiamo ora più specificamente la ceramica comune da mensa e dispensa dei Granai del Foro di Pompei, i cui dati si vanno integrando con l’esame puntuale dei recipienti provenienti da Pompei e conservati nei depositi del Museo Nazionale di Napoli.
27Va rilevato, in generale, che il contesto pompeiano ha restituito una quantità notevolmente maggiore di vasi da mensa e dispensa rispetto ai recipienti da fuoco, mentre solitamente dai contesti di scavo di abitato si nota un rapporto inverso. In particolare, si segnala la quantità e la varietà delle forme chiuse attestate a Pompei. Dall’analisi dei materiali sono state escluse le cd. “anforette da garum”, forme Schoene 1 e 6 (Schoene/Mau 1898)14 in quanto per caratteristiche fisiche e tecniche, per diffusione nel bacino del Mediterraneo e per essere in gran parte fornite di indicazioni sul contenuto pongono problemi di classificazione all’interno della ceramica da mensa e dispensa e sembrerebbero rientrare in quel gruppo di materiali al confine tra le anfore e la ceramica comune, come, ad esempio, gli anforischi che presentano la parte superiore assimilabile alle Dressel 2-4, con corpo più piccolo e fondo piatto.
28Sono state studiate, invece, tutte le forme aperte non da fuoco, presenti in quantità modeste, e tutte le forme chiuse di piccole e medie dimensioni (olle, brocche, bottiglie), da mensa e da dispensa. In molti casi gli esemplari di una singola Forma sono di varie dimensioni, con una notevole gradualità di misure; nel catalogo si sono forniti i riferimenti alle misure minime e massime dei recipienti. Si è ritenuto utile, inoltre, dare di tutte le forme chiuse la capacità, anch’essa in termini di massima e minima, anche se non si sono rinvenuti paralleli con le misure antiche, pur avendo misurato, durante la schedatura, la capacità di tutti i vasi integri15. La descrizione contenuta nel catalogo si riferisce all’esemplare usato per la rappresentazione grafica della forma, mentre riferimenti alle caratteristiche di altri esemplari della stessa Forma sono inseriti nel commento.
29Per i confronti, sono stati considerati solo esemplari di Forma estremamente simile ο identica a quelli vesuviani, con la consapevolezza dei limiti del mero raffronto morfologico tra i vasi, che resta, tuttavia, l’unico possibile in assenza di dati più precisi sulla produzione dei recipienti. Si fornisce di seguito la descrizione ed il commento alle forme di ceramica comune da mensa e dispensa di Pompei, secondo lo schema tipologico della tavola 1.
1100. Forme aperte
1110. Forme aperte di piccole dimensioni: coppe, tazze, boccali
30Si tratta di piccoli recipienti di fattura alquanto corsiva, di Forma estremamente semplice, per i quali è possibile ipotizzare diverse funzioni; il rinvenimento di tracce di colori in polvere in alcune coppette (Forme 1111a, 1111b, 1111c) documenta un loro utilizzo nella preparazione dei colori. Per la Forma 1111d è plausibile un uso primario come recipiente potorio.
31Forma 1111a. N. inv. 31730. Fig. 1,1.
Coppetta a vasca bassa, con orlo piano, a profilo leggermente squadrato, pareti oblique, fondo concavo appena accennato distinto. Integra. Superficie esterna lisciata, interna ruvida.
Argilla tipo 1, molto dura.
Diam. imboccatura 11,8 cm; alt. 3,4 cm.
È presente in 3 esemplari, di eguali dimensioni. In uno si sono rinvenute tracce di colore rosso in polvere. Per questa Forma e per la successiva non si sono rinvenuti confronti precisi.
32Forma 1111b. N. inv. 32439. Fig. 1,2.
Coppetta a vasca profonda, con orlo piano, rientrante, pareti bombate, piccolo piede piano. Integra.
Superficie interna ed esterna ruvida, in parte corrosa. Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 8 cm; alt. 5 cm.
La Forma è presente in 3 esemplari, di eguali dimensioni. In uno si sono rinvenute tracce di colore indaco in polvere.
33Forma 1111c. N. inv. 31662. Fig. 1,3.
Coppetta a vasca profonda, con orlo distinto ed ingrossato, pareti bombate, piccolo piede piano distinto. Integra.
Superficie interna ed esterna ruvida.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 14,2 cm; alt. 7,6 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare. Anche in questa coppetta sono presenti tracce di colore rosso in polvere.
34Un esemplare molto simile per la Forma dell’orlo, anche se di dimensioni maggiori (diam. imboccatura 22 cm), proviene dai saggi stratigrafici nella Casa della Colonna Etrusca, da un contesto di datazione non precisabile, ed è realizzato in argilla depurata, locale (Chiaramonte 1984, 153, fig. 93, n. 3). Si segnala anche il confronto con un esemplare in vetro da Ercolano, di uguale Forma e dimensioni molto simili16 e con un altro, anch’esso in vetro, dalla necropoli di via Brindisi a Quarto Flegreo (NA)17.
35Forma 1111d. N. inv. 32431. Fig. 1,4.
Boccale con orlo piano, leggermente svasato, pareil bombate nella metà inferiore, piccolo piede ad anello a profilo espanso. Numerose linee di tornio interne. Integro.
Superficie interna ed esterna ruvida.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 10,4 cm; alt. 11,8 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare. Trova confronti con frammenti da Pompei in ceramica comune di Forma e dimensioni molto simili, con orlo leggermente meno svasato (Chiaramonte 1984, 160, fig. 97, n. 4). Anche se si tratta, con tutta probabilità, di un recipiente potorio, non trova riscontro preciso con alcuna Forma della tipologia della ceramica a pareti sottili (EAA Atl. II, s.v.).
1120. Forme aperte di medie e grandi dimensioni: bacini, pelves
36Sono raggruppati in questa serie ampi recipienti, destinati a vari usi in ambito domestico, quali servire vivande in tavola, oppure mescolare ο lavare cibi e sostanze (Annecchino 1977, 109). Non sembrano adatti a conservare per lungo tempo il contenuto, anche se alcuni presentano una scanalatura sull’orlo per alloggiare il coperchio (Forme 1121c, 1123b).
37Forma 1121a. N. inv. 31657. Fig. 1,5.
Piccolo bacino a vasca profonda, con orlo piano, arrotondato, leggermente rientrante, pareti bombate, con carena appena accennata nella metà inferiore della vasca, piccolo piede ad anello distinto a profilo trapezoidale. Integro.
Profonde linee di tornio interne. Ingubbiatura di colore beige sulla superficie esterna (Mus. 10 YR 8/3), interna lisciata.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 21,2 cm; alt. 8,8 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare. Trova confronti con il gruppo 8 della ceramica comune di Luni, in particolare con un esemplare datato al I secolo d.C. (Luni II, 506, fig. 263, n. 1) e con un bacino da Cosa molto simile, da un contesto datato alla prima metà del I secolo a.C. (Dyson 1976, 101, fig. 36, n. 99).
38Forma 1121b. N. inv. 31656. Fig. 1,6.
Bacino a vasca profonda, con orlo leggermente espanso, sagomato e ingrossato all’interno, pareti bombate, piede ad anello distinto a profilo curvilineo. Integro.
Superficie esterna consunta, ingubbiatura interna di colore biancastro (Mus. 10YR 8/2), di cui restano alcune tracce all’esterno.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 26,1 cm; alt. 12,4 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare. Il particolare trattamento dell’orlo trova un preciso confronto con un gruppo di recipienti di dimensioni inferiori, da Pompei, Regio VI, ins. 5, da un contesto di età augusteo-tiberiana (Chiaramonte 1984, 154, fig. 93, n. 4). Si ha così la testimonianza del perdurare della Forma a Pompei per tutto il I secolo d.C., mentre sembrano mancare confronti puntuali da altre aree.
39Forma 1121c. N. inv. 31658. Fig. 1,7.
40Piccolo catino a vasca profonda con orlo estroflesso, sagomato ed ingrossato, con leggera scanalatura interna, vasca distinta e carenata nella parte superiore, piede piano distinto. Integro.
Linee di tornio interne ed esterne sulla vasca. Superficie interna ed esterna ruvida.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 22,6 cm; alt. 7,6 cm.
Molto simile alla Forma 1123b, si è ritenuto opportuno separarla da quest’ultima sia per la mancanza delle anse, sia per il profilo, nel complesso più spigoloso.
È presente in un solo esemplare dai Granai del Foro, ma si trova attestata a Pompei in vari esemplari, dai saggi nella Regio VI, ins. 5, tra i quali il più simile a quello in esame appartiene alla variante 1a, la più rappresentata negli interri delle case ellenistiche databili fino ad età tiberiana (Chiaramonte 1984, 149 s., fig. 91). Una certa affinità morfologica si è rinvenuta anche con i “tegami a labbro sporgente” dalla necropoli di Cafarnao, famiglia A16, di datazione più tarda (dalla metà circa del II secolo d.C. in poi: Loffreda 1974, 107, fig. 34, n. 8). Siamo nell’ambito della ceramica da fuoco, poiché alcuni frammenti sono anneriti dall’uso; inoltre alcuni hanno il fondo concavo, tipico dei recipienti da cucina. È possibile ipotizzare una derivazione di questi tegami dalla tradizione formale dei catini in esame, con cambiamento di funzione nell’ambito degli usi domestici e conseguente adeguamento morfologico (sostituzione del piede piano ο ad anello con il fondo concavo)18.
41Forma 1123a. N. inv. 31444. Fig. 1,8.
Bacino a vasca profonda, con orlo obliquo, ingrossato all’interno, con due depressioni orizzontali esterne sotto l’orlo, pareti emisferiche, con carena appena accennata a metà della vasca, piede piano distinto a profilo obliquo, due anse orizzontali a bastoncello ripiegate ed addossate alla parete, impostate a metà vasca. Integro.
Ingubbiatura molto leggera interna ed esterna di colore giallo molto chiaro (Mus. 2.5 Y 8/4); al di sotto si nota una grossolana lisciatura.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 28,6 cm; alt. 11 cm.
È presente in un solo esemplare, già pubblicato dalla Annecchino fra le pelves come «evidente copia dei vasi in bronzo» (Annecchino 1977, 110, fig. 2, n. 12). La Forma non sembra diffusa fuori dell’area vesuviana, anche se è possibile citare un confronto, non del tutto puntuale, in ambito mediterraneo dall’Agorà di Atene, con orlo quasi a tesa e pareti leggermente meno bombate (Robinson 1959, 41, NG184, pl. 7, n. 67). Recipienti analoghi sono attestati a Vindonissa, con anse ripiegate lungo la parete (Ettlinger/Simonett 1952, 24, tav. 7, nn. 120, 121).
42Forma 1123b. N. inv. 31437. Fig. 1,9.
Catino a vasca molto profonda, con orlo estroflesso e rialzato, con profonda scanalatura interna, vasca emisferica distinta e carenata nella parte superiore, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, con due anse a bastoncello addossate alla parete, impostate a metà della vasca. Integro.
Linee di tornio interne ed esterne sulla vasca. Superficie interna ed esterna grossolanamente lisciata.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 30 cm; alt. 13 cm.
La Forma è presente in 22 esemplari di diverse dimensioni; il più piccolo è quello raffigurato, mentre la misura più grande, attestata in 8 esemplari, ha il diametro massimo dell’imboccatura di 45 cm e l’altezza di 21 cm. La superficie di 3 esemplari è ricoperta da una patina nerastra interna ed esterna; 5 vasi presentano ingubbiatura interna biancastra (Mus. 10 YR 8/1), di calce. L’argilla è dello stesso tipo in tutti gli esemplari.
43La Forma è strettamente affine alla Forma 1121c. È identificabile a Pompei nelle varianti 1b e 1c, a profilo meno spigoloso, del catalogo della Chiaramonte, da età repubblicana fino al momento dell’eruzione (Chiaramonte 1984, 149 s., fig. 91). Ancora da Pompei, dai saggi per l’impianto elettrico, provengono due esemplari biansati, da un contesto risalente agli anni 15-35 d.C. ca. (taglio 0, U.S. 31)19. Sembra comparire a Pompei nel II secolo a.C., per diffondersi nel I secolo a.C. ed avere il suo floruit nel I secolo, a giudicare dalla quantità di esemplari integri presenti nei depositi, come già rilevato dalla Annecchino (Annecchino 1977, 109 s.). È diffusa in Italia e nel bacino del Mediterraneo, come risulta dai confronti con materiali di Cosa, Luni, Caselette in Italia, Munigua e Pollentia in Spagna (Chiaramonte 1984 ed ivi bibl.). Sembra provenire dal repertorio morfologico ellenistico, con prototipi presenti in ambito mediterraneo dal III-II secolo a.C. (Chiaramonte 1984). A questi confronti è possibile aggiungere un esemplare molto simile anche per dimensioni, con orlo leggermente più ingrossato, da Marsa Gezirah (Misurata), di probabile produzione africana (Arthur 1983, 129, fig. 7, n. 70). In area vesuviana, è presente a Boscoreale, tra il vasellame della villa rustica in località Villa Regina, con ventre più profondo e diversa inclinazione dell’orlo (De Caro 1994, 157, fig. 35, n. 96) e in due esemplari identici a quelli in esame (ibid., 157, fig. 35, nn. 97, 98).
1200. Forme chiuse
1210. Forme chiuse con imboccatura ampia e collo breve
44In questo gruppo sono inseriti i pochi esemplari di olle non ansate, accanto al numeroso quantitativo di recipienti simili provvisti di anse. Nonostante le affinità morfologiche con le olle da cucina20 si esclude per questo gruppo un utilizzo da fuoco, sia per la totale assenza di tracce di annerimento sui vasi dovuto all’uso, sia per il tipo di impasti utilizzati, sia, infine, per il trattamento delle superfici.
45Vista la notevole quantità di esemplari delle Forme 1213a, b, e c (157 in tutto) e le affinità morfologiche esistenti tra loro, nonché della Forma 1231c con le anforette da garum di Forma Schoene1, è forse possibile avanzare l’ipotesi di un loro uso proprio in relazione a questo prodotto, eventualmente per una distribuzione secondaria, urbana ο domestica21.
46Forma 1211a. N. inv. 28596. Fig. 2,10.
Olla a corpo globulare, con orlo verticale ingrossato e sagomato all’esterno, a profilo triangolare, distinto, spalla espansa, ventre fortemente arrotondato, fondo piano. Integra.
Linee di tornio interne ed esterne sulla parte inferiore del ventre. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 13 cm; alt. 15,8 cm; max. esp. 16,1 cm.
La Forma è presente in 3 esemplari; due di essi, tra cui quello raffigurato, hanno le stesse dimensioni, mentre il terzo è di dimensioni maggiori e presenta il diametro dell’imboccatura di 13,5 cm, l’altezza di 23 cm, la massima espansione di 23 cm. La capacità degli esemplari più piccoli è di 5,3 l. L’argilla è di tipo 2 in tutti gli esemplari. Se ne è rinvenuto un solo confronto preciso, da Pompei, saggi per l’impianto elettrico, con un recipiente probabilmente da cucina, da uno strato datato al I secolo a.C. (taglio IB, U.S. 9).
47Forma 1211b. N. inv. 29647. Fig. 2, 11.
Olla a corpo allungato, con orlo estroflesso, sagomato, con profonda scanalatura interna, distinto, ampia spalla svasata, ventre fortemente allungato verso il basso, fondo piano. Integra.
Linee di tornio esterne nella parte bassa del ventre. Superficie ruvida, con tracce di spessa ingubbiatura bianca (Mus. 7.5 YR N8/) all’esterno.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 12,7 cm; alt. 21,1 cm; max. esp. 21 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, di 2,2 1 di capacità. Non se ne sono rinvenuti confronti precisi.
48Forma 1212a. N. inv. 9217(1). Fig. 2,12.
Piccola olla a corpo globulare, con orlo espanso, ingrossato e sagomato verso l’esterno, con scanalatura interna, distinto, ventre arrotondato, fondo piano, un’ansa verticale scanalata, a sezione squadrata, impostata sull’orlo e sul ventre, leggermente sopraelevata. Integra.
Superficie esterna ed interna ruvida, fondo stracotto.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 7,8 cm; alt. 8,9 cm; max. esp. 9,8 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, di 0,4 1 di capacità e di fattura molto grezza. Non se ne sono rinvenuti confronti puntuali.
49Forma 1212b. N. inv. 29545. Fig. 2, 13.
Olla a corpo ovoide, con orlo estroflesso, leggermente ingrossato, spalla allungata non distinta, ventre fortemente arrotondato verso il basso, fondo esterno piano, interno umbilicato, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sull’orlo e sul ventre. Integra.
Superficie ruvida, con ingubbiatura bianca (Mus. 7.5 YR N8/) interna ed esterna.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 9,8 cm; alt. 14,3 cm; max. esp. 12,7 cm.
La Forma è presente in 11 esemplari di uguali dimensioni, 3 dei quali, offre quello raffigurato, sono in argilla tipo 1, mentre 7 sono in argilla tipo 2. Tutti gli esemplari, tranne uno, presentano l’ingubbiatura bianca.
È presente nella villa rustica di Boscoreale, con un esemplare con corpo leggermente diverso (De Caro 1994, 166, fig. 40, n. 120), e con altre due brocche del tutto simili (ibid., 168, fig. 41, nn. 125, 126). Trova confronti dalla villa del Petraro, in territorio stabiano, con due esemplari in argilla rossiccia (probabilmente simile al tipo 1), usati come ceramica da cucina (De Caro 1987, 58 s., fig. 78, nn. 22, 23); con un esemplare da Sutri, datato agli anni 60-70 d.C. (Duncan 1964, 80, fig. 13, n. 112); con un esemplare della classe 12 delle brocche da Cosa, datato ad età tiberiana (Dyson 1976, 135, fig. 53, n. 132). Da Luni provengono esemplari forse più tardi, con forti scanalature di tornio sul corpo (Luni I, 418, fig. 73, nn. 1, 9, 18). Questi ultimi potrebbero costituire la testimonianza di una continuità cronologica della forma.
L’assenza della scanalatura per l’alloggiamento del coperchio e l’ampia imboccatura potrebbero indicare in questo un recipiente non destinato a conservare per lungo tempo, a differenza, invece, della Forma seguente.
50Forma 1212c. N. inv. 29003. Fig. 2,14.
Orcio a corpo globulare, con orlo estroflesso, sagomato, con scanalatura interna, distinto, spalla svasata, ventre fortemente arrotondato nella parte centrale, fondo leggermente convesso, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integro.
Profonde linee di tornio esterne sul corpo. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 13,6 cm; alt. 23,1 cm; max. esp. 19,3 cm.
La Forma è presente con 46 esemplari di varie dimensioni; il più piccolo ha il diametro dell’imboccatura di 11,8 cm, l’altezza di 18,5 cm e la massima espansione di 15 cm; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 17,4 cm, l’altezza di 34,5 cm e la massima espansione di 30,8 cm. La capacità va da 1,7 l a 14 l. L’argilla è di tipo 2 in 3 esemplari di dimensioni medie, oltre quello raffigurato, di tipo 1 in tutti gli altri. Negli esemplari più grandi è estremamente simile a quella delle anfore di Forma Dr. 2-4 di Pompei. Tra gli esemplari di dimensioni maggiori, 6 hanno un ringrosso orizzontale all’interno sotto l’orlo, in corrispondenza con l’attacco superiore dell’ansa, che doveva servire da presa, essendo l’ansa insufficiente a reggerne il peso.
È l’olla monoansata più presente a Pompei; si potrebbe considerare destinata precipuamente a conservare sostanze, dal momento che doveva essere munita di coperchio. In un esemplare si sono rinvenuti numerosi gusci di molluschi calcificati. Fa parte anche del vasellame di Villa Regina a Boscoreale (De Caro 1994, 164 s., fig. 40, nn. 118, 119).
La Forma è attestata tra le brocche di Cosa, con un esemplare della classe 11, da un contesto datato tra la fine del I secolo d.C. e gli inizi del III (Dyson 1976, 156, fig. 63, n. 116). È presente anche ad Albintimilium, con corpo piriforme, datata al II secolo d.C. (Lamboglia 1950, 137, fig. 75, n. 2).
51Forma 1213a. N. inv. 27104. Fig. 2,15.
Orcio a corpo ovoide, con orlo estroflesso, leggermente ingrossato, con leggera scanalatura interna, distinto, spalla svasata, ventre fortemente arrotondato verso il basso, piede ad anello distinto a profilo trapezoidale, due anse verticali a nastro scanalate, impostate sotto l’orlo e sul ventre. Integro.
Numerose linee di tornio interne. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 10,2 cm; alt. 12,3 cm; max. esp. 13,1 cm.
La Forma è attestata in 92 esemplari, di varie didimensioni; il più piccolo è quello raffigurato; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 18,5 cm, l’altezza di 24 cm e la massima espansione di 22,2 cm. La capacità va da 1 l a 4 l. L’argilla è di tipo 2 nella maggior parte dei casi, di tipo 1 in 4 esemplari, di tipo 4 in un solo esemplare di piccole dimensioni.
Trova un confronto preciso con materiali dalla villa del Petraro a Stabia (De Caro 1987, 55, 57, fig. 77, n. 13), da Villa Regina a Boscoreale (De Caro 1994, 1770, fig. 42, n. 130) ed è simile alla classe 17 da Cosa, datata ad età tiberiana (Dyson 1976, 132, fig. 51, nn. 109-111). Un esemplare è esposto al Museo Archeologico di Paestum, in argilla giallorosata, con grandi inclusi bianchi. Dalla villa di Settefinestre la forma, classificata tra la ceramica da cucina, è presente nel periodo III (età severiana) ed è confrontata con un esemplare da Ostia da un contesto di metà III secolo d.C., in terracotta rozza, con profilo simile a quello in esame, anche se meno articolato (Papi 1985, 106, fig. 30, n. 8; Ostia III, 141, tav. XXIX, fig. 186). A Pollentia è presente un tipo analogo, il n. 48, 8, datato al I secolo d.C. (Vegas 1973, 117, fig. 41).
52Forma 1213b. N. inv. 27127. Fig. 2,16.
Piccolo orcio a corpo piriforme, con orlo estroflesso, con scanalatura interna, distinto, collo appena accennato, spalla allungata, ventre fortemente arrotondato verso il basso, basso piede ad anello, distinto, a profilo quadrangolare, due anse verticali a sezione ellittica, scanalate, impostate sull’orlo e sulla massima espansione.
Profonde linee di tornio esterne nella parte inferiore del corpo. Superficie grossolanamente lisciata. Integra.
Argilla tipo 5.
Diam. imboccatura 9,2 cm; alt. 14,8 cm; max. esp. 13,7 cm.
La forma, estremamente simile alla precedente, è rappresentata da un solo esemplare, la cui capacità è di 1,3 l. L’argilla, anch’essa vulcanica, potrebbe indicare una zona di produzione vicina, ma diversa da quella della maggior parte del vasellame esaminato, per la presenza, oltre alla sabbia nera vulcanica (pirosseno), di inclusi di tufo giallo.
53Forma 1213c. N. inv. 24105. Fig. 2,17.
Orcio a corpo ovoïde, con orlo espanso, leggermente ingrossato, con scanalatura interna, distinto, collo appena accennato, spalla allungata, ventre arrotondato verso la parte centrale, fondo piano, due anse verticali a nastro ingrossato, scanalate, impostate sotto l’orlo e sulla massima espansione. Integro.
Linee di tornio interne nella parte inferiore del corpo. Superficie ruvida.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 9,1 cm; alt. 13,6 cm; max. esp. 10,2 cm.
È presente in 64 esemplari, di varie dimensioni; il più piccolo è quello raffigurato; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 15,5 cm, l’altezza di 28 cm e la massima espansione di 19 cm. L’argilla è di tipo 1 in 15 esemplari, compreso quello raffigurato, tutti con superficie ruvida, di tipo 2 in 48 esemplari, con superficie lisciata, di tipo 4 in un esemplare di dimensioni medie, con superficie lisciata. Due esemplari fra quelli di dimensioni maggiori sono rivestiti da spessa ingubbiatura biancastra (Mus. 5YR 8/1). La capacità va da 0,65 l a 5,2 l.
La Forma ha una stretta somiglianza con la precedente e trova confronto nell’area vesuviana con materiali dalla villa del Petraro a Stabia (De Caro 1987, 55, 57, fig. 77, nn. 14-15) e da Villa Regina a Boscoreale (De Caro 1994, 174, fig. 44, n. 139). Dall’esame dei recipienti di dimensioni maggiori si è notata una estrema affinità con le anforette del tipo Schoene 1. Le uniche differenze morfologiche sono costituite da una più pronunciata scanalatura dell’orlo nella Forma Schoene 1 e da una diversa esecuzione del piede, notevolmente più spesso nelle anforette. Inoltre, in generale, il profilo di queste ultime ha un aspetto più affusolato di quello della Forma 1213c. Si segnala che i vasi in esame, contrariamente alla Forma Schoene 1, sono del tutto anepigrafi. Va notato, infine, che deve trattarsi di una Forma tipica dell’area vesuviana, in quanto non se ne sono rinvenuti confronti precisi da altre aree del mondo romano.
54Forma 1213d. N. inv. 27152. Fig. 2,18.
55Piccolo orcio a corpo piriforme, con orlo svasato ed ingrossato all’interno, “a coppa”, distinto, collo appena accennato, spalla allungata, ventre arrotondato verso il basso, piede ad anello a profilo troncoconico, con una scanalatura nella parte inferiore, due anse verticali a nastro, scanalate, impostate sotto l’orlo e sulla spalla, a gomito fortemente accentuato. Integro.
Superficie polita. Profonde linee di tornio esterne su tutto il corpo.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 9,4 cm; alt. 19,3 cm; max. esp. 11,7 cm.
La Forma è attestata in 3 esemplari, di eguali dimensioni, di 1 l di capacità. È molto presente nel bacino del Mediterraneo, particolarmente in Italia nel I secolo d.C. e nei secoli successivi, ed è sempre facilmente identificabile, nonostante una certa evoluzione morfologica. Sembra trattarsi, anche se l’identificazione non può essere sicura, della stessa Forma pubblicata dalla Annecchino fra le amphorulae col n. 57 (Annecchino 1977, 113, fig. 6). In area vesuviana è presente nella villa del Petraro a Stabia (De Caro 1987, 55, 57, fig. 77, n. 16).
In Italia si possono citare numerosi confronti: è il tipo 29 di Sutri, del quale gli esemplari più simili a questi in esame sono datati agli anni 60-70 d.C. (Duncan 1964, 79, fig. 12, nn. 110-111; Vegas 1973, 113, fig. 41, n. 7). A Roma è presente un frammento da Fosso della Crescenza, con superficie biancastra, di ipotizzata produzione dell’Italia centrale (Arthur 1983a, 87, fig. 13, n. 29); un altro da Castel Giubileo (Quilici 1976, 295, n. 270). Vari frammenti provengono dalle Terme del Nuotatore a Ostia, datati alla seconda metà del I secolo d.C. (Giannelli/Ricci 1970, 95, nn. 401-403; Giovannini 1973, 432, tav. LXXIII, n. 695); ancora da Ostia, dalla Casa delle Pareti Gialle, sono pubblicati numerosi frammenti, datati dalla tarda repubblica ad età traianea (Zevi/Pohl 1970, 108; ibid., 204, fig. 102; ibid., 170, fig. 84, nn. 171-179; ibid., 197, fig. 101, n. 440). Un orlo dalle Terme del Nuotatore, sagomato, appartiene ad una variante tarda della forma, del IV secolo d.C. (Ostia IV, 53, tav. XXXII, n. 232); un frammento proviene dalla villa di Settefinestre nell’ager Cosanus (con inclinazione dell’orlo forse errata; Papi 1985, fig. 34, n. 10). A Luni sono presenti vari esemplari, datati tra il I secolo a.C. e la tarda età imperiale, alcuni dei quali in argilla africana (Luni I, fig. 73, n. 26; Luni II, 196, fig. 129, n. 1). Dalla necropoli di Luzzi (CS) proviene un’anforetta molto simile, biansata, con leggera invetriatura esterna di colore verde-bruno e forte invetriatura interna dello stesso colore, datata da un confronto con un esemplare della necropoli di Sanremo alla fine del I secolo d.C. (Guzzo 1974, 466, fig. 31, n. 81; Pallares 1961, fig. 4). La Forma invetriata è presente anche a Doura Europos (Toll 1943, 20, fig. 10, gruppo I.B.6.); già dal Dressel è pubblicato un esemplare integro, con invetriatura esterna color “verde erba”, giallastra all’interno, di provenienza non sicura (Dressel 1882, 57, D, tav. d’agg. D, n. 1).
La Forma è stata prodotta anche in terra sigillata chiara Al e A1/2, come è documentato da due esemplari al Museo di Cagliari di provenienza e datazione non sicure (EAA Atl. I, 48 s., tav. XXII, n. 7; Boninu 1971-72, fig. 44).
Circa la funzione del recipiente, a Pompei un esemplare dalla Casa di Polibio contiene frammenti di lische di pesce22 segno evidente di un suo uso quale contenitore per garum, prodotto molto importante nella vita economica della città.
1220. Forme chiuse con imboccatura ampia e collo distinto
56Il gruppo contiene due sole forme, entrambe biansate, poco attestate in area vesuviana e altrove.
57Forma 1223a. N. inv. 30263. Fig. 3,19.
Orcio a corpo ovoide, con orlo estroflesso, con scanalatura interna, collo cilindrico distinto, con profonde scanalature interne ed esterne, spalla espansa distinta, ventre arrotondato verso l’alto, piede leggermente convesso, due anse verticali a nastro scanalate, impostate sotto l’orlo e sulla spalla. Integro.
Superficie polita. Profonde linee di tornio sul ventre.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 11,6 cm; alt.22,7 cm; max. esp. 19,8 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 3,3 l. L’argilla è estremamente simile a quella delle anfore di Forma Dr. 2-4 di Pompei, per colore e percentuale di dimagrante.
58Forma 1223b. N. inv. 30368. Fig. 3,20
Recipiente a corpo allungato, con orlo verticale leggermente ingrossato all’interno, lungo collo cilindrico leggermente espanso verso il basso, vasca profonda, unita alla parte superiore da un piccolo listello verticale, piede piano, due anse verticali a nastro scanalate, impostate sotto l’orlo e sul ventre. Presenta un foro cilindrico sotto l’orlo, praticato dall’alto verso il basso prima della cottura. Integro.
Superficie grossolanamente lisciata. Profonde linee di tornio interne.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 14,7 cm; alt. 21,1 cm; max. esp. 16,1 cm.
La forma, attestata in un solo esemplare, trova confronto con un recipiente di Forma “cantaroide”, in argilla rossiccia, con patina esterna, dalla necropoli di Porto Recanati, tomba n. 63, datata ad età traianea (Mercando 1974, 249, fig. 134, a). Il confronto documenta un uso funerario del recipiente, probabilmente impiegato solitamente in ambito domestico, come accade, ad esempio, per pentole ed olle usate come cinerari.
1230. Forme chiuse con imboccatura media e collo breve
59Il gruppo è formato da recipienti con particolari morfologici alquanto eterogenei; tutte le forme sono rappresentate da un solo esemplare. Sembra trattarsi essenzialmente di recipienti da dispensa, anche se non se ne escludono altri usi.
60Forma 1232a. N. inv. 32497. Fig. 3,21.
Piccola brocca a corpo piriforme, con orlo verticale leggermente ingrossato, a profilo triangolare, corto collo appena accennato, spalla allungata non distinta, ventre arrotondato verso il basso, piede piano, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sull’orlo e sulla massima espansione, a gomito accentuato e sopraelevato. Due profonde linee di tornio esterne alla massima espansione. Integra.
Superficie esterna lisciata grossolanamente.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 7,3 cm; alt. 16,3 cm; max. esp. 13,9 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 1,1 l. Trova un confronto preciso con un recipiente da Ercolano, di bronzo, di Forma e dimensioni molto simili, mentre dal territorio, dalla villa rustica a Boscoreale, proviene un esemplare simile (De Caro 1994, 170, fig. 42, n. 131).
61Forma 1233a. N. inv. 30267. Fig. 3,22
Brocca a corpo ovoide, con orlo leggermente espanso ed ingrossato, distinto, collo svasato, spalla non distinta, ventre allungato ed arrotondato verso la parte mediana, piede ad anello a profilo trapezoidale, due anse verticali a bastoncello impostate sull’orlo e sulla spalla, con gomito accentuato. Linee di tornio esterne sul corpo. Integra.
Superficie esterna lisciata, con tracce di vernice diluita marrone (Mus. 7.5 YR 6/4) sul collo all’interno e all’esterno, e sulle anse.
Argilla tipo 2.
62Diam. imboccatura 7,8 cm; alt. 28,9 cm; max. esp. 17,6 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 3,05 l. Non se ne sono rinvenuti confronti puntuali in area vesuviana, nemmeno tra le amphorulae pubblicate dalla Annecchino (Annecchino 1977, 113). Da Ostia, dalle Terme del Nuotatore, proviene un frammento simile, con orlo leggermente più svasato, da un contesto datato tra il I e la metà del III secolo (Ricci 1968, 91, tav. XIV, n. 308).
63Forma 1233b. N. inv. 32485. Fig. 3,23.
Brocca a corpo ovoide, con orlo estroflesso ingrossato, a profilo arrotondato, con scanalatura interna, distinto, corto collo svasato verso la spalla espansa, ventre arrotondato nella parte superiore, piede piano, due anse verticali a nastro scanalate, impostate a 90° sull’orlo e sulla massima espansione. Integra.
Profonde linee di tornio interne sul collo e sul ventre. Superficie ruvida, con ingubbiatura di colore beige (Mus. 10YR 8/4) interna ed esterna.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 10,4 cm; alt. 22,9 cm; max. esp. 22,5 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 3,7 l. L’argilla in cui è realizzata è estremamente simile, anche per la percentuale di dimagrante, oltre che per il tipo di inclusi, a quella in cui sono realizzate le anfore di Forma Dr. 2-4 di Pompei. La posizione delle anse rende il recipiente adatto per versare, oltre che per conservare.
1240. Forme chiuse con imboccatura media e collo distinto
64Rientra in questo gruppo la maggior parte delle brocche e anforette custodite nei Granai del Foro, monoansate ο biansate. Si tratta dei recipienti da dispensa più rappresentati nella città vesuviana, sia per varietà di forme, sia per quantità di esemplari. Col termine “anforetta”, peraltro, non si intende definire un tipo di recipiente destinato a viaggiare, ma una serie di vasi destinati, con tutta probabilità, ad un uso domestico, essenzialmente nell’ambito delle dispense pompeiane.
65Tra le varie forme attestate, si segnalano la 1242a e la 1243a, molto simili tra loro, che rappresentano i recipienti di medie dimensioni da dispensa maggiormente attestati in questo tipo, con un totale di 162 vasi; per essi si sono rinvenuti confronti molto precisi dalla metà del I secolo a.C., momento in cui compare la forma, al I secolo d.C.
66Forma 1242a. N. inv. 29903. Fig. 4,24.
Brocca a corpo espanso, con orlo ingrossato leggermente rientrante, con leggera scanalatura esterna, distinto, lungo collo cilindrico, distinto dalla spalla da un leggero ingrossamento, spalla molto svasata, ventre arrotondato verso l’alto, piede ad anello a profilo spigoloso, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Profonde linee di tornio esterne sul corpo. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 6,7 cm; alt. 23,2 cm; max. esp. 16,3 cm.
La Forma è presente in 85 esemplari, di varie dimensioni; il più piccolo ha il diametro dell’imboccatura di 6 cm, l’altezza di 19 cm e la massima espansione di 15,5 cm; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 7,5 cm, l’altezza di 25,4 cm e la massima espansione di 20 cm. La capacità varia da 1 l a 3,3 l. Tutti gli esemplari sono realizzati in argilla di tipo 2. Trova confronto nella stessa Pompei con la variante 1d delle brocche-bottiglie pubblicate dalla Chiaramonte, considerata la più attestata nella città dal I secolo a.C. fino al momento dell’eruzione (Chiaramonte 1984, 171, fig. 106, n. 8), con alcune leggere differenze nella realizzazione delle parti del vaso, che possono essere indice di una certa evoluzione della forma. Ancora da Pompei, dai saggi per l’impianto elettrico, proviene un frammento di orlo della stessa forma, che rappresenta un residuo in un contesto moderno (taglio III, U.S. 1). In area vesuviana, la Forma si trova nella villa del Petraro a Stabia, con collo carenato e piede piano (De Caro 1987, 62 s., fig. 80, n. 49), e nella villa in località Villa Regina a Boscoreale (De Caro 1994, 170-171, fig. 43, n. 133). A Napoli è presente un orlo del tutto simile dai saggi a Palazzo Corigliano (Setari 1991, 62 s., fig. 27, n. 23). Da Cosa, nella classe 5 di “jugs” è attestato un esemplare della Forma in esame, datato ad età tiberiana (Dyson 1976, 133, fig. 51, n. 117).
Per il coperchio raffigurato in tavola e rinvenuto nei depositi collocati sul recipiente, si veda infra, Forma 1452a.
67Forma 1242b. N. inv. 32479. Fig. 4,25.
Brocca a corpo globoso, con orlo espanso, ingrossato e sagomato, distinto, con leggera scanalatura interna, lungo collo cilindrico, con leggero rigonfiamento centrale, distinto dalla spalla fortemente svasata, ampio ventre arrotondato, piede piano, fondo a profilo leggermente convesso, un’ansa a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Due profonde linee di tornio esterne tra spalla e ventre. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 9,5 cm; alt. 28,7 cm; max. esp. 25,9 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, proveniente dalla Casa del Menandro. Non se ne sono rinvenuti confronti in Italia, mentre un confronto preciso proviene da Canterbury, con una brocca di cui rimane la parte superiore fino alla spalla, con orlo leggermente più sagomato, da un contesto datato ad età flavia, ο agli inizi del II secolo. Dalla descrizione dell’argilla si evince la presenza di “fine black sand”; potrebbe forse trattarsi di un oggetto di produzione campana? (Macpherson-Grant 1982, 117, fig. 66, n. 176).
68Forma 1242c. N. inv. 32484. Fig. 4,26.
Brocca a corpo lenticolare, con orlo estroflesso a listello ingrossato e sagomato, leggermente rientrante, con incasso interno distinto e scanalatura esterna, lungo collo distinto e svasato verso la spalla fortemente espansa, ventre molto espanso ed arrotondato verso la metà del corpo, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, un’ansa verticale a nastro ingrossato scanalata, impostata sul collo e sulla spalla. Integra.
Profonde linee di tornio esterne. Lievi depressioni verticali nella parte inferiore del ventre. Superficie esterna irregolarmente lisciata.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 9,6 cm; alt. 23,2 cm; max. esp. 23,9 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, di 3,8 l di capacità. Nella tipologia della Annecchino è presente una brocca con orlo simile, ma con diverso profilo del corpo (Annecchino 1977, 112, fig. 4, n. 32).
69Forma 1243a. N. inv. 30093. Fig. 5,27.
Brocca a corpo globulare, con orlo leggermente rientrante, ingrossato, distinto, lungo collo cilindrico distinto dalla spalla svasata, ventre fortemente arrotondato, con spigolo appena accennato nella parte mediana, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, due anse verticali a bastoncello schiacciato, impostate sotto l’orlo e sulla spalla, con gomito accentuato. Integra.
Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 8,1 cm; alt. 24,9 cm; max. esp. 20,3 cm.
È attestata in 77 esemplari di uguali dimensioni, la cui capacità è di 2,3 l. La Forma appartiene già al repertorio ellenistico: trova confronti in ambiente mediterraneo, a Corinto, fra il materiale definito di “advanced stage”, datato dal primo ellenismo al 146 a.C. (Edwards 1975, 112, fig. 60, pl. 23, n. 630). Ancora a Corinto la Forma si rinviene in età successiva, augusteo-tiberiana (Williams 1980, 123, fig. 21, n. 12) e neroniana, dalla Stoa sud; quest’ultimo vaso presenta argilla color crema con molti granelli di sabbia nera (vulcanica?) (Hayes 1973, 465, tavv. 80b, 81a, n. 228).
A Pompei la Forma è pubblicata dalla Chiaramonte come variante 1a delle brocche ο anforette, datate da età tiberiana all’ultima fase di vita della città. L’autrice sottolinea giustamente la difficoltà di distinguere, tra i materiali da scavo, tra le anforette biansate e le monoansate (Chiaramonte 1984, 170, fig. 105, nn. 2, 5, 6). Dal territorio vesuviano è attestato un esemplare analogo a Boscoreale, Villa Regina, con orlo leggermente estroflesso e monoansato (De Caro 1994, 170, fig. 43, n. 132).
La Forma è molto presente anche in Italia: a Gabii, da un contesto datato tra la metà del I secolo a.C. e la metà del I secolo d.C., confrontata con un tipo simile dalla figlina augustea di Neuss (Vegas 1968, 33, fig. 11, n. 102; Vegas 1973, 89, fig. 30, n. 4); un orlo uguale proviene da Ostia, Terme del Nuotatore, datato alla seconda metà del I secolo d.C., in argilla fine color nocciola (Giannelli/Ricci 1970, 95, tav. XXIII, n. 406); a Cosa, nella classe 5 di “jugs”, i numeri da 114 a 116 hanno lo stesso profilo, mentre il numero 119 della classe 7, datato agli anni 15-40 d.C., può essere messo in relazione anch’esso con la Forma (Dyson 1976, 133, figg. 51, 52). Una certa analogia è presente con un recipiente da Vindonissa (Ettlinger/Simonett 1952, tav. 22, n. 502).
70Forma 1243b. N. inv. 30262. Fig. 5,28.
Brocca a corpo ovoide, con orlo estroflesso, ingrossato e sagomato, con scanalatura interna, distinto, lungo collo cilindrico leggermente svasato verso la spalla distinta, ventre allungato ed arrotondato verso la parte mediana del corpo, piede ad anello distinto a profilo trapezoidale, due anse verticali a bastoncello impostate sul collo e sulla spalla. Integra.
Ingubbiatura esterna ed interna di colore marrone chiaro (Mus. 7.5 YR 6/4). Superficie polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 7,7 cm; alt. 26,1 cm; max. esp. 15,3 cm.
La Forma è presente con 17 esemplari di varie dimensioni; il più piccolo è quello raffigurato; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 12 cm, l’altezza di 41,5 cm e la massima espansione di 23 cm. La capacità va da 2,2 l a 6,7 l. La maggior parte degli esemplari (13) presenta una sovradipintura di colore rosso (Mus. 2.5 YR 4/6-4/8) sull’orlo. La Forma è nota a Pompei ed è pubblicata dalla Annecchino fra le amphorulae, con piede piano (Annecchino 1977, 113, fig. 6, n. 51), e dalla Chiaramonte fra le brocche-bottiglie (Chiaramonte 1984, 173, fig. 107, n. 3). Un esemplare, in argilla di tipo 2, è stato rinvenuto in una villa distrutta dall’eruzione del 79 d.C. a Ponticelli, alla periferia est di Napoli, in un’area alle pendici del Vesuvio23. Da Luni proviene un esemplare di bottiglia in vetro soffiato molto simile al recipiente in esame, di dimensioni inferiori, di cui rimangono l’orlo e le anse (Luni I, 775, fig. 215, nn. 17, 18). Si ritiene la Forma derivata da vasellame in metallo.
In ambito europeo si rinvengono confronti a Camulodunum, con due esemplari praticamente identici alla Forma 1243b ed un altro molto simile, datati intorno alla metà del I secolo (Hawkes/Hull 1947, 249, tav. LXIII: Forma 168a; ibid., tav. LXIX: Forma 168c). Molto simile anche ad un esemplare da Vindonissa (Ettlinger/Simonett 1952, 85, tav. 24, n. 540) e alla Forma 63 da Hofheim (Ritterling 1912).
71Forma 1243c. N. inv. 28067. Fig. 5,29.
Brocca a corpo ovoide, con orlo verticale a listello, leggermente rientrante, con due profonde scanalature esterne e una interna, distinto, lungo collo cilindrico distinto, spalla ampia e distinta, ventre arrotondato verso la parte superiore, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, due anse verticali a nastro scanalate, impostate sotto l’orlo e sulla spalla, con gomito accentuato e leggermente sopraelevato. Integra.
Profonde linee di tornio esterne sul ventre. Superficie esterna polita, tracce di ingubbiatura biancastra (Mus. 5 YR 8/1) sulle superficie esterna ed interna.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 7,8 cm; ait. 23,1 cm; max. esp. 17,3 cm.
La Forma è attestata in 2 esemplari, di uguali dimensioni; la capacità è di 2,1 l. È pubblicata da Pompei nella variante 1b delle brocche ο anforette dalla Chiaramonte; questa variante si trova nei livelli superficiali fino a quelli di età tiberiana (Chiaramonte 1984, 171, fig. 105, n. 8).
Una Forma molto simile è attestata dalla villa di Posto, Francolise (Cotton 1979, 155, fig. 46, n. 12). Da Ostia, Terme del Nuotatore, proviene un altro esemplare (Giannelli/Ricci 1970, 95, tav. XXIII, n. 412), come pure dalla Casa delle Pareti Gialle, da un contesto datato tra la tarda repubblica e l’età traianea (Zevi/Pohl 1970, fig. 80, n. 175). Nella villa di Settefinestre, nell’ager Cosanus, la Forma è presente, con imboccatura più piccola, di produzione locale (Papi 1985, 128, fig. 34, n. 14). Fra le anfore di Luni è pubblicato un esemplare di dimensioni maggiori, con spessa ingubbiatura (Luni II, fig. 268, n. 1). In ambito europeo, si può citare un confronto con Vindonissa (Ettlinger/Simonett 1952, 81, tav. 21, n. 486).
72Forma 1243d. N. inv. 31582. Fig. 5,30.
Brocca a corpo ovoide, con orlo leggermente espanso, a profilo triangolare, distinto, lungo collo cilindrico nella parte inferiore, svasato nella parte superiore, con profonda linea di tornio sotto l’orlo e risega all’attacco tra le due parti, spalla espansa distinta, ventre arrotondato verso l’alto, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, due anse verticali a nastro scanalate, impostate sul collo e sulla spalla. Integra.
Profonde linee di tornio sulla parte inferiore del collo e sul ventre. Superficie esterna lisciata.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 11,4 cm; alt. 28,8 cm; max. esp. 20,2 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 3,5 l. Non se ne sono rinvenuti confronti puntuali, né in area vesuviana, né altrove.
73Forma 1243e. N. inv. 30265. Fig. 5,31.
Brocca a corpo globoso, con orlo estroflesso ed ingrossato, a profilo arrotondato, distinto, lungo ed ampio collo cilindrico, distinto, spalla breve, ventre arrotondato nella parte inferiore, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, due anse verticali a bastoncello schiacciato impostate sul collo e sulla spalla. Integra.
Due linee di tornio esterne sulla spalla. Superficie esterna ruvida, con ingubbiatura di colore giallo chiaro (Mus. 10YR 8/6).
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 9,8 cm; alt. 24,5 cm; max. esp. 15,2 cm.
La Forma è presente in un solo esemplare, la cui capacità è di 2 l.
1250. Forme chiuse con imboccatura stretta e collo breve
74Questo gruppo, al quale si ascrivono solo due forme, è molto rappresentato quantitativamente sia nei depositi dei Granai del Foro, sia in quelli del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, tra il materiale di provenienza pompeiana. Assieme al tipo 1260 costituisce, con un totale di 919 esemplari, circa il 60% della ceramica da mensa e dispensa esaminata. Il tipo 1250 contiene solo due forme, la 1252a e la 1252b. La Forma 1252a è presente con 783 vasi ed è in assoluto la più attestata a Pompei (52% ca. della ceramica da mensa e dispensa), in varie dimensioni (cfr. Di Giovanni/Gasperetti 1993, 272-274). È stata identificata come vaso da vino, le cui diverse dimensioni corrisponderebbero a diverse misure di capacità, sottomultipli della hemina (Annecchino 1977, 112). In realtà, il campione del Museo Nazionale di Napoli, per il quale sono stati misurati 150 esemplari (diametro dell’orlo, altezza), non ha rivelato addensamenti intorno a misure che possano considerarsi standard. D’altro canto, va considerato che la hemina è un sottomultiplo dell’amphora, con grosse oscillazioni di peso e misure a seconda del tipo e della produzione delle anfore. Le fonti letterarie a disposizione riferiscono dati riguardo a Roma, e non è affatto provato che il sistema di misure fosse unitario nel mondo romano (Beltràn 1970, 61 ss.).
75L’ipotesi che la interpreta come vaso da vino sembra in ogni caso plausibile, vista la quantità di esemplari e le loro dimensioni; potrebbe trattarsi di una distribuzione del prodotto venduto nelle tabernae sulla base di campioni esposti e non nell’ambito di un sistema di misure generali standardizzate. Ricordiamo, a questo proposito, la notevole quantità di tabernae di Pompei (118, rispetto alle sole 14 di Ostia), che indicano la città come centro di consumo di vino, oltre che luogo di distribuzione a medio e vasto raggio dell’abbondante produzione del retroterra vesuviano24. Un esemplare del Museo Nazionale di Napoli reca un titulus in nero sulla spalla “LIQ”, ad indicare un uso probabilmente secondario del recipiente, per il garum25. La Forma è diffusa in tutta l’area vesuviana ed è presente a Napoli, dai saggi a Palazzo Corigliano (cfr. il commento alla forma); è praticamente inconfondibile per la particolare resa dell’orlo e del collo breve segnato da un ringrosso esterno e sembra tipica del golfo di Napoli, mentre non se ne trovano confronti diretti nel bacino del Mediterraneo.
76Dal lavoro di Hilgers sui nomi latini dei recipienti, si può notare come il termine lagoena si trovi adoperato a proposito di recipienti che contengono acqua, vino ο mosto, esemplificati nel testo con varie forme, a collo corto ο lungo, mono/biansate, con diversi trattamenti del corpo (globulare, ovoide, addirittura anulare) (Hilgers 1969, 61, n. 205).
77Pertanto si evince che non è possibile mettere in relazione il nome lagoena con una Forma precisa di recipiente, né con una singola funzione, tranne quella generica di recipienti per liquidi.
78Vista la grande quantità di esemplari superstiti a Pompei e la gradualità di misure esistente fra loro, si potrebbe quindi pensare a recipienti in uso nelle cauponae ο in botteghe simili, il cui contenuto poteva essere venduto sulla base di campioni delle varie capacità esposti nelle botteghe stesse.
79Forma 1252a. Nn. inv. 29938, 29703. Fig. 6,32-33.
Fiasca a corpo globulare, con orlo ingrossato, distinto, a profilo arrotondato, corto collo cilindrico, leggermente bombato, distinto dal corpo da un ringrosso esterno orizzontale, spalla svasata, ventre arrotondato, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, un’ansa verticale scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Profonde linee di tornio esterne sul ventre. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 4,4 cm; alt. 13,9 cm; max. esp. 13,2 cm (inv. 29938). Diam. imboccatura 4,2 cm; alt. 15 cm; max. esp. 13,1 cm (inv. 29703).
La Forma è presente in 783 esemplari di varie dimensioni (compresi quelli del Museo Nazionale di Napoli); il più piccolo ha il diametro dell’imboccatura di 3 cm, l’altezza di 10 cm, la massima espansione di 8,5 cm; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 8 cm, l’altezza di 28 cm e la massima espansione di 26,7 cm. Per quanto riguarda gli impasti, la maggior parte degli esemplari presenta argilla di tipo 2 (752 pezzi), mentre 27 esemplari hanno argilla di tipo 1 e 4 individui presentano argilla di tipo 4. La capacità degli esemplari va da 0,2 l a 7,10 l.
Trova confronti precisi dai saggi nella Casa della Colonna Etrusca, Regio VI, insula 5, (Chiaramonte 1984, 171, fig. 106, n. 6: variante 1c); sembra riconoscibile nella tipologia della Annecchino non tanto per le caratteristiche morfologiche, rese in maniera troppo schematica, quanto per la quantità di esemplari ascrivibili, oltre 700, compresi quelli conservati nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Annecchino 1977, 112, fig. 5, n. 41).
In area vesuviana, la Forma è alquanto diffusa: si ritrova in territorio stabiano, nella villa del Petraro (De Caro 1987, 63 ss., figg. 80, n. 53, 81, nn. 54-58), nella villa in località S. Marco26 e nella villa di Boscoreale (De Caro 1994, 172-174, fig. 43, n. 135; fig. 44, nn. 136-138).
A Napoli è presente dai saggi a Palazzo Corigliano, con vari frammenti (Setari 1991, 63 s., fig. 27, nn. 39, 40, 41, 47).
Il n. 29703 reca un simbolo ο monogramma inciso prima della cottura, non bene identificabile; non sembrano attestate lettere legate in questa maniera, benché sia nota nell’alfabeto latino corsivo la “o” quadrata ed in quello etrusco il segno ∗ (Cencetti 1956; Fabretti 1867; Fabretti 1872). Come simbolo, potrebbe interpretarsi come un’ascia bipenne (?), largamente attestata nella simbologia funeraria del mondo romano.
80Forma 1252b. N. inv. 29932. Fig. 6,34.
Fiasca a corpo globulare, con orlo verticale a listello, con due scanalature esterne, corto collo svasato, distinto dall’orlo e dalla spalla da due ringrossi esterni, spalla svasata, ventre arrotondato, piede ad anello distinto a profilo triangolare, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Linee di tornio esterne sul ventre. Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 5 cm; alt. 15 cm; max. esp. 13,6 cm.
È presente in 25 esemplari di varie dimensioni; il più piccolo è quello raffigurato; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 7,5 cm, l’altezza di 27 cm, la massima espansione di 23,5 cm. Gli impasti appartengono al tipo 2 nella maggior parte dei casi (21 esemplari), al tipo 1 in 4 esemplari. In un caso la superficie è coperta da una patina cinerognola (Mus. 2.5 YR N4/). La capacità va da 1 l a 5,5 l.
La Forma è molto simile alla precedente, dalla quale si distacca soprattutto per il profilo della parte superiore. Anche questa trova confronto con altro materiale dalla città: è la variante 1f della Chiaramonte (Chiaramonte 1984, 172, fig. 106, n. 20).
Gli esemplari più piccoli potrebbero essere stati usati come balsamari; a tale proposito si segnala la presenza nei corredi di due tombe della necropoli di Porto Recanati di due vasi molto vicini per Forma a quelli in esame. Le tombe sono datate ad età adrianea (Mercando 1974, 351, fig. 274).
Si segnalano, inoltre, due esemplari dalla villa di S. Rocco a Francolise (CE), non in strato, uno dei quali, il n. 11, più simile alla nostra Forma (Cotton/Métraux 1985, fig. 58, nn. 11, 12); un altro confronto proviene da un piccolo insediamento rustico a Francolise, in località Masseria Bottacci, databile alla prima età imperiale (Compatangelo 1985, 63, tav. XIII, n. 25.1).
Sembra presente anche a Lipari, associata con anfore di Forma Richborough 52727.
1260. Forme chiuse con imboccatura stretta e collo distinto
81Il gruppo presenta una notevole varietà di forme, tutte dall’imboccatura stretta, facile da tappare, e dal corpo alquanto rigonfio; tali caratteristiche li rendono adatti a contenere liquidi, come del resto il gruppo precedente (1250). Alcune mancano dell’orlo e sono, pertanto, difficilmente confrontabili. In ogni caso, tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale forme simili sono diffuse in tutto il mondo romano, con una certa varietà nella resa dell’orlo ο nelle proporzioni tettoniche. Fra la numerosa bibliografia disponibile, sono stati considerati solo i contesti con materiale morfologicamente più vicino al gruppo in esame.
82Nella tipologia della Annecchino questi recipienti sono riuniti sotto il nome di urcei, con varie forme (Annecchino 1977, 111, s. v.).
83Forma 1262a. N. inv. 29925. Fig. 6,35.
Bottiglia a corpo globulare, con piccolo orlo estroflesso a profilo triangolare, con leggera scanalatura interna, lungo collo cilindrico, distinto dalla spalla da un ringrosso esterno, spalla espansa, ventre fortemente arrotondato, piede ad anello distinto a profilo trapezoidale, un’ansa verticale a nastro impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 5,1 cm; alt. 22,4 cm; max. esp. 18,9 cm.
È presente in 48 esemplari, di varie dimensioni; il più piccolo ha il diametro dell’imboccatura di 3,5 cm, l’altezza di 12,8 cm, la massima espansione di 11 cm; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 8 cm, l’altezza di 31 cm e la massima espansione di 23 cm. L’argilla è di tipo 2 nella quasi totalità, di tipo 1 in 2 esemplari di piccole dimensioni, che presentano una patina esterna nerastra. La capacità varia da 0,5 l a 4,8 l.
Fra le brocche-bottiglie rinvenute nei saggi nella Casa della Colonna Etrusca a Pompei, molto simile è un esemplare in argilla locale, da un contesto datato ad età tiberiana (Chiaramonte 1984, 173, fig. 107, n. 4). In area vesuviana, confronti molto precisi provengono dalla villa del Petraro a Stabia (De Caro 1987, 62 s., fig. 80, nn. 50, 51).
A Cosa la Forma sembra attestata da età precedente (I secolo a.C.), con una certa evoluzione fino agli esemplari coevi a questi in esame (Dyson 1976, 80, fig. 26, n. 89; ibid., 134, fig. 52, nn. 122-124). Dalla villa di Settefinestre nell’ager Cosanus proviene un esemplare molto simile, forse residuo in un contesto tardo antico-medievale (Papi 1985, 128, fig. 34, n. 13).
Dalle Terme del Nuotatore di Ostia provengono due frammenti della Forma da strati di fine I-inizi II secolo (Giannelli/Ricci 1970, 93, tav. XXI, n. 373; Pavolini 1977, 349, tav. LXI, n. 491); ancora da Ostia, dalla Casa delle Pareti Gialle, proviene un altro confronto, da un contesto databile tra la tarda repubblica e l’età traianea (Zevi/Pohl 1970, 170, fig. 84, n. 170). A Gabii sono attestati frammenti simili di orlo e collo, datati ad età augustea sulla base di confronti da Leida (Vegas 1968, 33, fig. 11, nn. 104-105). A Lipari è presente la forma, associata con anfore Richborough 527 (ex inf. M. Cavalier). In ambito europeo, si segnala ancora un confronto da Vindonissa (Ettlinger/Simonett 1952, 77, tav. 19, n. 438).
84Forma 1262b. N. inv. 30386. Fig. 6,36.
Bottiglia a corpo globulare, con lungo collo cilindrico, spalla molto espansa, ventre fortemente arrotondato, con carena nella parte mediana, piede ad anello a profilo trapezoidale, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata in modo leggermente obliquo sul collo e sulla spalla, con gomito accentuato e sopraelevato.
Superficie esterna polita. Mancante dell’orlo.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura conservato 2,6 cm; alt. 21 cm; max. esp. 16,5 cm.
La Forma è presente in 2 esemplari di uguali dimensioni, entrambi privi di orlo. La capacità è di 1,6 l. Il profilo del corpo è molto vicino a quello della Forma 1262a. La mancanza dell’orlo rende problematico individuarne confronti, dal momento che la maggior parte del materiale pubblicato proviene da scavi, e, pertanto, è essenzialmente costituito da frammenti di orlo e collo.
85Forma 1262c. N. inv. 30393. Fig. 6,37.
Bottiglia a corpo molto espanso, con orlo estroflesso verticale a listello, con leggera scanalatura interna ed un solco esterno sotto il listello, lungo collo leggermente troncoconico, distinto, spalla espansa distinta, ventre arrotondato verso l’alto, con profonde linee di tornio esterne, piede piano, leggermente convesso, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sul collo e sulla spalla. Integra.
Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 4,8 cm; alt. 18,1 cm; max. esp. 13,7 cm.
La Forma è presente in 46 esemplari di varie dimensioni; il più piccolo è quello raffigurato, il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 7,8 cm, l’altezza di 34 cm, la massima espansione di 24 cm. La capacità varia da 0,9 l a 5,4 l. Un solo esemplare è in argilla di tipo 1, tutti gli altri sono realizzati con argilla di tipo 2.
Anche questa forma, come la precedente, ha una diffusione molto ampia; si veda, ad esempio, il commento al tipo 38 della tipologia della Vegas (Vegas 1973, 93 ss., fig. 31).
A Pompei stessa se ne è rinvenuto un frammento da un contesto di età claudia, dai saggi per l’impianto elettrico, in argilla “black sand” (taglio 0, U.S. 2). Dal territorio, è presente a Villa Regina a Boscoreale (De Caro 1994, 172, fig. 43, n. 134).
Dai magazzini di Ostia si segnala un esemplare assolutamente identico, con argilla fine color nocciola, più altri frammenti, di ipotizzata produzione locale, ma che forse potrebbero essere attribuiti ad una produzione vesuviana (Giannelli/Ricci 1970, 90 ss., tav. XXII, n. 386; tav. LVII, n. 828; simile l’orlo IIIA1: ibid., tav. XXI, n. 383; Giovannini 1973, 424 s., tav. LVIII, n. 498). Ancora da Ostia, dalla Casa delle Pareti Gialle, è pubblicato un esemplare molto simile, con orlo leggermente meno estroflesso, da un contesto tardo repubblicano-traianeo (Zevi-Pohl 1970, 170, fig. 84, n. 173).
Anche tra la ceramica comune di Luni si sono rinvenuti confronti precisi: un’olpe praticamente identica, della quale resta la parte superiore, più un altro frammento (Luni I, 418, fig. 110, n. 18; ibid., fig. 73, n. 20).
In ambiente mediterraneo si è individuato un confronto preciso in una “brocca schiacciata” dalla Stoà sud di Corinto, della quale si conserva la parte inferiore fino all’attacco del collo, in argilla colore arancio con granelli di sabbia, datata ad età neroniana (Hayes 1973, 466, fig. 81, b, n. 236).
86Forma 1262d. N. inv. 29947. Fig. 7,38.
Bottiglia a corpo molto espanso, con orlo estroflesso a listello verticale, con fitte scanalature esterne e leggera scanalatura interna, lungo collo cilindrico, con leggero rigonfiamento centrale, distinto dalla spalla da un solco, spalla fortemente svasata distinta, ventre arrotondato verso l’alto, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, un’ansa verticale a nastro scanalata, con gomito molto accentuato e sopraelevato, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 4,1 cm; alt. 21,5 cm; max. esp. 16,9 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 1,5 l. Questo tipo di orlo non sembra molto diffuso; non è stato possibile rilevare confronti precisi con le altre bottiglie con orlo scanalato presenti nel mondo romano, tranne una certa somiglianza con un frammento del tipo 38 della Vegas, da Pollentia, di età augustea (Vegas 1973, 91, fig. 31, n. 3). Per Forma in generale, ma con orlo meno articolato, si possono citare riferimenti a Settefinestre (Papi 1985, 125, tav. 33, n. 22, fuori contesto); a Roma, Casa di Livia, da una fossa piena di materiale tardo-repubblicano (Carettoni 1957, 106, fig. 31a, n. 160); a Ostia (Ostia III, 54, tav. XV, fig. 34); a Cosa (Dyson 1976, 30, fig. 50, tipo 22 II 97), della prima metà del I secolo d.C.; ad Albintimilium (Lamboglia 1950, 71, fig. 29, n. 49). A Lipari, sembra attestata in associazione con anfore Richborough 527 (ex inf. M. Cavalier). Anche a Vindonissa si rinvengono esemplari simili per la Forma del corpo (Ettlinger/Simonett 1952, 78, tav. 20, n. 453).
Il trattamento dell’ansa e la Forma del corpo ricordano simili recipienti in vetro: si veda, ad esempio, la brocca pubblicata nel catalogo della mostra “Vetri dei Cesari”, di provenienza sconosciuta, datata al I secolo a.C., della quale si segnala anche la resa del piede, estremamente simile a quella della maggior parte delle forme chiuse di Pompei (Whitehouse 1988, 36 s., n. 13).
87Forma 1262e. N. inv. 32486. Fig. 7,39.
Bottiglia a corpo espanso, con orlo presumibilmente estroflesso, lungo collo svasato verso il basso, spalla breve distinta, ventre arrotondato verso l’alto, piccolo piede ad anello espanso a profilo spigoloso, distinto, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sul collo e sulla spalla, con gomito accentuato.
Profonde linee di tornio sul collo e sul ventre. Superficie esterna polita. Mancante dell’orlo e di piccola parte del collo.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 3,4 cm; alt. 22,9 cm; max. esp. 13,6 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, di 1,1 l di capacità. Si tratta di un recipiente di Forma alquanto peculiare nel suo insieme, con tutta probabilità per liquidi, forse da tavola; l’inclinazione del collo nella parte superiore suggerisce un orlo svasato ο estroflesso. È possibile citare un altro esemplare, forse appartenente alla stessa forma, dai saggi nella Casa della Colonna Etrusca a Pompei, Regio VI, insula 5, di cui resta la parte superiore (Chiaramonte 1984, 173, fig. 107, n. 1). Anche questa forma, come la precedente, ricorda nell’aspetto generale recipienti in altro materiale, vetro ο metallo.
88Forma 1262f. N. inv. 30396. Fig. 7,40.
Bottiglia a corpo lenticolare, con orlo verticale con listello esterno a tesa all’attacco con il collo, lungo collo svasato verso la spalla fortemente espansa, ventre emisferico con leggera carena nella parte inferiore, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, un’ansa verticale a nastro impostata sul collo e sulla spalla, lacunosa al gomito, che si suppone accentuato.
Profonde linee di tornio sulla spalla e sul ventre. Superficie esterna in gran parte corrosa, in origine polita, con resti della decorazione a rotella sul corpo, a serie di trattini verticali ed obliqui.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 3,3 cm; alt. 18,8 cm; max. esp. 17,7 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 1,55 l. La decorazione a rotella, molto simile a quella del vasellame in terra sigillata, consente di ipotizzare un uso del recipiente prevalentemente da tavola.
89Forma 1262g. N. inv. 29955. Fig. 7,41.
Bottiglia a corpo ovoide, con orlo espanso verticale, a listello, con fitte scanalature esterne, lungo collo svasato verso la spalla distinta, con un ringrosso nella parte superiore, ventre allungato ed arrotondato verso il basso, piede ad anello distinto a profilo arrotondato, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sul collo e sulla spalla. Integra.
Superficie esterna polita.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 5,6 cm; alt. 28,3 cm; max. esp. 18,3 cm.
La Forma è attestata in 9 esemplari di varie dimensioni; il più piccolo è quello raffigurato, mentre il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 6 cm, l’altezza di 31 cm, la massima espansione di 26,6 cm. La capacità degli esemplari varia da 2,8 1 a 3,6 l. Sono tutti realizzati in argilla tipo 2, tranne in un caso, che presenta argilla di tipo 4 ed una spessa ingubbiatura bianca esterna (Mus. 10 YR 8/1). Si tratta probabilmente di una Forma da dispensa di medie dimensioni. Un esemplare di questa forma, con superficie coperta da un’invetriatura di colore verde, è esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, con indicazione di provenienza da Pompei, e di produzione egizia. Visto il confronto diretto con gli esemplari pompeiani, è forse possibile avanzare qualche riserva sull’attribuzione dell’area produttiva.
90Forma 1263a. N. inv. 30264. Fig. 7,42.
Bottiglia a corpo ovoide, con orlo espanso verticale, ingrossato e sagomato, con scanalatura interna, lungo collo leggermente svasato, spalla distinta, ventre allungato ed arrotondato verso la parte mediana, piede ad anello distinto a profilo spigoloso, due anse verticali a nastro impostate sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Profonde linee di tornio sul collo e sul ventre. Superficie esterna in gran parte consunta, ruvida.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 6,6 cm; alt. 29,1 cm; max. esp. 17,6 cm.
La Forma è attestata in 3 esemplari di uguali dimensioni, tutti in argilla di tipo 2; la capacità è di 2,9 l. Come per la precedente, anche per questa Forma si presume un uso precipuo da dispensa. Non se ne sono rinvenuti confronti precisi tra il materiale pubblicato; sembra presente a Lipari, associata con anfore Richborough 527 (ex inf. M. Cavalier).
1300. Forme chiuse con dispositivo per versare
91Sono riunite in questa categoria tutte le brocche propriamente dette, ovvero tutte le forme chiuse con dispositivo per versare, di uso primario con tutta probabilità da tavola e, in ogni caso, non destinate a conservare per lungo tempo. È necessario ricordare la scarsa presenza di forme chiuse fra la ceramica fine da mensa, senza dubbio non del tutto sostituite da recipienti in metallo ο vetro. È attestata la preferenza degli antichi per recipienti in terracotta e in vetro, in cui servire il vino anche su mense di lusso (cfr. Morel 1979, 250 e n. 25).
92Le forme presentano tratti peculiari anche molto diversi tra loro; si è osservata nella classificazione la stessa distinzione formale basata sulle caratteristiche dell’imboccatura e del collo valide per gli altri gruppi di forme chiuse, anche se alcuni tipi, individuati nello schema tipologico per completezza, non sono attestati (1320, 1350). Tutte le forme presenti nei Granai del Foro di Pompei risultano monoansate, il che risponde senz’altro ad una esigenza funzionale legata all’atto di versare, anche se non si può escludere a priori l’esistenza di forme simili con un diverso numero di anse. Si segnala la presenza di una spessa patina interna ed esterna per le forme 1342a e 1362a, con l’evidente scopo di impermeabilizzare i recipienti.
1310. Forme chiuse con dispositivo per versare, imboccatura ampia e collo breve
93Forma 1312a. N. inv. 29049. Fig. 8,43.
Brocca a corpo globulare, con orlo estroflesso verticale distinto, ripiegato nella parte anteriore, corto collo svasato, ventre fortemente arrotondato, fondo leggermente convesso, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla massima espansione. Integra.
Profonde linee di tornio su tutto il corpo. Superficie esterna ruvida.
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 10 cm; alt. 17,7 cm; max. esp. 15,2 cm.
La Forma è presente in 77 esemplari, di varie dimensioni. Il più piccolo è quello raffigurato, il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 16,5 cm, l’altezza di 31,2 cm, la massima espansione di 23,1 cm. La capacità varia da 1,35 l a 6 l. L’argilla è di tipo 2 in 40 esemplari, compreso quello raffigurato; di tipo 1 in 37 esemplari, di varie dimensioni.
Non sembra trovare confronti precisi fuori dell’area vesuviana, dove è attestata anche dalla villa rustica di Boscoreale (De Caro 1994, 168, fig. 42, nn. 128, 129). Da notare la somiglianza con la Forma 1212c, difficilmente distinguibile da questa in esame se mancante di orlo e collo.
1330. Forme chiuse con dispositivo per versare, imboccatura media e collo breve
94Forma 1332a. N. inv. 29560. Fig. 8,44.
Brocca a corpo piriforme, con orlo espanso, a fascia, distinto, ripiegato nella parte anteriore, corto collo svasato, ventre arrotondato verso il basso, fondo piano a profilo non regolare, un’ansa verticale a nastro leggermente scanalata, impostata sull’orlo e sulla spalla, a gomito accentuato. Integra.
Profonde scanalature orizzontali regolari sulla superficie esterna, nella parte superiore del vaso. Superficie esterna lisciata, con tracce di steccatura sul fondo.
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 9,5 cm; alt. 19 cm; max. esp. 14,3 cm.
La Forma è attestata in un solo esemplare, la cui capacità è di 1,4 l. È di fattura alquanto grezza, rispetto a quella delle altre forme chiuse. Non se ne sono rinvenuti confronti puntuali.
1340. Forme chiuse con dispositivo per versare, imboccatura media e collo distinto
95Forma 1342a. N. inv. 30109. Fig. 9,45.
Brocca a corpo ovoide, con orlo estroflesso a fascia, fortemente ripiegato nella parte anteriore, distinto, collo cilindrico, con due scanalature esterne, distinto dalla spalla espansa da un ringrosso esterno, ventre arrotondato nella parte superiore, fondo a profilo leggermente convesso, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Superficie esterna ruvida, con patina di colore rosso scuro (Mus. 10 R 3/6).
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 5,5 cm; alt. 18,6 cm; max. esp. 14,5 cm.
La Forma è presente in 40 esemplari di varie dimensioni. Il più piccolo è quello raffigurato; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 8 cm, l’altezza di 26,7 cm e la massima espansione di 22,7 cm. Alcuni esemplari hanno l’ingubbiatura di colore nerastro (Mus. 7.5 YR 2). La capacità varia da 1,1 l a 3 l. L’argilla di tutti gli esemplari è di tipo 1, tranne in un caso, che presenta argilla di tipo 2, senza patina esterna, ma con superficie polita.
Trova confronti dalla stessa Pompei, dai saggi per l’impianto elettrico, con un frammento in argilla di tipo 2, senza patina, in argilla “black sand”, con ingubbiatura color crema, da uno strato datato alla fine del I secolo a.C. (taglio IB, U.S. 17). La presenza della decorazione in tutti gli esemplari esaminati, una maggiore accuratezza della forma, rispetto agli altri vasi, la Forma peculiare suggeriscono si tratti di brocche essenzialmente da mensa.
In ambito mediterraneo può essere confrontata con brocche trilobe provenienti dall’Agorà di Atene (Robinson 1959, 33, pl. 33, n. G104) e dalla Stoà sud di Corinto (Hayes 1973, 466, fig. 79, d), con collo svasato nella parte superiore, in entrambi i casi datate alla seconda metà del I secolo d.C. L’esemplare di Corinto è realizzato in argilla micacea, con ingubbiatura grigia, non locale.
96Forma 1342b. N. inv. 29591. Fig. 9,46.
Brocca a corpo globulare, con orlo piano inclinato verso l’esterno, con leggero incasso interno, collo troncoconico, con una scanalatura esterna, distinto, ventre arrotondato con linee di tornio tra la spalla e la massima espansione, fondo piano leggermente convesso, umbilicato al centro, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla massima espansione. Integra.
Superficie interna ed esterna con ingubbiatura di colore nerastro (Mus. 7.5 YR 2).
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 8 cm; alt. 20 cm; max. esp. 16 cm.
La Forma è presente in 2 esemplari, di eguali dimensioni. Trova confronto puntuale con la Forma Ostia III, 203, tav. XLIII, fig. 342 (cfr. Giovannini 1973, 430 s.). Recentissime indagini hanno individuato per il gruppo di Ostia, che è attestato, con varianti, fino al IV secolo, una provenienza probabilmente egea (Pavolini 1994, 119 s.). Gli esemplari da Pompei non sembrano differenziarsi, ad un esame macroscopico, dalla produzione locale rappresentata dal tipo 1 degli impasti.
1360. Forme chiuse con dispositivo per versare, imboccatura stretta e collo distinto
97A questo gruppo si possono ascrivere più forme, contrariamente a quanto accade per i gruppi precedenti con dispositivo. Evidentemente si tratta della soluzione tipologica più adatta alla funzione di questi vasi. La Forma 1362a è stata classificata in altri studi tra la ceramica a pareti sottili; si preferisce collocarla tra la ceramica comune, sia per fattura, estremamente simile a quella della Forma 1342a, sia per la sua produzione locale. L’esemplare pubblicato come ceramica a pareti sottili proviene anch’esso da Pompei ed è conservato presso il Museo Nazionale di Napoli (Cfr. il commento alle forme).
98Rientra in questo tipo l’unico caso di vasellame sicuramente importato tra la ceramica comune da mensa e dispensa di Pompei, costituito dalla Forma 1362c, rappresentata da tre esemplari praticamente identici. Si tratta della cosiddetta ceramica grigia di età imperiale, diffusa praticamente in tutto il Mediterraneo occidentale anche con altre forme, anforette e brocche, meno attestate di questa in esame. La brocca è praticamente inconfondibile per la resa delle scansioni del corpo, per il trattamento dell’orlo e per l’aspetto metallico della Forma e della superficie. Presente dal I secolo a.C. (ad Albintimilium, strato VI), ha la sua maggiore diffusione nella prima età imperiale in vari centri in Italia (Albintimilium, Luni, Ostia) ed in Europa. Lamboglia ne ipotizzava una provenienza massaliota; Goudineau ha individuato un centro di produzione a Vaison-la-Romaine (Goudineau 1977, 153-169) e recentemente le analisi petrografiche compiute sui campioni di Albintimilium ne danno come possibili aree produttive la valle dell’Ebro ο la valle del Rodano (Olcese 1992; id. 1993, 113-1 16). Nel golfo di Napoli, la Forma è presente anche a Puteoli, da un contesto della fine del II secolo28.
99Forma 1362a. N. inv. 29601. Fig. 9,47.
Brocca a corpo globulare, con orlo verticale, distinto, fortemente ripiegato all’interno all’attacco dell’ansa e sui lati, lungo collo svasato, distinto mediante un solco dalla spalla espansa, ventre fortemente arrotondato nella parte mediana, piede leggermente convesso, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla, con gomito leggermente sopraelevato. Integra.
Superficie esterna con patina di colore rosso scuro (Mus. 10 R 3/6).
Argilla tipo 1.
Diam. imboccatura 4,7 cm; alt. 18 cm; max. esp. 15,2 cm.
La Forma è presente in 10 esemplari di uguali dimensioni; alcuni hanno l’ingubbiatura di colore nerastro (Mus. 7.5 YR 2). La capacità è di 1,2 l.
Dalla stessa Pompei è pubblicata tra i “vasi a pareti sottili” come Forma non identificata (Carandini 1977, 28, tav. XVIII, n. 83) ed è inserita, con un’interpretazione non sicura, nella produzione campana della classe, nel II volume dell’Atlante delle Forme Ceramiche (Ricci 1985, 347, tav. CXIV, n. 9). Esiste, inoltre, un confronto diretto con un esemplare in metallo da Ercolano, di dimensioni simili. Siamo evidentemente in presenza di un forte interscambio formale fra le diverse classi di materiale (bronzo e terracotta).
100Forma 1362b. N. inv. 29636. Fig. 9,48.
Brocca a corpo globulare, con orlo leggermente espanso ed ingrossato, distinto, collo cilindrico nella parte superiore, distinto e svasato nella parte inferiore, spalla svasata, con linee di tornio esterne, ventre fortemente arrotondato, piede ad anello distinto a profilo trapezoidale, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata a 90° sulla parte bassa del collo e sulla spalla. Integra.
Superficie esterna polita, decorata sull’orlo e sulla spalla da fasce orizzontali sovradipinte di colore rosso (Mus. 2.5 YR 4/8).
Argilla tipo 2.
Diam. imboccatura 4 cm; alt. 16 cm; max. esp. 12,6 cm.
La Forma è presente in 60 esemplari, di varie dimensioni. Il più piccolo ha il diametro dell’imboccatura di 3,5 cm, l’altezza di 10,5 cm e la massima espansione di 9,4 cm; il più grande ha il diametro dell’imboccatura di 8 cm, l’altezza di 33 cm e la massima espansione di 25,4 cm. La capacità varia da 0,75 l a 6,5 l. In alcuni esemplari le fasce sovradipinte sono di colore marrone (Mus. 7.5 YR 5/6-5/8). In 18 esemplari, compreso quello raffigurato, l’ansa è impostata a 90° rispetto al dispositivo per versare, negli altri è opposta; in particolare, negli esemplari più grandi è sempre opposta al dispositivo, per una evidente esigenza funzionale (è difficile usare un manico laterale per versare da un vaso grande).
101A Pompei stessa la Forma è stata rinvenuta nei saggi per l’impianto elettrico, da un contesto di età claudia (taglio 0, U.S. 2); a Stabia è attestata fra i materiali della villa rustica in località Petraro (De Caro 1987, 65 s., fig. 82, nn. 59-60); a Ercolano dalla Casa del Colonnato Tuscanico (Cerulli Irelli 1974, 116, fig. 96, n. 28).
Ancora in Campania, dalla villa di Posto a Francolise (CE) provengono esemplari attribuibili alla forma, con scanalatura sul collo più pronunciata, parzialmente coperti da una sottile ingubbiatura marrone di produzione locale, fuori contesto (Cotton 1979, 91 s., fig. 20, nn. 12, 14).
In Italia, da Ostia provengono due esemplari della forma, uno dei quali con ansa laterale (Ostia III, tav. LI, n. 415; tav. LV, n. 460; tav. LXIII, n. 570; cfr. Giovannini 1973, 422 per la durata della forma, dal I al III secolo con evoluzione morfologica); a Gabii è attestato un esemplare con ansa laterale datato alla seconda metà del I secolo d.C. (Vegas 1968, 33, fig. 11, n. 116; Vegas 1973, 93, fig. 32, n. 4). Dalla villa di Settefinestre, nell’ager Cosanus, è presente un esemplare attribuibile alla Forma con scanalatura sul collo più pronunciata, di produzione locale, probabilmente residuo in un contesto di età tardo antica-medievale (Papi 1985, 128, fig. 34, n. 15).
Dalla Calabria si segnala un esemplare di cui resta la parte superiore da Valentia, con superficie corrosa (Iannelli 1989, 653, tav. LXXIII, inv. 30654), ed un altro di provenienza incerta, facente parte di un gruppo di materiali sequestrati al largo di Vibo Marina, provenienti probabilmente da un naufragio29.
102Forma 1362c. N. inv. 30119. Fig. 9,49.
Brocca con corpo a trottola, con orlo estroflesso a fascia, distinto, fortemente ripiegato nella parte anteriore, collo svasato con profondo solco nella parte mediana, spalla espansa e schiacciata, con profonde linee di tornio esterne, ventre arrotondato verso la parte superiore, con profondi solchi esterni nella parte superiore, piede a basso disco, un’ansa verticale a nastro scanalata, impostata sotto l’orlo e sulla spalla. Integra.
Superficie polita e steccata nella parte inferiore del corpo.
Argilla tipo 3.
Diam. imboccatura 10,5 cm; alt. 23,8 cm; max. esp. 22,3 cm.
La Forma è presente in 3 esemplari di uguali dimensioni, la cui capacità è di 3,4 l. È attestata in numerosi siti in Italia e nel Mediterraneo: a Ostia, Terme del Nuotatore, con due qualità di argilla, una più fine, color grigio antracite, l’altra più grezza, con diversa tonalità di grigio all’esterno, come gli esemplari in esame (Ricci 1970, 88, tav. XIX, nn. 320-337a-b; tav. LVII, n. 823-824; Ostia III, 45, tav. XIV, n. 20; ibid., 281, tav. LXX, n. 639; cfr. anche Capo 1973, 405-406). Ancora a Ostia, dalla Casa delle Pareti Gialle, sono attestati frammenti a pasta grigio chiaro, quasi bianca, con superficie di colore grigio ferro/piombo, con tre diversi tipi di fondo: piano a disco, leggermente concavo, con piede a basso anello (Zevi/Pohl 1970, 86 s., 95, 107, 122, 131, 148: in tutto 13 frammenti). Da Luni sono pubblicati 2 esemplari identici a quelli in esame, il primo dei quali ha argilla grigio chiaro, dura, ben depurata, datato al I secolo (Luni I, 356, fig. 61, n. 12; ibid., fig. 160, n. 461); ad Albintimilium sono presenti vari frammenti da strati diversi, con una maggiore concentrazione nel I secolo, fino al II secolo (Lamboglia 1950, 63, fig. 24, n. 14; ibid., 32, 37, 49, 110 s., nn. 24-25; ibid., 129, passim. Strato IIIC: fig. 8, nn. 21; strato IV: fig. 16, n. 61; fig. 69, nn. 13-15).
In ambito europeo, si hanno confronti dalla Francia (tra gli altri, per Cavaillon: Dumoulin 1965, 41, fig. 47; per Lione, cfr. Tuffreau-Libre 1992, 68), da Aventicum, con una Forma di età claudia ed una di età flavia (Roth-Rubi 1979, 65, fig. 16, n. 142; ibid., fig. 17, n. 155), dalla Spagna, a Pollentia, datati alla seconda metà del I ο inizi del II secolo (Vegas 1973, 108 s., fig. 39, n. 2), con riferimento ad esemplari di età augustea ad Haltern, di età claudia a Hofheim, a Vindonissa, con argilla molto omogenea (Vegas 1973; cfr. Ettlinger/Simonett 1952, 79 s. tav. 21, nn. 470, 472, 473). Nel Mediterraneo orientale la Forma è attestata ad Atene (Robinson 1959, pl. 7, G192; pl. 14, K97, K101, K103) e a Creta, dalla Villa di Dioniso a Cnosso (Hayes 1983, 97-170, fig. 5, 6, nn. 64, 771; fig. 7, 8, nn. 99-110). Una produzione di ceramica grigia, con questa forma, è attestata a Vaison-la-Romaine (Goudineau 1977, 153-169).
1400. Coperchi
103Sono riuniti in questa categoria tutti i coperchi distinguibili da quelli da cucina per argilla, per dimensioni e per l’assenza di tracce d’uso sul fuoco. Si segnala la difficoltà per questi recipienti, di Forma estremamente schematica e del tutto funzionale, di distinguere tra quelli destinati sin dalla realizzazione ad usi di cucina, rispetto a quelli destinati a coprire vasellame da dispensa ο simile. In ogni caso, la quantificazione dei coperchi custoditi nei Granai del Foro di Pompei ha tenuto conto essenzialmente delle caratteristiche macroscopiche degli impasti, consentendo di assimilare alla ceramica da mensa e dispensa quelli realizzati con impasti rientranti nei tipi 1 e 2 che non recassero segni di annerimento da fuoco. Anche le suddivisioni morfologiche usate per gli altri gruppi di recipienti risultano di difficile applicazione in questo caso; in realtà, il principale discrimine tra le forme è costituito dall’andamento del corpo e dalla Forma dell’orlo. Allo stesso modo, benché alcune forme di coperchi non presentino prese (ad es. i piatti/coperchi con piede ad anello ο piano) ο possano averne più di una (quella centrale ed altre sull’orlo), nella stragrande maggioranza dei casi si presentano con una presa centrale a bottone, sagomato ο informe. In ogni caso, si è mantenuta anche per loro la stessa definizione numerica con la quale si sono distinte le altre forme di recipienti, individuando con le decine le differenze morfologiche di corpo ed orlo, e con le unità la presenza di una ο più prese. Non si è ritenuto opportuno citare confronti puntuali per questi oggetti, poiché per Forma risultano del tutto omogenei nei diversi siti esaminati; inoltre, il fenomeno dell’esportazione a vasto raggio di questo genere di vasi sembra estremamente limitato30 tranne che nel caso eclatante dei piatti/coperchi di ceramica da cucina di produzione africana. Il dato, indirettamente, potrebbe essere usato per evidenziare il fatto che, con tutta probabilità, le forme chiuse di ceramica comune con imboccatura media eventualmente esportate a lungo raggio non viaggiavano solitamente per il loro contenuto, ma esse stesse in qualità di merce, mentre quelle con imboccatura stretta, se piene, dovevano essere tappate con materiale diverso e probabilmente deperibile, come già accennato.
1410. Coperchi conici con orlo piano
104Con un totale di 921 esemplari rappresentano il gruppo di gran lunga più attestato, non solo a Pompei, ma in tutto il mondo romano, proprio per l’estrema semplificazione morfologica, strettamente legata alla funzionalità degli oggetti. Sono di diverse dimensioni e realizzati con argille dei tipi 1 e 2, alcuni presentano annerimenti sulla superficie non dovuti all’uso.
105Forma 1412a. N. inv. 28644. Fig. 10,50.
Coperchio circolare conico con orlo piano e presa a bottone informe. Integro.
Tracce di ingubbiatura interna ed esterna biancastra (Mus. 5 YR 8/1).
Argilla tipo 1.
Diam. orlo 11,8 cm; alt. 3,8 cm.
La Forma è presente in 401 esemplari di dimensioni per lo più del tutto analoghe a quello disegnato, mentre un solo esemplare raggiunge i 24 cm di diametro dell’orlo. Questi coperchi sono per la maggior parte realizzati in argilla tipo 1, con superficie annerita per la cottura. Solo 9 coperchi di questa Forma sono in argilla tipo 2.
106Forma 1412b. N. inv. 28641. Fig. 10,51.
Coperchio circolare conico con orlo piano e presa a bottone informe. Integro.
Superficie interna ed esterna annerita.
Argilla tipo 1.
Diam. orlo 11 cm; alt. 3,8 cm.
Ben 523 esemplari sono ascrivibili a questa forma, con varie dimensioni. I più piccoli sono analoghi a quello disegnato, mentre il diametro massimo dell’orlo attestato è di 22 cm. Anche in questo caso la maggior parte degli oggetti è in argilla di tipo 1, mentre solo 2 coperchi sono in argilla tipo 2. Molti esemplari, tra cui quello illustrato, hanno la superficie annerita in fase di cottura.
107Forma 1412c. N. inv. 29581. Fig. 10,52.
Coperchio circolare conico con orlo piano a profilo triangolare, leggermente annerito, e presa a bottone informe. Integro.
Profonde linee di tornio sul corpo. Superficie esterna con tracce di ingubbiatura di colore marrone chiaro (Mus. 5 YR 6/3).
Argilla tipo 1.
Diam. orlo 11 cm; alt. 4,6 cm.
La Forma è presente con 8 esemplari, 2 dei quali in argilla tipo 2, gli altri in argilla 1. Un esemplare ha tre fori ante cocturam vicino alla presa, probabilmente per consentire l’aerazione del prodotto contenuto nel vaso sottostante. Due dei coperchi in argilla 1 sono ricoperti da ingubbiatura biancastra interna ed esterna (Mus. 5 YR 8/1).
1420. Coperchi a campana con orlo piano
108Un interessante tipo è questo dei coperchi definiti a campana, con diverse forme, rappresentati da un quantitativo di esemplari molto minore rispetto al tipo precedente, in nessun caso destinati a coprire recipienti da fuoco. Le Forme 1422b e c, maggiormente articolate, possono rappresentare una evoluzione morfologica da prototipi di età ellenistica, di cui un discreto numero è emerso, ad esempio, dalla necropoli ellenistico-romana di località Orto Ceraso a Teano (CE) (Di Giovanni 1995, 15-17)31.
109Forma 1422a. N. inv. 29579. Fig. 10,53.
Coperchio circolare con corpo a campana, orlo piano leggermente rientrante, presa a bottone informe. Integro.
Superfice interna ed esterna con leggera ingubbiatura di colore giallo chiaro (Mus. 10 YR 8/4).
Argilla tipo 1.
Diam. orlo 13,6 cm; alt. 8 cm.
La Forma è presente in 19 esemplari, di cui 18 in argilla tipo 1, di eguali dimensioni, 1 in argilla tipo 2, con diametro dell’orlo leggermente più piccolo (8,8 cm).
110Forma 1422b. N. inv. 26916. Fig. 10,54.
Coperchio circolare con corpo a campana, carenato nella parte inferiore, orlo verticale piano, leggermente rigonfio, presa a bottone informe. Integro.
Superficie esterna con ingubbiatura di colore rosa chiaro (Mus. 5 YR 8/3).
Argilla tipo 1.
Diam. orlo 14 cm; alt. 77,3 cm.
La Forma è presente in 44 esemplari, tutti in argilla tipo 1, di eguali dimensioni.
111Forma 1422c. N. inv. 29550. Fig. 10,55.
Piccolo coperchio circolare con corpo a campana, poco profondo, distinto all’interno nella parte inferiore, molto espanso all’esterno, piccolo orlo verticale piano, presa a bottone. Integro.
Superficie con leggera patina interna ed esterna di colore rosso medio (Mus. 10 YR 5/8).
Argilla tipo 1.
Diam. orlo 5,8 cm; alt. 2,5 cm.
La Forma è presente in soli 3 esemplari: 2 in argilla tipo 1, di cui, oltre a quello illustrato, il secondo presenta il diametro dell’orlo di 7,2 cm; 1 in argilla tipo 2, con diametro dell’orlo di 7,2 cm.
1430. Coperchi a campana con orlo a tesa
112Forma 1432a. N. inv. 28758. Fig. 10,56.
Coperchio circolare con corpo a campana, molto profondo, orlo orizzontale a tesa, con piccolo labbro verticale, presa a bottone a profilo arrotondato, con foro passante alla sommità, praticato prima della cottura. Integro.
Superficie interna ed esterna con spessa ingubbiatura di colore marrone chiaro-giallastro (Mus.7.5 YR 7/4).
Argilla tipo 2.
Diam. orlo 9,2 cm (con la tesa); alt. 4,5 cm.
La Forma è presente in questo solo esemplare.
1440. Coperchi a falda con orlo piano
113Forma 1442a. N. inv. 29559. Fig. 10,57.
Coperchio circolare a falda, non tornito, con orlo orizzontale piano, a profilo triangolare irregolare, presa a bottone informe. Integro.
Superficie esterna con tracce di ingubbiatura biancastra (Mus. 5 YR 8/1).
Argilla tipo 2.
Diam. orlo 8,6 cm; alt. 3 cm.
La Forma è presente in 4 esemplari, 2 dei quali in argilla tipo 1. Di questi uno ha il diametro dell’orlo di dimensioni maggiori, 13,6 cm. Gli altri due coperchi sono in argilla tipo 2.
1450. Coperchi con orlo rientrante
114Forma 1452a. Non inv. Fig. 4.
Coperchio circolare conico, con orlo verticale rientrante, distinto dal corpo da un ringrosso esterno a profilo triangolare, presa a bottone sagomato. Integro.
Superficie polita.
Argilla tipo 2.
Diam. orlo 5 cm; alt. 3 cm.
È presente in 1 solo esemplare, collocato su una brocca della Forma 1242a. Non esiste la certezza che il coperchio sia stato ritrovato sopra il recipiente, tuttavia si adatta molto bene sia a questa che ad altre forme con imboccatura simile.
115Forma 1452b. N. inv. 29549. Fig. 10,58.
Coperchio circolare a profilo schiacciato, con orlo fortemente rientrante, distinto dal corpo da un ringrosso esterno a profilo triangolare, presa a bottone informe, con foro passante all’estremità superiore, praticato prima della cottura. Integra.
Superficie interna ed esterna con ingubbiatura di colore giallo chiaro-verdastro (Mus. 2.5 Y 8/4).
Argilla tipo 2.
Diam. orlo 7,5 cm; alt. 2,5 cm.
La Forma è rappresentata da 7 esemplari, di cui 5 in argilla tipo 2, due in argilla tipo 1, tutti di eguali dimensioni. Alcuni coperchi presentano la presa forata come quello illustrato.
3. Alcuni confronti dalla Campania settentrionale
116L’esame di altri contesti della Campania romana, ancorché in fase del tutto iniziale, in particolare per quanto riguarda la schedatura del materiale, sta rivelando utili confronti e spunti di ricerca rispetto a quanto notato per l’area vesuviana.
117Circa le importazioni di ceramica comune da mensa e dispensa, dobbiamo segnalare che, mentre a Pompei la ceramica grigia rappresenta l’unico materiale non locale (ma la situazione è leggermente diversa per la ceramica da cucina), a Puteoli, un secolo dopo, dai saggi effettuati nell’area dell’ex Palazzo Toledo, in via Ragnisco, si rinvengono anche bacini importati dal nord Africa, una certa quantità di frammenti di pareti di forme chiuse con argilla africana, nonché un tubulo per costruzioni anch’esso africano32. Evidentemente, la diffusione massiccia della ceramica da cucina nord-africana che si verifica sui mercati italici dopo la fine del I secolo d.C. comporta anche, seppure in quantità esigue, una certa importazione di forme chiuse e aperte non da fuoco. Circa il commercio di materiale fittile da costruzione (laterizi), attestato a Puteoli, evidentemente doveva costituire parte del carico, anche se probabilmente come zavorra, ed essere compreso nei viaggi di andata e ritomo; tale circostanza sembra documentata anche, ad esempio, dalla presenza rilevante di mattoni e tegole di produzione campana a Cartagine negli scavi dell’Università del Michigan33, nonché dell’Avenue du Président Bourguiba34.
118Per quanto riguarda il panorama morfologico presente nel golfo di Napoli, gli scavi nel Rione Terra, ancora a Pozzuoli, hanno restituito un ingente quantitativo di ceramica comune, sia da cucina che da mensa e dispensa, con esemplari del tutto analoghi a quelli pompeiani, in contesti di I secolo d.C.35. Al momento, in attesa di indagini più approfondite sui materiali, non è possibile disporre di dati circa gli impasti; in ogni caso, un primo esame dei vasi sembra suggerire una produzione localizzata nella zona costiera, se non proprio in area vesuviana.
119Ma l’omogeneità del quadro campano nella prima età imperiale è riscontrabile anche in aree più interne. Ad esempio, l’analisi di un piccolo gruppo di vasi da un contesto ben stratificato di Capua (attuale S. Maria C. V.) ha rivelato materiali estremamente affini a quelli pompeiani. Lo scavo è stato effettuato nel 1991 dalla dott. Floriana Miele, in proprietà privata (propr. Ambrosino), ed ha interessato parte di un’area destinata a giardino, pertinente ad una domus già oggetto di intervento da parte di Werner Johannowsky negli anni ’70 (via degli Orti)36. Delle diverse fasi costruttive e di uso dell’area (da età tardo repubblicana ad età medio-imperiale), è di un certo rilievo nell’ambito del nostra discorso la sistemazione effettuata alla metà del I secolo d.C.; in questo periodo fu realizzato un pavimento in cocciopesto, che sigilla uno strato di colmata dal quale provengono i materiali in esame (nello strato, oltre ai materiali ceramici, si sono rinvenuti frammenti di intonaci di III stile).
120Lo strato (U.S. 5a), sottostante il pavimento, ha restituito una piccola quantità di vasi, del tutto analoghi per morfologia a quelli pompeiani. In particolare, si tratta di due forme chiuse del tutto simili rispettivamente alle Forme 1213a e 1213b. La prima è rappresentata in questo contesto da due esemplari di dimensioni simili, realizzati con la stessa argilla, che sembra macroscopicamente diversa da quella degli esemplari pompeiani, la maggior parte dei quali è in argilla tipo 2 (87 vasi su un totale di 93). L’esemplare di fig. 11,59 ha le seguenti misure: alt. 21,2 cm, diam. orlo 11,6 cm, diam. piede 8,2 cm; l’altro, più lacunoso: alt. 19 cm, diam. orlo 13 cm, diam. piede 7,2 cm. L’impasto dei vasi di Capua si presenta di colore marrone chiaro-rosato (Mus. 5 YR 7/4), duro e compatto, con superficie scabra, forse consunta, con numerosissimi piccoli vacuoli bianchi, rari inclusi piccolissimi neri, rari grandi di colore rosso scuro, rari medi di chamotte e numerosi piccoli bianchi (probabilmente di calcite). La superficie esterna del vaso disegnato è ingubbiata in colore giallo chiaro (Mus. 10 YR 8/4). Dallo strato proviene, inoltre, un esemplare del tutto simile alla Forma 1213c, presente a Pompei con 64 vasi di varie dimensioni (fig. 11,60). Il pezzo da Capua presenta una ingubbiatura interna ed esterna di colore giallo chiaro-biancastro (Mus. 10 YR 8/3); l’argilla è di colore marrone chiaro-rosato (Mus. 5 YR 7/4) e sembra macroscopicamente del tutto simile al tipo 1 di Pompei, con gli stessi inclusi vulcanici. Il vaso presenta sulla spalla tracce evanide di colore (un titulus?). Riteniamo, con tutta probabilità, che possa provenire dal golfo di Napoli ed il dato è confortato dalla numerosa presenza a Pompei di questa Forma (un totale di 64 esemplari), che, soprattutto per i vasi di dimensioni maggiori, è del tutto affine alle anforette del tipo Schoene 1; probabilmente rappresenta una resa più corsiva di questo tipo di anforetta (cfr. il commento alla Forma 1213c). Circa la funzione del recipiente in esame, possiamo forse ipotizzare che fosse legata alla distribuzione ed al consumo ad esempio del garum, interessato probabilmente da una diffusione a medio raggio (a Capua) in simili recipienti.
121Il contesto ha restituito anche una Forma chiusa monoansata, ad imboccatura stretta e collo svasato verso il basso e distinto dalla spalla da un doppio ringrosso orizzontale, che misura in altezza 27,5 cm, 5 cm di diametro dell’orlo, 9 cm di diametro piede (fig. 11, 61). Il pezzo ha una leggera decorazione irregolare a rotella a metà del ventre con doppia fila di tratti incisi. Per attacco dell’ansa e decorazione è confrontabile con la Forma 1262f, mentre per il profilo è del tutto analoga alla Forma 1262g, con resa dell’orlo leggermente diversa. L’impasto è macroscopicamente identico al tipo 2 di Pompei, per cui dobbiamo presumere anche per questo oggetto una sua provenienza dall’area vesuviana, ο almeno dal golfo di Napoli.
122Dallo strato proviene anche una Forma aperta, di cui si conservano solo due frammenti di orlo contigui, molto vicina alla Forma 1121c, con carena leggermente meno pronunciata (fig. 11, 62). La superficie esterna ed interna ha una ingubbiatura di colore beige molto chiaro (Mus. 7.5 YR 8/2), l’argilla è molto dura e compatta, di colore marrone medio, più chiaro in superficie, con inclusi rari medi neri (vulcanici) e bianchi, rari vacuoli, frequenti piccoli neri (non di sabbia vulcanica, piros seno), rari grandi di chamotte. Non avanziamo per il momento ipotesi sulla provenienza del pezzo.
123In associazione con questi materiali sono un boccalino a collarino in ceramica a pareti sottili confrontabile con il tipo EAA Atl. II 1/111, da Pompei37 non decorato (fig. 11, 63), e due grandi balsamari, con verniciatura interna ed esterna fino al collo di colore rosso scuro opaco (Mus. 10 R 4/8) con macchie più chiare, orlo estroflesso a piccola tesa, collo leggermente rigonfio, corpo a fiasca, ventre lisciato, in parte steccato (fig. 12). Notevoli le dimensioni dei recipienti, di 30,5 cm di altezza (diam. orlo 7,8 cm). Circa la loro funzione, pur essendo molto più grandi dei balsamari solitamente noti, si ritiene in ogni caso attribuibile a questo tipo di recipienti per le loro peculiarità tecniche e morfologiche. Ricordiamo che la Campania, Capua in particolare, era centro di produzione di balsami e profumi38.
124Il contesto esaminato, dal quale è praticamente assente la ceramica da fuoco, è di estremo interesse per la circolazione in Campania nel I secolo d.C. sia del repertorio morfologico della ceramica comune che dei vasi stessi. È il caso di ricordare i ben noti rapporti tra l’area costiera vesuviana e flegrea ed il centro capuano, che dovevano vedere scambi quotidiani e massicci di merci e del vasellame relativo (se non oggetto di commercio esso stesso). Del resto, pur nella totale assenza ad oggi di studi quantitativi sui materiali connessi ai traffici (le anfore, innanzitutto) da questo centro nodale della Campania interna, la circolazione di merci prodotte nell’Italia meridionale, ad esempio, è sicuramente attestata fino in età tardo-imperiale, come documenta la presenza a Capua dei contenitori vinari prodotti in Calabria, nella zona dello stretto, tra il IV ed il V secolo d.C., le anfore di Forma Keay LII39.
125Alquanto diverso sembra il quadro offerto dai materiali di un centro ancora più interno, Alife, ai confini tra Sannio e Campania. Qui il riempimento di un pozzo di servizio alla cucina di una domus della città (contesto U.S. 70) ha restituito forme difficilmente confrontabili con il repertorio vesuviano. Il riempimento, gettato in una sola volta e connesso probabilmente con l’impianto dell’acquedotto, che provocò l’obliterazione dei pozzi cittadini, è databile alla prima metà del I secolo d.C., sulla base della terra sigillata presente40. Le forme in ceramica comune non da fuoco sono per la maggior parte relative ad olle, con orli variamente sagomati, e a forme aperte, una delle quali, con orlo a tesa provvisto di dentello superiore e con quattro anse sotto l’orlo, sembrerebbe rientrare per morfologia piuttosto tra le pentole, ma per impasto e resa della superficie va attribuito alla ceramica non da fuoco (fig. 13,64). Gli unici due oggetti che presentano analogie con i materiali vesuviani sono una Forma chiusa biansata, con orlo e collo praticamente identici alla Forma 1243c, dalla quale differisce solo per la resa delle anse, tortili anzichè a nastro scanalate (fig. 13,65). L’altro esemplare confrontabile con il materiale vesuviano è una Forma chiusa biansata con orlo a coppa (fig. 13,66), simile alla Forma 1213d, presente a Pompei in 3 esemplari, con argilla molto depurata, e che ritroviamo in numerosi siti del bacino del Mediterraneo per tutta l’età imperiale, con modifiche nella resa dei particolari. Questa Forma è, inoltre, realizzata non solo in ceramica comune, ma anche in ceramica invetriata e in terra sigillata (cfr. supra il commento alla Forma di Pompei).
126L’analisi del contesto di Alife è appena agli inizi, anche se già da ora sembra si tratti di vasi per la maggior parte di produzione locale, con impasti privi di inclusi vulcanici ed alquanto omogenei tra loro, tranne quello del pezzo sopra descritto, che presenta un’argilla molto depurata, di colore marrone medio-rossastro (Mus. 2.5 YR 5/6), dura e compatta, non assimilabile a quella degli altri esemplari del contesto.
4. Osservazioni conclusive
127La situazione fin qui descritta, per quanto il quadro circa il resto della Campania sia ancora estremamente frammentario per la totale assenza di studi specifici in merito, conferma in ogni caso il ruolo peculiare che lo studio del materiale vesuviano assume rispetto agli altri contesti individuati, e come possa fornire delle linee guida, tipologiche ed anche di definizione di aree produttive, estremamente valide per la ricerca. Il ruolo della Campania costiera e settentrionale nell’ambito delle attività produttive di età romana è ancora, ad oggi, non ben valutato nella tradizione degli studi; ad esempio, in lavori recenti sulla ceramica comune, in particolare per i recipienti da fuoco, si continua a parlare di aree di produzione “dell’Italia centrale tirrenica”, ο “dell’Italia centrale” (cfr. ad esempio, Olcese 1993, gruppi F e G, 150 ss.), anche nel caso in cui siano già state ben identificate produzioni campane, come ad esempio per i tegami a vernice rossa interna41. Pur nella scarsezza di studi sulla ceramica comune dai contesti locali, non si può ignorare, nell’elaborazione di modelli di distribuzione dei materiali, la produzione e diffusione di prodotti quali, per ricordare solo i vini, il falerno per la Campania settentrionale, ο l’amineum, il surrentinum per il golfo di Napoli, e via dicendo42.
128Nell’ampio panorama morfologico offerto dalla ceramica da mensa e dispensa di Pompei è il caso di sottolineare, inoltre, alcuni aspetti e spunti di ricerca.
129Innanzitutto è evidente come le forme chiuse siano nettamente prevalenti rispetto a quelle aperte, rispettivamente con 1526 esemplari su soli 34. Molto probabilmente tale disparità è dovuta all’uso di recipienti di altre classi e materiali (pareti sottili, terra sigillata, vetro, metallo). La rilevante presenza di forme chiuse può, d’altro canto, indicare un prevalente uso della terracotta per i recipienti destinati a conservare solidi e liquidi per un certo tempo. Già J.-P. Morel a suo tempo sottolineò per Pompei l’uso del materiale adatto alle diverse circostanze, con particolare attenzione al vetro e al metallo, poco attestati nei contesti archeologici, non perchè poco diffusi, ma perchè sottoposti a continuo riciclaggio (Morel 1979, 250 ss.); i dati quantitativi esposti relativi proprio al contesto pompeiano davano alla ceramica una percentuale di ca. il 50% rispetto al vetro e al metallo, senza poter considerare i materiali perduti, quali vimine, cuoio, legno (ibid., 256 ss.). Pur considerando con una certa cautela i dati percentuali esposti, va rilevato che il rapporto esistente tra forme aperte e chiuse a Pompei può comunque essere indice di un uso prevalente della terracotta per la conservazione delle provviste, considerando anche il fatto che tra i vari materiali è il meno influenzato dai mutamenti delle condizioni ambientali, escursioni termiche ο elevati indici di umidità. Del resto lo stesso Morel ricorda la preferenza data alle brocche in terracotta per il vino, come ricordato dagli autori antichi (Morel 1979).
130L’analisi dei più diretti confronti con il bacino del Mediterraneo porta a evidenziare l’esistenza di una vera e propria koinè formale tra la tarda repubblica e la prima età imperiale; in questo panorama, l’Italia sembra svolgere un ruolo cardine nella trasmissione dei modelli formali, laddove non sembra altrettanto diretta la circolazione del repertorio morfologico tra le aree estreme dell’impero. Anche l’individuazione di confronti diretti con i paesi europei e con l’Inghilterra può essere sintomo di relazioni economiche e culturali, nonché conseguenza delle imprese militari ivi dirette già da età cesariana. Circa l’ipotesi di veri e propri scambi di vasi in ceramica comune da mensa e dispensa a vasto raggio, i dati a disposizione non sono sufficienti per dimostrarla con certezza, anche se la perfetta identità morfologica tra alcuni esemplari e le descrizioni di alcuni impasti, che sembrano simili a quelle del materiale pompeiano, ne possono far postulare l’esistenza43.
131Un altro dato che emerge dall’analisi comparata dei materiali riguarda l’evoluzione morfologica e tecnologica dei vasi: pur essendo presenti alcune forme già da età precedente, è possibile rilevare come i confronti più pertinenti siano riferibili al I secolo, così come le forme che permangono oltre la prima età imperiale subiscono in ogni caso una certa evoluzione del profilo44. L’aspetto tecnologico rilevabile dall’esame dei vasi pompeiani e dei confronti è stato già posto in risalto (Di Giovanni/Gasperetti 1993, 274 s.)45 In questa sede si ribadisce l’estrema standardizzazione della produzione, rilevabile dai particolari tecnici dei vasi, quali il modo di eseguire piedi ed anse, probabile indice di una produzione che prevedeva mansioni differenziate per la resa delle varie parti dei vasi. Si rileva, inoltre, la perfetta identità dei profili, anche in forme con moltissimi esemplari (cfr. Forme 1252a, 1242a, 1243a, 1213a, 1213c), fatte salve piccole differenze dovute all’uso del tornio, che, a differenza della tecnica a matrice, non può produrre individui del tutto uguali tra loro.
132Del resto, è ben noto il livello tecnico raggiunto dalle produzioni ceramiche campane già da età repubblicana per la ceramica fine e per i materiali ceramici destinati all’edilizia e al trasporto transmarino. Anche per la ceramica comune dovevano essere impiegate maestranze che garantissero una buona qualità dei prodotti e una loro competitività economica, ottenuta mediante la ripetizione meccanica degli stessi modelli morfologici e degli stessi accorgimenti tecnici. Graffiti rinvenuti a Pompei documentano il basso costo dei recipienti in terracotta: da 1 a 2 assi, meno del costo del pane quotidiano per una persona (Morel 1979, 262).
133Restano come problema del tutto irrisolto ad oggi la localizzazione e l’organizzazione delle officine che producevano la ceramica comune di Pompei e del golfo di Napoli46; i vasi realizzati tutti allo stesso modo, con gli stessi impasti, in quantità rilevanti, necessitavano di un’organizzazione produttiva altamente specializzata e standardizzata, della quale riconosciamo i segni sui recipienti, ma le cui strutture non sono note, per una mera lacuna della nostra documentazione. Su tale problema si sono espressi sia l’Annecchino che Morel nei più volte citati articoli: a Pompei si doveva fabbricare ceramica, ο utilizzando un banco di argilla presente nel sottosuolo della città (Cerulli Irelli 1977, 53, n. 31; Annecchino 1977, 107), oppure importando l’argilla dall’agro circostante. L’argilla degli esemplari pompeiani ad un esame macroscopico risulta leggermente diversa da quella, ad esempio, del vasellame di Ercolano ο di quello di Napoli, pur essendo tutte di derivazione vulcanica e contenenti pirosseno. Analisi di laboratorio di campioni di argille potranno forse aiutare a chiarire il problema.
134A Pompei, l’industria fittile non sembra determinante per la vita economica all’interno della città: si sono rinvenute solo tre officine di vasai, contro «due di bronzieri (fabri aerarii), sei per la lavorazione di tessuti (textrinae), sei per quella del legno (officinae intestinariae, lignariae, lignariae plostrariae), undici fulloniche (fullonicae), sedici panetterie (pistrinae). Parimenti, non si ha notizia di alcuna associazione di vasai fra i ben 19 collegi pompeiani ricordati da J.-P. Waltzing» (Morel 1979, 261 e ivi bibl.).
135Delle tre officine di vasai note a Pompei, una è situata in Via dei Sepolcri, formata da due ambienti contigui, con un forno ciascuno, scoperti nel 1838 e nel 1875. In Notizie degli Scavi di Antichità del 1879, in Via delle Tombe, nel retrobottega dell’ultima località del portico delle tabernae, al n. 29, è registrato il rinvenimento di 382 vasetti di terracotta della stessa forma. Deve trattarsi degli ultimi vasi prodotti dalla fornace, non identificabili (cfr. Fulvio 1879, 280 ss.; Annecchino 1977, 106). Un’altra fabbrica di prodotti fittili è situata vicino Porta Nocera (Regio I, insula 20, n. 3), anch’essa con due forni a riverbero, come la precedente. La fornace produceva lucerne e vasetti, cd. “fritilli”, per il gioco dei dadi (Annecchino 1977a), ο più probabilmente adoperati come tappi d’anfora (Benoit 1952, 281 ss.; Beltràn 1970, 76 e ivi bibl.; Pavolini 1980). Della terza officina, sita in Via dell’Abbondanza (Regio II, insula 3, n. 7) si conosce solo l’insegna con un’iscrizione con divieto di entrata e con la raffigurazione del vasaio al lavoro, protetto da Minerva e Mercurio (Morel 1979, 261; Annecchino 1977, 106 e ivi bibl.)·La figlina non era più in funzione al momento dell’eruzione. Oltre alle fornaci, che producevano i manufatti, si è identificata una bottega (Regio III, insula 4, n. 1), che sembra specializzata nella vendita di recipienti in terracotta, in particolare anforette da garum (Annecchino 1977, 107; Morel 1979, 262 e ivi bibl.); è di grande importanza la scoperta, in questa bottega, di Zosimus, di un graffito sulla parete sinistra con l’index nundinarius ed i nomi dei siti nei quali avveniva il mercato giorno per giorno: Pompeii, Nuceria, Atella, Nola, Cumae, Puteoli, Capua e Roma. È probabile che in questi mercati si vendesse anche vasellame ordinario, ed i confronti con il materiale rinvenuto nei vari siti sembrano confermarlo.
136La gestione di tale produzione e scambio sembra inquadrabile in un sistema a struttura verticale, dove le attività artigianali sono appannaggio delle stesse famiglie che detengono la proprietà fondiaria e si occupano della distribuzione dei prodotti, ο direttamente, ο per mezzo di propri servi e liberti; sono noti per l’industria fittile a Pompei i nomi degli Epidii, dei Paccii, dei Vibii (Lepore 1950, 147 e ivi bibl.)47. Tali considerazioni non contraddicono quanto affermato precedentemente in merito alla standardizzazione della produzione: in proposito A. Carandini ha affermato che «il prodotto manifatturiero appare... relativamente indipendente al livello della produzione, ma è ancora considerevolmente subordinato a quello agricolo al livello della distribuzione...»48.
137Il quadro offerto dalla città vesuviana si va integrando con i dati provenienti dai recenti interventi nella Campania interna. A titolo meramente indicativo, visto lo stato iniziale delle indagini, possiamo citare il caso delle numerose fornaci, due delle quali sicuramente per ceramica comune e laterizi, scavate recentemente a Pontelatone (CE) dai dott. Passaro, Crimaco e Proietti, in una zona finora sconosciuta agli studi di ceramologia antica49. Al confine tra Lazio e Campania, nella valle del Liri, a monte della stretta di Suio, sta venendo alla luce un quartiere artigianale per la produzione di anfore di Forma Dressel 1 e 2-4, nonché di laterizi e, in piccole quantità, di ceramica comune (forse per le esigenze locali), anch’esso legato alla produzione agricola della zona e gestito dalla gens Lucceia, a mezzo di propri servi, di cui i bolli anforari hanno restituito numerosi nominativi50. Ancora nella zona tra Suessa Aurunca e Teanum Sidicinum, l’analisi delle olle funerarie in ceramica comune databili tra l’età repubblicana e la prima età imperiale rinvenute nelle necropoli delle due città documenta una produzione di elevata qualità, con vasi del tutto omogenei tra loro, sia per Forma che per impasti. Si veda come esempio la Forma a fig. 14,67, con orlo a listello e corpo globulare, databile ad età repubblicana (II-I secolo a.C.; cfr. Di Giovanni 1995), ritrovata in vari esemplari in località Orto Ceraso a Teano, identica ad alcune olle dalle necropoli in località S. Agata e lungo la strada consorziale Sessa-Fasani a Sessa Aurunca, databili tra il II ed il I secolo a.C.51.
138Si auspica che in futuro gli ulteriori studi ed indagini potranno finalmente chiarire quella sorta di “nebulosa” costituita dalle produzioni ceramiche della Campania settentrionale, di cui si sono potuti fornire al momento solo alcuni accenni.
Bibliographie
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Referenze bibliografiche
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Annexe
APPENDICE 1
Tabella di concordanza tra codice attuale e numerazione precedente (tesi di laurea) delle forme di ceramica comune da mensa e dispensa di Pompei.
Forma 1111a = Forma 1
Forma 1111b = Forma 2
Forma 1111c = Forma 3
Forma 1111d = Forma 9
Forma 1121a = Forma 4
Forma 1121b Forma 5
Forma 1121c = Forma 7
Forma 1123a = Forma 6
Forma 1123b = Forma 8
Forma 1211a = Forma 10
Forma 1211b = Forma 11
Forma 1212a = Forma 12
Forma 1212b = Forma 14
Forma 1212c = Forma 15
Forma 1213a = Forma 42, dis. n. 1
Forma 1213b = Forma 42, dis. n. 5
Forma 1213c = Forma 43
Forma 1213d = Forma 44
Forma 1223a = Forma 38
Forma 1223b = Forma 46
Forma 1232a = Forma 13
Forma 1233a = Forma 34
Forma 1233b = Forma 45
Forma 1242a = Forma 31
Forma 1242b = Forma 32
Forma 1242c = Forma 33
Forma 1243a = Forma 39
Forma 1243b = Forma 35
Forma 1243c = Forma 40
Forma 1243d = Forma 41
Forma 1243e = Forma 37
Forma 1252a = Forma 22
Forma 1252b = Forma 23
Forma 1262a = Forma 24
Forma 1262b = Forma 28
Forma 1262c = Forma 25
Forma 1262d = Forma 26
Forma 1262e = Forma 27
Forma 1262f = Forma 29
Forma 1262g = Forma 30
Forma 1263a = Forma 36
Forma 1312a = Forma 21
Forma 1332a = Forma 20
Forma 1342a = Forma 19
Forma 1362a = Forma 16
Forma 1362b = Forma 17
Forma 1362c = Forma 18
APPENDICE 2
Campionatura delle argille della ceramica comune da mensa e dispensa di Pompei
Argilla 1. Colore: da marrone medio a rossiccio (Mus. 2.5 YR da 5/4 a 5/8). Frattura: irregolare. Consistenza: dura. Sensazione al tatto: ruvida, granulosa. Inclusi: in superficie grandi frequenti neri (lava, pirosseno), piccoli frequenti bianchi (calcite), piccoli rari di mica, rari piccoli e medi, traslucidi (quarzo); in frattura sono presenti gli stessi inclusi, in quantità molto più rilevante. Spesso la superficie non presenta alcuna traccia di levigatura ο pulitura.
Argilla 2. Colore: da giallo chiaro a beige-biancastro (Mus. 7.5 YR da 7/6 a 8/2). Frattura: netta. Consistenza: dura. Sensazione al tatto: liscia e compatta. Inclusi: in superficie piccoli frequenti neri (pirosseno, rari frammenti di lava); rari piccoli bianchi (calcite), molto rari piccoli di mica; in frattura sono presenti gli stessi inclusi, con la stessa concentrazione ed una maggiore percentuale di mica.
Argilla 3. Colore: grigio scuro in superficie, leggermente più chiaro in frattura (Mus. 2.5 Y 3/e 4/). Frattura: netta. Consistenza: molto dura. Sensazione al tatto: molto liscia e compatta. Inclusi: in superficie piccoli rari bianchi (calcite); in frattura piccoli frequenti bianchi (calcite), piccoli frequenti beige (sabbia; Mus. 10 YR 7/3), rarissimi piccoli di mica.
Argilla 4. Colore: da marrone medio-scuro a nerastro (Mus. 7.5 YR da 4/6 a 3/4). Frattura: irregolare. Consistenza: dura. Sensazione al tatto: ruvida e granulosa. Inclusi: in superficie ed in frattura grandi frequenti di colore marrone scuro e nero (pirosseno, scorie laviche), medi frequentissimi traslucidi (quarzo e quarzite), piccoli frequenti bianchi (calcite), piccoli rari di mica, rari medi di chamotte. Questo tipo di argilla è stato individuato anche in alcuni recipienti in ceramica comune da Ercolano, con eguale colore, tipo e concentrazione di inclusi.
Argilla 5. Colore: marrone chiaro-rossastro (Mus. 2.5 YR 5/8). Frattura: irregolare. Consistenza: dura. Sensazione al tatto: ruvida, leggermente granulosa. Inclusi: in frattura grandi e medi frequenti neri (scorie laviche, pirosseno), rari grandi gialli (tufo), rari piccoli bianchi (calcite), rari medi traslucidi (quarzite), rari piccoli di mica; in superficie sono presenti gli stessi inclusi, in minore percentuale.
Gli impasti sono stati osservati con una lente da 10 ingrandimenti. Laddove siano state rilevate differenze rispetto ai parametri indicati, si sono specificate nel catalogo le variazioni di durezza e colore. Del colore dei singoli tipi si è data la gamma, poiché si sono notate diverse sfumature nello stesso tipo di impasto. Tale circostanza non è sembrata di rilievo nella campionatura, poiché probabilmente dovuta a diverse temperature di cottura dei vasi. Tutti gli impasti osservati, tranne l’argilla 3, sembrano di provenienza locale. Per i criteri usati nella descrizione degli impasti si fa riferimento a Arthur/Ricci 1981, 127 e nota 9, e soprattutto alle norme pubblicate a cura dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma (ICCD)52. Si veda in proposito anche il contributo di V. Di Giovanni, infra.
Notes de bas de page
1 Si veda, da ultimo, la discussione pubblicata in Olcese 1993, 43 ss., con ampia bibliografia di riferimento.
2 Cfr. Massari/Ratti 1977; sintesi in Ratti Squellati 1987.
3 Sull’argomento esiste una vasta bibliografia; per i contributi generali, cfr. Hayes 1972; EAA Atlante I, s.v.; ampia discussione in Giardina 1986, passim.
4 Di Giovanni/Gasperetti 1993.
5 Ricordiamo che l’inventariazione fu effettuata nei primi anni ’80 da un gruppo di studenti dell’Università di Napoli, con il coordinamento del dott. Stefano De Caro.
6 Parise Badoni 1984 e successive integrazioni a cura dello stesso Istituto.
7 Poiché con grande stima e fiducia Stefano De Caro ha fatto riferimento nel catalogo della ceramica comune di entrambi i lavori alla prima tipologia elaborata da chi scrive per la propria tesi di laurea, che riportava una numerazione semplificata rispetto a quella attuale, si pubblica in questa sede in Appendice 1 una tabella di confronto fra la numerazione precedente e quella attuale, cosi da consentire il rimando ai confronti pubblicati.
8 Sulla scarsezza di dati archeologici da poter mettere in relazione con i materiali si veda anche Annecchino 1982, 755.
9 Si vedano in proposito i contributi in Notizie degli Scavi di Antichità, passim.
10 Come, ad esempio, per i glirari: cfr. Annecchino 1977, 113-114.
11 Per ulteriori precisazioni in merito all’uso dei termini “classe”, “tipo”, “forma” ed al metodo utilizzato per la tipologia, si rimanda al citato contributo preliminare Di Giovanni/Gasperetti 1993, 268-272.
12 A proposito dell’analisi funzionale della ceramica, in rapporto con gli usi alimentari, si veda il fondamentale lavoro sui materiali di Olbia di Provenza, in cui le categorie formali sono rapportate ai diversi modi di cottura e di servire il cibo: Bats 1988, in particolare 19-76.
13 Ricordiamo che la tipologia è essenzialmente uno strumento di lavoro, al di là di quanto possa ricostruire modelli presenti nella mente degli antichi produttori e fruitori; cfr. Di Giovanni/Gasperetti 1993, 268-269 e ivi bibl.
14 Anche se la funzione della forma Schoene 1 è stata individuata come contenitore da frutta, sulla base della nota pittura della Casa di Giulia Felice a Pompei: Annecchino 1977, tav. LII, 10, De Caro 1994, 174; in ogni caso, i tituli presenti su numerosi recipienti di questa forma custoditi nei Granai del Foro inducono a ipotizzare una sua funzione primaria per il garum.
15 Per osservazioni in merito alle misure di capacità anforarie si veda Pomey/Tchernia 1980/81, 32-33, in particolare sull’assenza di misure standard garantite dai recipienti. Si veda anche il commento al tipo 1250.
16 Per questo e per gli altri confronti da Ercolano si ringrazia la dott. Lucia Scatozza Hoericht che, avendo in studio i materiali dai depositi, ha consentito di effettuare i confronti con i vasi pompeiani.
17 I materiali della necropoli di via Brindisi sono stati schedati nell’ambito del Progetto Eubea (Consorzio Pinacos; ex art. 15 l. 41/86). Si coglie l’occasione per ringraziare il dott. Paolo Caputo, autore dello scavo, per averli messi a disposizione.
18 Cfr. anche Forma 1123b, argilla tipo 1.
19 I dati relativi ai materiali di saggi stratigrafici effettuati a Pompei in occasione della messa in opera dell’impianto elettrico negli anni’80-’81 sono purtroppo inediti. Chi scrive è stata gentilmente autorizzata a citare i confronti dai responsabili dello scavo Fausto Zevi, all’epoca Soprintendente Archeologo, e Stefano De Caro.
20 Cfr. Di Giovanni, infra.
21 La produzione del garum doveva essere di grande importanza per la vita economica della città, tanto da prevalere sulla panificazione, come sostenuto in Etienne 1973, 157 s. (e ivi bibl.). Il prodotto doveva avere una diffusione capillare nell’area vesuviana, a cominciare dalla stessa Pompei.
22 Si ringrazia la dott. V. Castiglione Morelli, che ha in studio il materiale ceramico, per la segnalazione.
23 Si ringraziano per la segnalazione il dott. G. Vecchio, ispettore di zona della Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta e direttore dello scavo, ed il dott. S. Cascella che ha seguito l’indagine.
24 Cfr. in proposito Tchernia 1979, Lepore 1979a, 503 ss.
25 Un altro titulus riferito al garum (flos gari) su un recipiente di questa forma è citato in De Caro 1987, 65 (cfr. De Caro 1994, 172-174), proveniente da Oplontis, villa di via Murat, inedito. La sporadicità dell’indicazione, su soli due esemplari, potrebbe indicare, indirettamente, che di solito il contenuto di questi vasi fosse diverso dalla salsa di pesce.
26 Barbet/Miniero in prep.
27 Devo l’informazione sullo scavo in corso alla cortesia di M. Cavalier.
28 Scavi nell’ex Palazzo Toledo, via Ragnisco, diretti da C. Gialanella e seguiti da F. Garcea, che si ringraziano per la segnalazione. L’esame autoptico di numerosi frammenti ritrovati a Vaison-la-Romaine e in altri siti della Valle del Rodano consente di propendere per questa regione come area di provenienza della forma.
29 L’informazione è stata gentilmente fornita dalla dott. M. T. Iannelli, archeologa responsabile di zona.
30 Cfr. Pavolini 1994, 121 s., per il caso di coperchi di produzione africana a Ostia. tra il materiale dei Magazzini, attestati con due tipi, anche nello scavo delle Terme del Nuotatore: Ostia III, fig. 362, ibid., fig. 431.
31 La necropoli è in corso di studio da parte di chi scrive e del gruppo di lavoro che ha curato la schedatura e la prima esposizione dei materiali per la mostra “Da Sidicini a Romani. La necropoli di Orto Ceraso a Teano”, presso il complesso monumentale del Loggione e Cavallerizza.
32 Lo scavo riguarda la regio clivi vitrari sive vici turari; notizie e rif. bibl. in Amalfitano 1990, 101-103, Gialanella 1993, 88. Per i dati relativi al contesto di scavo, che saranno oggetto di ulteriori elaborazioni circa gli aspetti morfologici e quantitativi della ceramica comune presente, ringraziamo la dott. Costanza Gialanella, direttrice dello scavo ed il dott. F. Garcea, che ha curato lo scavo e la schedatura del materiale ed ha gentilmente messo a disposizione i dati in suo possesso.
33 Area del Circo e del Porto circolare, cfr. Tomber 1987.
34 Missione inglese, cfr. Peacock 1984.
35 Chi scrive ha potuto prendere visione di parte dei materiali in occasione della mostra “Gli scavi archeologici al Rione Terra di Pozzuoli. Pagine di storia”, allestita nel 1995 per la Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta da C. Gialanella, L. Crimaco, L. M. Proietti, V. Imperatore. Gli stessi hanno curato l’opuscolo didattico dallo stesso titolo con i dati sugli ambienti scavati; cfr. anche Gialanella 1993, 74 ss.
36 Tutti i dati di scavo, dei quali è pubblicata una relazione preliminare da parte di Floriana Miele, archeologa responsabile di zona, negli Atti del XXXI Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia di Taranto del 1991 (Napoli, 1992, 343-347), sono stati forniti gentilmente dalla collega, che si ringrazia per avere seguito questo lavoro con estrema cortesia e disponibilità. Dobbiamo pure ricordare la dott. Valeria Sampaolo, direttrice dell’Ufficio Archeologico di S. Maria C.V., grazie alla quale è stato possibile restaurare i materiali, con la collaborazione dei tecnici del laboratorio di restauro di S. Maria (in particolare il sig. Ventrone), mentre la documentazione fotografica è stata tempestivamente effettuata dai fotografi del medesimo Ufficio.
37 Simile anche al tipo 1/116 da Cosa e da Ostia, datato in età tiberiano-claudia: Ricci 1985, 267, tav. LXXXIV, 14; LXXXV, 1.
38 Johannowsky 1989, 66.
39 Gasperetti/Di Giovanni 1991, 880, fig. 3, nn. 3-5.
40 I dati di scavo sono stati riferiti dagli autori dello scavo, Floriana Miele e Luigi Crimaco, che ringrazio vivamente per la disponibilità; notizie preliminari in Miele 1991, 135; Crimaco 1991, 136-137.
41 La fabric 1 individuata da Peacock è di provenienza campana; cfr. Peacock 1977, Olcese 1993, gruppo 4; Di Giovanni, infra.
42 È chiaro, a questo punto, corne sia di vitale importanza lo studio del materiale dai contesti di scavo urbani, con l’approfondimento dell’analisi sui materiali qui rapidamente illustrati, da integrare, per Puteoli, con i dati quantitativi sul totale dei frammenti, divisi per produzioni; per Capua, si sta avviando l’esame del cospicuo nucleo costituito dai materiali rinvenuti nell’alveo Marotta, la cui analisi è in corso da parte del prof. Nunzio Allegro, che ha gentilmente autorizzato chi scrive allo studio della ceramica comune rinvenuta.
43 Cfr. Forma 1242a, 1242b, 1243a, 1243b, 1262c, 1362b. Sull’attestazione di scambi di ceramica comune a breve e medio raggio ad Albintimilium, cfr. Olcese 1993, passim. Si veda, inoltre, Riley 1981 a proposito della sistematica esportazione a Benghazi di “Italian coarse pottery” agli inizi del I secolo. Per Ostia, cfr. Pavolini 1994 ed il contributo in questo volume.
44 Non sembra, visti i dati a disposizione, che la ceramica comune esaminata possa definirsi “a lenta evoluzione” tout court, come, invece, sostenuto in Chiaramonte 1982, 293. Il rigore adottato nella classificazione può consentire di individuare variazioni nella resa dei profili e nelle soluzioni tecnologiche adottate che sono spesso indice di un’evoluzione cronologica, altrimenti non rilevabile, per quanto di solito non quantificabile in decenni.
45 Quale integrazione ai dati ivi presentati per la ceramica comune di età repubblicana dal territorio stabiano (cfr. anche Gasperetti 1994, 251 s.), dove si è rilevata una fusione dell’attacco orlo-anse, indice di una realizzazione curata probabilmente dalla stessa mano, si possono citare anche ollette in ceramica comune di età repubblicana dalla colonia romana di Sinuessa, che, seppure provenienti da recuperi, forniscono ulteriori esempi di questo modo di realizzare i vasi: cfr. Gasperetti 1993, 186 ss., tav. 34, CC1a, CC1b, e tav. 37, 1, 2.
46 Per la fornace di Corso Umberto a Napoli, di cui sono noti solo i materiali, ceramica campana A, cfr. Accorona 1985, 378-385.
47 Esiste un notevole approfondimento degli studi sulla situazione socio-economica di Pompei nell’ultima fase di vita. In questa sede, si ricordano in proposito le considerazioni espresse da Lepore (1979, 19): «dominano i patrimoni fondiarii, il movimento commerciale è direttamente legato ad attività primarie nell’agricoltura e talvolta piuttosto determinato da difficoltà finanziarie, assenza di liquidità per acquisti e spese, che da spirito di intrapresa e speculazione; lo sviluppo è limitato per provenienza di investimenti e organizzazione di manifattura, distribuzione e vendita; non possiamo parlare né di banca, né di industria; il governo della comunità è chiuso in se stesso e l’accesso per uomini nuovi non è facile; solo nell’ultima fase della città il reclutamento si allarga ai ceti di origine servile, ma liberi e libertini testimoniano con il loro avvento soprattutto delle crisi periodiche di una oligarchia capace sempre di reagire, adattandosi quando non può più controllare la situazione».
48 Carandini 1981, 257. L’autore analizza il sistema delle manifatture urbane schiavistiche, che non sembrano presenti a Pompei; in ogni caso, si ritiene l’osservazione valida anche per i prodotti di piccoli quartieri industriali, come quelli rinvenuti nella città e alla sua periferia, sopra citati, che dovevano probabilmente impiegare, anche se forse in numero limitato, manodopera schiavile, e che dovevano essere controllati dall’oligarchia terriera.
49 Notizie preliminari in Passaro 1991, 141-143, Proietti 1991, 151-153; Chiosi 1994, 301-312.
50 Cfr. per notizie preliminari Chiosi/Gasperetti 1991, 121-125.
51 I materiali di Sessa Aurunca sono stati recuperati negli anni’60-70 dai componenti del Gruppo Archeologico Aurunco, diretto dal prof. A. M. Villucci, e sono ora esposti nella mostra presso il Castello Ducale “Il Museo al Castello: per un recupero della memoria”, curata da chi scrive per la Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta.
52 Parise Badoni 1984.
Auteur
Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta
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