Conclusioni
p. 261-264
Texte intégral
1Vorrei dire qualcosa specialmente su punti che non sono stati toccati nella discussione e che pure affioravano dalle relazioni di ieri e che ancora potrebbero essere oggetto di discussione nelle relazioni di oggi.
2Dalle relazioni di ieri emergeva un problema che riguardava il Sannio, perché il tema proposto era stato formulato come «la romanizzazione del Sannio nel II e I sec. a.C.». La discussione mi pare si sia accentrata soprattutto sul II sec., sulla guerra sociale, mentre poi, tra la guerra sociale e l’età augustea, non mi pare sia venuto al pettine nella discussione qual’è lo stato delle cose nel Sannio del I sec. Ci sono stati accenni di Coarelli dall’età augustea in poi; per il periodo posteriore alla guerra sociale Johannowsky ha fatto delle altre osservazioni; ma il Sannio del I sec. non mi pare che sia venuto a fuoco e, forse anche giustamente. La discussione si è concentrata sul Sannio del II sec. Invece, dal Sannio del II sec., nelle relazioni di ieri, noi siamo risaliti molto spesso addirittura al Sannio del III sec. a.C., del V sec. Perché probabilmente non si poteva fare a meno di toccare, trattando di romanizzazione, l’altro polo: cioè i modi di sviluppo - ο di non sviluppo (si è parlato di sviluppo e di sottosviluppo) - di quest’area, quando questa era un’area indipendente delle tribu sannitiche, Carecini, Pentri, Irpini, Caudini, di cui non conosciamo ancora nemmeno molto bene la coesione, il passaggio da una fase tribale a una fase di comunità politica, che certamente non è di tipo cittadino, non è di tipo ‘politico’ alla greca, quindi una fase koinonica, se volessimo ancora usare una parola greca che non sia legata alla polis per designare una comunità politica. Questo significa che noi siamo certamente dinanzi ad aree articolate tra loro che hanno differenti modi e livelli di sviluppo: precocità di sviluppo e arretratezza e poli di sviluppo in certe direzioni, che poi sono probabilmente le porte e vie delle influenze di cui tanto si è parlato, che esse provengano dall’Apulia, ο dal Lazio e dalla Campania.
3Questi poli di sviluppo, tutto sommato, pongono un primo problema che ieri fu appena accennato e che, in un certo senso, è rimasto un problema sommerso dopo il colloquio sui Pentri e Frentani. Non dobbiamo dimenticare che ai livelli politici i Pentri sono una cosa e i Frentani un’altra; che tutta la storia della tradizione annalistica segnala i Frentani come un’entità politica a se stante abbastanza fedele a Roma insieme ai Dauni nella prima parte della seconda sannitica, poi con delle defezioni, poi di nuovo con la riapertura della strada adriatica attraverso i Frentani. Né tra i Frentani c’è Larino. Ieri ho sentito parlare del problema dei rapporti di Larino e dei Pentri; cioè ci sono dei problemi nell’area sannitica di sviluppi particolari, che abbiamo per es. per Larinum da una parte, per Venafrum dall’altra. Anche il sistema viario, così come fu tracciato ieri dalla D’Henry, alludeva chiaramente a certe polarità ο da Venafro ο da Larino. In altri termini, la’frontiera’sannitica che cosa significava? Era tutto il contrario di una frontiera; si trattava invece di poli di apertura di una frontiera: Larino da una parte, Venafro dall’altra. C’è il problema, addirittura, dei nomi politici Larinates rispetto a Frentani, e invece non abbiamo Venafrani (e anche questo ha una sua significazione). C’è all’interno del Sannio Pentro, da quanto abbiamo sentito dire sui Saepinates, una situazione di analogie dello stesso tipo, come quelle laziali, bassolaziali, nella differenza fra Aurunci e Caleni, per cui a un certo momento il centro di Cales riceve un suo nome politico indipendentemente dal gruppo degli Aurunci (Liv. X, 20, 3 ss.; Verg., Aen, VII, 725-728). Cales poi diventerà una colonia latina; gli Aurunci verranno invece a un certo momento distrutti da Roma e quindi ci sarà completa arretratezza: chi legge l’annalistica liviana vede descritti gli Aurunci come dei ‘déracinés’, dei banditi che non sono nemmeno più un gruppo etnico, che hanno perduto l’identità, ecc. (Liv. VII, 28, 3: ibi praedonum magis quam hostium animi inventi).
4Ci sono dunque fenomeni di questo tipo, per i quali bisognerebbe rivolgere delle domande agli archeologi. A seconda, infatti, di questa evoluzione più ο meno lenta e anche delle forme già protourbane che hanno assunto certi centri, rispetto invece all’organizzazione vicano-paganica che il grosso del gruppo sannitico ha conservato, l’azione-reazione nel rapporto e problema della’romanizzazione’sarà naturalmente di un certo tipo. Anche perché dobbiamo intenderci sul significato di ‘romanizzazione’: la Cantarelli parlava di mancata romanizzazione; e invece la romanizzazione può anche creare una disgregazione e non è detto che quando ci si romanizza tutto va bene. Abituiamoci quindi ad usare in maniera neutra questo termine e poi vediamo che cosa avviene, osserviamo i’modelli’di sviluppo, ο di regressione.
5Riguardo allo sviluppo all’interno dell’area dei Pentri, io notavo il problema di Sepino e del moto centrifugo rispetto all’ ethnos, che aveva indicato ieri Gaggiotti, il quale appunto parlava di ceti emergenti dalle antiche gentes osche, che sarebbero poi in un certo senso il tramite verso l’organizzazione romana, immediatamente a ridosso di essa. Ora, io mi pongo il problema della organizzazione gentilizia e di ceti emergenti che evidentemente non sono più direttamente sottoposti a un controllo stretto dei gruppi gentilizi originari, tradizionali: come erano i Sanniti e i Peligni che sono stati trasferiti a Fregellae? erano ancora legati gerarchicamente e verticalmente a strutture gentilizie di un certo tipo, oppure no? Perciò poi giustamente Coarelli diceva: «poi ci saranno stati anche dei poveri», e noi sappiamo benissimo che nei fenomeni di colonizzazione, per esempio quella greca, c’è un signore che parte con tutte le clientele contadine. In tutti i fenomeni di colonizzazione, di diaspora, di esodo, di flussi migratori, questo puo avvenire. Quali sono le ripercussioni di questi fenomeni nella organizzazione paganico-vicana originaria di un gruppo tribale? Noi siamo abituati - non so quanto giustamente - a parlare di organizzazione paganico-vicana per l’organizzazione paganico-vicana che Roma ha mantenuto in atto ο che ha riorganizzato in certo modo. A questo punto mi viene in mente che forse dovremmo andare a rileggere le pagine di Emilio Sereni sulle comunità dell’Italia antica. Perché lo studio del rapporto tra vicus e pagus, soprattutto il tentativo di individuare meglio il problema della funzionalizzazione del vicus a un certo livello di sviluppo e invece poi il significato del pagus, è una problematica su cui non siamo più assolutamente tornati. Abbiamo visto questo problema dal punto di vista della storia amministrativa romana, ma non lo abbiamo più assolutamente letto da quello della storia strutturale preromana. Non è un problema che possiamo certamente risolvere qui, ma la sua risoluzione forse ci spiegherebbe - in termini appunto di vitalità dei vici rispetto al pagus - e ci permetterebbe di capire come si sviluppi quest’area.
6Quest’osservazione è stata fatta soprattutto per l’area pentra che presentava tutta una serie di centri. Poi c’è il problema dello sviluppo dell’area degli Irpini, e questa ci porta subito al problema di Maluentum. Allora io mi chiedo: prima della fondazione del 268 a.C., quando comincia ad apparire quest’area di Maluentum? Secondo l’annalistica, comincia ad apparire nella terza sannitica nelle grandi operazioni di rastrellamento, quando gli Apuli attaccano Maluentum, quando cioè gli Iapigi sannitizzati, i Dauni sannitizzati, entrano nel distretto pentro ο caudino, ai limiti anzi tra quello pentro e quello caudino. Ieri D. Giampaola citava il bronzo maloeis, ma sarebbe interessante capire come i numismatici lo datano. Nel 268 abbiamo la fondazione della colonia; ma sarebbe importante anche nell’ambito irpino capire i dislivelli che potevano esistere tra Compsa da una parte, per es., aperta ancora una volta verso l’Apulia, e Beneventum dall’altra. Naturalmente c’è anche il problema della deportazione dei Liguri sul territorio, che bisognerebbe pure cercare di approfondire.
7A parte i Sanniti importanti che hanno costituito nuclei di negotiatores, e migrazioni verso città esterne al Sannio, c’è il problema dell’importazione di ricchezze da parte delle persone andate fuori. Coarelli stesso parla di bilateralità, cioè mi pare di capire che egli veda in Fregellae niente altro che il prolungamento di un’area culturale ed economica dove la lana del Sannio va ad essere lavorata. Cioè le persone che erano lì, se erano di un certo livello sociale con delle proprietà (che credo Coarelli non esclude fossero nel Sannio), si portano dietro delle clientele e lavorano questi materiali a Fregellae. Questa è una proposta di modello che sta formulando Coarelli.
8Ci troviamo d’altronde di fronte a problemi difficilissimi da risolvere, anche leggendo uno scavo archeologico. Non dimentichiamo, per es., quanto ancora forse si discute a Pompei sul problema, risalente ai tempi di Amedeo Maiuri, del cambiamento, della sostituzione di ceti nella Pompei tra il terremoto e l’eruzione, visti attraverso la trasformazione edilizia, le fasi edilizie di Pompei. Fino a che punto possiamo riconoscere in una trasformazione edilizia, che riscontriamo attraverso lo scavo archeologico, gli autori di questa trasformazione? C’è adattamento di vecchi ceti? c’è rivoluzione e sostituzione di ceti? Lì, a Pompei, erano sostituzioni di ceti; in questo caso si tratta addirittura di sostituzioni di forme economiche, culturali, tecniche. Si tratta, è vero, di problemi molto difficili da risolvere, ma fa bene Coarelli a proporre comunque delle ipotesi, criticando l’anodinità della descrizione pseudo-obiettiva. Resta comunque la difficoltà di leggere questi dati, tanto più che, come sappiamo tutti, altro è un ‘modello’, altra è la realtà: noi costruiamo un ‘modello’, e poi lo andiamo a verificare sulla realtà.
9Quanto abbiamo detto a proposito dei modelli si può riferire a maggior ragione al modello dei problemi di centuriazione, della sovrapposizione di centuriazioni, della funzione delle colonie sillane, della durata della impostazione sillana rispetto a quello che è poi avvenuto nel dopo Silla: vendita di terreni da parte dei veterani stessi, conciliazione, sotterranea ripenetrazione di elementi nella colonia. Qui indubbiamente il modello dell’équipe Clavel andrà discusso, verificato. Certo, per la valutazione del problema della romanizzazione, sarebbe importante veramente sapere (quando e come sarà possibile, non so) se il naturale orientamento di un’agricoltura estensiva sannitica, che avrà prodotto i suoi frutti fino alla guerra sociale, si modifica a partire da un certo momento (che non so se è solamente quello dopo la guerra sociale ο anche durante il periodo graccano; nello scontento degli alleati nel periodo graccano entrano i beni coinvolti nelle assegnazioni graccane degli alleati italici, e tra questi alleati italici ci saranno stati naturalmente anche dei Sanniti, ci sarà stato il problema di grosse proprietà sannitiche che sono state coinvolte nell’assegnazione ο di concessioni in appalto di ager publicus in territorio sannitico che sarà stato limitato a un certo punto, ridistribuito, etc.). Se riuscissimo a trovare reali differenze di morfologia catastale, queste ci aiuterebbero a capire che la sovrapposizione di certi schemi ‘politici’ diversi è venuta a far regredire un certo tipo di tradizione; cioè l’eccessiva modernizzazione può far esplodere una situazione. Non vorrei che, sotto sotto, quel famoso adagio «la romanizzazione è sempre buona» venisse a coincidere con un presupposto che fu addirittura di Emilio Sereni; a proposito del paesaggio agrario, egli si poneva il problema della centuriazione romana come il meglio che potesse crearsi in un regime agrario. Qui purtroppo devo dire che Sereni, come molti italiani, peccava un tantino di etnocentrismo; subiva l’influsso di questo mito romano che naturalmente gli veniva anche dai suoi studi giuridici, economici, etc. Insomma, trovo interessante che si discuta qualsiasi modello, ma è necessario che si creino dei’modelli’per poter andare a leggere questi fenomeni.
10Il grosso problema della costituzione del testo dei gromatici innanzitutto, e poi del liber coloniarum si pone a questo proposito. Sappiamo benissimo che un collega come Toneatta a Trieste sta rigorosamente e minutamente studiando il testo dei gromatici. Ci sono altri tentativi, ma la cosa è molto delicata e richiede anche una continua collaborazione; ci vorranno quindi anche scambi tra nazioni in cui i punti di vista possono aver progredito per vie contrarie e parallele, facendo così l’esperienza di più modelli, anche per confrontarli e poi - questo è scontato - verificarli.
11Quando tocchiamo questi problemi, vengono al pettine anche quelli dei Caudini, il problema di Abellinum, che non saprei bene come collocare. I Carecini in tutta questa nostra disamina - se per Sannio si intendevano i Samnites - restano per ora nelle nebbie dell’oscurità e li capiremo quando potremo. Il problema mi pare che non sia venuto al pettine se non per un’epoca abbastanza bassa, e forse è proprio quello che meglio - insieme a certi altri della colonizzazione sillana, di quella triumvirale, dei programmi cesariani e realizzazioni augustee - rappresentava quel I secolo che si voleva andare a trattare. Non mi pare, tuttavia, sia apparso pregnantemente, se non per l’età augustea, anche se l’età augustea poteva effettivamente sottintendere programmi cesariani, che si ripercuotevano poi in iniziative triumvirali, etc. Mi pare comunque in questo caso che, a livelli geografici e a livelli cronologici, certe zone di oscurità sono rimaste.
12Per concludere, del problema della romanizzazione del I secolo, bisognerà pur vedere quale è stato l’esito nel Sannio. Io ho l’impressione che a partire da un certo momento c’è stato uno schiacciamento totale che si riflette nella depressione di quest’area, nella sua conservazione di arretratezza in certe zone e anche nei linguaggi artistici di un certo tipo, probabilmente anche nei programmi che vi si sono realizzati. Sono anche importanti i problemi di ritorno delle ricchezze, sapere a quale scopo sono state investite. Il problema dell’evergetismo, delle costruzioni senza fini e contesti produttivi (la Cantarelli diceva «un teatro, e poi non c’è nulla»; ho sentito parlare di un teatro senza città, di un santuario senza città), va anch’esso affrontato. È forse tutt’uno con quello da un pezzo affrontato e analizzato da Emilio Gabba - della municipalizzazione, del fallimento della municipalizzazione in una parte dell’Italia meridionale, mentre invece in altre parti dell’Italia si è avuto un esito diverso. Su questo avrei voluto sentire di più, e forse ha ragione la Cantarelli quando dice che i dati non sono sufficienti per capire questo problema.
13Quale che sia la forza (e la forza dei Sanniti è dimostrata anche dalla resistenza che essi hanno opposto fino alla guerra sociale), questa poi finisce e gli stessi eserciti rivoluzionari che si reclutano soprattutto negli Appennini abruzzesi, oltre che negli altri Appennini vicini, documentano la proletarizzazione, la spolicitizzazione, denotano i fenomeni insomma che ora noi chiamiamo in forma sommaria e brillante, dai tempi di R. Syme, “rivoluzione romana”. Da questo punto di vista mi pare che almeno un punto è sicuro; dobbiamo spiegarci perché a un certo momento tutta questa ricchezza, tutta questa forza, tutto questo prestigio, ha poi avuto la sua decadenza. La relazione di M. Corbier ci ha insegnato alcune cose, e ho piacere che ce le abbia insegnate la collega francese, perché i ritmi di Braudel si vengono a intrecciare fortemente; si possono avere delle permanenze molto lunghe, ma insieme si hanno delle modifiche a quelli che sembrerebbero i livelli celerissimi della storia amministrativa, della storia istituzionale e politica evenemenziale, che però modificano sostanzialmente la realtà di base, ecologica, economica e sociale. Come abbiamo sempre detto, non è solo la struttura che agisce sulla cosiddetta sovrastruttura, ma c’è la reciproca influenza. C’è, piuttosto, una spessa struttura a livelli articolati che funziona in un certo modo e ci dà spiegazioni anche all’interno di un solo fenomeno come quello romano, di un Sannio romano e di un fenomeno più largo del Sannio, come può essere la transumanza, di quello che avviene quando a un certo momento l’impero romano trasferisce addirittura beni, il demanio incorpora, e la divisione dei profitti si disperde in maniera del tutto diversa da prima. Forse abbiamo cominciato a capire meglio da Augusto in poi quello che è accaduto, e bisognerebbe colmare meglio questa lacuna del I sec. la cui realtà non mi appare molto evidente. Occorre forse anche vedere fino a quando ancora c’è questa forza, se noi articoliamo questo mondo sannitico in maniera più complessa e capiamo meglio certi dislivelli. Occorre individuare inoltre, sulla eventuale crisi, quali sono i germi anche endogeni, e non solo esterni, cioè fino a che punto questo koinon ha retto, non rimanendo solo una giustapposizione di aree, ma invece realizzandosi come comunità politica che poteva ancora resistere e trasmettere, al di là dei puri valori politici, dei valori culturali (ed etnico-sociali) più saldi. Qual’è, infatti, l’eredità culturale di questo mondo sannitico, quando questo mondo in parte finisce negli eserciti professionali dei capiparte e in altra parte sfocia in semplice ribellione primitiva? Perché in fondo quei fenomeni ai quali M. Corbier faceva cenno per età più tarda, li troviamo anche precocemente nel Sannio: fenomeni di brigantaggio, di disertori degli eserciti romani che si trasformano in briganti, etc.
14Ci dobbiamo dunque proporre di documentare meglio le differenze nella forza e nello sviluppo, e poi le radici del sottosviluppo, e capire meglio che cosa è il I sec., che è rimasto un po’ troppo in ombra.
15Vi ringrazio.
Auteur
Università di Napoli Federico II
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