La scoperta del tempio e approccio ad esso
p. 11-16
Texte intégral
1I resti del tempio di Afrodite dell’antica Akrai vennero in luce nel 1953 quando la Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale, che io allora dirigevo, stava eseguendo, con finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno, un complesso di opere intese al consolidamento, al restauro, al miglioramento della sistemazione monumentale delle vestigia dell’antica città greca, e che, subordinatamente, prevedeva anche nuovi scavi.
2Il complesso dei monumenti acrensi infatti si presentava più ο meno ancora come lo aveva lasciato il Barone Gabriele Judica, che con i suoi scavi dei primi decenni del XIX secolo lo aveva riportato in luce1.
3Lo studio di questi monumenti che io avevo intrapreso fin dal momento in cui, alla fine del 1941, ero stato chiamato a reggere la Soprintendenza siracusana, mi aveva reso evidente che vi era ancora molto da fare intorno ad essi, sia dal punto di vista della ricerca archeologica vera e propria, al fine di chiarire i problemi relativi alla loro struttura, alla loro datazione, al loro inserimento nel complesso urbano di cui facevano parte, sia dal punto di vista della loro conservazione e sistemazione ai fini turistici.
4I molti impegni inerenti alla carica di Soprintendente mi rendevano impossibile dirigere personalmente questi lavori. Ne affidai pertanto la direzione alla Dott. Clelia Laviosa.
5I nostri primi interventi riguardarono i monumenti già noti: il teatro, il bouleuterion, le latomie urbane, quelle del versante orientale note come «tempi ferali» e il santuario rupestre di Cibele («Santoni»).
6Dei risultati conseguiti attraverso questa prima serie di interventi potemmo ancora tenere conto nella monografia Akrai che già da tempo stavo preparando e che allora, attraverso molte difficoltà e traversie, stava finalmente per andare in stampa2.
7Solo dopo questi primi interventi, di cui ho avuto la possibilità di rendere noti i risultati, affrontammo, la Dott. Laviosa e io, nuove esplorazioni nell’area dell’antica città, soprattutto al fine di renderci conto di quello che poteva essere l’impianto urbano di essa, impianto di cui ancora nulla si conosceva. Scegliemmo per questa esplorazione la zona più elevata dell’Acremonte, che sovrasta non solo le latomie, il teatro e il bouleuterion, ma anche quella che appariva fin da allora la probabile sede dell’agorà (Fig. 1).
8Consideravo infatti probabile che questa zona elevata e dominante avesse costituito una specie di acropoli sacrale della città e che qui, piuttosto che altrove, potessero essere esistiti i maggiori santuari.
9Tracciammo sul pianoro di questa acropoli una ampia quadrettatura, alla quale si potessero riferire tutti i rinvenimenti che si sarebbero fatti, ed aprimmo il 13 luglio 1953 le prime trincee a cominciare dal punto più vicino al margine delle latomie sottostanti e al punto trigonometrico corrispondente alla quota 770.
10Le nostre attese non furono deluse perché fin dai primi giorni di scavo, il 20 luglio, le trincee incontrarono i resti del tempio.
11Ovviamente intorno ad esso si concentrò il lavoro e nel corso di poche settimane (entro il 18 agosto) ciò che restava del monumento era messo interamente in luce3.
12Lo scavo del monumento stesso poté essere completato, ma fu allora impossibile estendere le ricerche all’intorno di esso per scoprire tutta l’area sacra (il témenos), nella quale il tempio veniva a trovarsi, e per chiarire come questa area sacra si inserisse nel complesso urbano della città antica.
13Che questa estensione dello scavo intorno al tempio fosse parte integrante e inderogabile della ricerca appariva tanto più evidente in quantoché proprio a poca distanza dal basamento del tempio, in una delle nostre prime trincee di saggio che avevano portato alla sua scoperta, era stato rinvenuto un blocco della cornice terminale (geison) (Figg. 33-35). Si poteva sperare che altri blocchi importanti per una ricostruzione ideale dell’elevato del tempio esistessero all’intorno, riutilizzati nelle strutture delle povere casupole di età tarda, romano-bizantina, che erano sorte nell’area sacra dopo la sua rovina e il suo abbandono.
14Purtroppo questa estensione delle ricerche non fu possibile, essendo stata chiamata ad altri incarichi la Dott. Laviosa.
15La ripresa degli scavi dell’Acremonte restò per molti anni nei programmi ο meglio nei sogni della Soprintendenza, ma l’incalzare di problemi sempre nuovi ed urgenti e la mancanza di collaboratori a livello scientifico resero impossibile questa ripresa, che resta dunque compito delle nuove generazioni. Appunto a causa di questa incompletezza dell’esplorazione rimaneva difficile la pubblicazione, che fu pertanto lungamente rinviata.
L’identificazione dell’Aphrodision
16Che il tempio scoperto sia l’Aphrodision non pare dubbio. Afrodite ci appare infatti, attraverso le epigrafi pervenuteci, come la principale divinità venerata ad Akrai e ad essa si riferisce un notevole numero di dediche votive4, costituenti un complesso unitario, provenienti dagli scavi fatti da Gabriele Judica nell’area urbana sottostante ai resti del nostro tempio, dall’area stessa cioè dalla quale provengono (quasi certamente attraverso i suoi scavi) i molti frammenti architettonici che si conservavano nelle latomie acrensi sottostanti al tempio e che oggi noi possiamo attribuire al tempio stesso. È d’altronde questa, nell’area urbana di Akrai, l’unica zona che sia stata oggetto di scavi archeologici nel secolo scorso. È quindi ovvio che il santuario di questa dea fosse situato nella posizione più dominante, al di sopra del quartiere dell’agorà, del centro cioè della vita civica ed economica di Akrai.
17L’Aphrodision è ricordato in quella importantissima iscrizione rinvenuta dallo Judica e ripubblicata dal Pugliese Carratelli5 che ci conserva un catasto dei them[élia]6 e cioè delle aree edificabili (o edificate) nell’ambito urbano, ponendo queste aree edificabili in rapporto con elementi caratteristici della topografia della città.
18In questa iscrizione si menzionano tre templi: l’Aphrodision, l’Artemision e il Koreion. Ma i due themelia in rapporto con l’Aphrodision sono situati al di sotto di esso e ciò lo fa pensare in posizione elevata. Dobbiamo quindi immaginare questi themelia situati nel pendio che dalla terrazza del tempio scende verso Est.
19Invece dei nove themelia posti in rapporto col Koreion cinque sono situati al di sopra, uno dietro e uno sotto di esso. E ciò sembra ovviamente indicare che il Koreion fosse situato in basso sul pendio, forse sulla via che portava ai campi e alla necropoli.
20Circa l’Artemision, esso compare due sole volte nella iscrizione a proposito di themelia che sono situati «presso» di esso. Non abbiamo peraltro finora alcun indizio sulla sua posizione nell’area urbana.
Che cosa resta del tempio
21L’Aphrodision doveva essere già in rovina nell’antichità, se frammenti architettonici riferibili a edifici del santuario erano riutilizzati nelle murature di povere casupole di età tarda sorte in quella che era stata l’area sacra e forse sulle stesse rovine del tempio.
22I blocchi squadrati del suo elevato e del suo stesso basamento (stereobate) erano stati asportati ad uno ad uno nel corso dei secoli, forse per la costruzione della Palazzolo risorta in età normanna sulle rovine dell’antica Akrai distrutta dagli Arabi; forse per la ricostruzione della città dopo il terremoto del 1683.
23Ma il saccheggio si era prolungato fino ad età recente, se nell’archivio della Soprintendenza si conservano documenti relativi ad interventi per arrestare l’asportazione di blocchi nel 1874 e nel 1932.
24Ma anche quel pochissimo che ancora ne resta è di grandissimo interesse e ci permette non solo di renderci conto delle dimensioni del tempio, ma anche di riconoscere almeno le linee essenziali della sua planimetria.
25I Greci per costruire un tempio, fondato sulla viva roccia come l’Aphrodision di Akrai, non creavano una platea unitaria, ma predisponevano fondazioni per le singole strutture dell’elevato e quindi i tagli stessi della roccia per l’impostazione di queste fondazioni rispecchiano la planimetria del tempio. I lembi di roccia interposti fra i singoli tagli di fondazione conservano ancora intatta la superficie naturale. È ovvio che questi spianamenti di fondazione fossero alquanto più larghi delle strutture di elevato che su di essi si basavano.
26Peraltro il livello a cui scendono questi tagli di fondazione non è uniforme, ma in rapporto con la qualità della roccia nei singoli punti. Si volevano raggiungere strati di roccia perfettamente compatti e la tenera roccia calcare dell’Acremonte in superficie è tutt’altro che uniforme. Vi sono punti in cui la roccia compatta affiora in superficie e punti vicini in cui infiltrazioni delle acque meteoriche l’hanno corrosa per l’altezza di alcuni metri.
27Nell’area del tempio la roccia era perfettamente compatta fino al piano di campagna solo in corrispondenza con l’angolo NE. Qui i Greci si sono limitati a levigare la superficie. Il punto in cui invece la roccia si presentava più corrosa corrispondeva all’angolo NO, dove i tagli di fondazione sono scesi ad una profondità di m. 1,66 rispetto al livello dell’angolo NE.
28Là dove la roccia mancava, dove cioè i tagli di fondazione erano scesi a maggiore profondità, si dovevano evidentemente collocare dei filari di blocchi accuratamente disposti, ben connessi fra loro e ben connessi col gradino formato dal taglio della viva roccia, al fine di creare delle superfici perfettamente livellate ad ogni singolo filare. L’approfondimento del taglio della viva roccia inteso a raggiungere gli strati compatti procedeva infatti per gradini successivi, ciascuno di altezza pari a quella che era l’altezza normale di un filare di blocchi, e cioè di circa cm. 45-50.
29Ad ogni livello quindi si aveva una parte del piano di base formato dalla viva roccia spianata ed una parte formata invece da blocchi di riporto e questa naturalmente diventava via via sempre più ampia quanto più si saliva verso l’alto.
30Osserviamo che ad ogni singolo livello, prima di procedere all’impostazione di un nuovo filare di blocchi, tutta la superficie della fondazione veniva levigata e livellata a maranzano7, sicché il nuovo filare di blocchi veniva a posare su un piano perfettamente uniforme.
31Si poneva molta attenzione a che i giunti fra i singoli blocchi del nuovo filare non coincidessero con quelli dei blocchi del filare sottostante, ma che al contrario cadessero a metà circa di essi.
32Piccole buche sulla superficie dei blocchi conservati sono state fatte dalla punta del palanchino con cui si spingevano i blocchi del filare sovrastante a perfetto contatto con quelli messi già in opera.
33Ma c’è di più. Almeno a partire da un certo livello di fondazione, sul piano perfettamente levigato che era stato creato venivano riportate a sottile incisione le linee della planimetria di quella che sarebbe stata poi la costruzione dell’elevato sovrastante. Si controllava cioè la perfetta corrispondenza della fondazione con il progetto dell’elevato.
34Queste sottili linee di guida sui singoli filari sono almeno in parte ancora perfettamente riconoscibili sui blocchi di riporto che, almeno nei filari più bassi, si conservano ancora in posto per larghi tratti. Esse dovevano senza dubbio corrispondere a quelle che sarebbero state le misure del tempio all’euthynteria, e cioè al coronamento visibile dello stereobate.
35Un accurato esame di queste fondazioni ci fornisce dunque già molti dati relativi alla planimetria del tempio nel suo elevato, ma ci permette anche di riconoscere incertezze e pentimenti nell’impostazione dell’opera.
36Ci accorgiamo che il lavoro ha inizio dalla fronte orientale del tempio, dal punto cioè nel quale la roccia compatta affiorava sul piano di campagna.
37Lo spianamento della superficie rocciosa in questo punto è stato rifatto due volte, con orientamento lievemente diverso. Il taglio frontale di esso si presenta infatti sensibilmente obliquo rispetto a quello che è stato l’orientamento definitivo del tempio, ed è stato poi corretto. Non sappiamo da che cosa dipendesse questo pentimento. Non sappiamo cioè se l’orientamento del tempio dovesse rispondere a canoni astronomici per ragioni rituali ο se invece vi fossero ragioni pratiche, di inserimento in quello che era il tracciato dell’impianto urbano della città. Impianto che con tutta probabilità risaliva alla fondazione stessa della colonia siracusana, e cioè al 664/63 a.C., e che quindi esisteva già da più di un secolo quando il tempio è stato costruito. Solo quando l’orientamento della fronte è stato esattamente quello voluto si è proceduto ad estendere i tagli di fondazione a tutta l’area del tempio come da progetto (Fig. 18).
38Osserviamo ancora che nell’angolo NE, nel punto cioè in cui lo spianamento di fondazione corrisponde quasi al piano di campagna, le irregolarità della superficie naturale della roccia ed alcuni spuntoni affioranti indicano che doveva esservi ancora almeno un altro filare di blocchi di fondazione prima che iniziassero le strutture di elevato destinate ad essere in vista e cioè il primo dei tre gradini che normalmente costituiscono la parte visibile del basamento (stereobate).
39Abbiamo detto che questo basamento è stato per secoli cava di blocchi squadrati, sicché relativamente pochi sono i blocchi superstiti di esso ancora in posto. Potremmo dire solo una parte di quelli dei filari più profondi delle fondazioni.
40Per l’estrazione di questi blocchi il terreno è stato largamente sconvolto e sono state cancellate quindi quelle testimonianze che avrebbero potuto essere di grandissimo interesse per la datazione del tempio; testimonianze costituite soprattutto dai frammenti di ceramiche contenuti nel terreno al momento della costruzione ο penetrati negli interstizi fra il taglio della roccia e i filari di blocchi delle fondazioni. Purtuttavia qualche piccola ma importante documentazione a questo fine ha potuto essere raccolta e dovrà essere fatta oggetto di studio accurato.
Notes de bas de page
1 G. Judica, Le antichità di Acre, scoperte, descritte ed illustrate, Messina, 1819 (Riproduzione anastatica a cura dell’Istituto di Studi Acrensi, 1984).
— Id., Lettera del Barone Gabriele Judica al Sign. D. Agostino Gallo, Giornale di scienze e lettere per la Sicilia, tomo V, anno II, Palermo, 1824, pp. 74-76.
— J. Schubring, Akrai - Palazzolo, Eine topographisch archaeologische Skizze, Jahrbuch fiir classische Philologie, Supplementband, IV, 1867.
2 L. Bernabò Brea, Akrai (con la collaborazione di G. Pugliese Carratelli e C. Laviosa), Catania, 1956 (cit. in seguito Akrai).
3 Brevi accenni alla scoperta del tempio in Akrai, p. 29, nota 1.
4 G. Pugliese Carratelli, Silloge delle iscrizioni acrensi, in Akrai, pp. 151, segg. nn. 5, 6, 7, 13 (I. G. XIV, 210, 211,209) e probabilmente 8 e 10 (I. G. XIV, 212 e 213), mentre la 9 (I. G. XIV, 208) è una dedica a Hera e Afrodite.
5 Judica, op. cit., p. 55, tav. V.
— Corpus Inscriptionum Graecarum, III, ed. I. Franz, Berlino, 1853; n. 5430.
— Inscriptiones Graecae, XIV, Inscr. Gr. Siciliae et Italiae... ed. G. Kaibel, Berlino, 1890, n. 17.
— U. Sicca, Grammatica delle iscrizioni doriche della Sicilia, Arpino, 1924.
— V. Arangio-Ruiz e A. Olivieri, Inscriptiones Graecae Siciliae et infimae Italiae adjus pertinentes, Milano, 1925, pp. 62 segg.
—G. Pugliese Carratelli, Silloge delle iscrizioni acrensi, in Akrai, p. 152, n. 2. Cfr. L. Bernabò Brea, ivi, pp. 177-179.
6 Nell’iscrizione ricorre costantemente il termine abbreviato θεμ che il Kaibel proponeva di reintegrare in θεμα. Più probabile è la reintegrazione in θεμελιον accolta dal Pugliese Carratelli, per la quale cfr. Arangio-Ruiz - Olivieri, op. cit. p. 66, segg.
7 Il maranzano è una specie di pialla con cui gli scalpellini e gli scultori siracusani raschiano la superficie del calcare tenero.
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