I reperti di tipo egizio di Pithekoussai: problemi e prospettive
p. 87-97
Texte intégral
1I ritrovamenti avvenuti a partire dal 1952 di reperti di tipo egiziano, soprattutto di scarabei in «faïence» e steatite, nella necropoli greca di Pithekoussai, in un contesto che corre dall’VIII al VI secolo a.C., costituiscono un avvenimento importante nell’ambito dell’Archeologia preclassica campana: essi, infatti, da un lato rappresentano il primo punto fermo nella fluida storia dei rinvenimenti di oggetti orientali in questa regione; dall’altro vengono ad offrire risposte più precise alla problematica complessa ed in parte ancora oscura riguardante i traffici fra l’Italia meridionale, ed in particolare la Campania, ed il Vicino Oriente al tempo della seconda colonizzazione ellenica.
2Prima delle scoperte pithecusane ben tre aree della Campania1 avevano fornito un buon numero di oggetti di tal genere, ma l’indagine, tanto per lo scavo quanto per l’analisi scientifica, non aveva sufficientemente valorizzato la quantità e la qualità degli oggetti messi in luce.
3L’area di Cuma2 perlomeno da un secolo e mezzo deve aver cominciato a restituire manufatti di tipo egiziano; gli scavi dello Stevens, poi, iniziati nella seconda metà dell’Ottocento, diedero reperti appartenenti a contesti vari, i più antichi dei quali risalivano al periodo preellenico della prima metà del sec. VIII a.C. Tuttavia, lo scarso rigore nella prassi archeologica portò all’accumulazione indiscriminata di materiale enucleato dal suo ambiente storico.
4L’area di Suessula3, nei cui sepolcreti un privato, il marchese Spinelli, parzialmente assistito dall’Archeologia ufficiale, aveva intrapreso scavi fra il 1878 ed il 1886, aveva dato scarabei e scaraboidi, i cui più antichi esemplari risultavano sincroni con quelli più antichi di Cuma; anche questi oggetti, purtroppo, furono indistintamente raccolti e sono ancor oggi inediti. A nord-ovest di Suessula, nell’area di Capua e Calatia, inoltre già alla fine dello scorso secolo erano venuti alla luce materiali di tipo egiziano: numerosi esemplari stanno anche restituendo recenti campagne di scavi.
5L’area della valle del Sarno4 coeva delle precedenti per i corredi più antichi, è quella che maggiormente ha sofferto di spoliazioni e scavi abusivi5. Dopo saggi della fine del secolo XIX, regolari campagne hanno localizzato sepolcreti in varie località, ad esempio a S. Maria delle Grazie (Castellammare di Stabia) ο a S. Marzano, che hanno fornito un piccolo numero di manufatti di tipo egiziano, ma l’esame che se n’è fatto è limitato dall’assenza di pubblicazioni sul contesto archeologico.
6In questa situazione di estrema indeterminatezza il ritrovamento a Pithekoussai di reperti di tipo egiziano, inseriti in contesti tombali accuratamente datati, grazie all’ausilio della ceramica greca, particolarmente di quella protocorinzia6, fra la seconda metà del sec. VIII e gli inizi del sec. VI a.C., con un’approssimazione di appena cinque lustri riscontrabile in pochissime altre località, come a Perachora7, non può che ritenersi estremamente felice.
7Prima ancora che i corredi venissero pubblicati8, il Bosticco9 nel 1957 illustrava 31 scarabei, dandone un’accurata interpretazione filologica e giungendo alla conclusione che dovesse trattarsi di materiale autenticamente egiziano e proveniente dal Delta10; recentemente, poi, la Signora M. d’Este11 ha studiato un secondo gruppo dello stesso materiale riconfermando le precedenti conclusioni. Tuttavia, nonostante l’utile contributo di queste indagini, è necessaria una riconsiderazione globale dei dati, già acquisiti ο non, in una prospettiva di lavoro che utilizzi più organicamente i legami esistenti fra gli oggetti in questione e le indicazioni offerte tanto dal complesso della stratificazione archeologica, quanto dalla compresenza nei singoli corredi di reperti significativi, come gli scaraboidi neo-hittili del tipo «Lyre-Player Group»12. Il discorso dei materiali di tipo egizio di Pithekoussai, infatti, assieme a quello degli oggetti affini del resto della Campania, trova la sua naturale collocazione e la sua più esauriente spiegazione nel discorso ben più vasto concernente l’autenticità, la diffusione, la cronologia, la filologia, la tipologia, il significato e gli accessori degli oggetti egiziani ed egizianeggianti rinvenuti nell’area mediterranea e asiatico-occidentale nell’ambito dei contesti della prima metà del I Millennio a.C.13. Quest’ultimo, anche se possiede come logico punto di partenza la produzione autenticamente egiziana, finisce con l’assumere un’articolazione sempre più vasta e complessa quanto più numerose divengono le aree geografiche interessate alla presenza di tali oggetti: sicché occorre individuare due problematiche diverse e non sempre direttamente interdipendenti, una prima legata alla presenza di questo materiale in Egitto; ed una seconda connessa agli oggetti di tipo egiziano messi in luce fuori dell’Egitto. A questa seconda problematica si rivolgono essenzialmente gli interrogativi posti dagli oggetti pithecusani: essa pertanto verrà sommariamente esaminata in riferimento agli scarabei, che fra i reperti di Pithekoussai rappresentano la categoria più numero sa e più suscettibile, pertanto, di un discorso approfondito.
1) L’autenticità
8Sin dalla metà dello scorso secolo, ossia da quando lo studio degli scarabei cominciò a delinearsi su basi più scientifiche14, furono ravvisate su parte degli scarabei rinvenuti in area extra-egiziana, influenze artistiche di origine fenicia, greca, etrusca. La scoperta della colonia greco-egiziana di Naukratis ed il ritrovamento in essa di una «fabbrica» di scarabei in «faïence» contenente materie prime, matrici e prodotti finiti15 pose presto un nuovo problema, ossia quello dell’imitazione degli scarabei in termini di maggiore somiglianza agli originali, cioè di contraffazione. Il Petrie16 scorse in alcuni di questi manufatti dei caratteri stilistici invero non-egiziani, bensì connessi col mondo artistico greco; nella confutazione dell’ipotesi dell’Edgar17, che vi vedeva, invece, anche una possibile presenza fenicia, il Prinz18 riteneva che la «fabbrica» fosse greca, pur coll’impiego di maestranze indigene. A questa ipotesi naucraticocentrica, il cui valore era oltretutto circoscritto anche dai limiti cronologici imposti dalla data di fondazione della colonia, il von Bissing19 contrapponeva una teoria rodiocentrica, postulando nelle botteghe dell’isola20 una presenza di emigrati egizi, che per il Dunbabin 21 diventavano, molto più plausibilmente, emigrati fenici. Il Pieper22, inoltre, esaminando i materiali cumani, scorgeva su alcuni scarabei una inconfutabile presenza iconografica di origine greca.
9Più stringente sembra, tuttavia, l’evidenza dell’analisi strutturale, e più esattamente della composizione del materiale: il James23, esaminando i reperti di Perachora, è giunto a drastiche conclusioni negative riguardanti la loro autenticità24, che coinvolgono anche quel «blue compound» ampiamente rappresentato in Campania e, anche se in pochi esemplari, a Pithekoussai25.
10Resta, a questo punto, da chiedersi fino a che punto gli scarabei ischitani possano essere autenticamente egiziani; ed inoltre, qualora fra essi esistano falsificazioni, da dove provengano e fino a che grado arrivi in essi la contraffazione degli originali.
2) La diffusione
11Strettamente connesso al problema del luogo di produzione è, ovviamente, quello della diffusione degli scarabei, riguardante tanto l’identità dei mediatori, che potrebbe anche non coincidere con quella dei produttori, quanto la configurazione dell’itinerario commerciale.
12Il traffico dei prodotti egiziani avveniva prevalentemente attraverso la Fenicia, ma nel caso dei prodotti di imitazione il discorso si fa più ampio se, come il James ha opportunamente rilevato, vanno ipotizzati, oltre Rodi, altri centri di produzione nella Grecia insulare e sulle coste asiatico-occidentali; è, inoltre, da definire se ed in quali momenti il commercio colla Campania sia stato effettuato dai mercanti greci oppure fenici26.
3) La cronologia
13È opinione alquanto diffusa tanto presso alcuni egittologi27, quanto presso archeologi classici28, che la presenza degli scarabei possa risultare determinante per la definizione cronologica dell’ambito archeologico in cui essi sono stati rinvenuti. Il Dunbabin29, pur con qualche perplessità30, ha ritenuto di poter proporre una cronologia alternativa per la datazione di alcuni contesti, fidando nella validità perlomeno del «terminus post quem»; non si può, tuttavia, fare a meno di nutrire dubbi sulla bontà di questo criterio di datazione, e non solo perché il secondo polo, ossia il «termine ante quem», viene così lasciato in un’indeterminatezza che potrebbe abbracciare anche un tempo molto ampio, ma anche perché non si saprebbe con certezza, nel caso debba trattarsi di falsificazioni31, quanto tempo sia effettivamente trascorso fra il momento di apparizione dell’originale e quello di attuazione della contraffazione32.
14Gli scarabei d’area extra-egiziana, dunque, non possono offrire, al presente, alcun ausilio per la datazione degli oggetti del loro contesto archeologico, in quanto essi stessi bisognosi per primi di un tal tipo di definizione. Una loro cronologia è ancora da costruire e questo potrà avvenire con una loro classificazione fondata non soltanto sulla valutazione delle legende, bensì comprendente anche l’insieme dei «dati strutturali», ossia la tipologia entomologica e la composizione del materiale; classificazione, questa, la cui identità cronologica non potrà essere determinata da parametri autenticamente egiziani33, ma che situazione per situazione sarà definita dai «reperti-guida» del contesto archeologico in cui essi si trovano ad essere ospitati.
4) La filologia
15Gli scarabei costituiscono la categoria più numerosa, fra gli oggetti di tipo egiziano e, a prima vista, anche la più noiosamente omogenea: pertanto non c’è da meravigliarsi del fatto che dopo essere stati affrancati dalla definizione negativa di «paccottiglia», siano stati considerati dai primi studiosi sotto il loro aspetto formale più mutevole, rappresentato dalla legenda, sempre varia nei suoi contenuti filologici ed iconografici; da ciò è nato l’uso di classificarli in base a categorie comprendenti nomi di re, di funzionari e di privati, immagini di divmità, preghiere, emblemi decorativi ecc.34. Questo criterio di distinzione ancor oggi adottato, perfezionato dalla conoscenza più accurata della lingua egiziana, possiede certo un’attendibilità maggiore che in passato: tuttavia esso è limitato dall’oscurità e dall’ambiguità di certe rappresentazioni in cui non è tuttora possibile scorgere un chiaro e convincente significato; sicché si è resa necessaria, in questo tipo di classificazione, persino l’istituzione di una speciale categoria di «legende oscure»35.
16Per risolvere le incertezze del metodo tradizionale di lettura, ossia quello «consonantico», sorse il metodo «crittografico» del Drioton fondato sul principio dell’acrofonia36; così, laddove il primo non risulta facilmente applicabile, resta da chiedersi se l’interpretazione spetti ancora ad esso ο non competa, più legittimamente, al secondo. Nel caso, poi, degli scarabei rinvenuti fuori dell’Egitto, l’incertezza aumenta, in quanto non è improbabile che l’oscurità possa essere causata, più che da difficoltà filologiche, da una contraffazione che ha associato segni privi di senso. In tale situazione di indeterminatezza diventa particolarmente arduo, perlomeno per gli scarabei di area extra-egiziana, operare una inequivocabile classificazione delle legende in base al loro ipotetico contenuto filologico.
5) La tipologia
17Dopo la fase filologica il metodo di classificazione degli scarabei venne opportunamente ampliato prima dallo Hall37 ed in seguito da studiosi come il Newberry, il Petrie, il Rowe38; essi proposero, infatti, un criterio di distinzione più ampio ed organico fondato sulla definizione stilistica della parte entomologica, ossia della riproduzione tanto del dorso quanto del profilo dell’insetto. Ora, se tale metodo fornisce elementi più oggettivi e concreti per una valida classificazione del materiale, si rivela inadeguato se si intende costruire parametri tipologici universali, cioè applicabili a reperti appartenenti a contesti archeologicamente e storicamente diversi. È opportuno, pertanto, che tali parametri vengano ricavati dall’esame di scarabei considerati nei loro specifici contesti, soprattutto laddove, come a Pithkoussai, la quantità degli esemplari e la chiarezza del contesto lo consentono a sufficienza39.
18Tuttavia, un organico discorso di natura tipologica non può prescindere dall’aspetto, oltre che stilistico, anche strutturale del reperto, in quanto scarabei stilisticamente affini possono rivelare discordanze, ad esempio, nella composizione ο nelle dimensioni. È preferibile, dunque, stabilire all’interno di ogni gruppo in esame delle «classi tipologiche» che considerino la globalità dei «dati strutturali», costituiti dalla tipologia entomologica, dalla tipologia della composizione (aspetto del nucleo e dell’eventuale smalto) e dalla qualità artigianale40.
6) Il significato
19Era opinione dello Hall41 che la presenza degli scarabei in aree extra-egiziane fosse da addebitare a motivazioni di natura estetica ο strumentale ο magico-religiosa, ma comunque del tutto diverse da quelle legate all’uso di questa categoria di manufatti in Egitto.
20Tuttavia una serie di elementi, d’ordine etnologico42, filologico43, ed archeologico, come l’usanza assai diffusa in area megalogreca, e particolarmente a Pithekoussai, di deporre scarabei prevalentemente in tombe di bambini44, sembra invitare alla suggestiva ipotesi che, nell’ambito delle varie spiegazioni che possono aver indotto le comunità italiote e siceliote della prima metà del I Millennio a.C. all’acquisto di tali oggetti, possa esservene anche qualcuna che riveli una stretta interdipendenza cultuale fra le due regioni mediterranee45.
7) Gli accessori
21Non di rado, tanto in Egitto quanto fuori di esso, gli scarabei risultano inseriti in accessori, come anelli e simili, che ne facilitano l’uso. Particolarmente per gli scarabei d’area extra-egiziana lo studio di questa categoria di oggetti si rivela estremamente prezioso, in quanto può fornire utili indicazioni, qualora essi non risultino della stessa origine degli scarabei cui si accompagnano, sia sulla loro provenienza che sul tempo e sul luogo della loro associazione a questi ultimi46.
22I pendenti di Pithekoussai appartengono in prevalenza ad un tipo a mezzaluna, rappresentato più copiosamente e con maggior varietà di dimensioni anche a Cuma; il Bosticco47 lo considera egizio48, ma esso sembrerebbe, tuttavia, prevalentemente diffuso nella prima metà del I Millennio a.C. in area extra-egiziana, in contesti apparentemente non più antichi di quello dei primi esemplari ischitani49.
23A tutti questi problemi gli scarabei di Pithekoussai, tanto per la loro quantità e qualità, quanto per la chiarezza del contesto archeologico, possono dare soddisfacenti risposte, le quali saranno di valido orientamento per i complessi quesiti che tale categoria di materiale pone non solo in Campania, bensì nell’intera regione mediterranea della fascia VIII-VI secolo a.C.50.
ADDENDA
2) La diffusione
24Gli scavi di P. sembrano fornire preziose indicazioni in merito all’identità dei mediatori e ai modi del percorso commerciale. Infatti, il rinvenimento di prodotti eterogenei del Vicino Oriente, come gli scaraboidi neo-hittiti ο l’«aryballos» siriano, rimanda ad un ambiente di concentrazione e di diffusione in mano greca, e questo non potrebbe essere altro che ’Al Mina, l’«emporion» alla foce dell’Oronte egemonizzato nel sec. VIII a.C. da quegli stessi Euboici fondatori della colonia ischitana; ipotesi corroborata del resto, dalla presenza in entrambe le località di un raro tipo di «kotylai». Un accurato confronto fra gli scarabei pithekusani e quelli appartenenti ai coevi contesti dell’insediamento siriano potrà certamente illuminare sul ruolo svolto da questi commercianti nella diffusione, se non addirittura anche nella produzione sia dei primi che dei secondi (1975).
Notes de bas de page
1 In questa sede si intende per Campania il territorio essenzialmente pianeggiante compreso fra il Massico e la punta della Campanella, ed estendentesi, all’interno, sino alle propaggini dell’Appennino. Cfr. A. Maiuri, Aspetti e problemi dell’archeologia campana, Saggi di varia antichità, Venezia, 1954, p. 14 (l’articolo è stato pubblicato per la prima volta in Historia, IV, 1, 1930); e anche D. Mustilli, La documettiazione archeologica in Campania, Atti del I Convegno di Taranto, Napoli, 1962, pp. 163-64.
2 Una delle più antiche pubblicazioni sull’argomento è senza dubbio quella di T. Semmola, Collana egizia, Monumenti di Antichità e Belle Arti raccolti e dati in luce da una società archeologica, Napoli, 1820, p. 17 ss. Sui ritrovamenti cfr. E. Gabrici, Cuma, Monumenti antichi dei Lincei, XXII, 1913; F. von Duhn, Italische Graberkunde, I, Heidelberg, 1924, p. 545; Maiuri, op. cit., pp. 16, 23; J. Bérard, La colonisation grecque de l’Italie méridionale et de la Sicile dans l’antiquité, Paris, 19572, p. 281; Mustilli, op. cit., p. 168; J. Boardman, The Greeks Overseas, Harmondsworth, 1964, p. 182.
Un primo sommario esame degli scarabei della raccolta è in M. Pieper, Die ägyptischen Skarabäen und ihre Nachbildungen in den Mittelmeerländern, Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 60, 1925 p. 49; vedi infra, p. 105 e nota 22. Recentemente un gruppo di essi è stato descritto nel «mémoire», ancora inedito, della Signora M. d’Este, presentato al Louvre nel 1972 e del quale il Dott. G. Buchner mi ha consentito cortesemente la visione, Cfr. d’Este, I, p. 34 ss.; II, pp. 16-27, 87-177. Questi materiali, depositati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, sono in corso di studio da parte dell’A.
Va ricordato, infine, un gruppo di diciassette scarabei in «faïence» blu (W.T. 1337) in possesso del British Museum e considerati provenienti da «Pozzuoli», quasi certamente acquisiti attraverso scavi clandestini in sepolcreti cumani. Vedi T.H.G. James, in Perachora, II, Oxford, 1962, p. 462, nota 2; d’Este, op. cit., pp. 192-222.
3 Sui ritrovamenti cfr. G. Fiorelli, Suessola, Notizie degli Scavi di Antichità, 1878, pp. 108-109, tav. IV, 5; F. von Duhn, Scavi nella necropoli di Suessula, Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologico, 1878, p. 145 ss.; 1879, p. 141 ss.; id., La necropoli di Suessula, Mitteilungen des kaiserlich deutschen archaeologischen Instituts, Roem. Abt., II, 1887, pp. 254-55; id., Ital. Grab., p. 553: M. Ebert, Reallexikon der Vorgeschichte, XIII, Berlin, 1929, p. 115, s.v. «Suessula»; F.W.F. von Bissing, Studien zur ältesten Kultur Italiens, Studi Etruschi, XVI, 1942, p. 183; A. Maiuri, in Vita di archeologo, Napoli, 1958, p. 63. Anche questa raccolta è al Museo di Napoli ed è in esame da parte dell’A.
Su Capua e Calatia von Duhn, in Bull., 1879, p. 146; von Bissing, p. 183; W. Johannowsky, Scambi tra ambiente greco e ambiente italico nel periodo precoloniale e protocoloniale e loro conseguenze, Dialoghi di Archeologia, III, 1969, 1-2, pp. 37-38 (e anche pp. 215-17); J. Heurgon, Recherches sur l’histoire ecc. de Capoue préromaine, Paris, 1970, p. 490. Uno scarabeo e due amuleti provenienti da quest’area e trovantisi ai Museo di Napoli sono stati descritti dalla Signora d’Este. Vedi d’Este, op. cit., I, p. 24; II, pp. 18, 340-341.
4 La necropoli di S. Maria delle Grazie è stato oggetto d’indagine archeologica da parte della Prof. Olga Elia e, recentemente, da parte del Dott. Luigi D’Amore: i corredi sono attualmente in pubblicazione. La Signora d’Este ha descritto i materiali di tipo egizio nel suo catalogo. Cfr. d’Este, op. cit., II, pp. 223-55, 345-47. Essi si trovano nell’«Antiquarium» stabiano e sono in riesame a cura dell’A.
5 La Signora d’Este ha descritto vari oggetti di tipo egiziano provenienti da probabili scavi clandestini nella valle del Sarno ed ora in collezioni private. Cfr. d’Este, op. cit., II, pp. 256-94, 343-44.
6 Vanno, tuttavia, ricordate le riserve del Bérard (op. cit., p. 279) sulla validità della «cronologia assoluta» stabilita sulla ceramica greca, in quanto a sua volta poggiante sulla tradizione letteraria classica. Cfr. anche R. van Compernolle, Etude de chronologie et d’historiographie sicéliotes, Bruxelles-Rome, 1959 (1960); id., in Atti I Conv. Taranto, pp. 262-65 con replica del Mustilli, ibid., pp. 277-78.
7 Cfr. James, op. cit., p. 461 ss.; per la cronologia vedi pp. 464-66.
8 Il volume sui corredi rinvenuti entro il 1961 è in corso di preparazione ed avrà nome «Pithekoussai I»; ad esso sarà acclusa, a cura dell’A., un’appendice colla descrizione e la documentazione iconografica di 61 esemplari fra scarabei ed altri manufatti di tipo egizio. Farà poi seguito «Pithekoussai II», comprendente il resto del materiale messo in luce e le conclusioni.
9 S. Bosticco, Scarabei egiziani della necropoli di Pithecusa nell’isola d’Ischia, La Parola del Passato, LIV, 1957, pp. 215-29.
10 Ibid., p. 228: «Ho accennato genericamente al Delta come sicura provenienza della quasi totalità degli scarabei pithecusani...». Lo studioso lo ritiene materiale propagandistico del clero di Ammone.
11 Op. cit., I, p. 34 ss.; II, pp. 19-86, 348-62.
12 Cfr. G. Buchner-J. Boardman, Seals from Ischia and the Lyre-Player Group, Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts, 81, 1966, p. 1 ss. Vedi anche G. Buchner, Relazioni tra la necropoli greca di Pitecusa (I d’I.) e la civiltà italica ed etrusca dell’VIII secolo, Atti VI Congr. Int. Scienze Preist. e Prot., V-VIII, 1966, p. 7 ss.; id., Pithekoussai, Expedition, 8, 4, 1966, p. 5 ss. Cfr. infra § 2.
13 Scarabei di tipo egizio sono stati rinvenuti nei seguenti contesti della prima metà del I Millennio a.C.: Cartagine, Ibiza, Malta, Sicilia, Sardegna, Italia centrale e meridionale, Grecia continentale, insulare ed asiatica, regione del Mar Nero, Persia, Mesopotamia, area siro-palestinese. Una buona bibliografia su questi ritrovamenti è in Bosticco, op. cit., pp. 215-16; e in d’Este, op. cit., I, p. 129 ss. Un’ampia bibliografia di carattere generale è in J. Vercoutter, Les objets égyptiens et égyptisants du mobilier funéraire carthaginois, Paris, 1945, pp. 144-45. Sul significato e l’uso dello scarabeo in Egitto cfr. H. Bonnet, Reallexikon der ägyptischen Religionsgeschichte, Berlin, 1952, pp. 720-22, s.v. «Skarabäus», e p. 363, s.v. «Käfer».
14 Cfr. C.W. King, Antique Gems and Rings, London, 1860, p. 113 ss.; C. Woodrooffe, The Scarabaeus Sacer, Winchester, 1875, p. 26 ss.; E.A.W. Budge, The Mummy, Cambridge, 1893 (rist., London, 1964, p. 246 ss.); I. Myer, Scarabs, History, manifacture ecc., Leipzig, 1894, p. 128 ss.
15 Cfr. W.M.F. Petrie, Naukratis, I, London, 1888; A.S. Gardner, Naukratis, II, London, 1888; D.H. Hogarth-C.C. Edgar-C. Gutch, Excavations at Naukratis, The Annual of the British School at Athens V, 1898-99, p. 26 ss.; D.H. Hogarth-H.L. Lorimer-C.C. Edgar, Naukratis 1903, Journal of Hellenic Studies, XXV, 1905, p. 105 ss.; Boardman, op. cit., p. 127 ss.
16 Op. cit., pp. 36-37; «The un-Egyptian character of many of the types is evident, and those at the end are distinctly done by men more familiar with Greek vase-painting than with hieroglyphics. Of these types several have been found in exact counterpart in Rhodes...».
17 Naukratis 1903, p. 134: «No doubt a fabric in such a place as Naukratis would be specially subject to foreign influence, and it is very possible that some of the strangers, whether Ionian or Cypriote or Phoenician, took up the manufacture».
18 H. Prinz, Funde aus Naukratis, Klio, Siebentes Beiheft, Leipzig, 1902, cfr. p. 99 ss. Lo studioso negava l’esistenza di testimonianze fenicie a Naukratis (p. 102). Vedi a p. 101: «Νun sind aber gerade die Skarabäen dieser Art naukratitische Produkte... also liegt nichts näher als den naukratitischen Fayencebetrieb dei dem überwiegend griechischen Charakter der Stadt in griechischen Händen zu suchen, wobei natiirlich nicht ausgenschlossen ist, dass die Manufaktur auch einheimische ägyptische Arbeiter beschäftigte».
19 F.W.F. von Bissing, Zeit und Herkunft der in Cerveteri gefundenen Gefässe aus agyptischer Fayence undglasiertem Ton, München, 1941, p. 81: «Man möchte, glauben, dass ägyptische Fayencearbeiter um 700 v. Chr. nach Rhodos gekommen seien, dort die Werkstatt eröffnet haben, Zöglinge herangebildet haben, die dann selbständig weiterarbeiteten, zunächst noch im engsten Anschluss an ägyptische Vorbilder oder ihre Meister, dann sich langsam von ihnen lösend».
20 Scarabei di Rodi erano già noti nel penultimo decennio dello scorso secolo. Cfr. A.S. Murray-H. Smith, Catalogue of Gems, London, 1888, pp. 46-58; Budge, op. cit., pp. 246-49.
21 J. Dunbabin, The Greeks and their Eastern Neighbours, London, 1957, p. 49: «... the people who introduced this technique to Rhodes were not necessarily Egyptians, but may have been Phoenicians». Aggiunge il James (op. cit., pp. 462-63): «Two further reasons can be given in favour of the establishment of such a factory by Phoenicians. In the first place the development of an industry abroad is not characteristically Egyptian. Secondly, Egyptians would not have produced scarabs with such garbled and meaningless legends». Vedi anche J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford, 1948, pp. 233-34.
22 Op. cit., p. 49: «Als ich sie zuerst sah, wusste ich nicht, wo ich sie unterbringen sollte, bis es mir zum mindesten wahrscheinlich wurde, dass sie griechische Arbeiten sind».
23 Op. cit., pp. 461-64, 466-68.
24 Ibid., p. 461: «There are differences, howewer, in the quality of the composition core and in the nature of the glaze which suggest that the objects were not made in Egypt».
25 Ibid., pp. 467-68. Questo tipo è conosciuto in Campania in contesti non posteriori all’VIII secolo a.C., e risulta più diffuso nell’interno (Suessula, Capua) che sulla costa (Pithekoussai, Cuma, valle del Sarno). Vedi Johannowsky, op. cit.
26 Cfr. Vercoutter, op. cit., p. 354 ss.: J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford, 1948, p. 233 ss., 254; R. Carpenter, Phoenicians in the West, American Journal of Archaeology, LXII, 1958, pp. 44-45; Boardman, op. cit., p. 175 ss.
27 Cfr. Pieper, op. cit., p. 45: «Die ägyptischen Skarabäen, haben aber für die Erforschung der antiken Kultur eine nicht geringe Bedeutung... sie dienten dem Archäologen häufig als Mittel, seine Funde zu datieren».
28 Cfr. Å. Åkerstrom, Der geometrische Stil in Italien, Leipzig, 1943, p. 18, nota 2: «Die Skarabäen verleihen dem Grabe grosse Bedeutung für die Chronologie».
29 Western Greeks, p. 460 ss.: «Appendix I, VI, An alternative archaeological Chronology».
30 Ibid., p. 461: «But not every egyptianizing object is of Egyptian manufacture, many are of Asiatic or even Greek origin. And many of the Egyptian or Egyptianizing objects found in Greece are dated, not on their own merits, but on their Greek context».
31 Ibid., p. 464: «The scarabs... provide only a “terminus post quem”, and their long life makes them of uncertain value as contemporary evidence».
32 Anche per gli originali non va dimenticato lo «stazionamento» all’epoca del III Periodo Intermedio (1050-700 a.C.) di oggetti egiziani in Fenicia. Cfr. J. Leclant, Remarques préliminaires sur le matériel égyptien et égyptisant recueilli à Chypre, Prakt. ton Protou Diethn. Kyprotog. Synedriou, T.Α., Leukosia, 1972, pp. 82-83: «Ce roi (Osorkon I) a régné de 924 à 888 environ... mais le scarabée a pu être apporté plus tard après un relais qu’il est vraisemblable de chercher en Phénicie, comme plusieurs autres pièces de cette époque redistribuées postérieurement jusqu’au lointain Occident...».
33 Cfr. James, op. cit., p. 463: «Scarabs from Greek sites are not by themselves good material for dating purposes. Furthemore... were... made outside Egypt by Greeks or Phoenicians. Evidence for dating cannot therefore be obtained from comparisons with good Egyptian examples. It is misleading to describe a scarab from a Greek site as being of Twenty-sixth Dynasty date (or of any other date in Egyptian terms) because such a description presupposes an Egyptian origin».
34 Cfr. King, op. cit., p. 114; Woodrooffe, op. cit., p. 20 ss.; S. Birch, Catalogue of the Collection of Egyptian Antiquities at Alnwick Castle, London, 1880, p. 104; ecc.
35 Cfr. già Myer, op. cit., p. 49, settima sezione: e più recentemente vedi Vercoutter, op. cit., p. 57 ss.
36 Vedi Bosticco, op. cit., p. 217 ss., con relativi riferimenti bibliografici.
37 H.R. Hall, Catalogue of Egyptian Scarabs, etc. in the British Museum, I, Royal Scarabs, London, 1913, p. XXX ss. L’autore distingue cinquanta tipi raggruppabili in tredici gruppi.
38 P.E. Newberry, Scarab-shaped Seals, Cairo, 1907, tavv. XIX-XXII; W.M.F. Petrie, Scarabs and Cylinders with Names, London, 1917, tav. LX ss.; A. Rowe, A Catalogue of Egyptian Scarabs, Scaraboids, Seals and Amulets in the Palestine Archaeological Museum, Le Caire, 1936, tav. XXXII ss.
39 Cfr. Pieper, op. cit., p. 50: «Ein Corpus Scarabaeorum ist ein Unding, aber eine Zusammenstellung der wichtigsten Skarabäenfunde ausserhalb Ägyptens in zuverlässigen Abbildungen würde fur die Archäologie ausserordentlich nützlich sein».
40 Credo che una classificazione degli scarabei in base ai «dati strutturali» innanzitutto, sia suscettibile di una definizione più rigorosa rispetto ad una classificazione fondata prevalentemente sulla varietà dei contenuti filologici ο iconografici delle legende: prescindendo, infatti, dal discorso innanzi condotto sull’ambiguità e le oscurità di queste ultime, va considerato il fatto che la forma entomologica dello scarabeo e la sua composizione materiale non sembrano essere apparentemente vincolati a quelle convenzioni di varia natura (magico-religiosa, politica ecc.), che hanno provocato la ripetizione delle legende: essi parrebbero, invece, essere stati sensibili ad esigenze «estetiche» e quindi devono essere stati soggetti a variazioni di moda storicamente meglio individuabili. Ciò non esclude, tuttavia, che certi aspetti compositivi, come la scelta del materiale ο il colore dello smalto, possano essere stati influenzati da istanze cultuali. Cfr. Vercoutter, op. cit., p. 74.
41 Op. cit., p. IX: «Of course, none of the religious ideas that were typified to the Egyptian by his Scarab were known to the foreign owners or makers of Scarabs».
42 Per le testimonianze sul significato magico-religioso relativo ai concetti di «fertilità» e di «salute», particolarmente riferiti alla donna ed al bambino, tanto nell’Antico Egitto quanto nell’Italia del Cinquecento e dell’Ottocento, nonché nel Sudan, e nell’Egitto moderni. Cfr. Dawson, Studies in the Egyptian Medical Texts, IV, 18, The Beetle in Medicine, Journal of Egyptian Archaeology, XX, 1934, p. 187; P. Valeriano Bolzano, I Ieroglifici, ecc., Venetia, 1625, pp. 101-102; Woodrooffe, op. cit., p. 31; E.A.W. Budge, Egyptian Magic, London, 1899 (rist., London, 1972, p. 39).
43 Cfr. Plinio, XXX, 30.
44 Cfr. Buchner-Boardman, op. cit., pp. 22-23.
45 Su questo argomento è in corso di preparazione una ricerca da parte dell’A. Vedi anche d’Este, op. cit., I, pp. 127-28.
46 Sugli accessori vedi E. Vernier, Bijoux et orfèvreries, I-IV, Le Caire, 1907-27; id., Note sur les bagues égyptiennes, Bull. Inst. Franç. Arch. Orient., VI, 2, 1908, p. 181 ss.; ed il recente A. Wilkinson, Ancient Egyptian Jewellery, London, 1971.
47 Op. cit., pp. 228-29. Vedi anche d’Este, op. cit., I, pp. 35-44.
48 Un esemplare riprodotto dal Newberry (cfr. P. Newberry, Scarabs, London, 1906, p. 93, fig. 108) è datato alla XIII Dinastia, ma l’autore non indica la provenienza dell’esemplare.
49 Questo tipo sembrerebbe caratteristico di aree extra-egiziane, come a Cartagine, ove appare a partire dal sec. VII. Cfr. Vercoutter, op. cit., tav. II ss. L’abbondanza di esemplari in argento, riscontrata a Pithekoussai e soprattutto a Cuma, indurrebbe ad ipotizzare una loro possibile manifattura in Campania: tale eventualità induce a riconsiderare il ruolo di questa regione che potrebbe essere stata, rispetto a contesti rispetto ad essa più recenti e quantitativamente meno rappresentati, il centro di produzione e di diffusione di siffatti prodotti.
50 Il Pieper (cfr. Pieper, op. cit., p. 50) evidenziava, nel 1925, la necessità di una prassi di lavoro interdisciplinare fra egittologi e archeologi classici per lo studio di materiali rinvenuti in aree culturalmente di competenza di questi ultimi, anche se, al contempo, nutriva qualche incertezza sulla pratica attuabilità di tale istanza: «Freilich ist dabei ein Zusammenarbeiten namentlich mit den italienischen und griechischen Fachgenossen unbedingt erforderlich. Wie weit das heute möglich ist, weiss ich nicht».
Oggi questa prassi è una realtà alla Soprintendenza alle Antichità di Napoli e Caserta, nel cui ambito sono aperte allo studioso serene condizioni di lavoro grazie all’illuminato interesse del Soprintendente, Prof. A. de Franciscis, e della Direttrice del Museo Archeologico di Napoli, Prof.ssa E. Paolini Pozzi, per una completa ed organica conoscenza di tutti i reperti della Campania antica, fra cui anche quelli di tipo egiziano, particolarmente scarabei, sino al presente relegati in una condizione alla quale ben potevano addirsi le parole pronunziate un secolo fa dal Petrie (W.M.F. Petrie, Historical Scarabs, London, 1889, p. 6): «The neglect of this subject is too apparent in the museums... the misplacement of perfectly distinct scarabs into a general limbo of unnamed ones, and the wrong names that occur, showing how little attention has been given to them».
Ad essi vanno, pertanto, i miei ringraziamenti e così anche agli altri studiosi della Soprintendenza che mi hanno aiutato in una costante verifica di idee: specialmente al Dott. G. Buchner che mi ha liberalmente concesso di usufruire dei dati di un contesto protostorico, qual è quello di Pithekoussai, fra i più interessanti e i più rigorosamente definiti del Mediterraneo; ed al Dott. W. Johannowsky, che con cortesia mi ha fornito notizie su un’area ancora inedita, rappresentata da alcune interessanti peculiarità tipologiche.
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