Nuovi aspetti e problemi posti dagli scavi di Pithecusa con particolari considerazioni sulle oreficerie di stile orientalizzante antico
p. 59-86
Texte intégral
1Il sito dell’abitato principale e della necropoli di Pithecusa sono stati correttamente identificati fin dalla fine del ‘700 da un dotto paesano. È stato, infatti, merito del medico e sacerdote Francesco De Siano di Lacco Ameno1 aver osservato per primo che sul promontorio di Monte di Vico, che forma l’estremità NW dell’isola d’Ischia, si trova gran quantità di rottami di tegole e di vasi antichi, mentre nell’adiacente Valle di San Montano si scoprono delle tombe pagane, e di aver dedotto da ciò che qui sia stata la sede della colonia greca2. Dalla sua descrizione appare che egli ha osservato tuttavia soltanto tombe di età ellenistica in casse di tufo e tombe a tegole di età romana, mentre altre fonti riferiscono di tombe, a inumazione e a cremazione, con vasi a figure rosse, scavate nella Valle di San Montano nella prima metà del secolo scorso3.
2Il Beloch riferisce queste notizie e deduce che la città dev’essere stata situata sul Monte di Vico almeno dal V sec. in poi, mentre ritiene impossibile precisare se già il primo stanziamento euboico fosse stato nello stesso sito4.
3Il Pais, in un articolo apparso per la prima volta nell’anno 1900 e più tardi ristampato altre tre volte, pensa che la colonia più antica si debba cercare piuttosto sulle colline che si estendono tra Porto d’Ischia e Casamicciola5. Eppure sarebbe bastato fare una passeggiata sul Monte di Vico per raccogliervi in superficie cocci geometrici e protocorinzi, cosὶ come feci io per la prima volta, da ragazzo, agli inizi degli anni ‘30!
4Nello stesso articolo, il Pais ha ben intuito l’importanza di Pithecusa ed ha invocato ricerche archeologiche ad Ischia «che gioverebbero forse» — egli scrive, si badi bene, nell’anno 1900 — «a trovare la chiave a più di un problema relativo alle più vetuste relazioni commerciali fra i Greci e le popolazioni indigene della Penisola»6. Ma l’invito non è stato mai raccolto dagli archeologi napoletani, troppo affascinati dai tesori di Pompei ed Ercolano.
5Sebbene i giacimenti tanto della necropoli di Cuma quanto di quella di Pithecusa fossero stati già individuati tra la fine del’700 e l’inizio dell’800, le loro sorti sono state tuttavia interamente diverse. Mentre la prima è stata ampiamente frugata senza alcun metodo scientifico durante tutto il secolo scorso, tanto che oggi non possediamo che tristi resti smembrati e incompleti dei corredi tombali cumani, la seconda non è stata mai oggetto di scavi più consistenti e, ad eccezione delle non molte tombe di età piuttosto recente rinvenute nei tempi passati, è rimasta praticamente inviolata finché vi iniziai le prime ricerche nel 1952. Ciò è dovuto a due circostanze, di cui la principale è la cattiva e spesso pessima conservazione del materiale archeologico, che dipende dal fatto che la necropoli è situata in una zona termale. Più si scava in profondità e più il terreno è riscaldato da fumarole vulcaniche, tanto che in alcune tombe, al momento dell’apertura, abbiamo misurato fino ad un massimo di 63°. Questo calore umido produce effetti spesso disastrosi, specialmente sulla ceramica, ma anche sui metalli. Il consolidamento e restauro del materiale pone perciò problemi del tutto particolari e spesso richiede un lungo e paziente lavoro. L’altra circostanza che ha contribuito a conservare intatta la necropoli di Pithecusa, è la notevole profondità alla quale si trovano le tombe, almeno nella maggior parte dell’area, profondità dovuta all’apporto di terreno alluvionale. Nella zona centrale, dove sono stati eseguiti gli scavi più recenti, le prime tombe romane si rinvengono infatti ad una profondità di 4-5 m., mentre le tombe ad inumazione dell’VIII sec. stanno a 7-8 m. dal piano di campagna attuale. Questi aspetti negativi, la cattiva conservazione del materiale e la profondità delle tombe, vengono tuttavia largamente compensati dallo stato praticamente intatto della necropoli. Favorevole è stato anche il fatto che il continuo rialzamento del piano di campagna per mezzo del terreno dilavato dalle colline circostanti è avvenuto in parte già durante il periodo in cui la necropoli è stata usata e che comprende all’incirca un millennio. Soltanto in tal modo, scomparendo sotto la terra accresciuta, hanno potuto conservarsi i piccoli tumuli delle tombe a cremazione. Diversamente questi cumuli di pietra, trascorso un certo periodo di tempo, dopo il quale le tombe non furono più rispettate, erano inevitabilmente soggetti ad essere demoliti con facilità per riusare le pietre. Tanto è vero che è questo il primo esempio di simili tombe che si conosca, mentre non hanno certamente costituito una peculiarità di Pithecusa. Si deve presumere piuttosto che sia stato un tipo molto più diffuso di sepoltura che altrove non si è conservato. Per la stessa ragione si riscontra soltanto raramente a S. Montano che tombe più antiche siano state danneggiate seriamente da sepolture a fossa più recenti.
6Molto meno favorevole è la situazione dell’abitato a Monte di Vico. Qui la coltre del terreno, anziché accrescersi, è soggetta piuttosto ad essere dilavata, specie nei punti più alti. Né si è avuto un apprezzabile apporto di cenere vulcanica proveniente da eruzioni avvenute in età storica in altre località dell’isola. Nella valle di S. Montano sono state riscontrate bensì le testimonianze di tre eruzioni, la prima avvenuta intorno all’anno 600 a.C., le altre due di età romana imperiale, ma si tratta di straterelli di cenere soltanto qua e là conservati, che raggiungono al massimo una ventina di cm. Si aggiunga che il sito è stato abitato più ο meno densamente fino all’inizio del I sec. a.C., a giudicare dai cocci che si rinvengono sparsi in superficie. Le strutture deperibili delle case dell’VIII e VII sec. saranno state quindi già distrutte durante la vita stessa dell’abitato. Per di più la superficie di Monte di Vico è stata terrazzata e coltivata a vigneto da molti secoli7.
7Fortunatamente questa perdita viene compensata dalla recente scoperta di un abitato suburbano sul margine della collina di Mezzavia situata dirimpetto al Monte di Vico, e particolarmente nella località detta Mazzola, abitato la cui fondazione risale al periodo più antico finora documentato a Pithecusa, mentre è stato molto presto nuovamente abbandonato, in parte già nel primo quarto del VII sec., e in seguito mai più rioccupato. Questo precoce abbandono, insieme ad un apporto abbastanza notevole di terreno alluvionale proveniente dalla zona più alta della stessa collina, hanno permesso una conservazione relativamente molto buona delle strutture murarie dell’VIII-VII sec.8.
8Prima di dare ora uno sguardo un po’ più particolareggiato alla topografia dell’insediamento di Pithecusa, occorre rilevare che la configurazione morfologica della zona interessata, l’angolo NW dell’isola, non ha subito mutamenti profondi almeno dalla metà del II millennio a.C. fino ad oggi. Era sembrato molto probabile che la particolareggiata descrizione che Timeo (apud Strab. V, 248) dà di una eruzione ischitana avvenuta poco prima del suo tempo, μικρòν πρὸ ἑαυτοῦ, — quindi verso la prima metà del IV sec. a.C. — si debba identificare con quella di Zaro. E ciò non soltanto per l’aspetto ancora relativamente fresco di questa colata da cupola di ristagno, ma soprattutto perché la descrizione di Timeo si addice bene al meccanismo di questa grandiosa eruzione che ha prodotto oltre 100 milioni di metri cubi di trachite formando un promontorio che si protende per quasi un chilometro nel mare e il cui versante NE delimita verso SW la valle e la baia di S. Montano, cioè la necropoli. L’identificazione eruzione di Timeo = Zaro, già proposta nel 1884 dal sismologo G. Mercalli, è stata accettata, nel 1930, dal vulcanologo A. Rittmann, e in un primo tempo anche da me stesso9, finché non è apparso che i tumuli delle tombe greche dell’VIII sec. sono costruiti prevalentemente con la caratteristica trachite di Zaro e che sulla lava stessa di Zaro sono stati impiantati l’insediamento dell’VIII sec. di Mezzavia-Mazzola ed un sottostante insediamento della civiltà appenninica dell’età del bronzo.
9L’unico mutamento di un certo rilievo, a prescindere da piccoli cambiamenti in seguito all’erosione delle pendici scoscese di Monte di Vico, è dovuto all’abbassamento bradisismico cui l’isola è soggetta almeno dall’età romana in poi, ma probabilmente già prima. Dai tempi romani ad oggi l’isola si è abbassata di ca. 5-6 m., dall’VIII sec. a.C. forse anche di 7-8 m.10. L’abbassamento non avrà inciso tanto sulle coste rocciose che scendono a picco, quanto sulla configurazione delle due spiagge ai lati del promontorio di Monte di Vico: l’insenatura della baia di S. Montano sarà stata meno profonda, la spiaggia dei pescatori sull’altro versante dev’essere stata più larga.
10Uno sguardo alla carta fa vedere quanto sia favorevole la posizione della località prescelta dai coloni di Calcide e Eretria per l’impianto della nuova città. Il promontorio di Monte di Vico, che forma la punta nord-occidentale dell’isola, si protende nel mare con coste a picco ed anche verso l’entroterra presenta pendii scoscesi facilmente difendibili che racchiudono in alto un’area abbastanza vasta e relativamente pianeggiante di forma pressocché triangolare, con uno spazio abitabile di almeno ca. 6 ettari. I due approdi alla base del promontorio assicuravano riparo secondo i venti. Quello della exspiaggia dei pescatori, aperto verso E, che doveva costituire il porto principale, è riparato da tutti i venti, ad eccezione di quelli del I quadrante, dai quali è invece protetto l’approdo di S. Montano, aperto verso NW. La posizione di Pithecusa è dunque analoga a quella di molti altri insediamenti ellenici costieri situati su promontori con doppia possibilità di approdo.
11Nessuna traccia è rimasta dell’antica via di accesso alla città. La morfologia del terreno non consente peraltro un accesso che non sia troppo disagevole in un punto diverso da quello della vecchia strada moderna che sale alla base orientale del promontorio (sostituita ora dalla nuova strada carrozzabile costruita nel 1961). Poiché le pendici sono qui costituite da materiale vulcanico poco coerente, è molto probabile che la sede stradale antica non corrisponda esattamente a quella moderna, ma sia da tempo franata. Esistono ancora un paio di viottoli che scendono direttamente nella valle di S. Montano, lungo il pendio scosceso di Monte di Vico verso SW, ed è probabile che anche qui ci sia stata già in antico qualche strada, che tuttavia, data la sua ripidità, non poteva essere che una via secondaria.
12Dalla raccolta sistematica dei cocci in superficie, fatta negli anni passati, quando era più facile e fruttuosa in seguito alla intensa coltivazione del terreno — oggi i vigneti sono semiabbandonati e il terreno in parte coperto di rovi — si può dedurre che tutta la superficie di Monte di Vico era abitata durante l’ultimo quarto dell’VIII sec. ed anche cocci del periodo più antico, cioè del terzo quarto dell’VIII sec., sono stati trovati sparsi un po’dovunque. Soltanto la zona più alta che culmina con il semaforo militare a quota 115 m. — e che recentemente è stata deturpata con la costruzione di un grande albergo — è risultata del tutto sterile, ma è da presumere che qui gli strati culturali siano stati interamente dilavati dalle piogge.
13L’unico posto dove finora è stato eseguito uno scavo a Monte di Vico si trova al margine della pendice orientale del promontorio, dove, in occasione della costruzione di una villa, nel 1965, è stato rinvenuto uno scarico antico ricchissimo di materiale. Lo chiameremo «Scarico Gosetti», dal nome della proprietaria della villa. Purtroppo si tratta di uno scarico secondario, con il quale è stato riempito, verso la fine del II ο l’inizio del I sec. a.C., un burrone naturale inciso dalle acque piovane nella cenere vulcanica. Il materiale di riempimento, che deve provenire da uno spianamento eseguito in qualche posto più in alto, non era stratificato, ma conteneva, confuso in modo caotico, un’enorme quantità di materiale archeologico che va dalla ceramica della civiltà appenninica dell’età del bronzo — con bellissimi pezzi a decorazione incisa — fino alla tarda ceramica campana a vernice nera. La sola lacuna è costituita dalla mancanza assoluta di ceramica dell’età del ferro preellenica, lacuna che si è riscontrata anche tra i cocci raccolti in superficie a Monte di Vico e nelle altre zone di ricerca (necropoli e Mezzavia) che invece hanno ugualmente fornito resti della civiltà appenninica. Sembra dunque che, a differenza di quanto è avvenuo a Cuma, i coloni si siano insediati ad Ischia in una località allora disabitata dagli indigeni. Che altre zone dell’isola fossero abitate al momento dell’arrivo dei coloni, insegna il villaggio dell’età del ferro sul Castiglione, tra Porto d’Ischia e Casamicciola11.
14Abbondantissimo è, nello scarico Gosetti, il materiale dell’VIII sec.12, tanto del periodo LG I quanto del LG II, meno frequente quello del VII, VI e V sec., e di nuovo molto abbondante quello di età ellenistica.
15Per l’impianto della necropoli, come è ben noto, è stata scelta la valle di S. Montano che si estende in direzione SE-NW per una lunghezza di 500 m. e una larghezza tra 70 e 150 m., delimitata dal fianco SW di Monte di Vico da una parte e da un tratto del fianco NE della colata di lava di Zaro dall’altra parte.
16Non c’è dubbio che il principale centro abitato di Pithecusa sia stato fin dall’inizio situato sul Monte di Vico. Tuttavia, fin dal periodo più antico per ora documentato, l’insediamento non era limitato al promontorio, ma si estendeva anche sul versante NE della collina di Mezzavia, distante tra 200 e 400 m. ca. dal piede meridionale di Monte di Vico e separate da questo da una zona bassa e pianeggiante che si prolunga verso NW nella valle di S. Montano.
17Dagli indizi finora raccolti appare che questo abitato suburbano si estendeva per una lunghezza di ca. 500 m. È da presumere, già per la morfologia del terreno, che non si sia trattato di un abitato continuo, ma di una serie di piccoli nuclei distinti, di cui il solo finora meglio definito e parzialmente scavato, quello della località Mazzola, occupa un’area di ca. 5-6000 mq. Altri due nuclei simili, uno a poca distanza da Mazzola verso NW, l’altro più distante verso SE, sono stati finora accertati soltanto attraverso cocci. Sembra probabile che altri ancora possano essere identificati proseguendo le ricerche. Tutti questi nuclei abitati sono stati fondati durante il periodo LG I ed hanno avuto la loro massima fioritura fino alla fine dell’VIII sec. Il nucleo di Mazzola è stato parzialmente abbandonato già entro il primo quarto del VII sec. e desertato definitivamente intorno alla metà del VI sec. Sembra che lo stesso valga per gli altri due nuclei non ancora meglio esplorati. In tutta la zona, comunque, non abbiamo finora trovato un coccio che sia più recente della metà del VI sec.
18Non possiamo dilungarci in questa sede a descrivere lo scavo di Mazzola. Ricordiamo soltanto che sono stati messi in luce un edificio a pianta ovale, uno absidato ed altri a pianta rettangolare. Soltanto l’edificio absidato sembra essere stato una casa di abitazione, gli altri erano officine metallurgiche. Una era l’officina di un fabbro ferraio, con il posto della fucina indicato dal suolo fortemente arrossato dal fuoco e cosparso di innumerevoli minuscoli pezzettini di ferro, oltre a molte loppe e scorie di ferro. Un’altra era l’officina di un bronziere con una piccola fucina costruita in mattoni crudi, poi cotti dal fuoco, e numerosi residui della lavorazione, uno scarto di fusione di una fibula, piccoli ritagli di lamina e filo di bronzo, un piccolo lingotto di bronzo ο rame, scorie di fusione verdastre, etc.
19Nessun rinvenimento che si riferisca all’VIII e VII sec. è stato fatto finora nella zona bassa e pianeggiante che si estende tra il piede della collina di Mezzavia e quello di Monte di Vico e che si trova oggi a quota 5 m. ca. sul livello del mare (ma parte di questa altezza è dovuta a riempimento di epoca recentissima). Né c’è speranza di poter ancora rinvenirvi resti di quel periodo, non soltanto perché la zona è oggi piuttosto intensivamente fabbricata, ma sopratutto perché gli strati più antichi, in seguito al bradisismo, si trovano al di sotto del livello del mare. In un saggio eseguito davanti alla Chiesa di Santa Restituta, infatti, uno strato con cocci del V sec. e qualche blocco di tufo è stato trovato a ca. 1 m. sotto il pelo dell’acqua e similmente, durante la costruzione dell’albergo Reginella, negli anni ’50, sono stati riscontrati avanzi di muri in grandi blocchi di tufo sommersi nell’acqua — e il livello dell’VIII sec. deve trovarsi a profondità notevolmente maggiore.
20Questa zona pianeggiante situata tra le due colline abitate, fin dall’inizio, non poteva essere rimasta deserta. Confinante con l’approdo Est — che doveva costituire la zona portuale principale perché è quella più riparata e situata accanto alla via d’accesso alla città — essa rappresenta anzi un’area ideale per gli impianti connessi con l’attività portuale e commerciale, magazzini e depositi di merci, mentre lungo la spiaggia che si estende verso SE per ca. 500 m. fino alla roccia del Capitiello, potevano trovar posto anche gli indispensabili cantieri navali per le riparazioni e costruzioni delle navi. È molto probabile che fossero situate in questa zona anche le officine figuline. Un indizio in questo senso è dato dal rinvenimento di resti di fornaci figuline di età romana ed ellenistica, proprio qui, sotto ed accanto alla chiesa di Santa Restituta. È da notare che in questa zona, oltre alle sorgenti termali, ci sono, ο meglio c’erano fino a pochi decenni fa, anche pozzi con acqua dolce fredda, che erano usati per irrigare gli orti oggi spariti, e in antico potevano fornire anche l’acqua indispensabile per la lavorazione della creta. La grande quantità di ceramica di fabbrica locale appartenente al periodo LG I trovata, più che nella necropoli, soprattutto negli scavi degli abitati, tanto nello scarico Gosetti a Monte di Vico quanto a Mazzola, — tra cui molta ceramica geometrica figurata che per qualità non è seconda a quella della madre-patria —, insegna che quest’industria, fin d’allora, ebbe un notevole volume a Pithecusa, grazie anche all’ottima argilla figulina che si trova nell’isola stessa.
21Nel periodo LG I, ossia tra il 750 e il 725 ca., la città di Pithecusa ha già raggiunto la sua massima espansione topografica ed occupa un’area vasta, delimitata, verso l’interno, da una linea all’incirca retta in direzione NW-SE, che va dalla spiaggia-approdo di S. Montano, limite SW della valle di S. Montano-necropoli, collina di Mezzavia fino al nucleo abitato di Mezzavia SE, per una lunghezza di 1200 m., e da qui fino alla costa per una larghezza tra 700 e 500 m. Un’area dunque di ca. 3/4 di chilometro quadrato. Tra il margine settentrionale della zona abitata di Monte di Vico, con cocci del periodo LG I, ed il nucleo abitato dello stesso periodo di Mezzavia SE corre una distanza, in linea d’aria, di esattamente 1 Km. (Cf. pl. I).
Un impianto così vasto non può essere sorto d’un tratto. Eppure la ceramica più antica trovata finora a Pithecusa non risale oltre il periodo LG I, con le kotylai tipo Aetos 666, mentre manca il tipo del vaso da bere che caratterizza il periodo precedente, l’MG II, vale a dire le cosiddette «coppe cicladiche» ο «skyphoi a chevron», le quali si trovano invece, come è noto, nelle tombe indigene dell’età del ferro preellenica di Cuma, a Capua, a Pontecagnano, a Veio13. Ci limitiamo a constatare questo fatto, e ad osservare che sarebbe metodologicamente sbagliato voler trarne una deduzione. È possibile che la fondazione di Pithecusa sia avvenuta realmente in età posteriore al fiorire degli «skyphoi a chevron» — e allora non ci rimane che ammettere l’esistenza di commerci precoloniali per spiegare la loro diffusione nelle tombe indigene della Campania e dell’Etruria —, ma è ugualmente possibile che la circostanza di non averle ancora trovate ad Ischia sia puramente casuale. È vero che il materiale dell’VIII sec. che possediamo da Ischia è ormai molto ragguardevole, ma non si deve dimenticare:
Mi sembra superfluo inoltrarsi ora in discussioni sulla data assoluta della fondazione di Pithecusa. Possiamo dire soltanto che finora non abbiamo trovato nulla che debba essere necessariamente più antico del 750 ca., secondo gli schemi cronologici oggi accettati, anche se alcuni vasi potrebbero forse risalire a una data leggermente più alta. Considerata la vasta estensione che l’insediamento di Pithecusa ebbe nel terzo quarto del secolo, appare comunque più probabile che la sua fondazione sia avvenuta già entro il secondo quarto dell’VIII sec.
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Prima di accennare ancora ad alcune delle molteplici informazioni che dalle loro tombe e dai resti dei loro abitati si possono ricavare sulla vita e sulle attività dei pithecusani della seconda metà dell’VIII sec. a.C., vorrei premettere una breve digressione metodologica. L’epoca in cui le necropoli erano considerate anche dagli studiosi semplicemente come miniere di oggetti antichi di interesse artistico ο antiquario è tramontata da molto tempo. Si deve osservare, tuttavia, come perduri ancora oggi talvolta un’attitudine che, se non è ugualmente deleteria, è però anch’essa deprecabile e derivante dalla stessa mentalità, cioè dall’interesse limitato ad una ricerca di carattere prevalentemente antiquario. Le necropoli non vengono più considerate come miniere di singoli oggetti, ma come miniere di associazioni di oggetti in base alle quali ognuno cerca di elaborare il suo proprio sistema di ripartizioni in periodi, fasi e sottofasi. Si cerca ancora la «bella» tomba ricca di oggetti e magari si pubblica soltanto una scelta delle tombe più «significative» in tal senso. In questo modo tutte le informazioni sulla struttura sociale e sulla statistica della popolazione vanno irrimediabilmente perdute. L’ideale sarebbe di poter scavare la necropoli di un insediamento interamente. Purtroppo ciò non sarà mai attuabile in pratica, anche quando le condizioni fossero tali che uno scavo integrale sarebbe in teoria ancora possibile, come è il caso proprio di Pithecusa, semplicemente per il costo di una simile impresa. Ma almeno si dovrebbe cercare di scavare delle aree congiunte il più possibile vaste, rilevandone la pianta quotata esatta e in scala sufficientemente grande, e tenendo conto di ogni sepoltura, sia essa ricca, ο povera, ο senza corredo.
Ma ritorniamo a Pithecusa. Non discuterò delle informazioni riguardanti il commercio, perché non potrei aggiungere molto alle cose già note: i numerosissimi sigilli del Lyre-player Group provenienti dalla Siria settentrionale, gli scarabei e gli amuleti egiziani ο egittizzanti ugualmente numerosi (che ora vengono studiati in modo approfondito dal Dott. Fulvio De Salvia)14, la ceramica fenicia presente tanto con anfore quanto con vasi di piccole dimensioni, le anfore SOS molto frequenti, la ceramica geometrica apula, le anforette d’impasto dall’Etruria meridionale, etc.
Non tratterò nemmeno dell’industria ceramica, alla quale ho già accennato, e come il materiale proveniente dagli abitati abbia allargato e completato in misura inaspettata l’immagine della ceramica di produzione locale che prima era limitata a quella deposta nelle tombe, rivelando l’esistenza di una classe di ceramica euboica tardo-geometrica, spesso figurata, fabbricata a Pithecusa; e come questa scoperta faccia conoscere finalmente la fonte dalla quale deriva quella ceramica geometrica localmente prodotta in Etruria la cui ispirazione vagamente cicladica era stata da tempo notata15.
Né parlerò delle testimonianze dell’industria siderurgica — oltre a quelle cui ho già accennato rinvenute nell’abitato di Mazzola, vi sono quelle provenienti dallo scarico Gosetti —, loppe e scorie di ferro, bocche di mantice da forno siderurgico (tuyères) e, particolarmente significativo, un pezzo di minerale di ferro allo stato naturale sicuramente proveniente dall’isola d’Elba16.
Tralascerò anche le informazioni sull’uso della scrittura a Pithecusa nell’VIII sec. e voglio accennare soltanto che alla ormai da tempo famosa cosiddetta «Coppa di Nestore» si è aggiunto un numero considerevole di graffiti, sempre dell’VIII sec., alcuni dalla necropoli, ma la maggior parte proveniente dagli abitati (Mazzola e scarico Gosetti), anche se non sono così spettacolari essendo ο frammentari ο molto brevi, ed inoltre una firma di pittore vascolare, dipinta su un cratere tardo-geometrico di fabbrica locale, da Mazzola, purtroppo mancante dell’inizio del nome. Vi si legge ...]ινος μ’ἐποίεσε — ed è la più antica firma di pittore che si conosca17. È confermato dunque abbondantemente che la scrittura era di uso corrente a Pithecusa nella seconda metà dell’VIII sec.
Vorrei soffermarmi invece su una circostanza che finora non è stata ancora chiaramente rilevata, e cioè che la necropoli di Pithecusa era divisa in appezzamenti familiari.
Come è noto, cremazione ed inumazione sono state usate contemporaneamente a Pithecusa. La cremazione era riservata in genere agli adulti — uomini e donne — ma ci sono anche alcuni casi di giovanetti cremati. Le tombe a cremazione dell’VIII e VII sec. finora rinvenute a Pithecusa sono senza eccezione a tumulo. Si tratta di piccoli tumuli del diametro di 1,50-4 m., alti in origine ca. 1,00-1,50 m., i quali coprono una lente di terra nera di forma tondeggiante che costituisce gli avanzi del rogo. I roghi non furono mai accesi sul posto dove fu eretto il tumulo, ma su un ustrino nelle vicinanze, che non è stato ancora scoperto, e da dove tutti gli avanzi indistintamente furono portati sul posto della sepoltura definitiva ed accumulati in genere in un leggero incavo, talvolta anche direttamente sulla superficie pianeggiante del piano di campagna, e ricoperti col tumulo. Si trovano perciò nella lente di terra nera, misti in giacimento caotico, i frammenti di ossa cremate, di vasi e di ornamenti personali bruciati e legno carbonizzato.
Inumati furono invece i bambini e fanciulli, in alcuni casi anche adolescenti e giovani intorno ai 18-20 anni. Le tombe ad inumazione sono a fossa, in genere con cassa di legno, sul coperchio della quale furono posate alcune pietre, mentre altre pietre di rincalzo furono spesso incastrate tra la cassa e le pareti della fossa. I neonati sono sepolti ad enchytrismos, in anfore ο più raramente in pithoi. In superficie, le tombe ad inumazione erano contrassegnate da segnacoli costituiti da cumuli più ο meno grandi di pietre. Soltanto in rari casi, e per tombe ad inumazione particolarmente ricche, fu eretto al di sopra della fossa un vero e proprio tumulo, costruito in modo identico ai tumuli a cremazione.
Un gruppo a parte formano le contemporanee sepolture ad inumazione senza corredo, in fosse che sono in genere molto meno profondamente scavate, sempre senza cassa di legno e senza pietre. Talvolta il morto si trova in posizione rannicchiata, cosa che non si riscontra mai tra i sepolti con corredo che sono sempre in posizione supina.
La pianta della necropoli, a prima vista, presenta una disposizione caotica delle tombe, nella quale non sembra possibile di scorgere alcun sistema. La chiave per capirlo è fornita dai tumuli delle tombe a cremazione. I singoli tumuli non sono isolati, ma formano degli agglomerati, i quali a loro volta sono invece isolati. Entro ciascun agglomerato i tumuli sono stati successivamente agglutinati al tumulo precedente. Per l’agglutinazione sono stati impiegati due metodi diversi (vedi lo schema pl. II). Nel primo, e più economico, la base del muro perimetrale del tumulo successivo non forma un cerchio intero, ma abbraccia una parte del tumulo preesistente, che viene parzialmente coperto e inglobato. In tal caso la terra nera del tumulo Β si trova immediatamente accostata alla faccia esterna della base del muro perimetrale del tumulo A. Nel secondo metodo un tratto più ο meno grande del tumulo A viene addirittura demolito e poi ricostruito inglobandolo nel tumulo B. In questo caso la lente di terra nera del tumulo Β si trova immediatamente accostata oppure parzialmente sovrapposta a quella di A. Soltanto in rari casi avviene che entro il medesimo agglomerato un tumulo non sia in questi modi agglutinato ad uno preesistente, ed anche allora i tumuli non sono veramente isolati, ma sempre strettamente accostati. È evidente che questi agglomerati di tumuli intenzionalmente concatenati devono rappresentare tombe successive di membri di una stessa famiglia. Una parte degli agglomerati scoperti si sono potuti mettere soltanto parzialmente in luce. Tre agglomerati, di cui due sono a loro volta congiunti e sono da considerarsi piuttosto come unico, sono stati invece interamente scavati. Ciascuno copre una striscia di terreno lunga da 14 a 17 m. ca. e larga da 6 a 10 m. Segnali di termini, che pur dovevano esistere in origine, non si sono potuti osservare. Forse si può immaginare che fossero costituiti da paletti di legno.
Le fosse delle tombe ad inumazione dei bambini e giovani furono scavate nello spazio ancora libero da tumuli. Mano mano che aumentava il numero delle sepolture a cremazione di un appezzamento familiare, le tombe a fossa venivano coperte dai tumuli. Abbiamo perciò entro ciascun appezzamento tanto una successione stratigrafica orizzontale, molto chiara soprattutto per le tombe a cremazione, che una successione stratigrafica verticale, con la sovrapposizione dei tumuli alle tombe ad inumazione. Si ricava così un grandissimo numero di dati per la cronologia relativa delle singole tombe e dei loro corredi. Ma questo non è tutto. Oltre alle informazioni utili alla ricerca antiquaria scaturiscono anche informazioni sulla struttura demografica e sulla struttura sociale degli abitanti di Pithecusa.
Una approfondita elaborazione dei dati di statistica demografica non è stata nemmeno iniziata ancora, ed appare del resto opportuno attendere che alle 592 tombe dell’VIII e VII sec. che vengono ora pubblicate nel volume «Pithecusa I» (insieme a 131 tombe più recenti) si possano aggiungere le tombe dello scavo successivo, in parte ancora da completare, e che saranno di numero all’incirca uguale. Vogliamo accennare soltanto che praticamente per tutte le tombe con corredo dell’VIII e VII sec. è stato possibile di accertare il sesso dell’individuo. È apparso infatti con chiarezza che tutti gli individui che portano una ο più fibule su ciascuna spalla (comprendenti fibule di tutti i tipi con arco a curva semplice) sono femminili, mentre quelli senza fibule ο con una sola fibula ad arco serpeggiante su una spalla ο sul petto sono maschili. Ugualmente si può determinare cosi anche il sesso dei cremati in base alle fibule.
Per quanto riguarda l’età degli individui inumati è stato possibile determinarla in molti casi con precisione in base ai denti18, in altri, dove questi non sono conservati, almeno approssimativamente in base alla lunghezza dello scheletro. Anche per le 112 tombe a cremazione sarà possibile accertare per lo meno in modo approssimativo l’età degli individui in base allo studio delle ossa cremate, che rimane ancora da compiere. (Le ossa cremate, anche se sono molto frammentarie, si conservano tuttavia incomparabilmente meglio delle ossa inumate che a S. Montano sono sempre in pessime condizioni, mentre non si conservano invece praticamente mai i denti dei cremati).
Per quanto riguarda le informazioni sulla struttura sociale sono da ricordare anzitutto le tombe ad inumazione senza corredo ο con corredo poverissimo che sono frammischiate, nello stesso appezzamento familiare, a quelle con corredo. A volte sono isolate, a volte accentrate in gruppi più fitti. Che non si tratti di tombe più recenti è dimostrato dal fatto che sono ugualmente sottoposte ai tumuli delle tombe a cremazione. A differenza delle tombe ad inumazione con corredo, un buon numero di esse appartiene ad individui adulti ο comunque sviluppati in altezza. Quasi sempre si tratta di fosse molto meno profondamente scavate rispetto al livedo del piano di campagna antico (che è indicato dal livello della base dei tumuli), spesso molto strette e corte, appena sufficienti per contenere il cadavere che non è mai deposto in una cassa di legno. Mentre avviene soltanto raramente che una fossa con corredo venga tagliata altro che marginalmente, e senza danneggiare il suo contenuto, da una successiva fossa con corredo, si osserva abbastanza frequentemente che scheletri senza corredo sono stati tagliati senza alcun rispetto da fosse con corredo. Si tratta evidentemente di individui di infimo rango sociale che venivano considerati con poco riguardo, sebbene venissero sepolti negli stessi appezzamenti familiari in mezzo alle tombe con corredo più ο meno ricco. Non possono essere che schiavi ο servi appartenenti alla famiglia.
Passando alle tombe con corredo, è da osservare che lo stato socio-economico dell’individuo sepolto, ovvero dei suoi genitori quando si tratta, come nella maggioranza dei casi, di tombe di bambini, non è determinato tanto dalla maggiore ο minore quantità della ceramica contenuta nella tomba, quanto dagli ornamenti personali e particolarmente dalla specie di metallo di cui consistono. Le tombe pithecusane più antiche sono in genere molto povere di ceramica e spesso contengono soltanto una semplice oinochoe e una tazza, kotyle ο skyphos, anche quando il morto è adornato da una parure relativamente ricca tutta d’argento, con fibule, anelli fermatreccia e collana con pendagli. L’uso di deporre nella cassa un numero spesso molto rilevante di balsamari — aryballoi e lekythoi — si afferma soltanto nel periodo LG II ed anche nelle tombe di questo periodo un numero maggiore di vasi non sempre corrisponde a ornamenti personali di metallo prezioso.
Tutte le tombe con corredo finora rinvenute a Pithecusa appartengono a famiglie di ceto medio e medio-basso, come si rileva dal fatto che mancano quasi completamente ornamenti personali di oro e sono molto rari quelli di elettro. Tra i diversi appezzamenti familiari si possono osservare delle differenze che evidentemente denotano un livello socio-economico diverso delle singole famiglie. Non possiamo entrare in una analisi più dettagliata dei singoli gruppi di tombe. Voglio ricordare soltanto due esempi. In uno degli appezzamenti familiari interamente scavati, che inizia con un tumulo appartenente alla fine del periodo LG I e termina con tumuli del pieno LG II, tutte le sepolture a cremazione femminili e parte delle sepolture ad inumazione femminili posseggono quella che era la parure standard delle donne di Pithecusa di un certo livello medio ο medio-superiore: su ciascuna spalla una fibula a sanguisuga di lamina d’argento, talvolta accompagnata da una ο più fibule di bronzo e in testa due anelli fermatreccia a spirali d’argento ο spesso anche d’argento placcato con sottilissima lamina d’oro, ai quali si aggiunge frequentemente una collana di pendaglietti a globo ο a ghianda di sottilissima lamina d’argento e più raramente una coppia di larghi bracciali di lamina ondulata d’argento. (A questo appezzamento appartiene anche la tomba a cremazione che conteneva la famosa «coppa di Nestore»).
In un altro appezzamento familiare che non è stato interamente scavato, quasi tutte le tombe a cremazione come ad inumazione, sono prive di oggetti d’argento e contengono invece fibule e anelli fermatreccia a spirale di bronzo. Nello stesso appezzamento sono particolarmente frequenti vasi locali d’impasto, che altrimenti si riscontrano soltanto molto raramente. Tra le tombe maschili ci sono alcune che contengono una piccola accetta di ferro — probabilmente uno strumento da carpentiere — e una di un giovane di ca. 21 anni, ad inumazione, con un intero arsenale di 11 istrumenti di ferro, accetta, scalpelli, punteruoli, coltello, anche essi di carpentiere. Abbiamo dunque una famiglia di artigiani, di livello sociale notevolmente più basso, che tuttavia possedeva anch’essa degli schiavi, come è attestato dalla presenza di tombe meno profonde senza corredo.
Gli appezzamenti familiari sono stati in genere rispettati a lungo e soltanto nella seconda metà del V sec., quando ormai i tumuli antichi erano interamente scomparsi sotto terra, per il continuo apporto di terreno alluvionale dilavato dalle colline circostanti, si riprese a seppellire nuovamente nella stessa area senza tenere più alcun conto delle sottostanti sepolture antiche.
A prescindere da alcuni casi di sepolture isolate — come per es. quello di un piccolo gruppo di sepolture del periodo LG I, una tomba a cremazione a tumulo con due tombe ad inumazione di bambini, che si trovano sotto l’appezzamento caratterizzato dalle parures di argento — abbiamo un solo caso in cui un appezzamento contenente tombe del periodo LG I e LG II è stato riassegnato ad un’altra famiglia nel periodo Medio-protocorinzio e da questa usato fino al periodo del Corinzio-medio. Ciò che restava fuori terra dei tumuli più antichi è stato demolito allora, e i nuovi tumuli sono stati sovrapposti. Ma si tratta, ripeto, di un caso eccezionale, presumibilmente dovuto al fatto che la famiglia si era estinta ο era emigrata. In genere tombe del VII sec. non si trovano sovrapposte ο frammiste a tombe dell’VIII sec.
Indicazioni di appezzamenti familiari sono stati finora raramente osservati in necropoli greche dell’VIII-VII sec. Si conosce soltanto qualche caso in cui è stata trovata una recinzione in superficie. È da pensare tuttavia che questo costume sia stato molto più diffuso, se non di uso generale, soltanto che è difficile accorgersene quando non si sono conservate tracce della delimitazione dei singoli appezzamenti19.
Come abbiamo già accennato, mancano interamente, tra le tombe finora scavate ad Ischia, sepolture di individui appartenenti al ceto sociale più elevato, quello dei nobili guerrieri. Nessuna tomba contiene infatti un’arma. Ma sarebbe errato voler dedurre da ciò che a Pithecusa vivessero soltanto commercianti ed artigiani. Non possiamo aspettarci di trovare tombe a cremazione con armi frammischiate negli stessi appezzamenti familiari caratterizzati da tombe maschili senza armi. La loro mancanza deriva soltanto dal caso che finora non ci ha fatto trovare ancora un appezzamento appartenente ad una famiglia del ceto nobile.
Dalle tombe a cremazione presso la Porta Occidentale di Eretria e da quelle del tutto analoghe, soltanto che sono in parte più ricche, trovate a Cuma, sappiamo come erano fatte queste tombe dei nobili, che senza dubbio devono essere ancora nascoste nella valle di S. Montano.
A differenza delle tombe a cremazione di persone di ceto medio, per quelle del ceto nobile si raccoglievano i frammenti delle ossa bruciate che venivano avvolte in un panno e deposte in un lebete di bronzo. Per gli uomini il corredo consiste in un numero più ο meno grande di armi, spade e cuspidi di lancia di ferro, poste sopra ο intorno all’urna, e di ornamenti personali deposti entro l’urna, per le donne soltanto in ornamenti personali. Ceramica non è stata mai deposta in queste tombe, con una sola eccezione a Cuma.
Delle 6 tombe a cremazione del piccolo sepolcreto presso la Porta Occidentale di Eretria20 4 contenevano armi, in numero variabile da una sola cuspide di lancia nella tomba 8 fino alle 4 spade di ferro, 5 cuspidi di lancia di ferro e una di bronzo della tomba più ricca n. 6; una tomba era femminile, contenente soltanto ornamenti personali, e una senza corredo. La copertura del lebete può essere formata da un secondo lebete capovolto, più spesso da un coperchio di piombo e anche da un disco di pietra. La protezione delle tombe consiste in una cassetta formata da lastre irregolari di pietra. In un caso, la tomba femminile 10, il lebete è custodito in un’unica grande pietra di forma cilindrica, incavata nel mezzo.
Da Cuma conosciamo 7 tombe di questo tipo, 6 dagli scavi Stevens21, più la tomba scavata da Pellegrini nel fondo Artiaco22. Τutte le tombe di Cuma hanno il lebete posto entro una custodia formata da un cubo ο parallelepipedo di tufo nel quale è scavato un vuoto che contiene l’urna, una differenza rispetto a Eretria dovuta ovviamente alla disponibilità del tufo vulcanico di facile lavorazione. 4 delle 7 tombe cumane presentavano entro il lebete di bronzo ancora un’urna d’argento che conteneva le ossa cremate. In quattro casi il lebete era coperto con uno scudo di lamina di bronzo decorata a sbalzo con motivi geometrici. È da notare che due di queste sono sicuramente femminili. In un caso lo Stevens ha notato tre cuspidi di lancia di ferro poste all’esterno del ricettacolo di tufo. Altre due delle 6 tombe Stevens con lebete sono presumibilmente maschili perché contengono fibule ad arco serpeggiante, ed è facile che resti mal conservati di armi di ferro poste all’esterno siano sfuggite alla attenzione.
La più ricca di tutte è la spettacolare tomba del fondo Artiaco che per fortuna è stata scavata e pubblicata accuratamente già 70 anni fa, cosa tanto più meritevole in quanto una buona parte del corredo è stata in seguito dispersa nel Museo Nazionale di Napoli. Ed è proprio a questa tomba che si collegano gli argomenti dei quali vorrei ancora parlare.
Si tratta di problemi di vasta portata di cui nessuno si è mai reso chiaramente conto, anche perché soltanto ora, con la scoperta delle tombe pithecusane, la questione appare in tutta la sua evidenza.
Sarà opportuno premettere un breve inciso sulla datazione della tomba del fondo Artiaco. È questa l’unica tomba a cremazione appartenente ad un individuo della classe nobile, tra quelle finora conosciute da Eretria e da Cuma, che contenga un vaso di ceramica e fortunatamente di un tipo caratteristico: una grande anfora attica del tipo SOS, che doveva essere piena di olio ο di vino. Con ciò la tomba costituisce un caposaldo della massima importanza per la datazione dei vari tipi di oreficerie e degli altri oggetti di metallo che formano il suo corredo. Di questo si è accorto per primo W. Johannowsky nel 196723, mentre è stato poi più ampiamente considerato da Ingrid Strøm nel suo recente libro sull’origine e lo sviluppo dello stile orientalizzante dell’Italia centrale24.
Come hanno visto Johannowsky e la Strøm, e come posso confermare pienamente, l’anfora della tomba del fondo Artiaco appartiene senza alcun dubbio al tipo più antico delle anfore SOS, di cui un esemplare proveniente dal Kerameikos può essere datato intorno al 730-725. E diversi esemplari simili sono usciti anche dalla necropoli di Pithecusa in contesti databili ben entro l’ultimo quarto dell’VIII sec. La tomba del fondo Artiaco non può scendere perciò in nessun caso oltre il 700 e molto probabilmente risale a 10 ο 20 anni prima della fine del secolo. Come ha già osservato la Strøm, non è valida la opinione di Guzzo che vorrebbe attribuire l’anfora SOS della tomba del fondo Artiaco a una forma più tarda della serie e data perciò la tomba nella «prima metà del VII sec., forse intorno al 680-670»25.
Ingrid Strøm osserva giustamente che quasi tutti i 52 oggetti di metallo contenuti nella tomba appaiono di carattere puramente etrusco, lo scudo di lamina di bronzo con decorazione geometrica a sbalzo, le numerose armi di ferro, e soprattutto le oreficerie, 5 fibule serpeggianti a bastoncini e globetti di elettro e argento, i due fermagli a pettine, il fermaglio a spranghe con sfingi e teste umane, la lamina d’oro, ecc. La studiosa conclude perciò, come già molti altri hanno fatto prima di lei26, che la tomba deve appartenere a un guerriero etrusco, forse residente a Cuma, ma sepolto con un corredo in massima parte appartenente al suo paese d’origine.
La stessa Strøm osserva giustamente che anche da altre tombe cumane provengono numerosi oggetti di tipo prettamente etrusco, altri scudi di bronzo, lamine d’oro con decorazione a sbalzo, fibule d’argento, fermagli, che si possono trovare elencati nel suo libro27. Secondo la Strøm la presenza di questi oggetti a Cuma è dovuta a scambi commerciali con l’Etruria, sarebbero cioè oggetti di fabbricazione etrusca, importati dall’Etruria.
Sia detto qui che Pithecusa ha dato finora un solo esemplare di lamina d’oro decorata a sbalzo che rientra anch’esso perfettamente nella classe delle lamine cosiddette etrusche. Si tratta di una fascia, ο tenia, che era avvolta intorno al capo di un infante dell’età di ca. 9 mesi, di sesso maschile. Vi si alternano cerchi concentrici, c.d. palmette fenicie e leoni con la testa rivolta indietro; negli interstizi si ripete il motivo delle piccole S giacenti, cosὶ frequente e caratteristico per queste lamine. La tomba, con il suo corredo di numerosi vasi del pieno protocorinzio antico, originali d’importazione, oinochoe, aryballoi globulari e kotylai, rappresenta un nuovo caposaldo cronologico e conferma la datazione di questo tipo di lamine entro gli ultimi due decenni dell’VIII sec. Altre due tombe dello stesso periodo contenevano fasce analoghe di argento che si presentavano purtroppo ridotte in polvere e non più recuperabili.
Finché si conosceva soltanto il materiale di Cuma, nello stato così incompleto in cui è giunto a noi, e per giunta difficilmente e malagevolmente accessibile agli studiosi, la spiegazione che si tratti di pezzi importati poteva sembrare giustificata anche se avrebbe dovuto suscitare perplessità, tanto l’idea che uno straricco guerriero etrusco fosse sepolto in mezzo alle tombe greche di Cuma28 (— si ricordi che accanto è stata trovata una delle consuete tombe ad inumazione dell’ultimo quarto dell’VIII sec., anch’essa pubblicata dal Pellegrini —), quanto la frequenza di oreficerie e scudi importati dall’Etruria.
Oggi, che si conoscono parecchie centinaia di corredi di tombe della seconda metà dell’VIII sec. da Ischia, la situazione si presenta completamente diversa. Non soltanto un certo numero di oggetti particolarmente preziosi, ma tutti gli oggetti di ornamento personale di metallo, ferro, bronzo, argento, elettro, che si trovano nelle tombe di Pithecusa — fibule, armille, pendagli etc. — si ritrovano esattamente uguali nelle tombe contemporanee dell’Etruria, con pochissime eccezioni che si possono contare sulle dita di una mano. Che a Cuma ci troviamo in realtà in presenza dello stesso fenomeno, può accertare chiunque si dia la pena di ricercare gli avanzi superstiti nei depositi del Museo di Napoli.
La tomba del fondo Artiaco non costituisce affatto un caso isolato, ma rappresenta la regola per quanto concerne l’identità del suo corredo di oggetti di metallo con gli oggetti di metallo che si ritrovano nelle contemporanee tombe dell’Etruria. Essa colpisce in modo particolare soltanto perché contiene oggetti straordinariamente ricchi e preziosi29. Chi, oggi, volesse ancora considerarla come tomba di un guerriero etrusco sarebbe necessariamente costretto alla assurda conseguenza di dover ritenere sepolture di Etruschi tutte le tombe di Cuma e di Pithecusa della seconda metà dell’VIII sec.!
È un dato di fatto, ripeto, che gli ornamenti personali usati dai greci di Pithecusa e Cuma nella seconda metà dell’VIII sec. sono identici a quelli usati nell’Etruria e nel Lazio, da quelli più semplici di bronzo a quelli più elaborati e preziosi come i fermagli dei tipi della tomba del fondo Artiaco, e lo stesso vale per altre classi di oggetti di metallo, come per es. gli scudi di bronzo. Ed è un altro dato di fatto che questi oggetti sono diversi, almeno in massima parte, da quelli usati dagli stessi Greci nella loro Madrepatria.
Teoricamente i prototipi di questi oggetti usati dai Greci di Pithecusa e Cuma potrebbero derivare quindi: 1°) da tipi in uso presso le popolazioni anelleniche dell’Italia meridionale e centrale, oppure 2°) possono essere stati creati dagli stessi coloni oppure 3°) possono derivare da una, ο anche più di una, terza regione, oppure 4°) possono derivare dalla coincidenza di queste tre sorgenti. Non c’è dubbio che quest’ultima possibilità teorica corrisponde a quanto realmente è avvenuto. Dovrà essere oggetto di future ricerche cercare di individuare chiaramente queste diverse componenti ed i loro complessi rapporti. Che gli antecedenti immediati delle fibule si trovino soltanto nella Sicilia, nell’Italia meridionale e nell’Italia centrale è ovvio — e abbiamo quindi il primo caso. È da notare che gli «skyphoi a chevron» si trovano tanto nelle tombe preelleniche di Cuma quanto in quelle di Veio (periodo II A) esclusivamente associati con fibule a staffa corta mentre già nelle tombe finora più antiche di Pithecusa, del terzo quarto dell’VIII sec., si trovano esclusivamente fibule con staffa lunga. Ciò sembra lasciare per lo meno aperta la possibilità che l’invenzione della staffa lunga sia dovuta ai coloni euboici. Se fosse possibile provarlo — per ora la questione deve restare aperta — avremmo il secondo caso. Come ha osservato la Strøm, le sfingi barbute del fermaglio della tomba del fondo Artiaco mostrano caratteri propri dell’arte assirieggiante della Siria settentrionale. Resta da indagare se non possa essere di origine siriana anche la forma particolare di questo tipo di fermaglio. Elementi derivati dalla Siria settentrionale si riscontrano del resto in genere nel repertorio di motivi decorativi delle oreficerie a lamina con rilievi a sbalzo dell’Italia centrale e di Cuma. Ci troviamo dunque di fronte al terzo caso.
Anche per quanto riguarda le fibule, per le quali una derivazione da tipi indigeni è innegabile, le relazioni non saranno state comunque così semplici ed a senso unico come pensa la Close-Brooks. Resasi conto della identità delle fibule di Pithecusa con quelle di Veio, la studiosa inglese scrisse infatti, nel 1968, “È mia opinione che le fibule di Pithecusa, lungi dall’essere una creazione greca, siano ο importate direttamente dall’Etruria, ο copie locali e, in qualche caso, adattamenti da originali etruschi”30.
In teoria si potrebbe immaginare, per es., che tipi di fibule propri dell’Italia meridionale possono essere stati modificati dai Greci di Pithecusa, e questi poi a loro volta essere stati introdotti e adottati in Etruria. Di grande aiuto per lo studio futuro delle relazioni tra le fibule delle tombe greche di Pithecusa e Cuma e quelle indigene sarà indubbiamente la raccolta delle fibule dell’Italia meridionale e della Sicilia fatta da Fulvia Lo Schiavo, di cui si attende la pubblicazione.
Non mi sembra esagerato dire che tutto il materiale metallico dall’Etruria e dal Lazio della seconda metà dell’VIII e inizio VII sec. va riconsiderato e ristudiato sotto questo nuovo punto di vista.
C’è da considerare poi anche un altro lato della questione. Il fenomeno che i coloni greci di Pithecusa e Cuma — e anche quelli di Siracusa, sebbene in misura minore — usano fin dall’inizio ornamenti personali, e specialmente fibule, che sono di tipo nongreco ma indigeno, anche se forse con qualche adattamento e modifica di invenzione propria, e questo tanto per le donne quanto per gli uomini e a tutti i livelli, dalle persone di condizioni più umili ai più ricchi nobili guerrieri, rappresenta infatti un interessante problema di carattere sociologico che chiede una spiegazione. Non si può immaginare che l’iniziativa di adottare gli ornamenti personali di foggia indigena sia partita dagli uomini, dal momento che si tratta in maggioranza di ornamenti femminili, mentre gli uomini si limitano per lo più alla adozione delle fibule ad arco serpeggiante. Possono essere state soltanto le donne a imporlo. Di conseguenza non resta che ammettere che, se non tutte almeno la maggioranza delle donne dei coloni non erano greche, ma donne indigene che volevano conservare i loro ornamenti abituali.
Sappiamo oggi che fibule sono state sicuramente fabbricate a Pithecusa stessa. Nello scarico di un’officina in località Mazzola è stato trovato uno scarto di fusione di una fibula di bronzo con arco a piccola sanguisuga piena e un residuo della lavorazione di fibule con arco rivestito, e cioè una piastrina di osso dalla quale sono stati segati i segmenti da infilare sull’arco della fibula31. Da un altro scarico all’esterno dell’officina struttura IV, che non può essere posteriore al primo quarto del VII sec., proviene un peso di bilancia di precisione che pesa 8,79 gr., esattamente corrispondente cioè allo statere del sistema ponderale euboico. Essendo sicuramente di età premonetale, il peso può essere servito soltanto per pesare metalli preziosi, argento ed oro. La sua presenza nello scarico di un’officina nella quale è accertata la lavorazione di oggetti minuti di bronzo, indica con ogni probabilità che vi siano stati lavorati anche metalli preziosi.
A questo punto è da ricordare il notissimo passo di Strabone (V 247 C) secondο il quale i Pithecusani erano εὐτυχήσαντες δι’ εὐκαρπίαν καὶ διὰ τὰ χρυσεῖα, proprio nei primi tempi della colonia, prima che una στάσις e in seguito anche eruzioni vulcaniche indussero una parte degli abitanti di abbandonare la città.
Per quanto riguarda l’εὐκαρπία, la fertilità del suolo, come una delle ragioni della felice agiatezza dei coloni — e che potrebbe a prima vista sembrare una testimonianza a favore di quegli storici che ancora recentemente hanno sostenuto che Pithecusa sia stata una colonia agricola piuttosto che un centro di commercio e di industria —32, è da precisare che si tratta chiaramente di un luogo comune, di un topos che Strabone usa sempre quando parla di terreni vulcanici, la cui fertilità è rimasta ancora oggi un luogo comune proverbiale. Infatti, proprio poche righe prima, alla stessa pagina 247 C, a proposito della regione vesuviana, Strabone parla a lungo dell’εὐκαρπία dovuta alla cenere vulcanica che rende il terreno particolarmente adatto per la viticoltura, e aggiunge che lo stesso vale anche per la regione etnea. Ε all’inizio della descrizione della Campania (243 C) egli rileva 1’εὐκαρπία dell’intera regione. In realtà il terreno collinoso e montagnoso dell’isola poteva si e no bastare per il nutrimento della popolazione di Pithecusa, ma mai costituire una fonte di ricchezza.
Singolare e ben diversa è invece la seconda ragione dell’agiatezza dei pithecusani.
Che χρυσεῖα non debba significare soltanto miniere d’oro (che ad Ischia sono da escludere per ragioni geologiche), ma può significare ugualmente officine di orefici, è stato di recente opportunamente documentato da una giovane grecista, Patrizia Mureddu, messa sulla strada da David Ridgway, che in un seminario sulla “protocolonizzazione” tenuto a Cagliari nel marzo del 1972 aveva ricordato come, in conversazioni comuni, io avevo suggerito la possibilità di tradurre appunto la parola usata da Strabone in tal modo33. Dalla recente edizione di Sbordone34 si rileva del resto che χρυσεῖα si trova in un unico codice tardo del XV sec. seguito da Casaubono e da tutti gli editori successivi, compreso lo stesso Sbordone, mentre tutti gli altri, e più antichi, manoscritti recano χρυσία, che ha il significato di oro lavorato, oreficerie, nel senso di “insieme di oggetti d’oro preziosamente lavorati”.
Ambedue significati, «officine di orefici» come «oggetti d’oro lavorato», sono ugualmente accettabili per cui non sussiste più alcuna ragione di ricorrere a più ο meno ingegnosi emendamenti del testo35.
L’insieme dei dati fin qui esposti obbliga, a nostro avviso, a una riconsiderazione delle opinioni correnti sui luoghi di fabbricazione delle oreficerie comunemente dette etrusche di stile orientalizzante antico. Ci sembra, infatti, che si possiedono ormai elementi in numero sufficiente per avanzare ragionevolmente l’ipotesi che gran parte di queste oreficerie sia stata prodotta a Pithecusa. La presentiamo qui come ipotesi di lavoro che dovrà essere ancora maggiormente convalidata da studi futuri più approfonditi che tengano conto di tutto il materiale disponibile. Siamo consci che si tratta di rivedere, e abbandonare, un concetto ormai radicato e non messo più in dubbio, quello della fabbricazione autoctona in Etruria, anche se con l’accoglimento di motivi decorativi esotici, delle fastose oreficerie di stile orientalizzante antico, ed è prevedibile, perciò, che quest’ipotesi incontri resistenza e magari inizialmente venga considerata del tutto incredibile. Noi ci auguriamo che venga discussa seriamente e con argomentazioni valide, siano esse favorevoli ο contrarie.
S’intende che gli argomenti maggiormente probanti non sono il peso di bilancia da orafo rinvenuto in una delle officine di Mazzola e nemmeno, per quanto suggestivo sia, il passo di Strabone relativo alle χρυσία. Il primo, preso a se stante, indica solamente che in quell’officina sono stati lavorati anche metalli preziosi, ma nulla ci dice né della quantità, né della qualità delle oreficerie che sono state localmente prodotte, mentre il valore da attribuire al secondo resta necessariamente elemento di valutazione soggettiva finché non è confermato da altre testimonianze.
Gli argomenti di maggior peso, quelli che ci hanno dato il coraggio di pronunciare quest’ipotesi, sono altri, e precisamente la frequenza di oreficerie di questo tipo a Cuma36 e la circostanza che proprio a Pithecusa, nella seconda metà dell’VIII sec., come in nessun’altra località sono presenti quei presupposti di carattere economico-commerciale da una parte e di contatti con il mondo orientale dall’altra, che erano necessari per poter dare origine a questa produzione.
Non sembra dubbio che le oreficerie di stile orientalizzante antico dell’Etruria meridionale distribuite tra Cuma e Vetulonia, tanto quelle di lamina decorata a sbalzo quanto quelle con decorazione plastica figurata e i fermagli a pettine provengono da un unico centro di fabbricazione37. Una produzione cosi massiccia — è da tener presente che il materiale ritornato alla luce rappresenta necessariamente soltanto una minima parte di quello realmente prodotto — ed esportata per un’area cosi vasta, presuppone come luogo di fabbricazione un grosso centro con una vasta e organizzata rete di relazioni commerciali38 e con la capacità di impiegare notevoli capitali per il rifornimento della preziosa materia prima, quale appunto doveva essere Pithecusa in quel periodo.
Ε presuppone inoltre una località in cui poteva operare una scuola di artigiani orafi che disponeva di conoscenze tecniche molto sviluppate e nello stesso tempo era in condizioni di poter possedere un repertorio di motivi decorativi orientali, e specialmente originari dalla Siria settentrionale, congiuntamente a quello dei motivi correnti di origine greca39. Questa scuola di orafi, inoltre, doveva risiedere in una località in cui trovava anche le condizioni psicologiche adatte per sentirsi libera di elaborare creazioni artistiche nuove che non fossero legate agli schemi fissati di una determinata tradizione artigianale.
La lavorazione di oreficerie, specie di lamine decorate a sbalzo, è ben documentata a Eretria e nella vicina Attica nell’VIII sec.40, dove i suoi inizi risalgono ad età anteriore a quella dei più antichi esempi delle oreficerie «etrusche» che compaiono invece improvvisamente e con piena perfezione tecnica in Etruria.
Le strette relazioni commerciali di Pithecusa con il mondo orientale e in particolare con la Siria settentrionale, sono ormai ben note e documentate attraverso oggetti importati da quelle regioni che sono stati deposti nelle tombe, come i frequentissimi sigilli del Lyre-player Group ο l’aryballos configurato con testa femminile41.
La conoscenza del repertorio dei motivi artistici greci non ha bisogno di commento e nemmeno quella condizione di libertà dagli schemi tradizionali della madrepatria, di cui è espressione, per esempio, l’adozione di tipi di fibule diverse da quelle usate in Grecia.
David Ridgway ha scritto recentemente, riassumendo il succo di una sua conversazione con Maurizio Tosi, «Euboean Pithekoussai was the “missing link” [dell’orientalizzante etrusco]: now that it has been found, we can see that the route from the Near East to Etruria was open from the third quarter of the eighth century onwards»42. Noi crediamo di poter fare ancora un passo avanti formulando l’ipotesi che i primi esempi dello stile orientalizzante che si trova in Etruria siano stati ideati e prodotti a Pithecusa dai coloni euboici.
Annexe
che non dobbiamo aspettarci di trovare avanzi appartenenti al più antico periodo di vita della colonia a Mazzola e negli altri nuclei abitati di Mezzavia in genere, che possono essere stati soltanto un insediamento secondario;
che il materiale dell’abitato di Monte di Vico proviene in massima parte dallo scarico Gosetti che a sua volta deve provenire dallo spianamento di un’area limitata dell’abitato. Ed è ben possibile che in quell’area non ci siano stati scarichi del periodo più antico;
che finora è stata scavata soltanto una parte relativamente molto piccola della necropoli e nulla ci autorizza a pensare di aver trovato le tombe più antiche; al contrario, la probabilità di non averle ancora trovate è molto più grande.
Notes de bas de page
1 Il genuino nome moderno della cittadina è Lacco, e più propriamente nella forma articolata Lo Lacco ο Il Lacco. L’epiteto di Ameno è stato aggiunto soltanto nel 1863, quando tutti i municipi dell’Italia meridionale furono invitati a portare agli antichi nomi dei loro comuni quei mutamenti che avessero creduto opportuni (Giuseppe D’Ascia, Storia dell’isola d’Ischia, Napoli, 1867, p. 401).
2 Francesco De Siano, Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell’isola d’Ischia, s.l. né d. (ma Napoli, iniziato di stampare nel 1798 e uscito soltanto nel 1801, a causa della rivoluzione napoletana del 1799), p. 71 e 74 sq.
3 J. E. Chevalley de Rivaz, Description des eaux minéro-thermales et des étuves de l’île d’Ischia, 2e éd., Naples, 1835, p. 39 sq.: «En faisant des recherches dans le vallon de St. Montano, il n’est pas rare d’y trouver des sépulcres anciens, construits en briques et couverts de grands carreaux de tuf, renfermant des vases en terre cuite, des lampes, des épées et des monnaies antiques, qui font connaître que cette partie de l’ïle, dans les âges qui ont précédé l’ère Chrétienne, était destinée au repos et à la mémoire des morts. Il y a quelques années, on retira d’un de ces tombeaux plusieurs urnes, d’une légéreté remarquable et d’une forme élégante, offrant sur un fond obscur diverses figures exécutées dans un style, auquel il était facile de reconnaître l’origine Grecque de ces vases. Dans une fouille faite en 1832 dans ce lieu, au milieu d’un nombre considérable de sépulcres formés de deux carreaux de terre cuite disposés à angle aigu, sous lesquels il y avait de petites lampes et des vases de peu de valeur, mon honorable confrère M. Benedetto Vulpes, qui dirigeait cette opération, fut assez heureux pour rencontrer une large pierre carrée, recouvrant une espèce de caisse en tuf, dans laquelle se trouvait un grand vase étrusque orné de figures, contenant des os brûlés. A côté était un très long cercueil, creusé dans une seule pièce de tuf et couvert de trois morceaux de la même substance volcanique, renfermant le squelette d’un homme adulte, ayant à son côté gauche une épée en fer, consumée en grande partie par la rouille, tandis que vers ses pieds, à droite, il y avait un petit vase étrusque contenant une boîte en ivoire, et à gauche était un vase en terre cuite vernissée avec son couvercle, lequel renfermait des oeufs de poule et des fragments d’os paraissant avoir appartenu à ce dernier animal». A questo passo, che è riportato anche nelle successive edizioni del libro, l’autore aggiunge nella 6a ed ultima edizione (Naples 1859, p. 61 sq.) la notizia di uno scavo più recente a San Montano: «Une nouvelle fouille pratiquée à la fin de l’année dernière dans la même localité, par les soins des studieux fils d’un gentilhomme distingué anglais, M. Stuart Monteatht, a donné les mêmes résultats, par rapport aux oeufs et aux os brûlés trouvés dans les sepulcres découverts à cette occasion, en même temps qu’on recueillit en outre dans ces tombeaux plusieurs fragments de vases différents en terre cuite, divers lacrymatoires en verre dont quelques uns avaient changé de forme par la chaleur volcanique existant dans cet endroit, ainsi qu’une médaille romaine d’Antonin le pieux assez bien conservée, et qui était encore dans la bouche d’un des squelettes renfermés dans les susdits sépulcres». Sulla personalità poliedrica dell’autore di queste relazioni dei primi scavi eseguiti nella Valle di San Montano, nato nel 1801 a Vevey nel canton Vaud e morto a Casamicciola nel 1863, vedi Paolo Buchner, Jacque Etienne Chevalley de Rivaz, il più rinomato medico della prima metà dell’Ottocento presso le terme dell’isola d’Ischia, in Atti del Centro Studi sull’Isola d’Ischia, Ricerche contributi e memorie 1944-1970, Napoli, 1971, a cura dell’Ente Valorizzazione Isola d’Ischia, p. 461-480.
4 J. Beloch, Campanien, 2a ed., Breslau, 1890, p. 208 sq.
5 E. Pais, Per la storia d’Ischia nell’antichità, in Riv. Stor. Ant., V, 1900, p. 465-492. Ristampato in Ricerche storiche e geografiche sull’Italia antica, Torino, 1908, p. 226-255 (ivi, p. 250 sull’ipotetica localizzazione della colonia più antica); in Ancient Italy, Chicago Univ. Press, 1908; in Italia Antica, Bologna, 1922, vol. II, p. 221-257.
6 Cf. in Ricerche storiche e geografiche, cit., p. 236.
7 Già in un atto di donazione del 1036 sono ricordati vigneti e un palmento sul mons qui nominatur ad Bicum (B. Capasso, Monum. Neap. Duc., II, 1, Regesta neapolitana, n. 458, p. 282).
8 G. Buchner, Recent work at Pithekoussai (Ischia), 1965-71, in Archaeological Reports, 1970-71, p. 64 sq.
9 G. Mercalli, L’isola d’Ischia ed il terremoto del 28 luglio 1883, in Mem. R. Istituto Lombardo, Cl. di sc. mat. e nat., XV, 1884, p. 105 sq.; A. Rittmann, Geologie der Insel Ischia, in Ergänzungsband 6 zur Zeitschr. fiir Vulkanologie, Berlin, 1930, p. 137 sq.; P. und G. Buchner, Die Datierung der vorgeschichtlichen und geschichtlichen Ausbrüche auf der Insel Ischia, in Die Naturwissenschaften, XXVIII, 1940, p. 558.
10 Per il bradisismo vedi D. Buchner Niola, L’isola d’Ischia: Studio geografico, in Mem. di Geografia Econ. e Antrop., n.s., III, Napoli, 1965, p. 15, con bibliografia.
11 G. Buchner, Nota preliminare sulle scoperte preistoriche nell’isola d’Ischia, in Bull. Paletnol. Ital., n.s. I, 1936-37, p. 65-93.
12 Attenendoci alla nomenclatura usata dal Coldstream nel suo volume Greek Geometric Pottery, London, 1968, chiameremo qui di seguito LG I (= Late Geometric I) il periodo più antico finora riscontrato a Pithecusa, il quale è caratterizzato soprattutto dalla presenza delle kotylai del tipo Aetos 666, più rare in esemplari corinzi importati, ma frequentissime in esemplari d’imitazione di fabbrica locale, e dalla assenza degli aryballoi globulari del Protocorinzio antico. Questo periodo comprende all’incirca il terzo quarto dell’VIII sec., dal 750 al 725. Chiameremo invece LG II il periodo caratterizzato dalla ceramica importata appartenente al Protocorinzio antico (EPC) che comprende all’incirca l’ultimo quarto dell’VIII sec.
13 Cuma: E. Gabrici, Cuma, in Mon. Ant., XXII, 1913, col. 93, tav. XVIII, 9 (tomba Osta 3), col. 109 ss., tav. XVIII 7 (tomba Osta 29): buone fotografie degli skyphoi da Cuma in Dial. di Archeol., I, 2, 1967, fig. 11, 12, 13. Capua: W. Johannowsky, Problemi relativi alla «precolonizzazione» in Campania, in Dial, di Archeol., I, 2, 1967, p. 159-185, fig. 8b; id., Scambi tra ambiente greco e ambiente italico nel periode precoloniale e protocoloniale e loro conseguenze, ibid., III, 1-2, 1969, p. 31-43 e appendice, p. 213-219, fig. 1, 10a, 11c. Pontecagnano: B. D’Agostino, Dial. di Archeol., III, 1-2, 1969, p. 56 sq. e nota 22, fig. 14a, 1, 3. Veio: D. Ridgway, «Coppe cicladiche» da Veio, in Studi Etr., 35, 1967, p. 311-321. Per quanto riguarda l’erronea affermazione circa la presenza di frammenti di «skyphoi a chevron» nell’abitato dell’età del ferro di Castiglione d’Ischia (Johannowsky, Dial, di Archeol., I, 2, 1967, p. 167), vedi Buchner, Dial, di Archeol., III, 1-2, 1969, p. 96 sq. e fig. 25, e D. Ridgway, The First Western Greeks: Companion Coasts and Southern Etruria, in Greeks, Celts and Romans, London, 1973, p. 24 e n. 1. Del problema posto dalla presenza di questi skyphoi in Etruria e in Campania in generale ha trattato per ultimo Ridgway, ibid., p. 35 sq.
14 Vedi l’intervento di F. De Salvia in questo volume, infra p. 87-97.
15 Vedi G. Buchner, Arch. Rep., 1970-71, p. 67.
16 Vedi G. Buchner, Mostra degli scavi di Pithecusa, in Dial, di Archeol., III, 1-2, 1969, p. 97 sq. e fig. 10a-d; id., Arch. Rep., 1970-71, p. 66; J. Klein, A Creek Metalworking Quarter: Eighth Century Excavations on Ischia, in Expedition, 14, 2, 1972, p. 34-39.
17 Vedi G. Buchner, Arch. Rep., 1970-71, p. 67, fig. 8 (disegno); J. Klein, Expedition, 14, 2, 1972, fig. 5, 6 (fot.); vedi anche E. Peruzzi, Origini di Roma, II, Bologna, 1973, p. 24-28, tav. III (buona riproduzione fotografica in scala più grande dei frammenti del cratere con iscrizione dipinta), tav. IV (due frammenti con graffiti da Pithecusa).
18 F. R. Munz, Die Zahnfunde aus der griechischen Nekropole von Pithekoussai auf Ischia, in Arch. Anz., 1970, p. 452-475.
19 Cf. D. C. Kurtz and J. Boardman, Greek Burial Customs, London, 1971, p. 56.
20 Eretria III: C. Bérard, L’Hérôon à la Porte de l’Ouest, Berne, 1970.
21 E. Gabrici, Cuma, in Mon. Ant. Linc., XXII, 1913: tomba I (col. 214), II (col. 214 sq.), XI (col. 223 sq.), XLIII (col. 248 sq.), LVI (col. 259-61), LIX (col. 264).
22 G. Pellegrini, Tombe greche arcaiche e tomba greco-sannitica a tholos della necropoli di Cuma, in Mon. Ant. Linc., XIII, 1903, col. 201-295, per la tomba a cremazione v. col. 225-263, 286 sq.
23 W. Johannowsky, Dial. di Archeol., I, 2, 1967, nota 86 a p. 182.
24 I. Strøm, Problems Concerning the Origin and Early Development of the Etruscan Orientalizing Style, Odense Univ. Press, 1971, p. 112 sq.; le note 153-157 a p. 233-237 contengono un elenco molto utile di anfore SOS, diviso per gruppi cronologici e località di rinvenimento.
25 P. G. Guzzo, Su due classi di affibbiagli etruschi del VII sec. a.C., in Stud. Etr., 36, 1968, p. 277-307: v. p. 288 n. 2 sulla datazione dell’anfora SOS della tomba del fondo Artiaco. In seguito lo stesso Guzzo ha ammesso che la datazione più alta dell’anfora è «indubbiamente più solida» (Arch. Class., 24, 1972, p. 163).
26 A cominciare da G. Pinza, Materiali per la etnologia antica toscano-Iaziale, I, Milano, 1914, p. 364.
27 Lamine d’oro ο di argento con decorazione a sbalzo: Strøm, op. cit., catalogo n. S 1, tomba 11 = Gabrici, Mon. Ant., XXII, 1913, col. 223 sq, fig. 67a, b; R. Siviero, Gli ori e le ambre del Museo Nazionale di Napoli, Firenze, 1954, n. 2, tav. I; S 2, tomba 18 = Gabrici, col. 232; S 3, tomba 33 = Gabrici, col. 243, fig. 82; S 4, tomba 48 = Gabrici, col. 252 sq., fig. 92; S 5, tomba 67 = Gabrici, col. 270, fig. 110; S 6, tomba fondo Artiaco = Pellegrini, Mon. Ant. XIII, col. 239, n. 12, fig. 14; S 7, già Coll. Guilhou = Gabrici, col. 309, fig. 134; Fermaglio a spranghe senza decorazione di figure plastiche: Gabrici, col. 298, fig. 122; Fermaglio a spranghe con decorazione di figure plastiche: Tomba fondo Artiaco, Pellegrini, n. 6, col. 232 ss., fig. 10; Guzzo, op. cit., n. A 1, fig. 1; Fermagli a pettine: due esemplari dalla tomba del fondo Artiaco, Pellegrini, n. 7 e 8, col. 234 ss., fig. 11, 12; Guzzo, n. Α I α 1 e A-B, Ι α, fig. 1; da Cuma, già Coll. Marc Rosenberg, Guzzo, p. 283, Pett. 1.
I. Strøm classifica le lamine decorate a sbalzo secondo criteri stilistici in tre gruppi che si susseguono cronologicamente, più un quarto gruppo che comprende pezzi che non si lasciano inquadrare nei gruppi precedenti. Appare significativo che a Cuma sono presenti esempi di ognuno di questi quattro gruppi (op. cit., p. 77 sq.).
28 Giova ricordare come già il Karo, nello stesso anno 1904, pur ritenendo, a differenza del Pellegrini, che le oreficerie della tomba del fondo Artiaco siano di fabbricazione etrusca e importate a Cuma, respinge nettamente la possibilità che si tratti della sepoltura di un Etrusco e si dichiara pienamente d’accordo con il Pellegrini stesso nell’attribuire la tomba a un greco di Cuma, osservando giustamente che il rito è «perfettamente greco». (G. Karo, Tombe arcaiche di Cuma, a proposito di una pubblicazione recente, in Bull. Paletnol. Ital., XXX, 1904, p. 1-29, cf. specialmente p. 18 e 20).
29 È da tener presente, a proposito, il frammento delle Kymaïka attribuite a Hyperochos, conservato presso Ateneo: καὶ Κυμαῖοι δὲ οἱ ἐν Ἰταλίᾳ ὥς φησιν Ὑπέροχος ἢ ὁ ποιήσας τὰ εἰς αὐτὸν ἀναφερόμενα Κυμαΐϰά, διετέλεσαν χρυσοφοροῦντες καὶ ἀνθιναῖς ἐσθῆσι χρώμενοι καὶ μετὰ γυναιϰῶν εἰς τοὺς ἀγροὺς ἐξιόντες ἐπὶ ζευγῶν ὀχούμενοι. (Athen., XII, 528d = F.H.G., IV, 434).
Sembra accertato che si tratti di uno scrittore locale tardo, di età ellenistica (v. in ultimo E. Manni Klearchos, 25-28, 1965, p. 72, n. 40 e p. 74, con bibliografia). Tuttavia è ben possibile che il passo conservi il ricordo di costumi di età greca molto più antica, piuttosto che della Cuma sannitica contemporanea dell’autore. Sarebbe suggestivo poter immaginare che il personaggio sepolto con tanto sfoggio di ricchezza nella tomba del fondo Artiaco fosse proprio uno di quei signori cumani descritti da Hyperochos che usavano portare in continuazione ornamenti d’oro e vesti sfarzosamente colorate e amavano di scarrozzare con tiro a due per la campagna insieme con le loro donne.
30 J. Close-Brooks, Considerazioni sulla cronologia delle facies arcaiche dell’Etruria, in Stud. Etr., XXXV, 1967, p. 327. — (Aggiunta in bozze:) Un’analisi dei vicendevoli influssi che sono intercorsi tra le fibule italiche e quelle greche è stata intrapresa recentemente da K. Kilian, Zum italischen und griechischen Fibelhandwerk des 8. und 7. Jahrhunderts, in Hamburger Beiträge zur Archäologie, III, 1, 1973, p. 1-39. Per quanto riguarda l’introduzione della staffa lunga, l’autore, dopo aver dato un elenco delle diverse ipotesi che sono state espresse a riguardo (p. 2), non le discute, ma sembra tuttavia pronunciarsi a favore di una sua origine indigena («Mit den Bogenfibeln mit erweitertem Biigel und gestrecktem Fuss liegt uns daher eine Form vor, die als bodenstândige Entwicklung des italischen Fibelhandwerks anzusehen ist.» p. 8). Secondo Kilian, in base al materiale attualmente conosciuto, soltanto le fibule a staffa lunga con arco rivestito di osso e ambra si possono considerare come fibule «italiote», nel senso, cioè, che rappresentano tipi che sono stati sviluppati dai coloni greci da forme indigene. Un influsso greco l’autore riconosce giustamente nelle fibule che portano un globo al vertice dell’arco, note p. es. da Falerii e da Veio (op. cit., p. 16 e fig. 3, 2-6), un particolare che non ha precursori tra le fibule italiche mentre si riscontra frequentemente in Grecia. La circostanza che fibule di questo tipo sono presenti anche a Pithecusa, tanto in esemplari di bronzo identici a quelli dell’Italia centrale, quanto in esemplari in cui il globo centrale è costituito di ambra e i coni terminali sono di osso, indica l’origine italiota anche di questo tipo. Nel terreno della necropoli di S. Montano l’ambra scompare sempre interamente e soltanto in un caso la forma a grosso globo dell’elemento centrale si è conservata grazie alla sua impronta vuota nella terra indurita circostante (tomba 632, probabilmente appartenente al periodo LG I). È da presumere perciò che questa forma particolare delle fibule con arco rivestito sia molto più frequente a Pithecusa di quanto non appaia oggi.
31 Vedi G. Buchner, Arch. Rep., 1970-71, p. 66, fig. 7.
32 R. M. Cook, Reasons for the foundation of Ischia and Cumae, in Historia, 11, 1962, p. 113-114; A. G. Woodhead, The Greeks in the West, London, 1962, p. 33; A. J. Graham, Colony and Mother City in Ancient Greece, Manchester, 1964, p. 219. In uno studio più recente (A. J. Graham, Patterns in early Greek Colonisation, in J.H.S., 91, 1971, p. 35-47 e specialmente p. 42 sq.) lo stesso autore, pur modificando parzialmente la sua opinione in seguito all’evidenza dei rinvenimenti archeologici, dubita tuttavia che commercio e industria abbiano costituito la ragion d’essere di Pithecusa. Alle sue argomentazioni ha risposto D. Ridgway, Addenda ciclostilate (novembre 1973) a: The First Western Greeks: Campanian Coasts and Southern Etruria, in: Greeks, Celts and Romans, London, 1973.
33 P. Mureddu, ΧΡΥΣΕΙΑ a Pithekussai, in Par. Pass., fasc. 147, 1972, p. 407-409; D. Ridgway, The First Western Greeks, op. cit., n. 32, p. 22 e Addenda, op. cit., p. 4 sq.
34 Strabonis Geographica II: libri III-VI, rec. F. Sbordone, Roma, 1970, p. 268.
35 Il Pais, dopo aver in un primo tempo proposto χαλκεῖα per analogia con il nome romano dell’isola, Aenaria, (E. Pais, Storia della Sicilia e delta Magna Grecia, Torino, 1894, p. 158), più tardi nell’articolo sopra citato (v. nota 5, = Ric. Stor., p. 235) ha proposto invece di leggere χυτρεῖα, pignatte, vasi di terracotta, ovvero officine di vasellame, al posto di χρυσεῖα, correzione che è stata accettata anche da J. Bérard, La colonisation grecque de l’Italie et de la Sicile dans l’antiquité, Paris, 1957, p. 43, n. 1.
36 Abbiamo già osservato più sopra (cf. p. 76 e n. 27) che l’affermazione che ritrovamenti di oreficerie di questo tipo siano soltanto sporadici a Cuma e limitati alla tomba del fondo Artiaco è errata e che in realtà esse sono state rinvenute anche in parecchie altre tombe cumane. Ci sembra utile, a proposito, citare per esteso un passo di P. G. Guzzo, dal suo studio già ricordato sui fermagli a pettine e a spranghe, perché rispecchia bene la diffusa opinione corrente: «La concentrazione dei ritrovamenti è maggiore nei centri di Palestrina, Marsiliana, Cerveteri, e nella zona falisca: partendo da questa situazione si cercherà di localizzare la fabbrica, in cui è sorta l’idea prima della costruzione degli affibbiagli: idea dovuta alla originalità d’invenzione di artigiani etruschi [corsivo mio], La prova di questa affermazione è costituita dalla completa mancanza, a quanto si conosce, di confronti provenienti da zone anetrusche, che possano quindi far supporre altrove la presenza di fabbriche autonome. La sporadicità dei ritrovamenti effettuati a Cuma e, inoltre, la composizione del corredo, fra i cui oggetti sono compresi gli affibbiagli, sono elementi tali che permettono l’esclusione dell’ipotesi dell’esistenza di una fabbrica in Campania; i documentati rapporti fra questa regione e l’Etruria, anche in epoca così antica, fanno certi che ci si trova davanti ad oggetti etruschi importati». (P. G. Guzzo, Su due classi di affibbiagli etruschi del VII sec. a.C., in Studi Etr., XXXVI, 1968, p. 298 sq.).
A prescindere da ogni altra considerazione, appare poco credibile la possibilità di una importazione di consistente volume dall’Italia Centrale a Cuma, nell’ultimo quarto dell’VIII sec., di oggetti preziosi di lusso, opera di un artigianato specializzato di cui, a mio avviso almeno, non si vede attraverso quali altre vie potrebbe aver acquisito e le tecniche sofisticate di lavorazione e gli esotici motivi decorativi se non attraverso la mediazione di quegli stessi Greci di Pithecusa e di Cuma (vedi più sotto nota 42. — Per quanto riguarda la datazione troppo bassa attribuita dal Guzzo ai fermagli della tomba del fondo Artiaco vedi sopra a p. 75. Anche le altre oreficerie orientalizzanti rinvenute a Cuma appartengono per lo più ancora all’VIII sec. mentre qualche esemplare potrà scendere agli inizi del VII sec.). Cosa ben diversa e da non potersi mettere sullo stesso piano delle presupposte importazioni delle oreficerie, è la presenza, nelle tombe di Pithecusa, di qualche anforetta con decorazione a spirale incisa importata dall’Italia Centrale, alla quale sembra alludere il Guzzo.
C’è da osservare ancora, dal punto di vista metodologico, che la semplice statistica quantitativa dei rinvenimenti quale criterio per stabilire il luogo di fabbricazione di un oggetto non può essere usato indiscriminatamente e può indurre in grossolani errori, specie quando si tratta di oggetti piccoli facilmente trasportabili e commerciabili. Ne valga come esempio la statistica dei rinvenimenti dei sigilli del Lyre-player Group. Di questi sigilli che certamente provengono tutti da un unico centro di produzione situato nella Siria settentrionale ο nella Cilicia, se ne conoscono 213 esemplari. Di questi 87, ossia oltre un terzo, provengono da Pithecusa, 63 da numerose località della Grecia insulare e continentale e soltanto 34 da varie località del Vicino Oriente, cui si aggiungono ancora 8 da Cipro, 5 dall’Etruria e 1 da Cuma, mentre 15 sono senza indicazione di provenienza. (G. Buchner and J. Boardman, Seals from Ischia and the Lyre-player Group, in JDAI, 81, 1966, p. 1-62). Un altro esempio possono fornire gli aryballoi globulari del Protocorinzio antico di cui si conosce da Pithecusa e da Cuma un numero di esemplari di gran lunga miggiore di quanto non sia stato restituito da qualsiasi altra località. Particolare cautela richiede l’interpretazione della statistica quantitativa dei rinvenimenti quando si tratta di oggetti da ornamento personale di grande valore, oreficeria e gioielleria, che sono stati fabbricati in un centro specializzato e destinati in massima parte all’esportazione. Aspettarsi il massimo concentramento dei reperti di questo genere nel luogo stesso di produzione sarebbe come pretendere di trovare oggi addosso agli abitanti di Valenza Po il maggior numero dei preziosi gioielli che vi vengono prodotti e esportati in tutto il mondo!
37 Vedi I. Strøm, op. cit., p. 89 e 106, la quale pensa a Tarquinia come più probabile centro di fabbricazione, mentre P. G. Guzzo, op. cit., p. 298 sq., preferisce Cerveteri.
38 Uno degli argomenti addotti da R. M. Cook a sostegno della sua tesi che Pithecusa non ebbe la funzione di centro commerciale era che «there is little or nothing of Ischian make among the early Greek pots found in Etruria» (Historia, 11, 1962, p. 113-114, cf. supra, n. 32). David Ridgway ha risposto giustamente che oggetto principale dei commerci tra Pithecusa e l’Etruria erano metalli e minerali di metallo e non vasi e che pertanto l’argomento non era valido. Ciò egli scrisse nel 1969, nella prima parte dell’articolo cit. The First Western Greeks, p. 23, la cui stesura risale a quella data. Da allora nuove scoperte succedutesi rapidamente stanno rivolgendo interamente questa immagine negativa che ancora cinque anni fa si aveva circa un apporto euboico-pithecusano alla ceramica dell’Italia centrale nella seconda metà dell’VIII sec. Nel suo Postscript al citato articolo, datato ottobre 1971, p. 38, Ridgway poteva riferire come la scoperta, nell’abitato di Pithecusa, di una classe di ceramica tardo-geometrica, anche figurata, di stile euboico ma prodotta localmente (Buchner, Arch. Rep. 1970-71, p. 67) faccia conoscere la fonte di quelle affinità «cicladiche» da tempo notate nella ceramica italo-geometrica (A. Blakeway, Ann. Brit. School Athens, 33, 1932-33, p. 194 sq.) concludendo: «In a word, as a result of the new (and non-cemetery) evidence from Pithekoussai, we are beginning to discern which decorative ideas in Etruria may find parallels at Pithekoussai and in Euboea generally».
Recentissimamente, poi, è stata riconosciuta da Eugenio La Rocca la presenza di ceramica tardo-geometrica in rilevante quantità — e risalente per lo meno in parte al periodo LG I — in strati di un abitato situato nel centro di Roma (S. Omobono). Per buona parte si tratta di ceramica fabbricata a Pithecusa, mentre alcuni frammenti sono senza ombra di dubbio di fabbrica euboica originale. Allo stesso Eugenio La Rocca e a Fulvio Canciani è dovuto il merito di aver individuato un cratere geometrico da tempo conservato nel Civico Museo Archeologico di Grosseto e proveniente da una tomba rinvenuta a Pescia Romana, riconoscendolo di fabbrica euboica originale e attribuendolo giustamente all’officina del Cesnola painter. Una fotografia a colori del cratere si trova riprodotta incidentalmente nel volume di autori vari Le città etrusche, Milano, Mondadori, 1973, p. 117, figura in alto. Sul Cesnola painter vedi. J. N. Coldstream, Greek Geometric Pottery, p. 172 ss.; sulla sua attribuzione all’Eubea, sulla quale oggi non ci possono essere più dubbi, lo stesso Coldstream, The Cesnola painter: A Change of Address, in Bull. Inst, of Class. Studies Univ. London, 18, 1971, p. 1-15. Dalla stessa tomba proviene inoltre un secondo vaso, una coppa su piede di sagoma insolita, ugualmente di fabbrica euboica. Su queste scoperte è in corso di stampa un lavoro di Eugenio La Rocca che apparirà in Dial. di Archeol., VII, 1974, con il titolo Due tombe dall’Esquilino. Alcune novità sul commercio euboico nell’Italia Centrale nell’VIII sec. a.C., al quale si affianca, in corso di stampa nella stessa sede, uno studio di Fulvio Canciani con osservazioni sui rapporti tra l’Eubea e la ceramica italogeometrica dell’Etruria. Mi è gradito ringraziare Eugenio La Rocca per avermi fatto vedere il materiale inedito di S. Omobono, mentre al medesimo e a Fulvio Canciani va la mia riconoscenza per avermi liberamente concesso di anticipare qui questi cenni sulle loro scoperte e i loro studi che allargano così opportunamente le conoscenze sull’influenza euboica nell’Italia Centrale nell’VIII sec.
Quanto vasta sia stata l’area interessata dal commercio euboico in Italia, non soltanto a nord, ma anche a sud di Pithecusa, documenta la recente scoperta fatta da Giuseppe Voza di ceramica di fabbrica euboica originale appartenente al periodo LG I in tombe indigene a Villasmundo (nell’interno, tra Megara Hyblea e Leontini: G. Voza in Archeologia nella Sicilia sud-orientale, Napoli, Centre Jean Bérard, 1973, p. 57 sq.).
39 A quanto io sappia uno studio particolare sugli elementi stilistici greci non orientalizzanti nelle oreficerie dell’orientalizzante antico dell’Italia Centrale non è stato ancora eseguito. Eppure tali elementi non mancano. Ne citiamo due esempi: la coppia di bracciali da Tarquinia nel British Museum (H. Hencken, Tarquinia, Villanovans and Early Etruscans, Cambridge Mass., 1968, p. 405 sq., fig. 391; Strøm, op. cit., fig. 56 e catalogo n. S 34-35) che reca su un lato, resa con la tecnica della granulazione, tra l’altro, una scena di duello tra due guerrieri e un cavaliere armato di lancia di stile greco geometrico, e le frequenti kotylai in metallo prezioso che riproducono alla perfezione la sagoma della kotyle fittile del protocorinzio antico e medio, tra cui è particolarmente significativa quella d’oro della tomba Bernardini di Palestrina (C. D. Curtis, The Bernardini Tomb, Mem. Amer. Acad. Rome, III, 1919, tav. 10) perché reca, aceovacciata su ciascuna ansa, una coppia di sfingi dello stesso tipo che si ritrova sui fermagli e si rivela dunque prodotta nelle stesse officine di questi.
Dallo stile orientalizzante greco delle fasce d’oro attiche (cf. la nota seguente) sembrano derivare invece le lamine d’argento con file di animali e scena di caccia che ricoprono la guaina di pugnale dalla stessa tomba Bernardini (Curtis, op. cit., tav. 25, 2, 3; G. Q. Giglioli, Arte Etrusca, 1935, tav. XVI, 1, 3).
40 Sulle fasce, ο diademi, di sottile lamina d’oro decorate a sbalzo rinvenute a Eretria, oltre che nell’Attica dove sono più frequenti e a Rodi, vedi W. Reichel, Griechisches Goldrelief, Berlin, 1942; D. Ohly, Griechische Goldbleche des 8. Jahrhunderts v. Chr., Berlin, 1953, e l’ampia trattazione di Claude Bérard in Eretria III, L’Herôon à la Porte de l’Ouest, Berne, 1970, p. 36-45 a proposito dell’esemplare contenuto nella tomba 14; sulle fasce d’oro di Rodi Reichel, op. cit., p. 58, n. 51-55 e K. F. Johansen, Exochi, ein frührhodisches Gräberfeld, København, 1958, p. 172 sq.
La circostanza che fasce strette e diritte di forma simile, awolte intorno al capo del defunto, si trovano ugualmente a Cuma (Strom, op. cit., cat. n. S 2, 3, 4, 5) e a Pithecusa (3 esemplari, cf. supra a p. 76), mentre non compaiono nelle tombe dell’Italia Centrale, come si può facilmente verificare scorrendo il catalogo della Strom, indica che si tratta di un uso greco. (L’unica lamina dall’Italia Centrale che è certamente un diadema è quella dalla Tomba Polledrara di Vulci (Strom, cat. n. S 47) ma la sua forma è diversa dalle semplici strisce strette delle lamine greche). Le fasce dalle tombe greche di Cuma e Pithecusa sono tuttavia decorate nello stesso stile delle lamine «etrusche» e costituiscono quindi un ulteriore e non trascurabile indizio a favore della nostra ipotesi.
41 Per i primi cf. supra nota 36. Per il secondo: G. Buchner, Pithekoussai, oldest Greek Colony in the West, in Expedition, 8, 4, 1966, fig. a p. 7; disegno in veduta frontale in Ridgway, The First Western Greeks, op. cit., fig. 2b; J. N. Coldstream, The Phoenicians of Jalysos, in Bull. Inst. of Class. Studies Univ. London, 16, 1969, p. 1-8, tav. II f e testo p. 3 e n. 29.
42 D. Ridgway, Addenda ciclostilate, op. cit., p. 3; id., Rapporti dell’Etruria meridionale con la Campania: prolegomena pithecusana, in Atti dell’VIII Convegno Naz. di Studi Etruschi ed Italici, Orvieto, 1972 (1974), p. 281-292. I. Strøm, op. cit., p. 205, 212, 216, invece, è dell’avviso che tanto gli oggetti orientali importati in Etruria quanto i motivi stilistici orientali delle oreficerie dell’orientalizzante antico, piuttosto che attraverso la mediazione greca delle colonie di Pithecusa e Cuma, abbiano raggiunto l’Etruria indipendentemente da queste, mediante l’importazione diretta i primi e attraverso artigiani orientali immigrati i secondi. I suoi argomenti, tuttavia, ci sembrano troppo tenui per essere convincenti.
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