Kozmopolit Istanbul?
La trasformazione di Istanbul da capitale imperiale a città globale
p. 283-297
Texte intégral
1È oramai quasi un secolo che Istanbul ha perso il suo ruolo di capitale. Nel corso di questi decenni, tuttavia, la città non ha mai smesso di crescere, trasformarsi, seguire i cambiamenti del paese, talvolta anticipando ma più spesso amplificando gli effetti dei processi in corso.1 Porta d’Oriente per gli europei ma Porta d’Occidente per i persiani e le popolazioni dell’Asia centrale, se da un lato ha da sempre evocato un vasto immaginario fatto di rappresentazioni esotiche e voluttà orientali, dall’altro ha rappresentato il luogo di sperimentazione della modernità occidentale tradotta e riformulata in chiave mediorientale. La sua posizione geografica che la vede situata a cavallo tra due continenti e al centro di rotte che si diramano nelle direzioni più molteplici, così come il suo glorioso passato imperiale hanno di certo contribuito non poco perché Istanbul non subisse profonde fasi di declino. Oggi, con una popolazione di oltre 13 milioni di abitanti ed estesa su una superficie che supera i 5mila km2, è una delle città più grandi del Mediterraneo e figura tra le venticinque megalopoli mondiali. Una città globale in continua crescita che sfugge di continuo alle definizioni consolidate; di essa si sottolinea di volta in volta qualche caratteristica particolare, rimandando in questo modo a una visione difficilmente esaustiva: così Istanbul passa da capitale della cultura a centro dell’economia e della finanza internazionale; da laboratorio della società civile a luogo frammentato dalle profonde spaccature sociali. Negli ultimi anni ciò che caratterizza questa megalopoli è la rapidità del cambiamento che sta intervenendo in vecchi e nuovi quartieri, modificando radicalmente gli spazi e l’immaginario, nonché il profilo dei suoi stessi abitanti. Senza dubbio questa trasformazione rispecchia il dinamismo del cosiddetto ‘miracolo turco’, una fase di espansione economica e affermazione sul piano internazionale che la Turchia sta vivendo nell’ultimo decennio. Un’ulteriore caratteristica emerge però con uguale insistenza ed è il ruolo di Istanbul nella geografia delle migrazioni internazionali. Anche in questo caso esso corrisponde all’importanza che l’intero paese riveste sempre più nell’ambito dei flussi migratori, tanto come paese di transito che come luogo di arrivo. Istanbul viene considerata oggi come una piattaforma migratoria, un vero e proprio gateway dei flussi delle migrazioni internazionali.2 Questo ruolo sembra essersi definito e strutturato soprattutto nel corso degli ultimi venti anni, durante i quali l’immigrazione irregolare in Turchia ha conosciuto un sensibile incremento, divenendo più consistente e regolare, tanto da spingere le autorità a elaborare politiche specifiche.3 AIstanbul si nota, soprattutto in alcune aree della città, una presenza di migranti che in molti casi, pur essendo arrivati con un progetto migratorio temporaneo, si sono stanziati in modo regolare. Ad ogni modo, per brevi o lunghi periodi che rimangano, è indubbio che la megalopoli offra ai migranti una serie di opportunità che difficilmente si trovano così concentrate altrove. Non solo una serie di servizi legali, forniti da agenzie di viaggio, uffici di traduzione, compagnie aeree, ma anche informali, tra cui la possibilità ad esempio di recuperare documenti falsi o entrare in contatto con i passeur. In generale, a Istanbul i migranti possono accumulare un capitale oltre che economico, sociale, linguistico e professionale, utile a migliorare le proprie condizioni in termini di mobilità e di ulteriori spostamenti.4
2A tale presenza di migranti irregolari vanno aggiunte le migliaia di persone che vi transitano per i più disparati motivi: i lavoratori giornalieri e stagionali, i turisti, la cosiddetta elite transnazionale composta dai professionisti della finanza e dai funzionari delle grandi organizzazioni internazionali, per non dimenticare gli studenti stranieri, in particolare europei e americani. Istanbul è di fatto un luogo di scambi e un nodo centrale nei flussi degli spostamenti nazionali, regionali e mondiali. Una metropoli con una popolazione di gran lunga più composita che nel resto del paese. È questa, tuttavia, una caratteristica di sempre della città che, anzi, pare oggi essere meno cosmopolita dell’epoca ottomana. L’attenzione che viene oggi posta sul multiculturalismo e il cosmopolitismo di Istanbul appare piuttosto come parte di un discorso funzionale che accompagna gli ultimi sviluppi della città e rimanda a un’immagine di Istanbul non più solo come global city quanto di cool city, una metropoli che sia polo di attrazione internazionale capace di rispondere alle esigenze della produzione e del consumo materiale e immateriale.5
3In una prospettiva simile risulta interessante volgere lo sguardo alla storia della città perché, intrecciandosi inevitabilmente con la storia nazionale, rivela come nello spazio urbano stambuliota spinte nazionalistiche abbiano dovuto costantemente misurarsi – anche in modo violento – con istanze plurali e diversificate e come, di fatto, nel corso del XX secolo, si sia di molto contratta quella molteplicità che riempiva la città e sorprendeva il viaggiatore.
Kozmopolit Istanbul: la capitale di un impero al tramonto
4“La folla passa a grandi ondate, ognuna delle quali offre mille colori, ed ogni gruppo di persone rappresenta un gruppo di popoli. S’immagini pure qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi, di classi sociali; non si giungerà mai ad avere un’idea della favolosa confusione che si vede là nello spazio di venti passi e nel giro di dieci minuti. Dietro una frotta di facchini turchi, che passano correndo, curvi sotto pesi enormi, s’avanza una portantina intarsiata di madreperla e d’avorio, a cui fa capolino una signora armena; e a i due lati un beduino ravvolto in un mantello bianco e un vecchio turco col turbante di mussolina e il caffettano color celeste, accanto al quale cavalca un giovane greco seguito dal suo dragomanno colla zuavina ricamata, e un dervis col gran cappello conico e la tonaca di pelo di cammello, che si scansa per lasciar passare la carrozza d’un ambasciatore europeo, preceduta da un battistrada gallonato. […] E, cosa naturale, ma che par strana al nuovo venuto, tutta questa gente così diversa s’incontra e passa oltre senza guardarsi, come la folla di Londra; nessuno si ferma; tutti vanno a passo affrettato, e su cento visi, non se ne vede uno che sorrida. […] È un musaico cangiante di razze e di religioni che si compone e si scompone continuamente con una rapidità che si può appena seguire collo sguardo”.6
5Così descriveva la popolazione di Istanbul lo scrittore Edmondo De Amicis nella sua cronaca di viaggio pubblicata per la prima volta nel 1878. Come molti altri poeti, romanzieri e pittori anche De Amicis ci consegna la descrizione di una città crogiolo di razze e di religioni, miscuglio di odori e colori, che non poteva che sbalordire gli europei. Istanbul nella seconda metà del XIX secolo vive il suo periodo di maggiore cosmopolitismo: è un importante centro economico ma anche un vivace luogo di dibattito politico e culturale. Le riforme attuate a partire dal 1839 nel lungo periodo delle Tanzimat avevano avuto l’obiettivo di modernizzare l’apparato legislativo e amministrativo dell’impero ma allo stesso tempo avevano ampliato il margine di manovra delle potenze europee sul territorio. Per Istanbul ciò significò un forte impatto sulla struttura della città che si vide arricchire di nuovi spazi adatti alle più ampie esigenze del commercio e del mercato internazionale, ma anche man mano di un sistema di trasporti e di infrastrutture, oltre che di nuovi palazzi che rispecchiavano la diversità degli stili architettonici dei vari gruppi di abitanti. La popolazione della capitale mutò sensibilmente, perché vi si insediarono molti europei e per un periodo si poté persino contare una maggioranza di non musulmani.7
6Al volgere del secolo, i movimenti di rifugiati provenienti dai Balcani avevano ulteriormente contribuito a complicare il panorama degli abitanti, così come successivamente fecero gli arrivi dalla Russia, in seguito alla rivoluzione bolscevica.8 A Istanbul giungevano persone da tutti gli angoli dell’impero, per frequentare scuole, per partecipare alla vita politica e intellettuale, per riparare un lavoro.9 La città offriva a tutti la possibilità di vivere secondo i propri costumi e le proprie abitudini, permettendo anche agli europei di non rinunciare ai consumi e allo stile di vita che si viveva nelle maggiori capitali d’Occidente. Questo non avveniva senza una divisione netta degli spazi, tra una parte musulmana e una non musulmana. Durante l’occupazione da parte delle forze dell’Intesa, tra il 1918 e il 1923, Istanbul è abitata come mai da una moltitudine di identità nazionali, culturali, religiose.10 Nello stesso periodo, tuttavia, in parti della città si alimenta e cresce un profondo nazionalismo.
7Se, come dice Çağlar Keyder, l’interrogativo saliente della seconda metà del XIX secolo era se l’impero sarebbe riuscito a attraversare la transizione in uno Stato moderno senza perdere la diversità imperiale, la risposta non si fece attendere a lungo. In un periodo marcato dal conflitto, la guerra di indipendenza turca (1919-1923) e la prima guerra mondiale, gli sconvolgimenti politici e demografici che attraversarono l’impero mutarono in modo sensibile il profilo della popolazione nelle regioni rurali dell’Anatolia e di riflesso anche di Istanbul. I massacri contro gli armeni spinsero anche coloro che abitavano la capitale a riparare altrove; e in generale, anche se gli scambi di popolazione tra Grecia e Turchia dettati dal Trattato di Losanna non colpivano direttamente i greci stambulioti, molti cristiani lasciarono la città. Nel 1923, il sogno cosmopolita di Istanbul si infranse contro il progetto nazionale della nuova repubblica.
Progetto nazionale e turchizzazione della città
8Con la fondazione della repubblica Mustafa Kemal stabilì la capitale della nuova e moderna Turchia ad Ankara, una decisione che, come altre, doveva sancire una cesura netta con il passato ottomano e con l’impero crollato su se stesso. Per Istanbul non fu facile ridimensionare il proprio ruolo: non solo non era più il centro per una vastità di territori – dai Balcani al Medio Oriente – ma con l’abolizione del califfato smetteva di essere anche un luogo di particolare interesse per i musulmani; infine, doveva confrontarsi con la perdita della funzione amministrativa e politica, che significava anche l’allocazione di nuove risorse nella nuova capitale. La popolazione si ridusse drasticamente ritornando a contare meno di un milione, soglia che aveva superato durante la guerra. Soprattutto ricadde su Istanbul il peso di un progetto nazionale che si basava su una definizione di identità e di cittadinanza rigida e monolitica e che spingeva verso un’omogeneizzazione della popolazione e l’annullamento delle differenze etniche, linguistiche e confessionali fino ad allora sopravvissute.
9Per un lungo periodo, che si protrae fino agli anni Sessanta inoltrati, Istanbul assisté a forti spinte nazionalistiche e all’abbandono dei suoi abitanti non turchi, in molti casi costretti da provvedimenti mirati a ridurre il proprio potere economico e una certa autonomia in termini religiosi ed educativi.11 La promulgazione nel 1942 dell’imposta sul patrimonio, la Varlık Vergisi, che voleva essere una misura fiscale per rimpinguare le casse dello Stato, all’indomani del conflitto mondiale, in realtà si rivelò uno strumento discriminatorio che andava a colpire le minoranze non musulmane: ebrei, greci e armeni, che rappresentavano allora la borghesia liberale, la classe commerciante della città.12 Di conseguenza tutti i quartieri nel lato europeo, sulla collina che domina il Corno d’Oro, la zona di Beyoğlu (già Pera) e Kurtuluş (prima Tatavla), dove si erano trasferite le famiglie benestanti della borghesia non musulmana, ma anche molte aree della Penisola storica, come nel quartiere di Fatih, si svuotarono consegnando molti edifici storici, chiese, fondazioni all’abbandono e alla successiva occupazione da parte dei migranti provenienti dalle zone rurali, e in particolare di curdi. Questa trasformazione della popolazione che derivò da una politica di progressiva turchizzazione della città si manifestò anche nel cambio di nome di molte strade e luoghi che avevano connotazioni non propriamente turche: così ad esempio la Grande rue Pangaldi divenne Cumhuriyet Caddesi (viale della repubblica), la Grande rue Tatavla mutò in Kurtuluş Caddesi (viale dell’Indipendenza) o ancora Papaz Köprüsü (Ponte del prete) divenne più banalmente Yaya Köprüsü (Ponte pedonale).13 In modo analogo, la cancellazione delle tracce di una presenza eterogenea, non turca, si abbattè anche sul patrimonio immobiliare: non solo il grave incendio del Patriarcato greco-ortodosso sopraggiunto nel 1941 e le cui cause non sono mai state chiarite ma in generale molti edifici, soprattutto chiese, furono distrutti e danneggiati, anche a scapito del valore storico-artistico, perché considerati come elementi estranei, privi di valore affettivo e nazionale.14
10In tale contesto si inseriscono anche i drammatici eventi del 6 e 7 settembre 1955, quando un gruppo consistente di persone, con la connivenza del governo, in un’azione dal carattere profondamente nazionalista, nel clima di tensione attorno alla questione cipriota, attaccò e saccheggiò negozi, palazzi ma anche chiese e scuole appartenenti a commercianti greci ma anche armeni, ebrei e levantini causando ancora una volta partenze e abbandoni.15
11La complessità di misurarsi con l’alterità quanto con la storia e il passato di una città che era stata crocevia di persone e di idee fecero perdere poco alla volta, già nel corso della prima metà del XX secolo, il suo carattere cosmopolita.
Istanbul dalle strade dorate
12“Le strade di Istanbul sono lastricate d’oro”: decretava all’incirca così un detto comune diffuso soprattutto tra gli abitanti delle campagne e tra i nuovi arrivati dall’Anatolia sulle rive del Bosforo. A partire dagli anni Cinquanta, Istanbul entrò in una nuova fase durante la quale riconquistò, senza mai più perderlo, il primato all’interno del paese. La politica di industrializzazione attuata dal governo comportò un rapido sviluppo urbano e una migrazione massiccia verso i centri urbani. Attratti dalle possibilità di investimento e di guadagno, nonché dalla prospettiva di una mobilità sociale, giunsero a Istanbul i primi esponenti di una incipiente borghesia rurale, in parte formatasi traendo vantaggio dall’economia informale e dal mercato nero durante gli anni della seconda guerra mondiale. Fu solo l’inizio di una migrazione continua che portò a una crescita esponenziale della città, che in pochi decenni vide la propria popolazione moltiplicarsi per cinque (da poco più di un milione nel 1950, si passò a 2.8 milioni nel 1970 e 6.5 milioni nel 1990; tra il 1960 e il 1980 Istanbul assorbì un quarto della nuova popolazione urbana). Un tale sviluppo determinò inevitabilmente un’espansione dell’area urbana che si allargava prendendo forma tanto in nuovi quartieri residenziali, meglio corrispondenti alle aspirazioni della classe media emergente, quanto in quartieri satellite illegali (gecekondu) che spuntavano poco alla volta attorno alla città, dove si insediavano i nuovi abitanti. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, Istanbul rappresentava per molti contadini, ma anche per gli abitanti dei piccoli villaggi dell’Anatolia, non solo un’opportunità di lavoro quanto la possibilità di far esperienza diretta di una modernità di cui si poteva cogliere l’atmosfera grazie alle notizie che oramai giungevano anche nelle zone remote, grazie al miglioramento delle infrastrutture. La ripresa economica e l’apertura verso i mercati internazionali, in particolare quello statunitense, avevano inciso anche sulla vita quotidiana, nella definizione di nuovi stili di vita e di consumo, oltre che nella produzione culturale. Di nuovo Istanbul, più di ogni altro luogo, sembrava vivere appieno questo nuovo clima di fermento e di modernità. Eppure, chiaramente non era facilmente accessibile a tutti e, per quanto lo sviluppo garantisse occupazione, d’altra parte non concedeva a chiunque le stesse condizioni: in molti si trovarono a vivere in situazioni di privazione e povertà. Negli anni Settanta il malcontento, unito al desiderio di cambiamento e a una situazione politica ed economica in forte crisi, si tradusse in un periodo di grande violenza politica, che ebbe Istanbul come scenario principale.16
13L’immigrazione si consolidò, come spesso accade, lungo traiettorie dettate da relazioni sociali, familiari o di provenienza, che si ricostituirono nelle maglie della metropoli. Non era difficile, come non lo è ancora in molti casi oggi, ritrovare nello stesso quartiere persone che provengono dalla stessa regione se non dallo stesso paese. Le reti migratorie erano infatti basate su legami di solidarietà e mutuo appoggio fondati su una comune appartenenza, regionale, locale, familiare, religiosa. L’importanza di queste reti che facilitavano l’integrazione urbana dai primi momenti contribuì dunque a una valorizzazione, se non anche una strumentalizzazione, di alcuni tratti identitari e a una riformulazione in chiave urbana di un legame originario di solidarietà.17 In numerosissimi casi ciò si tradusse nella nascita di associazioni di quartiere, particolarmente attive a livello territoriale e, soprattutto, un importante punto di riferimento in una città in continua espansione, popolosissima e caotica.
La città globale
14Nei primi anni Ottanta si consumò un passaggio importante nella storia della città. Come dichiarò il sindaco Bedrettin Dalan, eletto nel 1984, occorreva “trasformare Istanbul da una città stanca la cui gloria sta [va] nel passato in una metropoli ricca di promesse per il XX secolo”. Il cambiamento seguiva gli stravolgimenti che il paese conobbe in campo politico, economico e sociale, in seguito al terzo colpo di Stato militare, avvenuto il 12 settembre 1980. Insieme a una virata nella politica economica tutta incentrata su uno sfrenato liberismo, cominciò a farsi largo in questo periodo l’idea di fare di Istanbul una città globale, competitiva e dinamica.
15La metropoli doveva rilanciare l’idea di un paese che rivendicava il suo posto sulla scena mondiale e allo stesso tempo fornirgli le principali carte d’accesso. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta fu quindi avviata una politica mirata a stabilire le condizioni per attrarre capitali stranieri: furono incentivati gli investimenti nel turismo e nelle infrastrutture, si costruì il secondo ponte sul Bosforo, sorsero grossi centri commerciali ma anche aree fiera, centri congressi, alberghi di lusso delle più note catene internazionali. Grazie ad alcuni interventi urbani alcune aree furono rase al suolo per lasciare spazio a grandi arterie. Il profilo di Istanbul cominciò in questo modo a mutare: accanto ai minareti spuntarono grattacieli sempre più alti, in punti strategici e panoramici, a dispetto di ogni vincolo paesaggistico. La politica neoliberista trasformava poco alla volta la vecchia capitale in una città fruibile in senso ampio, una città globale, un nodo nella rete mondiale dei servizi e della finanza oltre che capitale del turismo internazionale. Questi cambiamenti causarono pesanti ripercussioni anche sul piano sociale, per diversi aspetti. Intanto, ciò significò l’arrivo in città di uomini d’affari, dei cosiddetti yuppies, persone abituate a muoversi in un ambiente internazionale e secondo standard di vita diversi, che reclamavano poter vivere anche a Istanbul. Per cui si ebbe, soprattutto a partire dagli anni Novanta, un duplice fenomeno: da un lato iniziarono a comparire all’esterno della città le cosiddette gated communities, dall’altro prese a svilupparsi un interesse per quei quartieri nel vecchio centro della città più caratteristici dal punto di vista architettonico e più vicini ai luoghi centrali della cultura e del divertimento, provocando un processo di progressiva gentrification. D’altra parte le nuoviefunzioni della città implicarono una ristrutturazione dell’economia, formale e informale, lo sviluppo del settore dei servizi e, di fatto, nuove condizioni di lavoro e di integrazione nel mercato occupazionale che non garantivano più come prima una redistribuzione più ampia delle ricchezze.18 Si acuirono in questi anni le disuguaglianze sociali, che spesso ricalcavano una segmentazione basata su differenze regionali, se non addirittura etniche. Non a caso si formulò un discorso che stigmatizzava gli abitanti delle aree periferiche, in una rigida contrapposizione tra stambulioti e nuovi arrivati, in cui questi ultimi apparivano come veri e propri invasori. Le nuove espressioni della cultura popolare che maturavano nelle aree meno sviluppate, conseguenza di una commistione di stili di vita e di una riformulazione di valori tradizionali e religiosi, erano viste dalla classe media urbana come una minaccia alla modernità, una pericolosa “ruralizzazione” dell’ambiente urbano.19
16A ciò si aggiunse che dalla metà degli anni Ottanta e poi soprattutto nel corso degli anni Novanta, Istanbul conobbe una nuova ondata migratoria composta soprattutto da persone in fuga dai propri villaggi a causa della recrudescenza del conflitto nelle regioni curde. Questi nuovi immigrati incontrarono grosse difficoltà per inserirsi nel tessuto urbano sia perché non vi era oramai più suolo da occupare (e da far fruttare in un secondo momento) sia perché privi di risorse economiche da investire. Gli edifici abbandonati oramai da anni dei quartieri centrali rappresentarono un’occasione abitativa propizia, sebbene offrissero condizioni di vita al limite del degrado. Si verificò quel processo di periferizzazione del centro, per cui aree situate all’interno del cuore economico, commerciale e turistico divennero luoghi di residenza della ‘nuova povertà urbana’, luogo di marginalità sociale ed economica. In molti di questi quartieri si sarebbero insediati anche molti migranti irregolari stranieri.
Prospettive nel nuovo millennio
17Gli anni duemila sono segnati dall’arrivo al potere nel 2002 del Partito Giustizia e Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi, Akp) guidato da Recep Tayyip Erdoğan, già sindaco di Istanbul tra il 1994 e il 1998. Il partito Akp, che si definisce fautore di una democrazia conservatrice, è di fatto un’evoluzione del partito di ispirazione islamica Refah Partisi, che vinse per la prima volta le elezioni amministrative nel 1994 conquistando molte città importanti, tra cui Istanbul, anche grazie all’appoggio delle classi popolari.20 L’attenzione alla dimensione urbana, alle politiche di sviluppo della città, continuano a rivestire grande importanza per l’Akp, che di fatto attua una politica neoliberista in linea con i governi precedenti. Per certi versi la crescita economica, in controtendenza rispetto alla congiuntura negativa dell’economia mondiale, contribuisce ulteriormente ad accelerare le dinamiche di cambiamento avviate dal governo in carica. Istanbul è un’importante posta in gioco per Erdoğan: è il terreno principale su cui misurare le politiche nazionali; è il biglietto da visita del paese all’estero, testimonianza della modernità e del progresso e allo stesso tempo di un passato glorioso, quello ottomano, che questo governo ha saputo rispolverare e reintegrare nella storia nazionale.
18La politica attuale in campo urbanistico si legge attraverso una serie di provvedimenti normativi adottati nel giro di pochi anni. In particolare nel 2005 viene promulgata la legge n. 5366 sulla ‘Preservazione attraverso il rinnovo e l’utilizzazione mediante rivitalizzazione dei beni di valore storico e culturale deteriorati’, atto legislativo che permette l’attuazione di cosiddetti progetti di trasformazione urbana (Kentsel dönüşüm projeleri), asse portante di tale politica. Con esso si apre la strada a un intervento massiccio da parte dell’amministrazione municipale e del TOKİ (Toplum Konut İdaresi) – l’ente governativo per le abitazioni sociali, in diversi quartieri storici della metropoli. I progetti, che interessano numerose aree, preventivamente dichiarate ‘zone da rinnovare’, per quanto possano apparire parte di “una strategia studiata e concertata, attuata nell’intera Istanbul” suscitano tuttavia molte critiche e proteste. Questi interventi si rivelano, infatti, più che delle opere di restauro e rivalorizzazione una manovra per adeguare questi quartieri, situati il più delle volte in posizioni strategiche, agli standard di uso e consumo abitativo dei ceti sociali più abbienti e allontanare i gruppi sociali più deboli verso le cinte più esterne. Nelle aree in cui i progetti sono già a fase ultimata, come Sulukule e Ayazma, è possibile constatare come, senza alcuno sforzo di concertazione con gli abitanti, i progetti consistano in un intervento radicale che prevede la demolizione di edifici, sicuramente in cattivo stato ma il più delle volte di elevato valore storico-artistico, e lo spostamento della popolazione verso quartieri di nuova costruzione posti in zone decentrate.21 I quartieri coinvolti sono sia vecchi agglomerati di costruzioni illegali (gecekondu) sia le aree degradate situate nel centro storico della metropoli. Come si è detto, in entrambi i casi zone della città abitate da una popolazione insediatasi nelle diverse fasi delle migrazioni che hanno interessato Istanbul, con una solida trama di relazioni che risulta necessaria e importante nella quotidianità.
19I rischi più evidenti di tale politica sono l’annullamento di questo tessuto relazionale, con la conseguenza di una marginalizzazione di parte della popolazione, e la perdita di identità di molti quartieri a vantaggio di una omologazione degli spazi urbani. Il futuro di Istanbul sembra in tal modo disegnarsi secondo una tendenza che si è sviluppata anche in altre città europee, dove il centro è un’attrattiva turistica e luogo di consumi e divertimento, spazio residenziale solo per i ceti più agiati.22 In tale contesto urbano la presenza di una diversità etnica, linguistica, confessionale che inevitabilmente deriva dall’afflusso di persone spinte da motivazioni differenti, nell’ambito di flussi migratori diversificati, appare dunque tradursi in una composizione sociale fortemente segmentata e disuguale ben lontana dalla vivacità cosmopolita e multiculturale di cui sembrano vantarsi gli attuali amministratori.
Bibliographie
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Quaderni di bioetica
1. Il bambino che viene dal freddo. Riflessioni bioetiche sulla fecondazione artificiale, a cura di A. Nunziante Cesàro, Franco Angeli, Milano, 2000
2. Etica della salute e “terapie non convenzionali”, Atti del Convegno di Napoli (29/30 novembre e 1° dicembre 2000), a cura di L. Melillo, Quaderno n. 1, Giannini, Napoli, 2002
3. Ricerche di bioetica, a cura di M. Coltorti, Quaderno n. 2, Giannini, Napoli, 2004
4. Medicina ed etica di fine vita, Atti del Convegno di Napoli (22/24 aprile 2002), a cura di M. Coltorti, Quaderno n. 3, Giannini, Napoli, 2002
5. Il multiculturalismo nel dibattito bioetico, a cura di L. Chieffi, Quaderno n. 4, Giappichelli, Torino, 2005
6. La cura delle donne, Atti del Convegno di Napoli (27-29 ottobre 2004), a cura di R. Bonito Oliva, Quaderno n. 5, Meltemi, Roma, 2006
7. Percorsi tra bioetica e diritto. Alla ricerca di un bilanciamento, a cura di L. Chieffi e P. Giustiniani, Quaderno n. 6, Giappichelli, Torino, 2010
Nuova serie
1. Bioetica pratica e cause di esclusione sociale, a cura di L. Chieffi, Quaderno n. 1, Mimesis, Milano, 2012, in corso di pubblicazione
Notes de bas de page
1 Bilgin I. et al., Istanbul 1910-2010. Kent, Yapılı Çevre ve Mimarlık Kültürü Sergisi (City, Built Environment, and Architectural Culture Exhibition), Bilgi yayınları, Istanbul, 2010.
2 Si veda il contributo di Nadia Matarazzo in questo volume.
3 Dal punto di vista cronologico uno dei maggiori studiosi del fenomeno migratorio in Turchia individua diverse fasi della migrazione che si differenziano per la tipologia dei flussi e le caratteristiche dei migranti, così come per l’attitudine del governo turco in ambito di politiche migratorie: 1979-1987; 1988-1993; 1994- 200/2001; 2001-oggi. Soltanto però a partire dalla metà degli anni Novanta si può constatare un flusso consistente e diverisifcato di immigrati irregolari, un transito maggiore per il paese ma anche una permanenza più lunga dei migranti in considizioni di clandestinità. Içduygu A., Transit Migration in Turkey: Trends, Patterns, and Issues, CARIM-RR, EUI, Fiesole (Fi), 2005, pp. 6-7.
4 DANIŞ D., TARAGHI C., PÉROUSE J.-F., “Integration in Limbo”: Iraqi, Afghan, Maghrebi and Iranian Migrants in Istanbul, in Içduygu A., Kirişçi K. (eds.), Land of Diverse Migrations. Challengs of Emigration and Immigration in Turkey, Istanbul Bilgi University Press, Istanbul, 2009, pp. 468-475; 576-582.
5 Secondo Derya Özkan Istanbul è stata definita per la prima volta una “cool city” nel 2005 quando la rivista Newsweek la designò come “the coolest city of Europe”. Derya Özkan attualmente dirige un progetto di ricerca presso l’Institute of European Technology di Monaco di Baviera dal titolo “From the Oriental to the ‘Cool’ City. Changing Imaginations of Istanbul, Cultural Production and the Production of Urban Space”. Maggiori informazioni sono reperibili alla pagina web: http://www.en.uni-muenchen.de/news/newsarchiv/2011/2011_oezkan.html(ultimo accesso 21/01/2012)
6 DE AMICIS E., Costantinopoli, Einaudi, Torino, 2007, pp. 30-31.
7 Alla vigilia delle guerre balcaniche gli stranieri a Istanbul erano il 15 % di una popolazione di circa un milione, i greci rappresentavano il 30 %, gli armeni e gli ebrei il 15 %. KEYDER Ç., A brief history of modern Istanbul, in KASABA R. (ed.), The Cambridge History of Turkey. Turkey in the Modern World, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 506; sulla composizione demografica dell’impero ottomano del XIX secolo si veda KEMAL H. KARPAT, Ottoman Population, 1830–1914: Demographic and Social Characteristics, University of Wisconsin Press, Madison, 1985.
8 KEYDER Ç., cit., 2008, p. 506.
9 A loro si aggiungevano anche i turisti che prima dello scoppio della I guerra mondiale superavano già i seimila l’anno. Dal 1883 Istanbul era una tappa principale dell’Oriente Express (lo Şarki Ekspresi per i turchi).
10 Vanno considerati qui anche i contingenti provenienti dalle diverse colonie britanniche, francesi.
11 Come spiega Jean-François Pérouse è possibile individuare sette momenti distinti che hanno visto i non musulmani abbandonare definitivamente la città: 1914- 1915, 1922-1926, 1936, 1942, 1955, 1964-1965 et 1973-1974. PÉROUSE J.-F., «Les non musulmans à Istanbul aujourd’hui: une présence en creux? Le cas de l’arrondissement de Fatih», Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, 107-110, septembre 2005, p. 266.
12 Si tratta formalmente di una misura fiscale che intendeva colpire i profitti, non soggetti ad alcun controllo, che alcune categorie trassero anche illecitamente durante gli anni della Seconda guerra mondiale. Di fatto nella sua applicazione si rivelò uno strumento discriminatorio contro le minoranze non musulmane. La legge prevedeva difatti una suddivisione in due categorie distinte: i musulmani e i non musulmani (Gayrımüslim). In seguito furono aggiunte la lista degli stranieri (Ecnebi) e dei Dönme, ebrei convertiti all’islam. Per i non musulmani gli importi da pagare, per i quali non era stabilita un’aliquota fissa, erano superiori anche di dieci volte e in molti casi i commercianti dovettero svendere il proprio patrimonio. Il mancato pagamento entro quindici giorni implicava la deportazione ai lavori forzati, oltre alla confisca di beni e proprietà. Arresti e deportazioni riguardavano principalmente greci, armeni ed ebrei, come mostrano le liste dei nomi degli insolventi pubblicati sulla stampa dell’epoca. BALI R., The “Varlık Vergisi” Affair: A Study on Its Legacy. Selected Documents, Isis Press, Istanbul, 2005.
13 Sui cambiamenti topografici della città di Istanbul è in corso un progetto della Fondazione turca per gli studi economici e sociali (TESEV) nell’ambito di una ricerca sui diritti delle minoranze. Per maggiori informazioni si può consultare la pagina web: http://www.tesev.org.tr/
14 PÉROUSE J.-F., 2005, pp. 270-71.
15 Nel settembre 1955 si verificano dei gravi incidenti che causano un inasprimento della situazione. Nel periodo in cui sono in corso i negoziati per risolvere la questione di Cipro, esplode una bomba nella casa natale di Atatürk a Salonicco. Quando la notizia giunge a Istanbul, un’organizzazione nazionalista, la Società Cipro è turca (Kıbrıs Türktür Cemiyeti), indice un comizio da cui gruppi di persone si distaccano e si riversano nelle strade del centro, principalmente nel quartiere di Beyoğlu, caratterizzato da una grossa presenza di commercianti greci ma anche armeni, ebrei e levantini, per saccheggiare e distruggere negozi, palazzi, chiese, scuole, per un totale di oltre cinquemila edifici. Gli incidenti, che durano due giorni, il 6 e il 7 settembre, non vengono fermati dalla polizia e causano una nuova ondata di migrazione degli abitanti greci, armeni ed ebrei che erano rimasti a Istanbul. Sempre in conseguenza della crisi cipriota nel 1963 intimò ai greci residenti in territorio turco di abbandonare la Turchia: oltre dodicimila greci dovettero allora lasciare il paese. GÜVEN D., 6-7 Eylül olayları, Tarih Vakfı, Istanbul, 2005.
16 Cfr. ZÜRCHER E. J., Storia della Turchia, Donzelli, Roma, 2007, p. 319-320.
17 Cfr. PÉROUSE J.-F., «Phénomène migratoire, formation et différenciation des associations de hemşehri à Istanbul: chronologies et géographies croisées», European Journal of Turkish Studies, Thematic Issue n° 2, Hometown Organisations in Turkey, 2005. Testo disponibile al sito: http://www.ejts.org/document369.html(ultimo accesso 30/09/2011).
18 Sull’impatto prodotto dall’ascesa della finanza e dei servizi alla produzione sulla struttura sociale ed economica delle città si veda SASSEN S., 2004, Le città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna, pp. 127-151.
19 Per queste forme della cultura popolare si adopera spesso il termine di arabesk. Si veda ÖZBEK M., Arabesk Culture: A Case of Modernization and Popular Identity, in BOZDOĞAN S., KASABA R. (eds.), Rethinking modernity and national identity in Turkey, Seattle, 1997, pp. 211-232; STOKES M., Sounding out: The Culture Industries and the Globalization of Istanbul, in KEYDER Ç. (ed.), Istanbul Between the Global and The Local, St. Martins, New York, 1999, pp. 121-139. Sulla contrapposizione tra stambulioti e nuovi arrivati: ÖNCÜ A., Istanbulites and Others: The Cultural Cosmology of ‘Middleness’ in the Era of Neo-Liberalism, in Keyder Ç. (ed.), cit., 1999, pp. 95-119.
20 La vittoria a Istanbul sorprese molti e nell’immediato fu accolta con grande timore: la città simbolo della cultura, della modernità, cosmopolita per tradizione cadeva nelle mani di un gruppo di conservatori, che si fregiava di rappresentare gli ultimi arrivati in città. Allora, durante la campagna elettorale, Erdoğan fu l’unico a prendere le distanze dal progetto di città globale già allora molto in voga e fondò la sua campagna elettorale su una retorica populista mirata a legittimare gli abitanti delle periferie (e delle enclavi periferiche), gli esclusi e marginalizzati dal ceto medio urbano stambuliota. Come osserva Tanıl Bora una volta vinte le elezioni tuttavia il governo locale cominciò presto a interpretare la città come un’impresa economica (business enterprise) e a riconsiderare il progetto di città globale che prometteva allo stesso tempo l’accesso in modo decisivo nei gangli del potere e la scalata dell’imprenditoria dell’Anatolia (quelle che saranno definite ‘le tigri anatoliche’) a livello della borghesia urbana oltre l’attuazione del programma sviluppista del partito. BORAT., Istanbul of the Conqueror: The ‘Alternative Global City’. Dreams of Political Islam, in Keyder Ç. (ed.), cit., 1999, pp. 47-58.
21 Sulukule è un quartiere noto per essere stato il primo insediamento storico della popolazione rom nella città, ancor prima della presa da parte degli ottomani. Ayazma, reso noto anche grazie ai romanzi di Latife Tekin, è un agglomerato di gecekondu sorto inseguito alle migrazioni forzate seguite alla repressione del 1980 e abitato prevalentemente da curdi. Per Sulukule il valore storico-culturale dell’area, posta all’interno delle mura di Teodosio costruite nel 447, e per Ayazma la nuova posizione strategica assunta in seguito alla costruzione dello stadio olimpico e favorita dalla vicinanza all’autostrada e alla zona industriale, hanno rappresentato un importante motivo di interesse da parte della municipalità che, spalleggiata da diverse società di costruzioni, ne ha fatto i due progetti pilota. Oggi i due quartieri sono stati resi irriconoscibili dalle demolizioni: a Sulukule, dove è rimasta un’unica abitazione originaria, dei 5mila residenti ve ne sono solo 75. Oltre 300 famiglie sono state trasferite in un complesso del TOKİ a Taşoluk, circa 40 km di distanza dal centro, in abitazioni che non di rado lasciano per incapacità di adattamento o per l’insostenibilità dei fitti. In modo analogo circa 7.800 persone prima residenti ad Ayazma sono state trasferite in un altro complesso TOKİ, a Bezirganbahçe. Indagini di campo hanno rivelato un elevato indice di insoddisfazione degli abitanti nelle nuove case, dove si sentono privati delle proprie relazioni, del proprio passato oltre che di opportunità informali di sopravvivenza.
22 KEYDER, cit., 2008, p. 522.
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