Il Tirukkuṟuntāṇṭakam e il Tiruneṭuntāṇṭakam di Tirumaṅkaiyāḻvār
p. 49-61
Texte intégral
Il Tirukkuṟuntāṇṭakam, "Il sacro tāṇṭakam breve", e il Tiruneṭuntāṇṭakam, "Il sacro tāṇṭakam lungo", di Tirumaṅkaiyāḻvār — di cui si offre qui la traduzione1 — formano, insieme al Periyatirumoḻi, massima opera dello stesso autore, l’Iraṇṭāmāyiram, il secondo migliaio e il secondo libro del Nālāyirativviyappirapantam, canone della devozione visnuita in tamiḻ2.
1Fine letterato ed erudito, amante delle sperimentazioni metriche, Tirumaṅkaiyāḻvār costruisce i due inni — come dice il loro titolo — sulla struttura del tāṇṭakam, tipo di poema in elogio di una divinità composto da quartine di uguale lunghezza, in cui ogni verso, in metro āciriyaviruttam, è formato da sei cīr nella forma del tāṇṭakam breve, o da otto cīr in quella del tāṇṭakam lungo. Tuttavia il termine tāṇṭakam che contraddistingue le due opere è stato anche interpretato devotamente, sulla base del sanscrito daṇḍaka, come un piccolo bastone usato dai montanari per aiutarsi nella salita, che, trasferito in contesto sacro, sarebbe il sostegno, il bastone supremo che il dio stesso e il suo amore costituiscono per il devoto3.
2Il Tirukkuṟuntāṇṭakam, formato da 20 strofe, ha struttura lineare e semplice, e vi prevalgono i temi tipici e tradizionali della devozione visnuita tamiḻ. E’ presente il motivo autobiografico — destinato ad essere ampliato e accentuato nel Periyatirumoḻi — con la confessione del compiacimento di una vita di peccato e di libertinaggio, la convinzione della propria pochezza, dell’impurità fisica e morale, e la consapevolezza delle colpe, che tuttavia possono essere riscattate dagli atti devoti (10, 12-14). Tale coscienza di sé, benché terrificante, comporta il mirabile risultato del palesarsi divino agli occhi del devoto e della fuga delle colpe, sparite come sparisce l’acqua divorata dal ferro incandescente (13). Il medesimo paragone si ritrova riferito all’essere assorbito nell’amore per il dio, e al vincolarsi al suo servizio (5). Ritorna qui un prediletto motivo degli Āḻvār4: in un continuo gioco di ambiguità e capovolgimenti, Māl, che divora per distruggerla la vita dei suoi nemici (2), divora o beve il devoto, per farlo suo, e ma è a sua volta cibo per il devoto stesso, e ne è da lui bevuto con una delizia che ha evidenti connotazioni gustative, accentuate dalla terminologia con cui l’Āḻvār lo definisce: egli è ambrosia, è il dolce succo della canna da zucchero, è miele, e, squisitezza somma, è succo di canna da zucchero mescolato a miele (2, 4-6, 8, 13). La mente medesima del devoto, che arde nell’inquietudine, è paragonata a una formica destinata ad essere inghiottita dal fuoco che divora un tizzone (9). E il dio ancora una volta è, nell’offerta di parte di sé, cibo capace di colmare l’incolmabile ciotola di un altro e illustre colpevole: Śiva condannato, per espiare d’aver mozzato la quinta testa di Brahmā, a nutrirsi mendico delle offerte gettate in quell’insaziabile cranio (19).
3E’ messa in risalto la difficoltà di celebrare Māl nella sua vera essenza (2, 6), e di cantare lui che è il poema stesso (6), a sua volta inghirlandato dal serto di parole dell’Āḻvār (16). La meditazione e la proclamazione della sua grandezza sono indicate come modo di ottenere la liberazione dalle rinascite, così come la lode dei suoi luoghi santi (8, 17-19). Il valore del servizio, della schiavitù a lui è accentuato dalla volontà dell’Āḻvār di lodare e venerare gli altri suoi devoti e servitori (7. 11).
4La visione—reale, interiore, o anche solo onirica—del dio è fonte di beatitudine irrinunciabile e rassicurazione (1, 4, 12-13, 18): si consegue attraverso la quadruplice via dell’azione, della parola, del pensiero e — ultimo ma certo non minimo, e chiave di volta della devozione — dell’amore (4). E l’amore, non facile da conquistare e che genera la conoscenza (5, 15, 18), è ancora coinvolto nella doppia direzione del movimento che unisce dio e devoto: proviene da Māl medesimo come suo dono e imposizione (10), e quindi frutto della sua volontà, ma è poi rivolto a lui con tale intensità da far rifiutare all’Āḻvār anche la salvazione, se deve essere ottenuta attraverso la modalità paradossale dell’offesa (17).
5E’ presente, ma secondario, il valore della concentrazione mentale e del dominio esercitato sui sensi, totalmente esclusi nell’ulteriore paradosso del vedere il dio — come lume irraggiante splendore! — stando immoti a occhi chiusi (18). Solo l’affermazione, peraltro assai comune negli Āḻvār, che egli è unico sostegno (9) richiama l’esegesi che lo vuole come bastone e supporto per il devoto.
6Meno lineare è la struttura del Tiruneṭuntāṇṭakam, formato da 30 quartine la cui suddivisione convenzionale in tre parti uguali è imprecisa. Valida per la prima decina di strofe, tutte di tradizionali temi devozionali, non lo è per la seconda, in cui parla la madre di una fanciulla innamorata del dio, poiché la strofa 20 non offre elementi certi per l’attribuzione a quella sola protagonista, e sembra piuttosto un commento dell’Āḻvār, o una considerazione corale della madre e di tutte le donne da lei apostrofate, riguardo alla qualità di grande devota che la ragazza ha conseguito. Così le strofe in cui parla la fanciulla sono solo otto, perché la 29 sembra ancora espressione diretta dell’autore, con struttura analoga alla 20: in entrambe la litania delle gesta divine si conclude con l’affermazione che la ragazza, o l’indegno peccatore, sono divenuti devoti grazie al pensare il dio o recitarne i santi nomi.
7Le prime quartine (1-3) sono incentrate sul motivo delle forme — visibili e invisibili, onnicomprensive — del dio che è impossibile da conoscere come unica forma in un unico aspetto, e che sta nella forma stessa dell’Āḻvār: sequela di definizioni in cui l’accento è posto sulla luce e sui colori, e su questi possedenti la proprietà della lucentezza, come nelle gemme. Māl compendia e concilia in sé realtà e essenze diverse e opposte: è differenti credenze religiose (2), e, in una strofa (4) in cui sono dominanti elementi della tradizione settentrionale, è sia la lingua sanscrita sia il tamiḻ, di cui sembrano messi in evidenza gli aspetti che ricadono sotto la percezione sensoriale. Insieme al motivo ricorrente degli atti di reverenza ai piedi divini (5, 6, 8), è introdotto e sviluppato in incessante litania (6-10) il tema della venerazione dei luoghi santi e del dio definito come loro abitatore. E’ ripetuta l’apostrofe al cuore dell’Āḻvār (6,7), che ribadisce il sentimento della propria spregevolezza e ignoranza, e la disperazione di non sapere, per questo, né dove sia colui che pure in tanti luoghi palesemente dimora, né come sia possibile rivolgersi a lui se non con invocazioni concitate fatte di locuzioni descrittive o qualificative (9, 10).
8Le strofe (11-19 o 20) pronunciate da una madre angosciata per il cambiamento della giovanissima figlia innamorata, che si affligge e smania per Māl e per i suoi luoghi santi, non si discostano dalle riprese dei temi del Caṅkam tipiche di tutti quegli Āḻvār che hanno voluto così esprimere i propri sentimenti verso il dio5. La scelta di dedicare una parte dell’inno al personaggio della madre — scelta di protagonista che ricompare frequente nel Periyatirumoḻi6— può essere ricondotta alla tendenza di Tirumaṅkaiyāḻvār ad attribuire alla divinità connotazioni materne7 oltre a quelle, più consuete, di padre, riscontrabile già nel Tirukkuṟuntāṇṭakam (3). La madre, nei suoi monologhi, coinvolge altri personaggi tutti femminili: si rivolge ad altre donne per chiedere consolazione e solidarietà, e a un’indovina che, convocata per dire chi sia la causa del turbamento della ragazza, identifica il colpevole con onestà e sicurezza (11). La conclusione cui giunge il gruppo delle madri — se è quello la voce parlante della strofa 20 — sembra di incapacità a commentare e a reagire, se non con la rassegnazione, di fronte al fare sempre più incontrollabile della ragazza: inevitabile considerando la personalità forte, anche violenta, dell’amato, ben indicata dall’evocazione delle sue vicende mitiche e dallo sgomento del mondo femminile, che si sente privo di protezione (11). L’unica affermazione possibile è che la fanciulla è una suprema devota: e davvero, nel suo agire da innamorata, ella assume gli atteggiamenti dei devoti, compie gli stessi loro gesti, invoca il dio, aspira a raggiungerne i santuari, ne evoca i miti e le imprese, ne ripete inconsultamente gli appellativi, canta e danza impersonando l’ondeggiare dello stendardo con Garuḍa, suona uno strumento musicale — settentrionale, però — e presenta uno stato psichico alterato, abbandonando il comportamento razionale e il rispetto delle convenzioni, fino al gesto definitivo di partire, come in un sacro pellegrinaggio, per raggiungere e vedere l’amato nella sua dimora. Per tutto ciò l’Āḻvār pare riconoscersi e immedesimarsi nel personaggio della fanciulla con speciale accentuazione, esplicitamente ricalcandolo su se stesso8. Alcuni particolari sembrano confermarlo: mentre la mamma è perplessa sull’innamorato che ha già due compagne, femminilmente e maternamente preoccupata degli altri impegni coniugali del dio e dei suoi troppo liberi costumi (18, 19), la figlia appare invece sottilmente gelosa del serpente — velenoso! — su cui il dio dorme (12), o ancora, in una strofa (24) in cui parla in prima persona, dei devoti e degli asceti che lo circondano. E’ gelosa quindi più degli altri devoti vicini a Māl, con i quali si identifica, che — come sarebbe naturale — delle consorti del dio, di cui non si sente vera rivale.
9Ma, nel consueto ribaltarsi e moltiplicarsi speculare delle situazioni, anche Māl è devoto, e proprio a delle donne: nemmeno la mamma della ragazza, dalle ansie così umane e terrene, si sottrae alla terminologia della devozione usando per lui, quando considera il suo attaccamento alle spose (18), la definizione di pattar insieme a quella di pittar, pazzo, cara ai mistici più ardenti9.
10Le otto strofe (21-28) in cui parla la fanciulla innamorata, riguardano strettamente la relazione fra lei e il dio. Vi prevalgono le descrizioni dei vari aspetti con i quali egli le si presenta, e la narrazione delle reazioni di lei, tipiche della poesia d’amore del Caṅkam, ma rivelanti tratti che evocano anche la possessione, associata allo stato di malessere (23), e la devozione, associata al concetto dell’esser resa schiava (25). Interessante — alla conclusione del percorso emotivo che dallo stordimento dell’incontro la conduce, attraverso il dolore della separazione, alla gioia del previsto congiungimento — è il senso di potere che la ragazza ritiene di avere su un personaggio la cui forza e le cui gesta eroiche e violente non manca di elencare (28): soprattutto poiché alla certezza della futura conquista non si accompagna la spiegazione di ciò che intercorre fra la desolazione di prima e la fiducia finale. Fondata su elementi apertamente sensuali e passionali, tale conquista ricorda la "cattura" del dio e il rifiuto di lasciarlo andar via descritti più volte dagli Āḻvār10.
11Cattivante e insinuante appare la tecnica seduttiva di Māl che — anche in sogno — si mostra e poi si allontana, solo alludendo alle sue dimore (23-25), senza parole, preghiere o dichiarazioni che vengono invece ribaltate sul personaggio femminile, costretto a confessare il proprio amore e la propria passione, anche se per bocca di messaggeri (26, 27)11, e ad agire contro le convenzioni12. Il divino incantatore non compare sempre solitario, nella sua opera di fascinazione: si presenta però in compagnia solo maschile. In aspetto di Rāma, è accompagnato dal fratello (21), identificabile con l’amico e confidente del protagonista nelle convenzioni d’amore del Caṅkam. Così è forse anche nella quartina successiva, dove qualche ambiguità del testo potrebbe consentire di leggervi una duplice presenza, che sembra poi fondersi e confondersi in una sola figura con quattro braccia. Sarebbe questa allora l’unica strofa dell’inno in cui Māl eserciterebbe davvero la sua insita tendenza a creare turbamento, confusione e obnubilamento: provocando nella fanciulla la perdita della chiarezza mentale e l’incapacità di rendersi conto e di ricordare l’effettivo svolgersi degli eventi. In modo più consono alla tradizione devota, e alla sua palese forma divina che esibisce gli emblemi del disco e della conchiglia, egli appare dopo (24), invece, austeramente circondato da grandi devoti e asceti.
12La penultima strofa del componimento reintroduce il personaggio dell’Āḻvār, indegno devoto che ha osato rivolgere il pensiero al dio: essa sembra una giustificazione, una spiegazione di ciò che abbia provocato il formarsi dell’intero inno, completata dall’appello alla benignità divina della strofa finale, lo śrutiphala.
13L’esegesi si è esercitata a rielaborare, complicandoli, i temi e i significati dei due Tāṇṭakam. Un commento ad entrambi si ha ad opera di Periyavāccāṉpiḷḷai. Parāśarabhaṭṭa invece dedica un commento al solo Tiruneṭuntāṇṭakam: esso ha la peculiarità di considerare un’unica strofa dell’inno, la 21, e dall’interpretazione di essa trarre il significato di tutte le altre, tentando anche varii tipi di classificazione dell’opera, suddividendola in tre parti di dieci strofe, e indicando come temi di ciascuna rispettivamente bhakti, prapatti e Lakṣmī come mediatrice, puruṣakāra, o ancora tirumantram, dvayam e caramaślokam, e infine oṃ, namaḥ e nārāyaṇāya13.
14Al pari delle altre composizioni dell’Āḻvār, i due Tāṇṭakam sono stati considerati Vedāṅga, membra ausiliarie dei Veda tamiḻ, le quattro opere di Nammāḻvār14.
15Proprio dopo aver cantato e mimato il Tiruneṭuntāṇṭakam ad Araṅkam davanti a Viṣṇu, Tirumaṅkaiyāḻvār avrebbe ottenuto dal dio, assai compiaciuto, che il Tiruvāymoḻi di Nammāḻvār venisse recitato insieme ai Veda durante l’Adhyayanotsava: consuetudine poi obliata, che sarebbe stata ripristinata ad Araṅkam da Nātamuṉi, estesa a tutto il Nālāyirativviyappirapantam, e continuata da Rāmānuja, che lo introdusse nel rituale domestico oltre che templare.
16Ancor oggi, nel penultimo giorno della prima parte di una festa celebrata nel mese di Mārkaḻi, gli Araiyar del tempio di Āḻvārtirunakari cantano il Tiruneṭuntāṇṭakam e lo illustrano con danze convenzionali, accompagnandolo con la rappresentazione dell’episodio di divinazione, muttukkuṟi, della strofa 11, in cui la kuṟatti, l’indovina, è chiamata a curare la ragazza che langue per amore del dio: poi, nella seconda parte della festa, cantano il Tiruvāymoḻi, riconfermando così l’antica tradizione di rappresentare accostate insieme le due composizioni15.
Tirukkuṟuntāṇṭakam, Il sacro tāṇṭakam breve
Ho visto Māl che un tempo ha dato la morte a Kaṃsa, l’Intelletto che governa i mondi, la Beatitudine di coloro che sanno pensarLo nel giusto modo, il Pilastro di corallo, la Ricchezza, la Felicità che mi ha pervaso il cuore quando L’ho lodato e adorato: perciò io, Suo servitore, non posso più staccarmene!
O cuore, devi magnificare, celebrandone le virtù, il Micidiale che ha divorato la diletta vita dell’asura16, l’Ambrosia, il Fiume di delizia, il massiccio, bello Zaffiro che dimora sul Himālaya17, il Torello che ha distrutto Laṅkā cinta di mura difensive, il Vento, l’Acqua, il Fuoco! Ma come potrai celebrarLo?
Io ho adorato soltanto il Possente che vive nel Māliruñcōlai circondato da foreste di bambù tanto estese da ricacciare la luce del sole quando si diffonde, il mio Signore, il Padre che, maternamente amorevole verso i celesti, ha ottenuto l’ambrosia frullando con la grossa montagna il vasto oceano pieno di barche!
Mi è apparso in sogno Colui che ha il colore della terra e, fattosi cinghiale, ha sollevato la Terra: con immenso desiderio, L’ho accolto e L’ho rinchiuso in me con le parole, con le azioni, con la mente, con l’amore. Questo vorrei sapere: come ho potuto provare tanta delizia?
Come acqua divorata dal ferro incandescente, mi sono compenetrato nell’amore — difficile da conseguire — per il mio Signore, mi sono vincolato al Suo servizio e sono rinato alla vita. Mi sono stretto a Colui che ha il colore delle nubi gonfie di pioggia, L’ho posto nel mio cuore, L’ho bevuto come il dolce succo della canna da zucchero. Come ho potuto provare tanta delizia?
I servitori che lodano Colui che è unico e supremo nella Trimūrti, il Re che ha conquistato il mondo, il lucente, massiccio Zaffiro che vive in Kuṭantai, il Poema squisito, il fresco Miele, l’Oro fino, il Fiore sul capo degli dèi, con quali parole Lo celebreranno?
Otterranno che mi prostri ai loro piedi coloro che meditano sulla Sostanza, sull’Unico che vive sul Tirumalai, il Color nero e il Color rosso che abita nella grande Araṅkam dai vasti boschi, il Vero che è per noi liberazione, la Vita in questo mondo e nell’altro!
Chi non vive unito a Māl, la Nube nel cielo, la Ricchezza, il Succo della canna da zucchero innaffiata col miele prodotto dalle api sui monti, non pensa che rinascerà come essere umano! Rifletti: si è proprio cercato la certezza di rivivere nel corpo e nella carne!
La mente, la mia mente, non ha requie da nessuna parte, arde come una formica su un tizzone divorato dal fuoco crepitante. O Sapiente, o Fulgente che, Dio di tutti gli dèi, hai conquistato l’universo, mai, in nessuna esistenza, avrò altro sostegno che Te!
L’intelletto non sta saldo nella rettitudine: che farò, io, che ho colpe scottanti? Ordina che io prenda amore alla devozione verso di Te, o mio Signore, o Smeraldo di perlaceo splendore! Null’altro conosco che l’esserTi schiavo, o Padre mio dal colore delle nubi corrusche e tonanti!
Signore mio, ordina che la mia afflizione finisca, e io ottenga di prostrarmi ai Tuoi piedi, e Ti adori e lodi tutti i Tuoi servitori! Ti celebrerò, o Luce suprema, Prosperità che costituisce il buon ordine, Origine di tutto lo spazio, Universo intero!
Con bocca bavosa in un sudicio corpo io, servitore impuro, ho pronunciato gli eterni nomi di Māl signore di Araṅkam, di Lui che è la vita! E mentre atterrito pensavo "Come ho mancato, io, peccatore!" Lui dal colore delle ninfee azzurre si è palesato ai miei occhi e mi ha detto "Non aver paura!".
Anche l’acqua sparisce, divorata dal ferro incandescente! Pensa: tutti i miei peccati, causa di mali gravissimi, sono scomparsi, mi hanno abbandonato! Come si sono deliziati i miei occhi vedendo la Canna da zucchero che sta nel grande tempio di Araṅkam, circondato da boschi in cui vivono le api!
Sono invecchiato nel compiacimento di essere un peccatore, pensando sempre e solo all’amore con donne dagli occhi più belli dei loti azzurri. Poiché non ho volto la mente al Signore di Kuṭantai circondata dal fiume in cui vivono cigni piumosi, mi sono incancrenito nel mio traviamento.
Le ossa mi si sciolgono, mi si consumano per il Signore che, bruciata Laṅkā dalle antiche mura, la città del malvagio Rāvaṇa, ritto ha ricevuto l’omaggio di Hanumat che, là giunto, si è prostrato amorevole ai Suoi piedi. Grazie all’amore che è tutto il mio cuore, io, Suo schiavo, potrò bagnarmi coll’acqua della conoscenza!
Il mio Signore, Māl generoso verso i celesti, che con la grossa montagna ha frullato l’immensa distesa del mare, che ha valicato i mondi, che camminando ha abbattuto gli alberi di marutu, che ha ucciso l’ingannevole gazzella: io, Suo servitore, Lo cingerò della grande, pura ghirlanda delle mie parole!
Chi ha proclamato la grandezza del Signore di Pēr, si è affrancato dal rinascere. Proclamandola, anche chi L’ha offeso si è salvato: così si suole affermare in questo mondo. Io, uomo ignorante, l’ho proclamata, ma mi rifiuto di offenderLo per sottrarmi alla rinascita. Grande, capisci, è il mio amore per Colui che ha il colore del mare ondoso!
Chi eliminerà il meccanismo delle rinascite e la sofferenza che ne consegue e, stando immoto ad occhi chiusi, soggiogati i sensi, porrà solo in Lui la sua affezione e Lo penserà con mente che non vacilla, ben contemplando la Lampada che così si palesa irraggiando splendore, non Lo vedrà dunque realmente?
Chi altri si salverà, se non si salveranno quelli che, in massa, proclamano Kaṇṭiyūr, Araṅkam, Meyyam, Kacci, Pēr, Mallai di fama universale come le città dell’Unico che ha cancellato la maledizione di Quello dal capo rasato, costretto a cibarsi mendicando per le case dei vicini, tenendo in mano un teschio pieno di briciole?
Possiederà il cielo splendente chi saprà recitare alla perfezione le venti strofe della ghirlanda in bel tamiḻ in cui Kaliyaṉ armato di lancia possente canta Māl dai rossi occhi e dai rossi piedi, che sempre il re degli dèi e Brahmā che sta sul fiore di loto venerano, spargendo fiori profumati.
Tirukkuṟuntāṇṭakam, Il sacro tāṇṭakam lungo
E’ forma di lampo, nella forma visibile è i quattro Veda, è luce di lampada, è la luna medesima che è spuntata e si è levata, è forma nascosta, nella forma visibile è uno senza nascita né malattia né vecchiaia, libero dal pensiero della morte, è forma di oro stimato, è i cinque elementi in forma di zaffiro, è forma d’acqua, è forma di fiamma splendente in forma di fuoco: così il Padre mio sta nella mia forma, e i Suoi santi piedi simili a boccioli sono sul mio capo!
E’ la dura terra, l’acqua, il fuoco, il vento e anche il cielo, è molti credi diversi. Quando si considerano separatamente le sante forme degli dèi celesti che esistono come tre persone nelle belle forme che sussistono diffuse, una forma è forma d’oro, un’altra è rosso fuoco, un’altra è forma di scuro oceano18. Quando si guardano tutte e tre le forme che stanno riunite insieme, la forma del nostro Principe è forma di nube di singolare splendore.
Dillo! Chi mai avrà potuto vedere, senza lodarLo nei secoli dei secoli, Lui che ha rossi occhi in una scura figura: nelle Sue forme divine essendo impossibile da conoscere come unica forma in un unico aspetto, il nero Neṭumāl, il Rosso nel Trētayuga, il Grande che, nel tempo in cui trasse l’ambrosia dal mare, rifulse in aspetto di conchiglia, Lui che ha il colore dei loti azzurri!
E’ principio a Indra e a Brahmā, è i cinque elementi — vasta terra, vento, fuoco, acqua e cielo — ed è la melodia del tamiḻ perfetto ed eccellente e la lingua settentrionale, è tutti e quattro i punti cardinali e il sole e la luna, Lui, il Brammano inconoscibile anche per gli dèi nel cielo, la Formula posta alla fine del tesoro dei brammani19: se vivrai senza mai dimenticarLo con le formule, sarai salvo, o semplice cuore!
Un piede è ristato dopo aver superato l’acqua con un bel passo, l’altro piede, arrivato oltre anche il riverente pensiero nella mente dell’asura20 di desiderabile prosperità, è andato di là del firmamento, è passato attraverso il vasto cielo, si è innalzato, muovendosi sì da sopravanzare anche la fresca luna e il sole, e, sfiorata la cerchia delle stelle, si è spinto ancor più avanti: soltanto ai santi piedi simili a fiori del nostro Padre che si è fermato dopo essersi impadronito di tutti i mondi io mi sono inchinato.
Vieni, o cuore! Veneriamo la bella Kōvalūr che ha stagni per cinta e dove il Peṇṇai — con la fiumana che dilaga sulla la terra — produce oro, spandendosi nei campi di riso, sparpagliando nel suo fluire le perle prodotte dagli alti bambù che ha trascinato via: in tutte le località di cui si compiace il Signore dall’indole senza compassione, che sempre ha rivolto la Sua ira là contro gli asura, Lui che solo cavalca Garuḍa dalle belle piume, il Re degli immortali dalle lunghe e grandi mani che danno fino all’appagamento, cantiamo i Suoi piedi!
Orsù, o cuore! Veneriamo il luogo di Colui che ha vinto, primo fra tutti, il Vēḷ21che aveva scagliato nel mare pieno di scogli una straordinaria lancia, e ha impugnato un’ascia ben fatta perché morissero i re dalle forti spalle grosse come montagne, e ha governato il mondo: la bella Kōvalūr recinta da stagni di loti, fra lunghe strade, circondata da profumati giardini, dove Gli rende omaggio il magnificente re delle montagne22, e dove è difesa la semplice, pura fanciulla dimorante sui Vindhya23.
Tu che stai nel Nīrakam! Tu che stai sulla cima dell’alto monte! Tu che stai nel Nilāttiṅkaḷtuṇṭam! Tu che stai nell’Ūrakam della prospera Kacci, e dentro il Veḵkā coll’acqua fulgida ai guadi, e nel cuore di chi Ti ha nel cuore! Tu che stai nel Kārakam celebrato dal mondo, e dentro il Kārvāṉam! O Ladro! Tu che stai nel tempio di Pēr posto sulla sponda meridionale del Kāviri bello e ambito! Tu che stai nel mio cuore senza andarTene! O Grande! Io ho avuto cari solo i Tuoi santi piedi!
Tu che stai in Mallai dove le triplici acque marine arrivano riversando grosse gemme prese dalle navi! Tu che stai nella città di Kacci cinta di mura! Tu che stai a Pēr! Tu che hai al fianco Colui che ha al fianco sinistro la ingenua ragazza di stirpe montanina e sul petto un bel serto di koṉṟai colmo di nettare! Tu che stai sul Mare di latte! Tu che sei stato sulla terra! Tu che stai sulla vetta del Tirumalai! Tu che hai colore del corallo! Dove sei, o nostro Signore? Io, misero ignorante, così vago cercandoTi!
Tu che sei oro, Tu che sei la gloria di aver preso su di Te la protezione di tutti e sette i mondi! Tu, Elefante del meridione che il mondo loda! Tu, Elefante del settentrione! Tu, Elefante dell’occidente! Tu, eccitato Elefante d’oriente! Tu che sempre sei dinnanzi a tutti i celesti! O Luce venerata da chi Ti segue! Tu che stai nel Tirumūḻikkaḷam, Tu che sei il Principio! Io, spregevole servitore, se non dirò "O mio Elefante! O mio Elefante!", che saprò dire? Sono un misero ignorante!
Si mette addosso una veste di seta. E’ confusa, e sgomenta. Non si cura più della sua bambola. Versa lacrime dai lunghi e umidi occhi, non dorme, nemmeno per un istante resiste a starmi in braccio, e chiede dove sia Tiruvaraṅkam del nostro Signore. "Dimmi sinceramente, o indovina, chi ha fatto ciò a quella timida cerbiatta nella cui chioma ronzano belle api rigurgitanti di nettare?" ho chiesto. E quella ha risposto che è stato Colui che ha il colore del mare. O donne, chi ci proteggerà?
Se ne sta lì col cuore che si strugge, con gli occhi lacrimanti, e languisce, sospira, non conosce cibo, non si cura di dormire. "O Supremo che Ti godi il Tuo sonno su un velenoso serpente!" invoca, e "O Signore di Āli dalle risaie piene di fiori profumati!". Balla imitando lo stendardo con Garuḍa dalle belle penne, e canta. Dice "O amica, danzeremo mai nell’adorna Araṅkam?" Per aver generato una figlia che non sta sotto la mia ala, devo aver commesso una colpa straordinaria su questa terra! Che peccato!
Dice "Tu che hai dato riparo dalla grandine sollevando una montagna!" e "Tu che stai nella città di Kacci dai desiderabili fiori!" e "Tu che, dopo aver spezzato l’arco, hai preso la mano della fanciulla!" e "Re che dormi a Veḵkā!" e "Tu che allora distruggesti i lottatori, avendoli attaccati con forza!" e "Mio Eroe le cui mani hanno squarciato il cavallo! ": poi sceglie una parola, ordina al pappagallo di ripeterla e si strugge, mentre sulla coppia dei suoi seni scende una pioggia di lacrime.
Ha sentito il suo pappagallino cantare il giovane Sole, la Nube che sta a Kuṟuṅkuṭi, la preziosa Ambrosia incommensurabile che, essendo Principio supremo, ha traversato il trimundio eterno ed è ristato oltre, il Brammano che dimora ad Araṅkam, Lui che è il pensiero dei brammani, il Lume fulgente, lo Smeraldo, Tirumāl in Tiruttaṇkā e Veḵkā: allora gli ha detto "Ho fatto bene ad allevarti. Vieni!" e gli si è inchinata a mani giunte.
Dice "Elefante che stai a Kacci cinta da lunghe e alte mura di pietra!" e "Frutto maturo che giaci sul mare!" e "Padre che Ti compiaci di stare nell’adorna Aḻuntūr che ha una cinta di risaie e stagni fioriti di bei fiori di loto!". Stringe al seno la lunga vīṇā da cui si leva alto il suono, e sorridendo sì che i candidi denti solo s’intravvedono, suonando fino ad arrossarsi le morbide dita, così tanto ciancia la mia bambina, come un pappagallino.
Dice "Torello che sei lieto e felice di portare al pascolo i vitelli!" e "Mio Frutto maturo che stai in Kaṇapuram cinta di profumati giardini!" e "Tu che hai tripudiato danzando una danza in mezzo a un crocicchio!" e "Eroe che abiti sul settentrionale Tiruvēṅkaṭam!" e "Re che hai vinto e sterminato la genìa degli asura!" e "Tu che dimori a Tirunaṟaiyūr cinta di vasti giardini!" e "Compagno mio dal nero corpo e dalla folta chioma!" e si strugge, mentre una pioggia di lacrime le cola sulla coppia dei seni.
I suoi giovani, morbidi, turgidi seni fioriscono d’ oro, gli occhi simili a carpe litigiose versano lacrime. Quando esce fuori, il suo corpo si strugge per il tubare con cui si rivolgono alle femmine i giovani colombi dalle rosse zampe, ed è pensierosa, e allora canta Taṇkāl e la fresca città di Kuṭantai e canta la fresca Kōvalūr, e danza. Mentre l’ascolto e le dico "Ragazza, è bene questo per la nostra famiglia?" lei risponde cantando anche Naṟaiyūr.
Il Suo corpo è color delle nubi, gli occhi, la bocca, il palmo delle mani e la coppia dei piedi sono color dei loti rossi. Lui è devoto alla giovane Donna color della terra, Lui è pazzo per la Giovane sul fiore rugiadoso. Certo avrò fatto qualcosa di male: la mia bambina dal bell’aspetto non ascolta le mie parole. Dice "Dov’è Tiruvaraṅkam del nostro Signore?" e "Andrò a Nīrmalai di Colui che ha il colore delle acque del mare!". Non è questo il modo di essere di chi ha perso il contegno?
La Bambola dai seni di incorruttibile bellezza sta sul petto orgoglioso dell’Ingannatore. Pur vedendo ciò, lei si è rovinata, ha perso il suo contegno. Sospira e ripete "O amica, danzeremo mai nell’adorna Araṅkam?" Quando io, che l’ho messa al mondo, dico una pur minima parola, non mi ascolta. Cantando Pēr e cantando la fresca città di Kuṭantai è andata a bagnarsi nello stagno dei loti d’oro24, la mia figliola senza paragone. Anche i vostri tesori di figlie sono così?
Ha annientato la prosperità del rākṣasa armato di spada che guidava il cocchio, e prima ha distrutto la meridionale Laṅkā, bruciata dal rosso fuoco. Perché perisse il bellicoso Bāṇa dalle mille braccia, è andato là, oltrepassando la fortificazione del mare agitato, e ha mostrato la sua superiorità, Lui, il Reggitore della terra, il Grande che ha sollevato la terra, che ha divorato la terra, che ha vomitato la terra, che ha misurato la terra, e che ha governato la terra. Se non dire che la fanciulla che recita i Suoi nomi è sulla terra una suprema devota, che potremo mai dire?
I capelli dalle profumate ciocche di color nero scendevano sciolti sulle spalle, gli orecchini a forma di pesce danzavano splendendo a lato dei due volti. Essendo loro compagno l’arco crudele, capace con le frecce, sono venuti qui in due25 e si sono fermati di fronte a me. Il colore delle mani era quello del loto rosso, la bocca sembrava un loto, la coppia degli occhi era loti, e così i piedi. E vedendoli stare in tale sembianza, o amica, ho pensato che fossero dèi e mi sono intimorita!
Provavano una straordinaria melodia naivaḷam, guardavano come persone per nulla intimidite, e poi cantavano dolci parole: allora il mio cuore e i miei occhi sono corsi a unirsi ai piedi santi del nostro Signore. Dopo di ciò non ho più visto i braccialetti ai miei polsi, né la mia cintura. Vedevo i due pesanti orecchini a forma di pesce e le quattro braccia. A me che dicevo "Quanto c’è al tempio del nostro Signore?" hanno risposto "Non è dunque questo, la bella Āli?".
Mi ha dato un malessere che mi striscia nella mente, e qui ha preso il mio colore di germoglio di mango e i miei fulgidi braccialetti. In sogno vedo Lui inghirlandato di verde tuḻāy stillante di nettare, che dice "La mia città è Tiruvaraṅkam, dove le carpe saltano dopo aver bevuto il limpido liquore che sgorga terso dalle giovani noci di cocco". Quando Lo vedo, Gli dico "Non te ne andare, o Ladro che cavalchi Garuḍa!". Dico così, e poi mi rammarico!
Questi braccialetti di conchiglie non stanno più ai miei due polsi: che peccato! E’ per il colore di Colui che è simile a una grossa nube dalla grossa pancia che beva, buttandovisi, al vasto mare dall’acqua risonante e scintillante. Lui dalla bocca così grande che ha mangiato il mondo, è venuto qui e in una mano teneva la conchiglia, nell’altra il disco, ed era circondato da grandi devoti e da asceti dalla dura penitenza. Poi se n’è andato dicendo "La città è Araṅkam, sul fiume!", e mi ha fatto intristire, così che dai miei occhi simili a carpe litigiose scendevano lacrime.
Mostrando il santo corpo fulgido come un lampo e le larghe spalle e le mani che si sono adirate coll’elefante e gli occhi e la bocca e gli orecchini con attaccati pesci scintillanti, pendenti sotto i fiori di tuḻāy profumati che sbocciano là da Lui, ha portato via la mia bellezza, il mio contegno, il mio intelletto e i miei braccialetti. Mi ha fatta schiava, e se n’è andato dicendo "La città è Araṅkam, sul fiume, fra boschi di cerunti profumati fioriti come oro "!
O piccolo bombo dalle sei zampe che ti copri di macchioline, tu con la tua compagna, quando ti aggrappi ai fiori, gustando il nettare dai boccioli che si schiudono nei boschi profumati, e dolcemente vi riposi! Mi inchino a te! Va’, ora, da Colui che sta nell’adorna Aḻuntūr, il Re degli immortali che ha seguito le mucche e ha portato al pascolo le mandrie. Avvicinati, fermandoti senza paura, e diGli —bada! — questa piccola cosa soltanto: "Una fanciulla ti ama "!
O semplice cicogna dalle rosse zampe! Se ora andrai a Tirukaṇṇapuram e vi entrerai e dirai la mia passione al mio Compagno, al mio Māl dai rossi occhi, non ci sarà per me gioia pari a questa. Per sempre ti darò tutto questo verde bosco come cosa tua, e ti darò da catturare e da mangiare i pesci delle risaie. Quando te li avrò dati, tu e la tua compagna potrete venire a vivere qui e restarvi lietamente, e godere della più dolce felicità sulla vasta terra!
Lui che, distruggendo i bastioni della meridionale Laṅkā, è arrivato perché morisse l’asura, Lui che ha traversato tutti e tre i mondi, Lui che ha guidato un carro straordinario perché finisse la guerra dei Bhārata splendente di re, il grosso Elefante dal corpo come una montagna: o amica, stringendoLo alle rotondità dei miei seni splendenti del color dell’oro, io sarò capace di non farLo più andar via, e lascerò il broncio e mentre dentro di me, in tutte le mie membra, arriverà e si mostrerà la felicità, in ogni momento starò pensando a Lui e struggendomi di gioia.
Il Re della fanciulla della famiglia dei pastori, il Padre che, un tempo, ha frullato il mare ondoso e vi ha costruito un ponte, Lui che ha scagliato frecce, coll’arco crudele, al re dei rākṣasa d’inattaccabile forza, perché morisse, e l’ha vinto sterminandone la stirpe, Lui che ha braccia che hanno sollevato una montagna, Lui che ha scelto di sempre star ritto in Viṇṇakaram dall’acqua con ampie onde, Māl che sta sdraiato nella fresca Kuṭantai, l’Eccelso: io, cane di un devoto, a Lui ho pensato.
Saprà estirpare dalle radici le antiche, vecchie azioni chi saprà recitare la ghirlanda di strofe in tamiḻ ben intrecciate che Kaliyaṉ, Parakālaṉ dalla degna lancia, re di Maṅkai dai grandi, belli e solidi palazzi, ha pronunciato per il Padre che, quando è stato cigno, ha rivelato i difficili Veda, lodato dagli immortali e dagli asceti: dicendoGli "Tu che hai il colore di una grossa nube che striscia bassa, carica di pioggia e lampeggiante, Re dei celesti, siimi benigno!"
Notes de bas de page
1 condotta sui testi tamiḻ nell’edizione del Nālāyirativviyappirapantam di Pra. Pa.Aṇṇaṅkarācāriyar, Madras 1971.
2 per le opere e la figura di Tirumaṅkaiyāḻvār, per la traduzione in italiano del Periyatirumoḻi, e in generale per le problematiche relative agli Āḻvār e alle loro opere, si veda Inni degli Āḻvār. Testi tamiḻ di devozione visnuita, a cura di E.Panattoni, Torino 1993. Per gli antecedenti della bhakti degli Āḻvār si veda Le Paripāṭal, intr. trad. et notes par F.Gros, Pondichéry 1968.
3 cfr. K.C.Varadachari, Āḻvārs of South India, Bombay 1966, pp.123-125.
4 di Nammāḻvār in particolare: cfr. ad es. Tiruvāymoḻi II.3.9, II.6.1, VIII.7.9-10, IX.6.3-8 e 10, X.7.1-3, X.8, X.10.5,7-8.
5 per un confronto con la rielaborazione dei motivi del Caṅkam in altri Āḻvār, e in particolare in Nammāḻvār, si veda F.Hardy, Viraha-bhakti. The early history of Kṛṣṇa devotion in South India, Delhi 1983, part 4.
6 ad es. II.7, III.7, IV.8, V.5, VIII.1, VIII.2, IX.9, X.9.
7 ad es. in Periyatirumoḻi I.1.9 e V.7.2.
8 cfr. anche, a questo proposito, Periyatirumoḻi XI.3. Per l’identificazione di questo Āḻvār, e anche di Nammāḻvār, con la fanciulla innamorata del dio, si veda F.Hardy, op.cit., pp.331 e sgg., 371 e sgg.
9 per l’appellativo di "pazzo" rivolto al dio, si vedano ad es. Perumāḷtirumoḻi VI.4 e Tirumālai 4; per lo stesso appellativo rivolto a se stessi dai devoti si veda Perumāḷtirumoḻi III.3-9.
10 si vedano ad es. Tiruvāymoḻi II.6.1, VIII.7.9-10, X.8, X.10.7-8.
11 a questo proposito, si confronti in particolare la strofa 26 con Periyatirumoḻi III.6.1.
12 come è mostrato fino alle estreme conseguenze nel Periyatirumoḻi, ad es. IX.3 e XI.3, e soprattutto nei Maṭal.
13 cfr. K.K.A.Venkatachari, The Maṇipravāḷa Literature of the Śrīvaiṣṇava Ācāryas, Bombay 1978, pp.64 e sgg., 77 e sgg.
14 Ācāryahṛdayam 43.
15 cfr. N.Jagadeesan, Collected papers on Tamil Vaishnavism, Madurai 1989, pp.60-61 e Cu. Vēṅkaṭarāmaṉ, Araiyar Cēvai, Madras 1985, pp.32 e sgg.
16 Hiraṇyakaśipu.
17 nel santuario di Piriti.
18 Brahmā, Śiva e Viṣṇu.
19 Vedānta.
20 Mahābali.
21 Murukaṉ, alleato dell’asura Bāṇa. Cfr. Periyatirumoḻi VI.7.6 e Tiruvāymoḻi VII.4.10.
22 Himālaya, o un re Cēral della regione montuosa del Malāṭu.
23 Durgā. Cfr. Periyatirumoḻi II.10.6.
24 piscina del tempio di Kuṭantai.
25 Rāma e Lakṣmaṇa.
Auteur
Emanuela Panattoni (b. 1945) is Professor of Dravidian languages and literatures at the University of Pisa, Dept. of Linguistics, since 1979. Her main fields of research are classical and devotional Tamil literature, and modern Malayalam literature. Among her publications are a series of articles on Dravidian loan-words in Pali and Sanskrit (in coll. with M. D’Onza Chiodo, published in "Indologica Taurinensia" V 1977, VIII-IX 1980- 1981, XII 1984, in L.Sternbach Fel. Vol., Lucknow 1979, and Bandhu. Scritti in onore di C.Della Casa, Alessandria 1997); Inni degli Āḻvār. Testi tamiḻ di devozione visnuita, Torino 1993; I Dieci Canti (Pattuppāṭṭu), 2 vols., Milano 1995-1997; Quattrocento poesie di guerra. Puṟanāṉūṟu, Milano 2002. Forthcoming are studies on the organisational structures of classical Tamil anthologies and the book Inni dei Nayaṉmār. Testi tamiḻ di devozione scivaita.
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La création d'une iconographie sivaïte narrative
Incarnations du dieu dans les temples pallava construits
Valérie Gillet
2010
Bibliotheca Malabarica
Bartholomäus Ziegenbalg's Tamil Library
Bartholomaus Will Sweetman et R. Ilakkuvan (éd.) Will Sweetman et R. Ilakkuvan (trad.)
2012