Riflessioni sulla relazione tra procedure fallimentari e declassamento sociale in età moderna (con note a margine sul caso veneziano)
p. 227-233
Résumés
Come prassi riservata agli operatori del mondo mercantile, la procedura fallimentare presentava numerose eccezioni ai principi del diritto civile di origine romana, una sorta di mondo giuridico a sé stante che veniva abitualmente integrato dall’uso dell’arbitrato per rendere più veloci gli sviluppi dei processi. La legislazione fallimentare tendeva a stendere reti di protezione per coloro che si trovavano falliti loro malgrado, a causa delle avverse condizioni congiunturali o per la conseguenza di un comportamento fraudolento altrui; riservava tuttavia pene severe a coloro che attraverso la procedura di fallimento cercavano di ottenere profitti illeciti, spesso dichiarando il proprio dolo con la fuga (falliti fuggitivi). Per entrambe le situazioni, la prospettiva del fallimento coincideva con una perdita dei mezzi di sostentamento, temporanea o duratura, e dunque con l’impossibilità di continuare a presentarsi nel contesto sociale di riferimento: definiva in altri termini un ‘prima’ e un ‘dopo’ estremamente diversi. La nuova condizione di emergenza scatenava effetti a catena: richieste di aiuto e sostentamento, appelli alle autorità, rifugio presso le istituzioni di soccorso, talvolta anche smembramento familiare. Le conseguenze di un fallimento dal punto di vista dell’appartenenza sociale, e della rappresentazione di sé e della propria famiglia, erano in genere assai gravi, e tuttavia risultano molto difficili da ricostruire: i falliti spariscono dai documenti, riemergendo flebilmente nelle suppliche rivolte al governo da parte dei familiari. Tuttavia erano i fuggitivi a essere percepiti come corpi anomali all’interno della comunità mercantile, in quanto disgregatori della buona fama della mercanzia e della reputazione di una piazza.
As a practice reserved for the merchant world, bankruptcy proceedings made several exceptions to the general principles of Roman civil law, and like the developing of commercial law from judgements and customs they made up a separate legal world which was usually supplemented by the use of commercial arbitration to speed up the development of legal actions. Bankruptcy legislation tended to provide protection nets for those who had failed without their fault, due due to adverse economic conditions or as a result of fraudulent behaviour on the part of others; however, it reserved severe penalties for those who sought to make illegal profits through bankruptcy proceedings, often by declaring their intent to flee (fugitive failures). In both, the prospect of a bankruptcy coincided with a loss of livelihood, temporary or continuous, and therefore with the impossibility of continuing to present itself in the social context of reference, marking a difference between the situation before the bankruptcy and after it. This situation had knock-on effects on those who went bust: requests for help and support, appeals to the authorities, refuge in relief institutions, sometimes even family dismemberment. The consequences of a failure from the point of view of social belonging, and of the representation of oneself and one's family, were generally very serious, and yet very difficult to reconstruct: the losers disappear from the documents, rarely re-emerging in the petitions addressed to the government by the family members. However, it was the fugitives who were perceived as anomalous bodies within the merchant community, as disruptors of the good reputation of merchandise in general and of the reputation of a merchant place in particular.
Entrées d’index
Keywords : bankruptcy, merchants, judicial procedures, social downgrading, reputation
Parole chiave : fallimento, mercanzia, procedure giudiziarie, declassamento sociale, reputazione
Texte intégral
E accertato di compatire massime quando si conosce, che il fallimento sia stato cagionato da casi fortuiti, ancora, che accompagnato da mal governo; ma però lontanissima qualunque sospitione di malitioso fine. (Peri 1672-1673, parte I, p. 40)
Je fais voire aussi que les creanciers ne doivent pas éclater en injures, ni insulter leur debiteur, & qu’ils doivent avoir de la compassion pour luy, particulierement quand ils l’ont trouvé de bonne foy, & sans malice. (Savary 1675, p. 29)
1Fallimenti e bancarotte sembrano offrire casi esemplari per l’analisi del declassamento sociale in età moderna. Se agiti con la frode o con il sospetto di frode, i fallimenti potevano effettivamente comportare l’allontanamento, temporaneo o più spesso definitivo, dei responsabili dall’ambiente sociale di riferimento, soprattutto se accompagnati da denuncie e processi, spesso condotti in contumacia. La sorte di chi veniva ritenuto responsabile di aver fatto fallire in malafede una società o un affare veniva infatti segnata da sanzioni e pene che potevano inasprirsi sino alla pena capitale. La logica legislativa mirava a due obiettivi precisi: la protezione dei diritti dei soggetti rimasti coinvolti nel fallimento (i creditori in primo luogo), e la liquidazione degli effetti della società, azione che quasi sempre coincideva con la liquidazione di buona parte del patrimonio del fallito o dei falliti. D’altra parte, l’assunzione legale di responsabilità all’interno di una società familiare (come forma principale di società nel tardo medioevo e nella prima età moderna) riteneva responsabili in solidum anche gli eredi: per il primo fallimento del banco veneziano dei Garzoni, nel 1499, furono chiamati a ripagare i debiti anche gli eredi di Nicolò Bernardo che l’aveva fondato nel 1430, nonostante essi non avessero più parte da anni nella gestione bancaria se non come semplici garanti; e nei fallimenti dei banchi Lippomano e Agostini, nel 1499 e nel 1508, furono i tentativi mossi dai due banchieri per non intaccare le proprietà personali e ripagare i debiti a condurre alla chiusura, e ad attribuire loro una condotta disonesta1.
2I fallimenti bancari erano clamorosi e quasi sempre inevitabili: se si escludono le prime banche pubbliche (o meglio, le prime banche i cui depositi erano garantiti da istituzioni municipali o statali) era sufficiente una voce isolata ma ben diffusa per scatenare il panico e la corsa al ritiro dei depositi nel giro di poche ore, ed era inevitabile per i banchi privati che le crisi fossero sospinte da un ricorrente clima di incertezza politica, o militare, o economica2. La gestione di un panico finanziario richiedeva sangue freddo e moltissimo denaro da racimolare in fretta per mettere a tacere le voci di possibili insolvenze, dando a vedere di essere in grado di ripagare i creditori in qualsiasi momento, tuttavia i soci a fronte di una situazione difficile potevano disporre almeno di un’altra via di uscita con la liquidazione volontaria della società e la restituzione delle somme dovute ai creditori. La liquidazione costituiva un’alternativa meno pesante dal punto di vista delle conseguenze anche se non meno impegnativa: lo scioglimento volontario di una società minava in ogni caso la buona reputazione di essa e dei suoi soci, come protestava inutilmente Tommaso Portinari con Lorenzo de Medici nel 1478 contro la chiusura della filiale familiare di Bruges per eccessive perdite – perdite che Portinari stesso probabilmente aveva contribuito ad allargare3. Ma i fallimenti potevano essere clamorosi anche per società che, nonostante il frequente coinvolgimento in diversi settori, non si occupavano direttamente di attività bancarie. La perdita di un carico importante, o il fallimento di uno o due grossi debitori potevano minare seriamente la robustezza di una società commerciale.
3La procedura fallimentare comportava (e comporta ancora) delle conseguenze, di tipo patrimoniale e di tipo personale. Le conseguenze patrimoniali impediscono al debitore di impoverire ulteriormente il proprio patrimonio, assegnandolo a un’amministrazione specifica a tutela dell’interesse dei creditori; le conseguenze personali impongono invece al fallito di comparire davanti ai tribunali ogniqualvolta ne sia richiesto, e di depositare bilanci e scritture contabili4. Nelle glosse dei giuristi medievali la procedura fallimentare deroga a numerosi principi del diritto civile di origine romana, rientrando così nella eccezionalità di un diritto commerciale sviluppatosi in Europa probabilmente a partire dal dodicesimo secolo e basato su statuti corporativi, sentenze esercitate nei tribunali mercantili e consuetudini specifiche: i creditori hanno uguali diritti indipendentemente dall’ordine di anzianità con cui questi diritti sono stati acquisiti, vale la presunzione di frode per i falliti e non la prova di aver frodato, e la «repressione giuridica dell’insolvenza» (nelle parole di Francesco Galgano) ha effetto solo sulle persone dei soci e sui loro patrimoni, non sulla società. Soprattutto, il regime fallimentare si applica soltanto alla comunità mercantile, quasi per autodisciplinarla con rigore, mentre maggiore indulgenza viene riservata ai debitori civili che diventano insolventi5. Il rigore dei glossatori e degli statuti si rivolge in particolare ai cosiddetti «fuggitivi», coloro i quali abbandonano precipitosamente lo studio o la bottega per evitare le conseguenze della loro insolvenza, mentre non sembra consapevole di una forma più lieve (e molto più frequente in età moderna) di impossibilità nel corrispondere i pagamenti dovuti, ovvero la loro cessazione.
4È così il comportamento dei soci a dimostrare l’insolvenza materiale della società, e negli statuti alla procedura fallimentare dovevano, di norma, essere sottoposti tutti i soci, non soltanto il «fuggitivo»6. Ed è ai «fuggitivi» come corpi anomali all’interno della comunità mercantile di una piazza che dovevano essere inflitte emarginazione sociale, isolamento, riprovazione pubblica, in quanto disgregatori della buona fama della mercanzia, una buona fama che veniva percepita anche come valore civico e non soltanto individuale al punto di includere la reputazione tra gli strumenti probatori del processo come prova di consuetudine mercantile e di affidabilità delle scritture contabili7. Solo alla fine del quindicesimo secolo sembra affermarsi una concezione meno rigida di quella espressa dai glossatori trecenteschi (falliti sunt infames et infamissimi), con diversi effetti sul piano delle conseguenze penali a carico del fallito sistematizzando la distinzione tra fallimento (una condizione di inadempienza), bancarotta semplice (inadempienza senza dolo) e bancarotta fraudolenta8.
5La disciplina giuridica regolava il processo fallimentare secondo il principio del mantenimento della «buona fede» (bona fides) mercantile e dunque dell’ordine pubblico, «entro il quale venivano ad inquadrarsi anche quei mezzi di coercizione personale diretti ad assicurare al processo la persona fisica del debitore »9. Indispensabile per avviare la procedura fallimentare, l’intervento dell’autorità giudiziaria comportava tuttavia alcuni svantaggi: allungamento dei tempi nel ripagamento dei crediti, pubblicità in merito a pratiche e consuetudini d’affari delle singole società nelle aule di tribunale che veniva spesso ritenuta eccessiva e dannosa, e incertezza nell’effettivo recupero del dovuto. Le norme per disciplinare il recupero dei crediti dal debitore insolvente rimanevano infine poche e disorganiche. La loro definizione rientrava nel novero degli istituti di creazione medievale, determinatasi sia da disposizioni pubbliche sia dalla sistematizzazione di sentenze di giuristi e consulenti, la cui applicazione veniva tuttavia complicata dall’intreccio delle competenze tra più fori10. Si erano perciò sviluppati – con marcate differenze e interferenze tra i vari ordinamenti locali italiani – strumenti derivati dal diritto privato e da adattamenti di strumenti già utilizzati dal diritto romano pur se con altri fini, per superare gli svantaggi del procedimento fallimentare. Il concordato permetteva al fallito di stipulare accordi con i propri creditori per il totale o parziale recupero del dovuto, mentre il salvacondotto consentiva una sufficiente libertà di movimento per recuperare una parte dell’attivo societario e contribuire al soddisfacimento dei creditori11. Entrambi gli strumenti si prestavano ad abusi e distorsioni poiché non si potevano escludere accordi segreti e privilegiati di alcuni creditori con il fallito a scapito della massa, mentre salvacondotti troppo laschi avrebbero permesso al debitore di rifugiarsi indefinitamente in un paese straniero. Vennero tuttavia riconosciuti negli statuti e largamente impiegati dalla comunità mercantile, al punto che in alcuni casi (come per Anversa nella prima metà del sedicesimo secolo) gli accordi potevano addirittura permettere al fallito di essere reintegrato nella comunità mercantile e riprendere i propri affari12. Si trattava di una prassi che era ormai largamente consolidata; nel più celebre manuale di commercio pubblicato in Italia nel diciassettesimo secolo Giovan Domenico Peri suggeriva così di mescolare la via giudiziaria dei sequestri alla via privatistica degli accordi e delle compensazioni:
[n]ell’udire, che alcun suo Debitore habbia fallito s’informi quanto più presto sij possibile de gli effetti di quello, con procurare d’esser il primo a sequestrargli, massime ne’ luoghi, ove il primo sequestrante vien preferito a gli altri, procuri ancora di fare qualche lecita compensatione con alcuno Debitore del suo Debitore, & in caso, che non trovi come coprirsi, e che convenga d’aspettare la sodisfattione, che può dar il fallito, accetti per mio conseglio il primo partito, quale sarà sempre il migliore; poiché ogn’uno cottidianamente ha occasione di spendere, e gli effetti peggiorano, convenendo fare come si usa quando s’affonda una Nave, che bisogna pigliar subito quello, che si può […]13
6Negli stati italiani il fallimento era istituto esclusivamente riservato e applicabile agli operatori del mondo mercantile. Venezia tuttavia costituiva un caso a sé: il fallimento vi si identificava con un’applicazione vasta, e veniva direttamente assegnato alla competenza delle magistrature pubbliche (non, invece, alla giurisdizione di una corporazione)14. Il diritto veneziano possiede istituti propri e specifici, a differenza degli altri centri mercantili italiani15. Il problema dell’attribuzione di un istituto più alla spinta di un interesse pubblico piuttosto che di un interesse privato o quantomeno dell’interesse degli agenti (gli «stakeholders») conduce però, in questo istituto giuridico (la disciplina fallimentare a Venezia), a una differente percezione: la comunità dei negozianti, pur consapevole del rischio sociale insito nella disciplina di chi fallisce fraudolentemente e fugge, ritiene sia meglio soddisfare i crediti il più rapidamente possibile, anche lasciando libero di lavorare (e dunque senza incarcerare) il responsabile. A questo ambito di diversa percezione si riferisce ad esempio la disciplina delle «fide», formalmente dei salvacondotti ma nella pratica affidamenti temporanei al debitore che ha presentato istanza di fallimento (purché si presuma senza frode) della pienezza dei propri diritti, per consentirgli il recupero dei propri effetti16.
7La distinzione cruciale in termini di esito sociale del fallimento dovrebbe così concentrarsi sulla distinzione tra falliti loro malgrado (per le avverse condizioni del contesto, per fallimenti altrui) e falliti fraudolenti. A Venezia la disciplina delle «fide» e degli accordi (salvacondotti e concordati) era stata regolata nel 1395: se, nel termine stabilito, il fugitivus depositava le scritture contabili e consegnava il patrimonio, valeva una presunzione legale per cui si doveva ritenere che il fallimento non fosse stato doloso; al fallito era così concessa d’obbligo una «fida» il cui periodo di validità avrebbe dovuto consentire la stipula di un accordo tra fallito e creditori, con l’intento di proteggere anche la persona e la proprietà di chi era fallito17. Il dolo presunto o provato, e soprattutto la fuga, continuavano a distruggere il patrimonio informativo più prezioso per una società commerciale, ovvero la reputazione (o meglio la buona reputazione). Era il patrimonio reputazionale a permettere alla comunità degli affari di riconoscere come solvibile e affidabile un gruppo di soci. Se questa fiducia veniva meno, si dissolveva anche la capacità di dimostrarsi solvibili. La sostanziale importanza della reputazione e della pretesa di solvibilità finanziaria diveniva fondamentale in un mondo economico dove il rientro dalle posizioni creditizie poteva durare anni. Il recupero dei crediti del banco di Andrea Priuli, cessato improvvisamente per la morte di peste del fondatore nel 1424, era ancora in corso a quasi cinquant’anni di distanza; i figli di Priuli non vennero coinvolti, essendo di minore età al tempo del fallimento, e tuttavia non ricevettero nulla della sua eredità, continuando per tutta la vita, a quanto sembra, a ribadire la sentenza di estromissione con i creditori18. Viceversa, la fuga di Beneto Soranzo per le voci di fallimento della sua banca, il 1 settembre 1455, implicò per lui la morte in condizioni di povertà, a Mantova, lontano da tutti.
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Bibliografia primaria
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Bibliografia secondaria
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Notes de bas de page
1 Lane 1982, p. 224 n. 31 e p. 225.
2 Mueller 1997.
3 De Roover 1970, p. 508-510.
4 Santarelli 1964, p. 103-107.
5 Galgano 2001 [1976], p. 52-53. La diversità di condizione tra insolvente e debitore civile veniva rispecchiata da due procedure differenti, che conducevano allo status di fallito e di debitore civile, ed è ancora rimarcata nel diciottesimo secolo. Sciumè 1985, p. 29.
6 Galgano 2001 [1976], p. 55.
7 Migliorino 1999, p. 112-125.
8 Sciumè 1985, p. 55-56.
9 Sciumè 1985, p. 59.
10 Pecorella – Gualazzini 1967, p. 220; Ascheri 1989, p. 39.
11 Santarelli 1964, p. 275-304; Sciumé 1985, p. 59-62.
12 De Ruysscher 2016.
13 Peri 1672-1673, parte I, p. 40. .
14 Cassandro 1938 (tuttavia Umberto Santarelli [p. 291 n. 42] non ritiene dissimile la prassi veneziana da quella di altri stati per ciò che riguarda fide e accordi).
15 Bellabarba 1994.
16 Santarelli 1964, p. 291-293; Pecorella – Gualazzini 1967, p. 225.
17 Santarelli 1992, p. 96-97.
18 Mueller 1997, p. 181-188.
Auteur
Università Ca’ Foscari di Venezia – cisabell@unive.it
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