La Cancelleria ducale a Venezia
Resistenze al declassamento e fine del privilegio
p. 113-131
Résumés
Nella Repubblica di Venezia la Cancelleria ducale fu un’istituzione burocratica destinata a svolgere funzioni delicatissime di “sottogoverno” come: legalizzare i decreti, custodire i segreti di Stato o mantenere i rapporti diplomatici. Il declassamento sociale non passava per il tradimento perché raramente l’infedeltà poteva compromettere le sorti di una famiglia di Cancelleria. Eppure negli anni ottanta del Cinquecento le suppliche per richieste di grazie, autentici freni privilegiati alla perdita di status, ci raccontano storie d’indebitamento per le spese diplomatiche, di doti da pagare o di malattie. Nel secondo Seicento l’apertura del libro d’oro del patriziato veneziano portò alcune famiglie di Cancelleria ad aggregarsi alla nobiltà. Tuttavia in questo modo questi segretari ducali persero la loro identità di ceto e misero a dura prova le loro economie famigliari. Nell’ultimo secolo della Repubblica è il loro ruolo professionale ad essere difeso di fronte al rischio di perdita del monopolio del lavoro cancelleresco. La fine dell’ordine dei segretari avvenne tardi, nel primo Ottocento, anche per la capacità di queste famiglie, appartenenti allo strato intermedio della società veneziana, di riproporsi come funzionari nelle nuove amministrazioni.
In the Republic of Venice the ducal Chancellery was a bureaucratic institution destined to develop very delicate functions of “sub-government” such as: legalizing the decrees, keeping the state secrets or maintaining the diplomatic relations. The social declassing did not go through for the betrayal because the infidelity could rarely compromise the fate of a chancellery family. And yet in the eighties age of the sixteenth century the petitions for requests for graces, authentic brakes privileged to the loss of status, tell us stories of indebtedness for diplomatic expenses, marriage settlement to pay or diseases. In the second seventeenth century the opening of the libro d’oro of the venetian patriciate led some families of chancellery to join in the nobility. However, in this way these ducal secretaries lost their class identity and put their family economy to the test. In the last century of the Republic it is their professional role to be defended in the face of the risk of loss the monopoly of chancery labor. The end of the order of the secretaries came late, in the early nineteenth century, also for the ability of these families, belonging to the intermediate layer of the venetian society, to re-propose themselves as officials in the new administrations.
Entrées d’index
Keywords : Venice, secretary class, chancellery, social identity, downgrading
Parole chiave : Venezia, cittadini, cancelleria, declassamento, identità sociale
Texte intégral
Venezia e il problema del declassamento sociale
1In quel laboratorio di dinamiche, pratiche sociali, nonché di linguaggi che è stata la Repubblica di Venezia nell’età moderna il fenomeno del declassamento sociale è stato studiato nei comportamenti successori, nelle strategie matrimoniali e nel rispetto del passato aristocratico del patriziato considerato povero, o comunque riconducibile ai cosiddetti barnabotti, categoria interpretativa con cui designare i patrizi abitanti nella zona della contrada di San Barnaba in cui essi si concentravano. Tuttavia parliamo di una classe di governo che sebbene comprendesse fasce rilevanti di povertà era comunque composta di nobili appartenenti a un ceto privilegiato, chiuso, e, anche se di origine mercantile, comunque di lunga prosapia1. Nell’esaminare gli impeghi pubblici ricoperti da questi patrizi erano rilevanti alcuni comportamenti amministrativi irregolari come il peculato, la malversazione che venivano ad intaccare l’onore, se non i necessari comportamenti virtuosi, di coloro che avrebbero dovuto rendere giustizia nelle podesterie minori della terraferma e dell’Istria. Atteggiamenti che per lo scarso senso dello Stato manifestato, e per i conflitti insorti con le élite locali, intorno alle illecite aspettative di guadagno di questi rettori, potevano giungere a sottoporre a stigma politico e sociale i colpevoli. Allo stesso tempo questi nobili poveri esercitavano pressioni in Maggior Consiglio, l’assemblea plenaria incaricata della distribuzione di queste cariche, per avere delle magistrature e podesterie redditizie da ricoprire2. Talvolta i tratti di una criminalità da declassamento emergevano nell’incrocio fra povertà e corruzione3.
2Fin dalla seconda metà del Seicento si può addirittura considerare il declassamento sociale di una parte cospicua della classe di governo – di membri che pur portano talvolta lo stesso cognome di casate ricche – ma che era esclusa dall’accesso al Collegio dei Savi per ricchezze, aderenze politiche ed educazione ricevuta, come un modello di lettura della stratificazione sociale. Questa prospettiva d’analisi è stata adoperata da patrizi scrittori come Nicolò Donà e Giacomo Nani fra gli anni quaranta e cinquanta del Settecento per suddividere il gruppo disomogeneo delle famiglie patrizie considerate comunque per nascita legittima appartenenti almeno formalmente alla classe aristocratica4. La decadenza di ampi settori del patriziato, da intendersi soprattutto in termini socio – politici nel crescente divario economico con le case ricche, si trasformò nel Settecento in un problema politico, di sconnessione negli equilibri del potere, ma anche di casi limite di degenerazione sottoposti a relegazione dal parte del Consiglio dei X. Dall’esame degli scritti politici di questo periodo, come quello di Nicolò Donà, è rilevante anche il linguaggio adoperato con l’uso di toni dispregiativi che assimilavano questi nobili alla Plebe. Eppure questo vistoso fenomeno sociale fu in generale imbrigliato nel sistema assistenziale delle provvigioni patrizie di circa 120 ducati all’anno, nell’appartenenza ai consigli giudiziari delle Quarantie ricoperti da patrizi di mediocre fortune e nel gioco dei meccanismi elettorali che portavano indirettamente alla formazione di vistose clientele di nobili poveri verso i cosiddetti patrizi ‘grandi’ della Repubblica5.
3Un analogo modello interpretativo, che analizza la burocrazia centrale per famiglie ricche, di media ricchezza e povere, non è mai stato elaborato per il personale della Cancelleria ducale a Venezia. La Cancelleria ducale era l’istituzione che presiedeva alla produzione scrittoria delle deliberazioni e alla conservazione in registri e archivi del patrimonio legislativo dello Stato marciano. In effetti già appartenere a questa élite ristretta, reclutata all’interno della cittadinanza originaria, cioè il ceto intermedio della società veneziana, era un grande privilegio. La selezione all’accesso per esami e votazioni non impedì il formarsi di dinastie di mestiere, secondo tendenze corporative, anzi incoraggiate dallo stesso patriziato che controllava la Cancelleria. Eppure le gerarchie interne erano piuttosto complesse. Certo quella trentina di funzionari che ruotavano attorno ai principali consigli, come il Senato, il Consiglio dei X e gli Inquisitori di Stato, erano ben definibili nominalmente eppure in essa potevano assumere un ruolo importante singole personalità. Ad esempio nel clima delle riforme settecentesche poteva giocare un peso specifico la segreteria di deputazioni di nuova istituzione come quella ad pias causas (1767). Vi erano notai estraordinari, alla base gerarchica della piramide cancelleresca, che potevano esercitare un’influenza ben maggiore di un segretario del Consiglio dei X, pur non essendo nemmeno nati a Venezia, come, appunto, Piero Franceschi il segretario della deputazione ad pias causas, eletto nel 1786 addirittura consultore in iure6. Il rilievo sociale della Cancelleria ducale all’interno della società veneziana era reso visibile pure dalla posizione della stessa nella processione ducale e marcato dalla padronanza delle leggi non codificate e da procedure da rispettare, che richiedevano delle differenti maggioranze per poter essere legittimamente approvate, nonché dalla stretta collaborazione e continuità a Palazzo ducale con il patriziato veneziano. I connotati di questo gruppo erano impressionanti. Fin dal Cinquecento si può parlare di ordine per quegli ottanta – cento membri che costituivano grosso modo l’organico stabile dell’istituzione. L’impiego negli uffici era di fatto a vita, e questi non erano vendibili, godevano al bisogno di provvigioni più elevate (circa 150 ducati) rispetto al patriziato povero, l’educazione avveniva presso precettori privati e collegi di ordini religiosi insegnanti. La stessa presenza di segretari nella direzione di quelle istituzioni caritative, che erano le Scuole grandi, delegate ad azioni assistenziali a Venezia, nonché la solidarietà ed endogamia di ceto, sono tutti validi elementi frenanti di fronte all’eventualità del declassamento sociale che pongono l’interrogativo se era veramente possibile decadere – estinguersi certo – ma non declassare da quella condizione di pieno, e quasi assoluto privilegio, pur in mancanza di reali diritti politici?7.
4Per affrontare questo problema per primo punto prendiamo in considerazione un esempio emblematico, quale la compromissione di alcuni esponenti della Cancelleria ducale in un grave episodio di tradimento (1542) che poteva mettere in discussione il valore della fedeltà incarnato dai segretari. Eppure tale comportamento non ebbe conseguenze. Non venne trasmesso un marchio di disonore, e d’infamia, all’intero apparato, e forse nemmeno alla stessa famiglia cittadina Cavazza, i cui membri vennero considerati a tutti gli effetti come i colpevoli della divulgazione di segreti di Stato. Aprire una parentesi appare opportuno. Il declassamento può interessare infatti le famiglie con tradizioni di servizio più o meno solide, se non occasionali, ma anche i singoli componenti di essa, e si può misurare sull’immediato ma anche sulla durata media dell’arco intergenerazionale, come nel caso dei Cavazza, per poter esprimere una valutazione più efficace. Eppure per considerare il fenomeno attraverso le storie di famiglia, secondo una serie di flash fotografici, si può rileggere il rapporto preferenziale di patronage fra personale della Cancelleria e il Consiglio dei X, la magistratura patrizia dalla quale fin dalla fine del Quattrocento dipendeva la burocrazia centrale, in particolare nel suo momento di maggiore apogeo negli anni ottanta del Cinquecento. Nello specifico possiamo analizzare il genere letterario della supplica, speciale strumento di comunicazione fra governanti e governati, strutturata secondo un preciso percorso (modi di porsi e tipologia di ricerca degli uffici) e la modulare declinazione dell’identità del richiedente (percorsi esistenziali)8.
5Per secondo punto, spostiamoci sul terreno della mobilità verticale. Anche il cambiamento di status poteva rivelarsi un’operazione insidiosa. In effetti il mondo nobiliare veneziano era sostanzialmente chiuso prima della guerra di Candia (1646) e dopo la pace di Passarowicz (1718). Da questo punto di vista fu probabilmente frustante per le famiglie di Cancelleria l’apertura indiscriminata delle aggregazioni nobiliari nel Seicento dietro l’offerta di un’ingente somma di 100.000 ducati. L’attrazione nobiliare era forte ma la decisione di diventare patrizi veneti significava per i segretari investire in un ‘affare’ incerto per i benefici che, come nuovi nobili, avrebbe comportato alle loro famiglie e poi, in questo modo, si snaturava la propria originaria identità di cancelleria abbandonandola per sempre. La mobilità ascensionale fu rischiosa perché i cittadini originari videro disattese importanti tradizioni di servizio che comportarono in primis la privazione degli stipendi e delle utilità incerte di segretari al punto tale che si è parlato di «sfortuna» per la traiettoria della famiglia Ottobon. Comunque il sogno della condizione patrizia, o più in generale nobiliare, per famiglie come i Perrazzo, era profondo se, ancora nella seconda metà del Seicento, si raccontava che erano state escluse per un solo voto dalla ‘serrata’ trecentesca del Maggior Consiglio a Venezia. Il ricordo, quindi, di una fortuna non raggiunta ma comunque toccata, la memoria di un’occasione perduta, giustificava certe strategie come la mobilità orizzontale che spinse un buon numero di esponenti della Cancelleria all’iscrizione di un antico, anche se svuotato politicamente, patriziato della terraferma veneta, come quello della vicina Padova, pur rimanendo ancora segretari ducali. Eppure i nobili padovani nel collegio delle prove di nobiltà si posero degli interrogativi seri sul possibile declassamento sociale dei candidati veneziani in esame all’aggregazione al loro consiglio cittadino9.
6Infine per terzo ed ultimo punto, consideriamo come periodo storico il Settecento. Verso la fine della Repubblica si delineano almeno due direzioni di ricerca. Da una parte occorre interrogarsi sulle relazioni sconfessate della Cancelleria ducale con il basso della scala sociale, come i mestieri meno onorevoli del cosiddetto popolo, con i quali il personale burocratico aveva in effetti delle taciute contiguità. Infatti il tentativo di assimilazione, o comunque scadimento, del lavoro specializzato del segretario ducale a quello del semplice scrivano o copista, forse non immune dal riproporsi del pregiudizio ‘meccanico’ del lavoro manuale, era un’insidia alla dignità del ceto. Spesso questa preclusione era rinfacciata agli stessi funzionari da pericolosi concorrenti al lavoro d’ufficio. Invece i segretari e notai ducali intesero distinguersi nettamente da questi mestieri e ribadire delle serie distanze sociali10. Un altro discorso riguarda la fine dell’ordine dei segretari, che seppur non toccato dai processi seicenteschi di vendita degli uffici pubblici, e delle riforme settecentesche, appare, con la fine della Repubblica, coinvolto da una caduta piuttosto brusca e repentina. Tuttavia la domanda da porsi è, al di là dei luoghi comuni, come questo cambiamento dell’intera struttura sociale con l’esperienza napoleonica, condizionando l’esistenza di gruppi politici, comunità e corpi di mestiere, venne vissuto dai funzionari. In conclusione bisogna capire fino che a che punto questi burocrati, che si erano già trasformati in una potenziale classe dirigente, seppero adeguarsi sotto il nuovo governo della seconda dominazione asburgica, testimoniando ancora una volta, nella ricerca e mantenimento dell’ufficio un declassamento presumibilmente differenziato fra le famiglie dell’ordine dei segretari11.
Dal tradimento verso lo Stato ai freni istituzionali
7Le risultanze di un processo penale cinquecentesco ci introducono al problema: se l’infedeltà verso la Repubblica, come disvalore del ceto dei segretari, poteva comportare, o comunque accelerare, la perdita sociale degli individui che erano coinvolti in queste fosche vicende. Nell’anno 1542 avvenne il cosiddetto ‘tradimento dei segretari’. L’influente segretario del Consiglio dei X Costantino, e quello del Senato Nicolò, Cavazza, appartenenti a una rete di spie straniere, vendettero all’ambasciatore di Francia le commissioni del patrizio Alvise Badoer indicanti le istruzioni diplomatiche che delimitavano il suo mandato preciso per negoziare le trattative segrete di pace con i turchi (1540)12. Appare quindi plausibile la notizia, desunta da un repertorio delle famiglie cittadinesche, in cui mentre Costantin, il principale responsabile di questo reato, in fuga nello Stato pontificio, fu perseguitato dal Consiglio dei X, e suo fratello giustiziato, «la posterità [venne] privata della ducale Cancelleria». In realtà la grave colpa degli ascendenti non interruppe la vigorosa continuità della tradizione di servizio della famiglia Cavazza culminata nientemeno nell’ottenimento del titolo nobiliare del segretario del Consiglio dei X Girolamo (1653)13. In effetti la perdita dell’ufficio per infedeltà, se non in caso di manifesto ed acclarato tradimento, era un percorso molto difficile, e al massimo poteva riguardare singoli individui. Lo schieramento politico dei segretari nel gioco delle fazioni nobiliari a Venezia, se intrapreso con prudenza, era consentito, se non ampiamente tollerato. A metà del Cinquecento ‘filofrancese’ venne definito il residente Giovanni Formenti nei dispacci dell’ambasciatore Marc’Antonio da Mula presso Carlo V. Lo stesso segretario Giovan Battista Padavin era notoriamente schierato su posizioni conservatrici. Addirittura nel Seicento, fra le carte di governo, la categoria di papalisti, cioè con orientamenti religiosi e interessi economici prevalentemente nel campo dei benefici ecclesiastici, legati al papato e all’azione dei gesuiti, era estesa da una parte del patriziato ai segretari senza che ciò venisse vissuto come un’insanabile contraddizione di fondo del loro ruolo burocratico14.
8Per penetrare la complessità di questi rapporti fra nobili e cittadini un'ipotesi di lavoro è concentrarsi sull’arco breve del periodo intercorso fra la fine dell’epidemia di peste del 1575-1577 e la correzione, o riforma, del Consiglio dei X del 1582-1583 attraverso la serie di suppliche per richieste di grazie presentate alla magistratura patrizia da membri della Cancelleria ducale per ottenere delle sovvenzioni economiche. Per avere un’idea approssimativa della quantità delle suppliche in questione si può calcolare fra l’agosto del 1578 e il febbraio del 1581 che si possono rintracciare di circa settanta suppliche riconducibili al personale della Cancelleria. Il patriziato veneziano ricompensò quindi, attraverso il meccanismo della giustizia distributiva, le tradizioni di servizio pubblico fra le famiglie cittadine impiegate nella burocrazia centrale. Il sistema era basato sull’elargizione di grazie ad personam, spesso sotto forma di sovventioni, anticipi di salario, o espettative, la proprietà di piccoli uffici burocratici resesi vacanti, talvolta interpretate dagli stessi notai ducali come una forma alternativa di retribuzione. Questo fenomeno raggiunse l’acme nella seconda metà del Cinquecento quando il Consiglio dei X, la magistratura ristretta di giustizia politica che rappresentava fra gli equilibri costituzionali il luogo dove più concentrate erano le tendenze oligarchiche, decise di legare ancora di più a sé l’organizzazione burocratica beneficiandola strettamente15.
9Questa tipologia di documenti sono state tradizionalmente considerati come una fonte stereotipata che di fronte alla povertà fittizia dei segretari rivelava la continua protezione a loro accordata dalla potente magistratura patrizia. Eppure le suppliche, come genere letterario a sé stante, sono state recentemente rivalutate come fonte utile anche per la storia della povertà che spesso raccontano i rischi di declassamento sociale dei cittadini originari avvalendosi di altre attestazioni, comprovanti le loro affermazioni, come la fede di parroci, di medici o di contabili delle altre magistrature16. In pratica, con queste deliberazioni, si apre una nuova prospettiva d’indagine giacché questi decreti sono assimilabili a delle provvigioni di denaro per bisogno con cui lo Stato instituiva, secondo una linea di caritatevole paternalismo, una sorta di ‘ammortizzatore sociale’ di fronte alle piccole e grandi crisi delle famiglie di cancelleria di questo antico Stato italiano. Il linguaggio, la struttura del racconto, e l’articolazione dei concetti adoperati dai supplicanti sono indicativi di queste situazioni talvolta trasfiguranti bisogni reali17.
10Netto appare il senso di caduta di condizione sociale del massaro della Cancelleria Bartolomeo Malombra, un impiegato subalterno presente quotidianamente a Palazzo ducale, per la «memoria delle passate prosperità», non riconducibile quindi soltanto alle disavventure giudiziarie del figlio allora bandito, perché resosi «impotente» e per far fronte alle accresciute spese di casa, con il mantenimento della nuora nobile e di due figlie, chiese invano un salvacondotto per il figliolo Pietro allo scopo di assicurarsi «aiuto» e «soccorso» alla casa Malombra18. Ciò non significa tuttavia, a leggere la supplica ripresentata otto mesi dopo, che la povertà non potesse essere adoperata come un argomento retorico prontamente sostituito a seconda della congiuntura. In particolare Malombra, nella seconda petizione, pose l’accento sui documentati meriti dei propri antenati piuttosto che sul declassamento della famiglia. Lo spostamento cioè dalla carità al merito che enucleava una strategia differenziata, probabilmente a seconda della rotazione dei magistrati patrizi, per ottenere l’agognata grazia19. I problemi di disfunzione nell’organizzazione burocratica legate agli imprevisti della vita erano una piaga profonda a leggere la deliberazione del Consiglio del X del settembre 1578 in cui si raccontava come il notaio Gratiabona, deputato ad esercitarsi per un quadriennio alla formazione dei processi criminali, non l’avesse potuto fare «non havendo [potuto] per molte disgratie intervenute a casa sua et massimamente di morte del Padre, et fratelli»20.
Radiografia della mobilità discendente
11Quali erano le principali cause di declassamento? In una prospettiva più ampia il tessuto sociale di quel periodo doveva ancora rimarginare le profonde cicatrici degli effetti dell’epidemia di peste del 1575-1577 con tutti i rischi e i problemi che a medio termine una calamità di questa portata poteva comportare in termini di impoverimento delle famiglie. Nel 1578 il segretario del Senato Marc’Antonio Donini supplicò un’anticipazione di quattro anni del suo salario (detratto un precedente debito di 54 ducati di stipendio). Il racconto era diretto. Questo denaro gli serviva per vivere (vitto e vestiario), per riparare alla perdita della «roba», e ai debiti contratti (circa 170 ducati) dai suoi famigliari per curarsi durante la precedente epidemia. Durante la peste a Venezia al Donini, mentre si trovava segretario d’ambasciata a Costantinopoli, gli erano state bruciate le sue abitazioni, perché erano morti dentro tutti gli occupanti (sette persone compresa la moglie e il figliolo). Due anni prima, a nome del figlio, era stata posta una grazia per la concessione di uffici burocratici, ora irrimediabilmente perduta, la cui vacanza dell’ufficio era stata attesa da ben 19 anni21. Ancora tredici anni dopo la fine dell’epidemia, cioè nell’agosto del 1580, il segretario del Senato Alvise Vendramin otteneva dalla magistratura patrizia un altro anticipo di quattro anni del suo salario perché durante la peste si era indebitato, prestito che ora veniva a scadenza senza speranza di poterlo pagare. Il debito era stato inizialmente contratto per coprire le spese mediche sostenute per curare sé e la moglie e per ricomprare i mobili dell’abitazione che, per prevenire la diffusione del contagio, erano stati bruciati, con «infinita mia rovina», dalle autorità sanitarie22.
12Altre classiche calamità dell’Italia del Cinquecento sono riportate nella supplica del segretario del Senato Gasparo Alberti, richiedente un’anticipazione di quattro anni del suo salario, perché era allora indebitato per la «strettissima fortuna» della famiglia ma anche «per carestia grande, che corre al presente di tutte le cose»23. In questa classificazione dei motivi che possono portare al bisogno di denaro per affrontare gli imprevisti della vita il segretario del Senato Lorenzo Massa non disdegnava di avanzare qualche interessante considerazione teorica. Il Massa attribuiva queste necessità nel passaggio da una vita da singolo servitore pubblico a quella della creazione di una «grossa fameglia», con «spesa di figlioli», e quindi con l’aumento considerevole delle proprie esigenze, come, ad esempio, per affrontare il problema della dote delle figlie e sorelle24. Del resto non appare una coincidenza osservare che in tre casi nel campione di petizioni preso in esame è riportato il particolare che la moglie del supplicante era allora gravida25.
13Un discorso a parte andrebbe fatto per le malattie, e per le loro conseguenze, che potevano comportare l’inabilità, definitiva o prolungata, a svolgere il proprio lavoro. Probabilmente vi erano anche delle spese mediche fra i «molti debiti» contratti dal segretario del Senato Inzegner Inzegner che era stato colpito da un'infiammazione agli occhi. Due anni dopo l’Inzegner, seppur guarito, scriveva che «son rimasto nondimeno in gran parte privo della luce degli occhi»26. Quasi romanzata era invece la disavventura del segretario del Senato Marc’Antonio Donini. Nel viaggio di ritorno a cavallo dall’ambasceria a Costantinopoli contrasse una strana infezione ai reni che gli causò un impellente bisogno di urinare giorno e notte. Malattia accompagnata da continui incubi. Era ormai «fuori di sé stesso» e sempre pieno di sonno. Dopo lunghi consulti i medici interpellati conclusero che erano dei calcoli, il cosiddetto mal della pietra, e quindi era necessario operarlo. Per nulla fiducioso del responso dei medici il segretario, trasferitosi per tre mesi a Padova, si rivolse a due autentici luminari della medicina come Girolamo Mercuriale e Girolamo Capodivacca. Professori dello Studio certamente con un onorario molto costoso per cui chiese al Consiglio dei X un altro anticipo del suo salario27.
14In questa radiografia dei diversi livelli di bisogno, e quindi dei rischi d’impoverimento del ceto dei segretari alla fine degli anni settanta del Cinquecento si evidenziano, per consistenza, le quattro suppliche redatte dal segretario del Senato Ottaviano de’ Masi nel febbraio del 1580. Se in esse emerge la paura di perdere il livello sociale raggiunto a questa preoccupazione, che egli chiama «afflizione d’animo», si aggiungono delle molteplici cause. I fratelli erano stati resi schiavi dai turchi, poi dei debiti che erano stati contratti per il matrimonio di due sorelle, inoltre una terza sorella era ritornata a casa vedova dopo aver perso un terzo della dote che era rimasta nella famiglia del marito, dopo appena un solo anno di matrimonio. A completare il quadro desolante vi era infine la figura del padre capofamiglia, ormai anziano, che rischiava, per i debiti contratti, di dover finire i propri giorni, quasi nascosto, ritirato in casa. Anche qui un elemento rivelatore dell’indigenza: compaiono le vesti indossate che erano comprate usate dagli ebrei strazzaroli del ghetto. Il motivo occasionale delle petizioni era comunque la grave malattia del segretario – il medico curante scrisse che non c’erano più speranze – con il pericolo di perdere l’entrata di una concessione in denari proveniente dell’ufficio della Contestabelleria di Feltre, che era nominativa, e quindi, dopo la morte del de’ Masi, sarebbe ritornata nella disponibilità dello Stato se non fosse stata immediatamente posta a nome di suo fratello. La decisione presa dal Consiglio dei X fu invero piuttosto acida. La domanda, prima sospesa, venne poi accettata con la riserva che il segretario morisse proprio di questa infermità28.
15Poche settimane dopo venne presentata pure la supplica del notaio ducale, e poeta, Celio Magno, entrato in Cancelleria in età adulta (1572), che pone diversamente il problema dell’incertezza nelle strategie di differenziazione sociale nell’ascesa delle famiglie cittadine. Il padre Marc’Antonio era stato un ragionato, e anche il fratello Alessandro ricoprì un ruolo importante come segretario di Cancelleria, tuttavia era notorio che egli fosse «il più povero segretario» che ci fosse avendo per giunta sostenuto «molte spese» mentre si trovava all’ambasciata in Spagna (1575-1578). Diversamente quando Celio Magno era avvocato, la professione liberale che all’inizio della carriera aveva intrapreso, guadagnava bene. In effetti l’attesa per una concessione di grazia del Consiglio dei X era molto lunga perché in teoria potevano trascorrere decenni prima che venissero accolte le richieste dagli altri segretari che avevano già avanzato domande simili. Nel frattempo queste deliberazioni di concessione per il prossimo ufficio che si sarebbe liberato non aveva nessun valore. L’espettativa per uffici non si poteva nemmeno impegnare. Ormai Celio Magno aveva 44 anni d’età. Altre spie sono indicative di una situazione economica difficile. Mentre un comportamento, come quello di vendere delle abitazioni per accasare due sorelle, permette di ricondurlo ad atteggiamenti matrimoniali comuni al patriziato povero, per altre disavventure, come un incendio che aveva distrutto l’abitazione principale a san Severo, compare in effetti uno dei pericoli più frequenti di incidenti per le economie famigliari d’antico regime29.
16Le situazioni di difficoltà dei segretari potevano dipendere dall’imperfezione nel sistema di retribuzione, anche attraverso delle ‘utilità’ incerte, legato al sistema fiscale dello Stato veneziano, oppure dalla contrazione del dominio da Mar o dalle relazioni conflittuali con le comunità della terraferma. Entrate che i segretari e i notai ducali potevano perdere all’improvviso. Nell’agosto del 1579 il segretario del Senato Zuan Andrea Barbato ricordava il crollo degli introiti di due stadere del dazio della massetaria, cioè sui passaggi di proprietà, pervenute per grazia nel 156730. Quando il dazio era stato riformato nel 1569 i mercanti, ormai esenti, non erano più obbligati a far pesare le loro mercanzie sulle stadere. Pochi giorni dopo un altro esponente di punta della Cancelleria ducale, come il segretario del Senato Alvise Bonrizzo, dichiarava la perdita del possesso della Cancelleria di Farmagosta. Proprietà decennale da cui traeva un introito di circa 200 ducati. Disgrazia volle che proprio con la guerra veneto turca del 1570-1573 Venezia perdette anche questo baluardo nel Mediterraneo31. Era decisamente andata peggio al notaio ducale Giovanni Paolo de’ Dardani, ritornato dalla costosa ambasciata in Spagna, la cui grazia del beneficio della ricca Cancelleria di Cividale del Friuli gli venne strappata nel contenzioso giudiziario che la comunità del luogo intraprese di fronte al Consiglio dei X contro il Dardani32.
L’affare mancato della nuova nobiltà
17Nella seconda metà del Seicento le difficoltà finanziarie causate dalle ingenti spese militari nella lotta con i turchi per la difesa dell’isola di Candia spinsero il patriziato veneziano, dopo trecento anni, a riaprire nel 1646 le aggregazioni al Maggior Consiglio dietro l’offerta in denaro di 100.000 ducati. Il titolo di patrizio veneto attrasse così patriziati della terraferma, ricchi mercanti e nobili feudatari ma non differenziò le legittime aspirazioni delle dinastie di segretari che anzi ottennero votazioni con decine, talvolta centinaia, di voti contrari nell’assemblea plenaria del corpo aristocratico33. L’operazione poteva tradursi in un trampolino di ascesa sociale per queste famiglie verso la classe nobiliare ma in realtà un bilancio dell’impresa era fallimentare. Famiglie come i Dolce abbandonati gli impieghi burocratici e raccolto faticosamente il denaro richiesto per l’aggregazione entrarono nel circuito del patriziato ruotante attorno agli organismi giudiziari. Debiti e sperperi misero a dura prova la compattezza delle famiglie cittadine. Alcune come i Rubini e gli Antelmi erano ormai ridotti in «mediocri fortune», gli Zon, addirittura, in breve tempo si estinsero34.
18Il caso della famiglia Ottobon è stato studiato. Nel marzo del 1646 secondo il primogenito Marcantonio Ottobon la causa dell’aggregazione distraeva risorse che avrebbero dovuto essere accantonate e preventivate per far fronte a spese straordinarie : i danni arrecati da un incursione nemica, specie dei turchi, che danneggiasse il paese, e, nel caso di guerra, c’era il pericolo di nuove tasse, oppure per una carestia che gli avrebbe costretti a mantenere i contadini, infine per il mercato delle doti, nell’eventualità che fossero stati costretti a restituirne qualch’una35. Ad un'altra famiglia di Cancelleria come i Franceschi con solide tradizioni di servizio spetterà un giudizio critico formulato a posteriori. All’inizio del Settecento il Soliloquio del segretario Giambattista Franceschi, che poteva annoverare nella propria genealogia il cancelliere grande Andrea, è indicativo dello stato d’animo, e dei sentimenti morali di delusione per le « vanità di questa terra d’esilio». Convinti da patrizi confidenti ad aggregarsi fra i primi i Franceschi sborsarono un ingente capitale, che fu un operazione vantaggiosa per il patriziato veneziano, ma persero così i loro preziosi emolumenti di segretari, valutabili in circa 3.000 ducati, e la possibilità di ascendere, per concorrenza, alla carica di Cancellier grande36.
19All’interno di questo senso di frustrazione, per le tradizioni di servizio non considerate, o non valorizzate, si può spiegare il fenomeno della mobilità orizzontale di numerose famiglie della Cancelleria ducale desiderose di fregiarsi del titolo di un’antica e prestigiosa nobiltà di terraferma, come quella padovana, senza perdere però gli impieghi pubblici, in virtù di un privilegio d’aggregazione riservato dal 1626 ai cittadini originari veneti, anche se probabilmente era stato emanato per sopperire ai cittadini poveri che abbandonavano Venezia. Eppure le prove di nobiltà padovane, per accertare la condizione onorevole e il prescritto domicilio decennale in città fecero ben presto emergere condizioni di degradazione, se non di contraddizione sociale o di ruoli, nello status dei candidati all’aggregazione37. Prendiamo in considerazione Giacomo Antonio de Vico, che poteva annoverare fra i suoi antenati, un padre segretario del Consiglio dei X, zii residenti nelle corti e un antenato Cancelliere grande. Nella supplica presentata dal de Vico, appellandosi a Venezia in lite con Padova per la domanda respinta (1683), il cittadino originario veneto apre uno squarcio inedito sul tema. Egli infatti si proponeva di «ritirarmi al soggiorno in Padova più accomodato alle poche fortune restatemi». Significativo è poi il giudizio che traspare nella manoscritta Storia delle famiglie cittadinesche di Venezia per cogliere il progressivo declassamento nell’arco delle generazioni. Lo stato di pazzia del figlio Giovanni Vincenzo de Vico probabilmente contribuì ad attenuare la consapevolezza dello stato di «miserabile condizione di fortune», consumate in servizio pubblico dagli antenati e nelle dotazioni di matrimonio delle sorelle del padre, in cui la famiglia, con l’ultimo superstite, era da tempo clamorosamente decaduta38. Qualche ombra traspare pure nel 1727 per Donato Giovanni Perazzo, fratello del segretario del Senato Antonio, il cui padre era avvocato. Nelle prove di nobiltà leggiamo la testimonianza del notaio veneto Marco Generini. Il notaio ducale nel seguire da vicino l’educazione di un nipote rimasto orfano era domiciliato a Padova «per il qual motivo ha ricusato qualunque segreteria offertali dal signor Cancellier grande». Un atteggiamento di rifiuto nell’assunzione di incarichi che forse l’avrebbe posto fra i percettori di rendita ma anche fra i cosiddetti «disoccupati», cioè coloro che disertavano gli incarichi quotidiani, nella Cancelleria ducale39.
Verso la fine dell’ordine
20Nell’ultimo secolo della Repubblica, dietro l’apparente immobilismo delle mancate riforme, che non misero in discussione quindi i privilegi della Cancelleria ducale, aumentò il bisogno delle famiglie cittadine, e di conseguenza raddoppiarono le provvisioni concesse non solo al personale burocratico ma anche alle vedove e ai figli di segretari fra 1750 e 1797. Eppure, a ben vedere, cambiarono le coordinate del problema40. L’oggetto in discussione appare l’esclusività del lavoro cancelleresco. In sostanza si avverte il rischio di una caduta verso il basso della scala sociale della professione di segretario ducale declassato a quello di semplice scrivano o amanuense. Il processo di vendita seicentesco degli uffici della burocrazia intermedia avevano appena intaccato il monopolio cancelleresco ma diverso discorso va fatto negli anni venti del Settecento nel dibattito della corresponsione, o meno, di un regolare stipendio nelle segreterie delle magistrature di San Marco e Rialto a Venezia ricoperte dall’ordine dei segretari oppure dall’emergere di figure concorrenziali e ad alta specializzazione, come ad esempio i cancellieri prefettizi per i processi criminali nell’armata da Mar. Inoltre la distinzione posta nella raccolta d’informazioni politiche fra questo incarico ‘civile’ ed onorato, fornito, appunto, dall’ordine dei segretari, e quello di gazzettiere, che traspare nelle lettere del segretario del Senato Giuseppe Giacomazzi è testimonianza di continua ricerca di legittimazione del loro ruolo diplomatico41.
21La domanda può essere: meglio essere sfiduciati ma rimanere lo stesso segretari della Repubblica di Venezia o ricercare delle nuove identità fuori da questa società? Malumori che si tradurranno per il segretario del Senato Pier Antonio Grattarol nel superamento dello stereotipo del giovane alla moda, oggetto di una feroce satira, non tutelato dagli Inquisitori di Stato, e quindi danneggiato per la «fama svantaggiosa» che l’avrebbe preceduto nell’assumere la residenza napoletana. In questa circostanza avvenne la rottura degli schemi. Grattarol scelse una nuova rappresentazione di sé, come esule a Milano, probabilmente perseguitato dall’oligarchia di governo perché contrario ad essa, ed aderente alla massoneria. Nel 1776 preferirà, quindi, all’immagine di uno sfiduciato funzionario il destino di una vita da fuggitivo continuamente spiato dagli Inquisitori di Stato42.
22Alla caduta della Repubblica il passaggio di regime comportò una nuova riorganizzazione amministrativa e politica che escludeva la presenza della Cancelleria ducale malgrado l’illusione di ripristinare le istituzioni che fungevano in passato da mediazione fra governanti e governati. La precoce scomparsa sulla scena di figure del calibro di Piero Franceschi e il tentativo della famiglia Beaziano di ritessere nuove identità cittadine attraverso delle «genealogie impossibili» orientano a parlare di ‘spaesamento’ del ceto dei segretari. Indubbiamente singole figure emarginate dagli incarichi riproveranno con lo strumento della supplica di rimettersi in gioco per la ricerca individuale di impiego43. Più in generale è agevole ricordare, nel periodo della prima dominazione asburgica, una petizione collettiva degli ex–membri della Cancelleria ducale che comprendeva comunque circa 51 famiglie di coloro che in passato avevano appartenuto all’ordine, quasi che non solo le istanze corporative fossero ancora valide ma pure le tradizioni del servizio pubblico, per essere equiparati al rango nobiliare. Eppure il governo austriaco, pur riconoscendo che molti individui elencati erano fregiati della corona di ferro, nel suo razionalismo amministrativo non riconoscerà un carattere nobile agli appartenenti alla vecchia istituzione cancelleresca44.
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2 Queller 1987, p. 301-363; Del Negro 1989, p. 766; Gullino 2015, p. 33.
3 Cozzi 1996, p. 56; Knapton 1990, p. 304-305; Megna 1984, p. 366-368.
4 Megna 1985, p. 273-274, 276; Del Negro 1984, p. 319-323; Del Negro 1986, p. 123-145.
5 Ferro 1785, c. 465; Megna 1981-1982, p. 321-323; Meneghetti Casarin 1989, p. 128, 133, 136-137.
6 Trebbi 1980, p. 114-115; Zannini 1996, p. 446; Ricci 1996, p. 15-16.
7 Megna 1981-1982, p. 330; Casini 1991, p. 238; Trebbi 1994, p. 173.
8 Preto 1999, p. 75-76; Zannini 2006, p. 63-126; Nubola 2004, p. 21-63; Tanzini – Tognetti 2016, p. 13-14.
9 Zannini 1993, p. 828-829; Raines 2006, p. 279-317; Galtarossa 2006, p. 663-674.
10 Galtarossa 2009, p. 204-207.
11 Gottardi 1993, p. 43-44; Viggiano 2001, p. 359-362; Viggiano 2010, p. 291-299.
12 Preto 1999, p. 75-76.
13 Biblioteca del Museo Civico Correr di Venezia (d’ora in poi BMCV), mss. Gradenigo Dolfin 83, II, c. 117r, Benzoni 1979, p. 42-47; Crouzet-Pavan 2001, p. 253-256; Bellavitis 2009, p. XXIII-LI.
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15 ASV, Consiglio dei X, Parti comuni (d’ora in poi CX, PC), b. 141, 31 agosto 1580; Mousnier 1970, p. 397, Tucci 1990, p. 845-846; Trebbi 1980, p. 115-119; Cozzi 1982, p. 145-174; Galtarossa 2010, p. 5.
16 ASV, CX, PC, b. 141, 31 agosto 1580; Tucci 1990, p. 825; Viggiano 2010, p. 292, 304-306.
17 Megna 1981-1982, p. 325 e 323; Viggiano 2000, p. 318-319.
18 ASV, CX, PC, b. 140, 29 aprile 1580; Ricci 1996, p. 15-16; Megna 1997, p. 173.
19 ASV, CX, PC, b. 133, 30 luglio 1578; ASV, CX, PC, b. 140, 29 aprile 1580; ASV, CX, PC, b. 143, 22 dicembre 1580; Zemon Davis 1992, p. 5.
20 ASV, CX, PC, b. 134, 17 settembre 1578.
21 ASV, CX, PC, b. 135, 27 gennaio 1578 m.v.
22 ASV, CX, PC, b. 141, 18 agosto 1580; Galtarossa 2002, p. 51 e 55; Preto 1984, p. 125-130, Cancila 2016, p. 253.
23 ASV, CX, PC, b. 139, 30 gennaio 1579 m.v.; Alfani 2010, p. 149, 170-171.
24 ASV, CX, PC, b. 142, 28 settembre 1580; Galtarossa 2012, p. 88-89.
25 ASV, CX, Parti comuni, b. 136, 7 marzo 1579; ASV, CX, PC, b. 137, 13 agosto 1579; ASV, CX, PC, b. 138, 29 ottobre 1579.
26 ASV, CX, PC, b. 139, 30 gennaio 1579 m.v.
27 ASV, CX, PC, b. 142, 27 ottobre 1580.
28 ASV, CX, PC, b. 140, 2 marzo 1580; Lanaro 2010, p. 761, 769; Bellavitis 2012, p. 15-19.
29 ASV, CX, PC, b. 140, 25 marzo 1580; Tucci 1990, p. 825 Trebbi 1980, p. 95; Megna 1997, p. 168; Ricci 1996, p. 224; Ghirlanda 2006, p. 496-498; Zaggia 2006, p. 195-214; Tucci 1990, p. 817.
30 ASV, CX, PC, b. 137, 21 agosto 1579, Bilanci generali 1912, p. CXXXII-CXXXIII, 633.
31 ASV, CX, PC, b. 137, 26 agosto 1579.
32 ASV, CX, PC, b. 142, 10 novembre 1580, ASV, CX, PC, b. 143, ultimo febbraio 1580 m.v.
33 Zannini 1993, p. 170-172, 290; Sabbadini 1995, p. 53; Raines 2006, p. 731.
34 BMCV, mss. Gradenigo 32, c. 16-18; Menniti Ippolito 1996, p. 58; Megna 1997, p. 192-193.
35 Menniti Ippolito 1996, p. 51-52 e 67.
36 Biblioteca Civica di Padova (d’ora in poi BCP), mss. C.M. 72, Giambattista Franceschi, Soliloquio, c. 17-21; Gullino 1997, p. 618-619; Menniti Ippolito 1996, p. 68.
37 Galtarossa 2003, p. 213; Galtarossa 2004, p. 326; Galtarossa 2006, p. 669.
38 Archivio di Stato di Padova (d’ora in poi ASP), Prove di nobiltà, b. 49, fascicolo Vico; Galtarossa 2004, p. 328-329.
39 ASP, Prove di nobiltà, b. 71, fasc. Perrazzi; Megna 1984, p. 365-380.
40 ASV, Savio Cassier, Le informazioni per povvigioni a segretari della Cancelleria ducale (1752–1797), b. 408; Stella 1912, p. 715-517; Ricci 1996, p. 217.
41 BMCV, mss. Cicogna 3214–3215, Lettere di diversi al conte Giuseppe Giacomazzi; Tucci 1990, p. 826-827; Zannini 2000, p. 47-48; Galtarossa 2009, p. 204-207; Zannini 2012, p. 394.
42 BMCV, mss. Cicogna 2225/XXIII, c. 83-85; Grimaldo 1962, p. 51-52; Dal Borgo 2002, p. 725-731.
43 ASV, Notarile, Testamenti, b. 112, n. 166, Piero de’ Franceschi alla data 26 dicembre 1797; Viggiano 2010, p. 294-298; Viggiano 2001, p. 359-362.
44 ASV, Prima dominazione austriaca, Governo, b. 235, ASV, Governo veneto, Commissione araldica, b. 7, fasc. II; Zannini 1993, p. 292-293.
Auteur
Università di Verona – massimo.galtarossa@alice.it
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