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Introduzione

p. 1-3


Texte intégral

1Entrato all’École française de Rome nel 1878, il venticinquenne Marie-René Ducoudray de La Blanchère possedeva già una solida formazione di classicista, acquisita all’École normale supérieure dove aveva appreso i segreti dell’epigrafia latina1. A Palazzo Farnese il direttore era Auguste Geffroy, studioso eclettico che spaziava dalla storia romana a quella moderna, e aveva pubblicato anche opere di anglistica e scandinavistica. Gli altri membres erano epigrafisti e filologi, storici, giuristi e archivisti paleografi. Di questo gruppo possiamo ricordare qualche studioso importante: il giurista Édouard Cuq (compagno di promotion di La Blanchère), lo storico antichista Camille Jullian2, e il grande bizantinista Charles Diehl (giunti a Palazzo Farnese quando il nostro eroe era rimasto unico membre effettivo del terzo anno). Degli altri non resta gran memoria, anche perché alcuni di essi scomparvero prematuramente.

2E forse sarebbe stato dimenticato anche La Blanchère, se uno studioso locale d’eccezione, il compianto Giovanni Rosario Rocci, non ne avesse tradotto e pubblicato la tesi di dottorato su Terracina, gli scritti minori sulle terre pontine, e alcuni anni dopo anche la corrispondenza con Geffroy3. Insieme ad altri documenti ancora inediti, queste pubblicazioni hanno contribuito a recuperare il profilo singolare dello studioso scomparso a soli quarantatré anni, minato nel fisico dalla malaria contratta nei prolungati soggiorni nelle terre pontine.

3Mi si conceda una parentesi autobiografica. Quando uscirono i primi due volumi curati da Rocci, avevo anch’io venticinque anni, mi trovavo a Roma come borsista (dell’Accademia americana) e stavo iniziando a studiare le paludi nel mondo antico, un tema che una generazione fa, all’epoca della ripresa sistematica dello studio delle centuriazioni romane, parve a molti un tema insolito, se non marginale4. Non potevo quindi che provare simpatia per La Blanchère e per le sue ricerche pionieristiche nelle terre pontine5. Fu Filippo Coarelli a suggerirmi di recensire i due libri curati da Rocci, accompagnati da utili introduzioni sulle esperienze pontine del giovane francese. Approfittando di un breve soggiorno a Parigi, consultai alcuni documenti custoditi presso la Bibliothèque nationale de France, le Archives nationales e le Archives de l’Institut. La mia simpatia per il personaggio, di cui sarebbe stato utile recuperare una foto o un ritratto, fu rafforzata dalla lettura della corrispondenza con Geffroy e di alcuni rapporti ministeriali6.

4Il presente volume offre ora un quadro esauriente del La Blanchère «pontino»; in futuro sarà interessante approfondire l’attività del La Blanchère africanista7. Grazie agli studi qui raccolti possiamo valutare appieno l’interesse delle sue considerazioni sul territorio pontino alla luce degli attuali progressi della ricerca storica e archeologica8, oltre che ad apprezzare il profilo intellettuale del francese, caratterizzato da una notevole «modernità». La Blanchère non fu solo un ricercatore attivo e curioso, ma anche un acuto osservatore dei problemi sociali contemporanei9, a riprova di una non comune elasticità intellettuale, qualità che ci si aspettava, ma non sempre si otteneva dai membres dell’École10. La sua apertura al mondo esterno nasceva dallo spiccato interesse per la geografia e le scienze sociali, maturato a rue d’Ulm sotto lo stimolo di maestri d’eccezione come Fustel de Coulanges e Vidal de La Blache11.

5Interessandosi alle cause delle oscillazioni economiche del territorio pontino, La Blanchère eseguì delle accurate indagini topografiche, concentrandosi sullo studio dei cunicoli12. A quanto pare fu il primo a identificare il reticolo centuriato di Terracina, grazie alle carte topografiche militari dell’Italia unita, e tuttavia continuò a sostenere l’idea, oggi abbandonata, che il territorio della valle pontina, fiorente in età arcaica, sarebbe stato trasformato dalla conquista romana in un paesaggio desolato e malarico; tentativi di ripresa si sarebbero verificati solo a partire dal Principato13.

6Queste indagini «sperimentali» sul territorio – rivendicate con convinzione nella corrispondenza con Geffroy – lo portarono a risultati originali, ma al tempo stesso ne limitarono la produzione scientifica e quindi la carriera. Il duro lavoro sul terreno e le interruzioni dovute alle febbri malariche ritardarono l’elaborazione dei risultati rispetto ai suoi colleghi, che lavoravano in condizioni relativamente più comode, senza dover girare armati per fronteggiare gli assalti dei briganti14. In compenso, la sua perizia di epigrafista gli valse il riconoscimento della comunità scientifica e una certa considerazione da parte di Mommsen15. Agli inizi, il giovane e battagliero membre dell’École, deciso a difendere la causa della scienza francese, vedeva il grande studioso tedesco come un avversario16, ma più tardi si instaurò una proficua collaborazione all’insegna del rispetto reciproco. Nel nono volume del Corpus inscriptionum Latinarum, Mommsen concesse a La Blanchère l’appellativo di vir doctus (nello stesso volume, sottolinea però di aver chiesto a Heinrich Dressel una verifica delle trascrizioni17).

7Malgrado il loro carattere preliminare, e l’infondatezza di alcune interpretazioni storiche, gli scritti di La Blanchère mantengono un certo interesse, trovandosi «al crocevia tra il diario di viaggio della tradizione del Grand Tour, il resoconto dell’esploratore scientifico e la più moderna letteratura archeologica storicistica e antropologica».18 Lo studio di un territorio apparentemente marginale come quello pontino gli permise di svolgere un’indagine globale, disprezzando quegli studiosi che svolgono un lavoro antiquario, avulso dal contesto storico e antropico. Insomma, un adepto ante litteram della microstoria19, che merita attenzione ancor oggi, come dimostrano gli utili contributi di questo volume.

Notes de bas de page

1 Di Brino, in questo volume.

2 Motte 1990, p. 67; 127; 138; 145; 161; 163. Su La Blanchère a Roma cf. Pagliara 2018, p. 31-34.

3 La Blanchère 1983 [= La Blanchère n°74]; La Blanchère 1984 [= La Blanchère n°75]; La Blanchère 1998 [= La Blanchère n°76].

4 Non mancarono alcune sovrainterpretazioni. Emilio Gabba, allievo di un pioniere di questi studi come Plinio Fraccaro, riteneva che la centuriazione romana fosse un «fattore di civiltà» (Gabba 1985, p. 284, già in Gabba 1983). Tra le voci dissonanti, notevole quella di E. Lepore (Lepore 1991, p. 263).

5 Pagliara 2018, p. 63-151.

6 La breve recensione fu pubblicata su Dialoghi di Archeologia (Traina 1985); il comitato di redazione non mi passò il titolo Le tribolazioni di un francese a Terracina, ispirato al romanzo di Jules Verne (1879).

7 Qui riassunta da A.-F. Baroni.

8 Attema e Quilici Gigli in questo volume.

9 Gras, in questo volume.

10 Rey, in questo volume.

11 Rey, in questo volume.

12 Quilici Gigli, in questo volume.

13 D. Palombi, in questo volume.

14 Vi fu però almeno un caso di «morte a Venezia», quella del medievista Hippolyte Noiret, che lavorava alla Bilioteca Marciana e morì il 9 gennaio 1888, a soli ventitré anni, di febbre tifoidea (in CRAI, 32, 1888, p. 6; p. 31-32).

15 Sull’attività di Mommsen in terra pontina si veda M. Buonocore, in questo volume.

16 Pagliara, in questo volume.

17 Buonocore, in questo volume.

18 Palombi, in questo volume; cf. anche Coarelli 1983.

19 Rey e Palombi, in questo volume.

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