Marino da Caramanico: giudice, giurista, intellettuale
Texte intégral
Le (poche) notizie biografiche
1Il nome di Marino da Caramanico è indissolubilmente legato al commentario che egli appose al Liber Constitutionum Regni Siciliae di Federico II (il Liber Augustalis). La glossa di Marino s’impose, infatti, molto presto come «glossa ordinaria» alla «codificazione» federiciana e continuò a essere stampata assieme al testo delle costituzioni siciliane sino a tutto il Settecento. Eppure, la fama che Marino raggiunse grazie a quest’opera non fu sufficiente a impedire che la sua figura venisse progressivamente dimenticata. Marino da Caramanico sarebbe anzi rimasto un personaggio noto solo a pochi cultori di storia del meridione italiano se non fosse stato per gli studi che Francesco Calasso vi dedicò a più riprese tra il 1930 e il 19571. Fu proprio Calasso a rivelare al mondo degli studiosi l’originalità e la levatura del contributo che il giurista angioino diede alla scienza giuridica e al pensiero politico medievali.
2Nemmeno la «riscoperta» calassiana, tuttavia, ha potuto migliorare la nostra conoscenza della vicenda terrena di questo giurista. Continuiamo, per esempio, a ignorare l’anno di nascita, anche se, con qualche probabilità, dovremmo poterlo collocare intorno al 1240. Sappiamo solo che fu originario dell’Italia centrale e, in particolare, della regione abruzzese e che a dargli i natali fu certamente quella stessa cittadina di Caramanico nella quale già altri iudices avevano visto la luce (è però solo un’ipotesi indimostrata quella che vorrebbe vedere tutti questi giudici come appartenenti alla medesima famiglia). Giudice, in ogni caso, era anche il padre, che di nome faceva Antolino e che ebbe la ventura di sopravvivere al figlio2.
3In uno studio apparso qualche anno fa, che integra e corregge precedenti indagini di Bartolomeo Capasso e Gennaro Maria Monti, Andreas Kiesewettwer ha dimostrato, fra le altre cose, come la prima notizia sicura di cui disponiamo in relazione alla biografia di Marino sia quella relativa alla sua nomina a giudice d’appello della Magna Curia3. Dall’atto di nomina – datato 7 maggio 1278 – si evince che Marino veniva chiamato in quel momento a sostituire temporaneamente un altro giudice e che, per quell’incarico, si prevedeva una retribuzione mensile di tre once d’oro. Quattro anni dopo – siamo quindi nel marzo 1282 – Marino era già inserito in pianta stabile tra i giudici della stessa Curia con uno stipendio che era ora salito a cinque once mensili4. Marino continuò a ricoprire tale ufficio sino ai primi mesi del 1285 quando si dimise anzitempo da ogni carica pubblica. Si deve pensare che a tale decisione fosse indotto da motivi di salute5. Nel giugno di quello stesso anno, il conte Roberto II d’Artois (in quel momento reggente per l’erede al trono Carlo II, prigioniero in Aragona) concesse al giudice e ai suoi eredi una serie di proprietà e feudi in varie zone dell’Abruzzo (per una rendita annua pari a sessanta once d’oro). Intendeva con ciò premiare la fedeltà e la dedizione dimostrate dal magistrato nell’esercitare il suo alto ufficio. La scomparsa di Marino non dovette tardare. È molto probabile che egli fosse già morto prima che si chiudesse il 12876.
4Si ritiene che la composizione della famosa glossa alle Constitutiones federiciane sia da porre proprio in quel medesimo torno d’anni – tra il 1278 e il 1285 – in cui Marino figura attivo come giudice della Magna Curia7.
Dove Marino si formò come giurista ?
5Le notizie che abbiamo sulla vita di Marino si esauriscono qui. Si tratta evidentemente di un ben misero raccolto il quale non consente di risolvere alcuni quesiti importanti. Tra i pochi elementi di cui disponiamo, per esempio, nulla emerge circa lemodalità e i luoghi che accompagnarono la formazione di giurista di Marino. In passato, per molto tempo, s’era data per sicura la matrice bolognese di tale sua formazione. Il fondamento di tanta sicurezza, in realtà, era tutto in una glossa, rinvenuta da Bartolomeo Capasso nell’apparato di Marino. In essa, l’autore lascia intendere di aver avuto appunto il bolognese Azzone per maestro8. La glossa, come s’è poi compreso, appartiene tuttavia al numero di quelle che Marino attinse dal precedente apparato e quindi nulla possiamo dedurne circa le scuole da lui frequentate9.
6In ogni caso, per evidenti ragioni cronologiche (già nel 1233 Azzone non era più tra i vivi), è da escludere che Marino possa aver frequentato le lezioni del famoso maestro bolognese. Il fatto che non abbia ascoltato il famoso glossatore, tuttavia, non impedisce di pensare che Marino, in gioventù, possa essersi ugualmente recato a studiare proprio nel grande centro emiliano (anche se il fatto che, in alcune glosse, Marino chiami doctores nostri i maestri bolognesi non significa molto).
7Nemmeno però si può escludere che Marino abbia invece studiato nella scuola napoletana. Questa, negli anni Cinquanta e Sessanta del XIII secolo, doveva pur funzionare, anche se non sempre – occorre ammetterlo – vi erano a illustrarla maestri prestigiosi. Molto, in effetti, dipende da quando si crede di poter collocare la nascita del giurista. Difficilmente questa potrebbe immaginarsi prima del 1230-123510 o dopo il 124511. La data più risalente nel tempo importerebbe che il giovane Marino avesse cominciato a studiare diritto prima del 1250 quando, cioè, Federico II era ancora vivo. Considerando invece l’altro estremo temporale, Marino avrebbe potuto attendere alla sua formazione giuridica quando già Carlo I d’Angiò aveva provveduto a ‘rifondare’ la scuola napoletana (a. 1266) e beneficiare quindi degli insegnamenti di quei personaggi di gran nome, che il sovrano angioino s’era appunto preoccupato di far giungere a Napoli.
8In altre parole, nel primo caso avrebbe potuto addirittura frequentare le lezioni dell’autorevole (ma ormai anziano) Benedetto d’Isernia12 o magari quelle del pisano Giovanni Fazioli(o Fagioli) († 1286), che di Benedetto era stato probabilmente allievo13, o ancora quelle di Martino da Fano(† dopo il 1272)14. Nel secondo caso avrebbe invece ben potuto ascoltare le lezioni dei vari Niccolò Ruffolo, Guido da Suzzara e, soprattutto, Andrea Bonello da Barletta i quali furono attivi nella scuola appunto in quegli anni.
9Va detto, tuttavia, che se, per ragioni d’età, Marino avesse dovuto frequentare la scuola napoletana nella porzione centrale di quel quindicennio, avrebbe trovato una situazione molto meno favorevole. Negli anni di Manfredi e di Corrado IV, infatti, l’attività dello studium è particolarmente oscura. Il trasferimento a Salerno ordinato da Corrado nel 1252 è indice delle difficoltà che doveva incontrare la scuola15. Forse, come volevano Monti e Trifone, a insegnare diritto erano in quegli anni Giacomo de Vulture e Guglielmo Nasone16, o forse, e più probabilmente, quel Niccolò Ruffolo che, al pari di vari altri personaggi dell’ultima corte sveva, fu capace di farsi apprezzare sia dai sovrani svevi sia, più tardi, da Carlo I d’Angiò (sotto il quale certamente ebbe cattedra dopo l’ulteriore rifondazione del 1266). Purtroppo la grande incertezza dei dati cronologici relativi a questi personaggi impedisce qualunque conclusione e costringe a rimanere nel campo delle ipotesi.
A proposito di un possibile insegnamento di Marino sul Liber Augustalis
10Un’altra questione che suscita interesse è quella relativa all’eventuale attività di insegnante di Marino. A lungo, infatti, si è pensato che, accanto alla carriera di giudice, questi avesse anche intrapreso quella di professore nello Studium napoletano. Francesco Calasso, in particolare, gli aveva attribuito un insegnamento in quella scuola partendo dalla constatazione che, in talune sue glosse, Marino ricorda i proprî allievi (socii)17. Una simile conclusione è però tutt’altro che provata: se anche non si tratta della semplice riproposizione di un topos letterario (vi sono altri esempî di questo genere ove si evocano genericamente degli ‘allievi’), contro l’ipotesi di un insegnamento accademico di Marino (ipotesi ripetuta, in seguito, da vari altri studiosi), pesano tuttavia in maniera determinante alcune circostanze. In primo luogo, occorre ricordare come i programmi scolastici dello Studium napoletano comprendessero il solo diritto giustinianeo e non prevedessero corsi sui diritti locali. Decisiva è però soprattutto la documentazione superstite. I registri angioini, infatti, sono solitamente precisi nell’attribuire la qualifica di professore a tutti coloro che avevano tenuto cattedra, anche quando i docenti fossero successivamente passati ad altri incarichi. Non può non essere significativo, allora, che, in quei medesimi registri, Marino sia il solo a essere sempre ricordato con la qualifica di iudex e mai, invece, compaia come professor18.
11Si può quindi validamente credere che Marino fosse essenzialmente un pratico, che egli fosse e rimanesse un giudice – sia pure particolarmente cólto19 – senza mai divenire professore dello Studium napoletano. Non pare, peraltro, che lo status di magistrato regio venisse da lui vissuto come una minorazione20. Del resto, già al tempo degli Svevi, «delle due carriere, quella dei tribunali era la più importante e prestigiosa»21.
12Se, però, un suo insegnamento nella scuola fondata da Federico di Svevia nel 1224 – e da lui riformata nel 1234 e ancora nel 123922 e poi nuovamente rifondata da Carlo I d’Angiò nel 1266 – è effettivamente molto difficile da ipotizzare, questo non significa che Marino non possa aver comunque impartito delle lezioni. Si deve però pensare a lezioni tenute nell’ambito di corsi non istituzionali, specificamente dedicati al diritto regio e rivolti principalmente ai giovani meridionali desiderosi di intraprendere la carriera di giudici o comunque di funzionari regi. Più che possibile, un simile insegnamento è anzi da ritenere probabile. A deporre in questo senso vi è, anzitutto, l’elaborazione stessa delle sue glosse le quali possono essere facilmente ricondotte a un insegnamento non ufficiale tenuto in limine all’attività del tribunale. L’ipotesi ben si accorda con l’opinione, cui s’è accennato e che pare oggi maggiormente accreditata, secondo la quale la stesura dell’apparato di Marino al Liber Augustalis andrebbe posta proprio negli anni in cui Marino fu giudice presso la Magna Curia23.
13Una simile circostanza non è una cosa che possa oggi destare particolare sorpresa. Grazie, infatti, al rinvenimento di un antico frammento (un bifolio pergamenaceo del XIII secolo) del Liber Constitutionum presso l’archivio comunale di Fossacesia (cittadina abruzzese, in provincia di Chieti), Michele Spadaccini ha potuto convincentemente ipotizzare l’identità del più antico glossatore del Liber di cui, sino ad ora, si conosceva unicamente la sigla: G. o Gui. Gli studiosi avevano avanzato in proposito varie candidature senza però che fosse possibile suffragarle con prove. Quella sigla va invece sciolta in «Guisandus» e, dietro di essa, è ben possibile che si debba riconoscere quel Guisandus de Ruvo che, originario delle Puglie, fu giudice della Magna Curia come attestano tre distinti documenti del 1223, 1225 e 122624. Se così è, fu dunque un magistrato del regno federiciano – un alto funzionario regio, insomma, e non un professore dello Studium napoletano – a preoccuparsi per primo di redigere un apparato di glosse che schiudesse l’accesso al Liber Augustalis e ne facilitasse l’impiego nella pratica. Come nel successivo caso di Marino, anche la stesura di quell’antico apparato lascia presupporre un’attività d’insegnamento che però, appunto, dobbiamo immaginare all'esterno dell’università25.
14Questa fondata ipotesi identificativa, del resto, non fa che rafforzare la convinzione che negli ultimi decenni la storiografia più accorta aveva già manifestato e cioè che la parte più consistente – ma senza dubbio anche più originale – della produzione della scienza giuridica del meridione italiano sia nata fuori della scuola. In tale estraneità alla scuola si è anzi riconosciuto un carattere peculiare, anticipatore di un futuro nel quale il protagonista della scena del diritto sarebbe stato sempre meno «il sapiente che insegna» e sempre più «il giudice che giudica»26.
15Sotto questo aspetto, può essere interessante allargare per un momento la prospettiva sino a comprendere lo Studium e più in generale la cultura giuridica napoletana nel delicato periodo che segna il tramonto della dinastia sveva e l’affermarsi di quella angioina. Una siffatta rassegna aiuterà anche a inserire Marino nel contesto che lo vide agire e quindi a comprendere meglio il ruolo e l’importanza di questo personaggio.
Scienza di professori o scienza di giudici ?
16In effetti, molti indizi avvalorano l’idea che a Napoli si fosse venuta formando una ben delineata ‘cultura di funzionari’ e che questa fosse assai più vivace e certo di molto superiore, per quantità e qualità, a quella esclusivamente accademica. Una simile cultura era già presente nell’età sveva (come dimostra appunto il caso di Guisandus). Era del resto naturale che nella Curia – dove le funzioni giudiziarie s’intrecciavano inevitabilmente con mansioni di supporto e di consulenza all’attività politica e diplomatica del sovrano – si sviluppasse una vivace e consapevole cultura giuridica.
17Nel corso dell’età angioina, questo elevato livello di preparazione dei grandi magistrati del regno fu mantenuto e si venne anzi potenziando. La rifondazione della scuola giocò un ruolo importante in questo senso, funzionando da imprescindibile catalizzatore. Era proprio nella scuola che convergevano ed avevano modo di segnalarsi le migliori intelligenze provenienti dall’intero meridione d’Italia. Ed era sempre la scuola che facilitava gli scambi culturali con altri centri del sapere giuridico attivi in quegli stessi anni in Italia (si chiamano a insegnare professori da Bologna ma anche dalla Toscana, dalla Lombardia e dal Piemonte) e in Francia27.
18Per rendersi meglio conto dell’ampiezza e della profondità dei legami tra la scientia iuris e le magistrature regie è sufficiente scorrere rapidamente le carriere di alcuni illustri professori che, per periodi più o meno lunghi, hanno insegnato nello Studium napoletano ma che, nella maggior parte dei casi, furono anche magistrati del regno.
19Nonostante i due precedenti tentativi di risollevare le sorti della scuola giuridica, è solo con la rifondazione angioina del 1266 che questa riesce ad assumere una vera consistenza. Alcuni personaggi fanno quasi da ponte e riescono a superare il passaggio dagli Svevi agli Angioini senza troppi danni apparenti. Così è per Andrea di Capua (padre del più famoso Bartolomeo) il quale, formatosi forse proprio nello studio napoletano, è giudice della Magna Curia intorno al 1242 per divenire, nel 1248, avvocato fiscale. Farà poi parte dell’entourage di Manfredi e Corrado IV ma sarà al servizio anche di Carlo I. Andrea compare, infatti, come advocatus magne Curie in un documento del 1269. A partire da quell’anno è documentata anche una sua attività di insegnante nella scuola, attività che proseguirà certamente almeno sino al 127128.
20Discorso analogo può farsi per il già ricordato Niccolò Ruffolo. Questi ebbe vita lunghissima e, se in età sveva figura come Magister camerarius Principatus et Terrae laboris (1250) e come Procurator Curiae in Apulia (1254), in età angioina è professore di diritto nello studio tra il 1266 e il 1295.
21Seriamente intenzionato a dar lustro alla sua scuola, Carlo I chiama però a insegnare a Napoli anche nuovi docenti provenienti da fuori come il barlettano Andrea Bonello e il lombardo Guido da Suzzara29. Quest’ultimo è con sicurezza a Napoli solo tra il 1268 e il 1270, ma non si può escludere che fosse arrivato in città già nel corso del 126630. Fu sicuramente tra i consiglieri di Carlo, anche se c’è motivo per credere che nutrisse sentimenti filosvevi31. Quest’ultima circostanza potrebbe aver ingenerato il racconto – apparso invece privo di fondamento alla storiografia più recente – secondo cui Guido si sarebbe pronunciato contro l’esecuzione di Corradino senza però che questo salvasse la vita al giovane sovrano32. Del suo insegnamento napoletano rimangono tracce significative nelle glosse e nelle quaestiones che ancora si leggono in alcuni manoscritti delle leggi di Giustiniano di provenienza meridionale33. Nonostante il suo interesse per il diritto proprio, non c’è prova che si sia dedicato allo studio del Liber Augustalis (cosa supposta invece in passato da chi credeva che Guido potesse essere il glossatore G. dell’apparato vetus).
22Diversamente, l’insegnamento di Andrea Bonello non riguarda esclusivamente il diritto giustinianeo, ma si estende anche al diritto longobardo (ancora molto presente nel meridione d’Italia)34 e alle costituzioni federiciane. Il suo interesse di studioso e di docente sembra peraltro concentrarsi principalmente sul diritto pubblico. È una circostanza che si spiega benissimo col suo essere contemporaneamente docente e alto magistrato e che lo accomuna ai migliori rappresentanti della giurisprudenza del regnum35. Andrea scrive, in particolare, un importante commentario ai Tres Libri (gli ultimi del Codice di Giustiniano, trattati come unità a sé stante dai glossatori) mentre aggiunge le sue glosse a quelle precedenti (di Guisando?) sul Liber Augustalis generando così il cosiddetto apparatus vetus che poi Marino da Caramanico rielaborerà.
Aperture e vivacità della cultura giuridica nella Napoli angioina
23In quegli stessi anni, il sovrano angioino chiama a sé come cancelliere quel Simone di Parigi già messosi in luce come professore di diritto a Orléans. In maniera analoga, sul finire del secolo, anche Carlo II penserà di affidare la propria amministrazione all’ex docente tolosano Pierre de Ferrières. Sono questi personaggi, secondo ogni probabilità, a far conoscere ai napoletani gli apporti scientifici dei maestri delle scuole transalpine. E da fuori – quasi dalla Francia – proviene anche il piemontese Dullio Gambarini che incontra probabilmente Carlo I a Vercelli e lo segue nella sua discesa verso il meridione d’Italia nel 126536. Rimarrà ad insegnare nello studio napoletano per oltre vent’anni, specializzandosi nel diritto pubblico e nella materia feudale.
24Il costume di chiamare a insegnare a Napoli importanti docenti provenienti da altri centri di studio proseguì ancora a lungo come dimostrano i casi del futuro cardinale Riccardo Petroni da Siena (ante 1298), di Iacopo d’Arena, di Dino del Mugello (forse prima del 1279 o tra il 1284 e il 1289 secondo Meijers, ma più probabilmente da fissarsi tra il 1296 e il 129737), di Iacopo da Belviso (che di Dino fu allievo e che a Napoli si addottorò e poi insegnò dal 1298 al 1302)38 e, più tardi, addirittura Cino da Pistoia tra il 1330 e il 133139. A corte, poi, nemmeno si dimenticava di curare l’insegnamento del diritto canonico (l’altro pilastro su cui poggia, com’è noto, la costruzione del diritto comune)40.
25Nel frattempo – e sono probabilmente gli anni in cui anche Marino comincia a muovere i primi passi verso le magistrature – emergono personaggi cresciuti nel regnum e formatisi nella scuola napoletana come l’amalfitano Giovanni Vacca (o Bacca)41 o il barese Sparano42 o Francesco da Telese43. Entrambi questi ultimi si dimostrano pronti a lasciar l’insegnamento per prestigiosi incarichi nell’amministrazione e, così facendo, introducono una prassi che troverà negli anni a venire numerosissimi emuli come Andrea Acconzaioco da Ravello44 e Tommaso Scillato45, sino ai più grandi Bartolomeo da Capua e Andrea d’Isernia.
26A Napoli Bartolomeo studiò e, ottenuto il dottorato nel 1278, cominciò a insegnare forse già a partire da quello stesso anno. Fu giurista di notevole valore e il suo insegnamento proseguì sino al 1289 toccando il diritto romano come pure il ius regni46. Presto, in ogni caso, conquistò la fiducia dei sovrani divenendo consigliere e familiare di Carlo I e poi, sotto il regno di Carlo II, Magister rationalis della Gran Corte (Magna Curia) nonché Protonotario del regno (a vita dal 1290) e finalmente anche Logoteta (dal 1296). Si può ben dire perciò che, per circa tre decenni (morì probabilmente nel 1328), Bartolomeo fu realmente «il personaggio più eminente e influente del regno»47.
27Anche Andrea d’Isernia studiò con ogni probabilità a Napoli e lì insegnò tra il 1290 e il 1315 alternando le lezioni con importanti incarichi nella giustizia e nell’amministrazione regia. Giudice della Magna Curia nel 1288 (o 1289), quindi advocatus fisci, nel 1294, Andrea viene finalmente nominato Vice-protonotario del Regno (all’epoca Protonotario era Bartolomeo da Capua), assieme a Andrea Acconzaioco48. Questa notevole attività amministrativa non poteva non influire su suo percorso di studioso del diritto. Le due opere per le quali Andrea è soprattutto famoso – i commentari alle consuetudini feudalie alle costituzioni federiciane – sembrano essere maturate al margine dell’insegnamento scolastico e tengono ben presente la peculiare realtà istituzionale del Regno.
28Per quanto rapida, questa carrellata consente tuttavia alcuni interessanti rilievi. In primo luogo, si può osservare come quasi tutti i docenti della scuola si lasciano coinvolgere, prima o poi, nei ruoli dell’amministrazione. Nel Regnum siciliano, evidentemente, come accadeva anche in quello francese, la cattedra universitaria si profilava quale chiave d’accesso particolarmente idonea per il raggiungimento delle più altre cariche dell’amministrazione statale. Per altro verso, la rassegna dei docenti napoletani aiuta a chiarire la reale dimensione della scuola giuridica di Napoli in età sveva e poi, soprattutto, angioina e del prestigio che le cattedre napoletane cominciavano a vedersi riconoscere. Colpisce, inoltre, a confronto con altri rinomati centri di cultura giuridica dell’epoca, la vivacità e il carattere peculiare dell’ambiente della Napoli angioina. Proprio la varietà e l’apertura che caratterizzavano la scuola rendevano possibile l’arrivo di idee nuove e scambi fecondi.
Il diritto patrio
29Naturalmente, anche nella scuola napoletana lo studio scolastico dei testi del diritto comune (il diritto romano giustinianeo e il diritto canonico) aveva un ruolo centrale e veniva condotto secondo le modalità tradizionali. Sorprende semmai un po’ il persistente attaccamento che i professori napoletani dimostrano per i vecchi generi della glossa e della quaestio, quando altrove il metodo della lectura stava prendendo il sopravvento nelle aule universitarie. Quanto ai contenuti, come si è notato, i maestri napoletani dimostrano un marcato interesse per il diritto pubblico imperiale (molti si cimentarono infatti nel commento dei Tres libri) e per il diritto feudale il quale ormai (sotto forma di X collatio dell’Authenticum) era entrato a far parte dei libri legales che ogni buon giurista cólto doveva saper dominare49. In questo – a Napoli come a Orléans – è evidente il ruolo giocato dalla monarchia e dalla presenza di una forte nobiltà feudale.
30Piuttosto, a caratterizzare la realtà napoletana – soprattutto in rapporto agli altri centri italiani – era la consapevolezza che la conoscenza del diritto comune costituiva solo una parte della formazione necessaria ai giovani destinati in futuro ad occupare le magistrature del regno. Dopo le studio dei diritti comuni (romano e canonico) occorreva, infatti, apprendere il diritto patrio, come vorrà ribadire ancora la regina Giovanna I († 1382), ordinando in uno dei suoi «capitoli» che iudices et assessores del Regno dovessero studiare per annos quinque il diritto civile (cioè il diritto comune) ma anche constitutiones regni et capitula50.
31Se allora, a Napoli come altrove, l’insegnamento accademico si concentrava (e si esauriva) sui testi del diritto comune51, era invece furori della scuola, quasi certamente presso i grandi tribunali napoletani e presso le altre istituzioni monarchiche, che i giovani venivano introdotti allo studio e alla comprensione delle normative particolari e, soprattutto, alla risoluzione dei problemi che sollevava l’interpretazione e il funzionamento del ius regni.
32Il ius Regni, del resto, si presentava nella prima età angioina già ricco e complesso. Le Constitutiones federiciane si accompagnavano infatti alle leggi dei nuovi sovrani (i capitoli angioini furono anch’essi assai presto corredati di glosse) e alle Consuetudines napoletane52. Proprio l’arrivo dei sovrani angioini segna un notevole risveglio d’interesse per il diritto patrio e non può certo meravigliare che prenda ora avvio lo studio «scientifico» delle Costituzioni53. È solo dopo la caduta degli Svevi, infatti, che i giuristi napoletani sono spinti a superare a livello teorico l’impasse che ereditavano dalla scienza giuridica bolognese a proposito della non risolta contrapposizione tra ius commune e iura propria (un’impasse che invece, a livello istituzionale, si scioglieva grazie alla quasi naturale applicazione del principio di sussidiarietà). A spingere in questa direzione i giuristi napoletani, contribuivano certamente le mutate condizioni politiche. Un ruolo in questo senso doveva però avere pure il modificarsi degli interessi scientifici che si coglie anche a Orléans e persino nella scuola bolognese nella stagione che segue il trionfo della glossa accursiana. Nei grandi centri di studio giuridico, infatti, il tradizionale predominio del diritto privato viene ora contrastato da un sempre maggiore interesse per i diritti pratici (soprattutto il dritto dei feudi) e per il diritto pubblico.
33Fu appunto in questa direzione che i più luminosi ingegni dello stato angioino diedero il meglio di se. E lo studio si trasformò presto in insegnamento: si dovettero organizzare corsi di lezioni integrativi rispetto a quelli impartiti nella scuola e dedicati al diritto longobardo, al diritto feudale e soprattutto al diritto regio.
La glossa ordinaria al Liber Augustalis: il metodo di lavoro e le finalità pratiche dell’opera
34Si può a questo punto tornare a Marino e alla sua opera di giurista. Come s’è detto, il suo non è il più antico apparato di glosse al Liber Augustalis. Marino – alla maniera di Accursio, autore della glossa ordinaria al Corpus iuris – riprese e rielaborò un precedente apparato (apparatus vetus) il quale era già il prodotto dell’unione delle glosse del giudice Guisando (secondo l’ipotesi prima ricordata) con quelle di Andrea Bonello54.
35In attesa di una edizione critica dell’apparatus vetus – alla quale finalmente si è cominciato a metter mano nell’ambito di un progetto condotto sotto l’egida dei Monumenta Germaniae Historica55 – sarebbe azzardato esprimersi circa l’esatta consistenza del contributo genuino di Marino. I saggi esplorativi condotti sin qui confermano tuttavia l’impressione già diffusa tra gli studiosi che Marino abbia ampiamente attinto dal precedente apparato (forse più ampiamente di quanto si sia creduto sino ad ora) senza preoccuparsi più di tanto di riprodurre la sigla del precedente glossatore56.
36Marino, in ogni caso, lavorava con un metodo ben preciso. Certamente ascrivibile a lui è, per esempio, l’abitudine a far precedere il commento delle singole costituzioni da altrettante brevi summae. Una volta riassunto il contenuto della disposizione, il glossatore procede con l’illustrazione dei singoli passaggi. Marino si preoccupa in genere di distinguere le costituzioni di Melfi (1231) da quelle aggiunte successivamente. Non manca una qualche attenzione di tipo filologico. In più di un’occasione, infatti, si sofferma a porre in rilievo le diverse lezioni presenti nei manoscritti da lui utilizzati e, se del caso, segnala la littera da preferire. Si preoccupa anche di sottolineare differenze e concordanze tra il ius regni ed il diritto romano e poi anche tra le Costituzioni siciliane e i diritti canonico e longobardo.
37Non sono rari i casi in cui l’emergere di questioni interpretative nel corso dell’analisi delle norme viene affrontato e risolto rinviando all’autorità dei giuristi delle scuole bolognesi (nostri doctores). Più spesso, tuttavia, la soluzione proposta viene individuata richiamando precedenti decisioni della Magna Curia. Emerge qui con evidenza la vocazione eminentemente pratica dell’opera. Vocazione che, del resto, lo stesso glossatore aveva chiaramente esplicitato già nella chiusa del suo Proemio, lamentando le interpretazioni maliziosamente oscure che «qualche giurisperito» non si fa scrupolo di proporre nei tribunali in dispregio alla chiarezza del dettato normativo. Marino si rifà addirittura all’autorità del giurista romano Modestino, quando dichiara di voler invece proporre soluzioni in quotidiano causarum usu utiles e capaci perciò di ricondurre a perfetta consonanza ciò che nella prassi veniva troppo spesso ingiustamente tacciato di ambiguità e oscurità57.
Francesco Calasso e il Proemio di Marino
38Proprio il Proemio – indubbiamente frutto originale dell’ingegno di Marino – è peraltro la parte dell’opera del giurista abruzzese per noi più preziosa. Attraverso di esso, non solo cogliamo il suo essere giurista perfettamente calato nei problemi del tempo, ma possiamo apprezzare meglio anche la complessa dimensione di intellettuale che caratterizzava Marino da Caramanico, capace di leggere «in prospettiva» il divenire dei fenomeni sociali e politici.
39Come si diceva all’inizio, fu Calasso a notare l’importanza di questo testo in cui credette di riconoscere addirittura «il primo esempio, nella letteratura giuridica italiana, di monografia scientifica»58. Volle perciò offrirne l’edizione e proporlo così all’attenzione generale. Calasso era all’epoca interessato a tracciare la storia della teoria medievale della sovranità, ricostruendo la formazione storica della famosa formula che fa del rex superiorem non regnoscens un imperatore in regno suo. Egli rimase profondamente colpito – parlerà di «una rivelazione improvvisa» – dall’introduzione con cui Marino apre il suo commentario59. In quel proemio, il grande storico del diritto vedeva emergere la chiara formulazione di una nuova concezione della sovranità, anticipo di più moderne visioni ed effettivo superamento delle concezioni altomedievali.
40Almeno all’inizio, indotto anche dalla vis polemica che certo non gli faceva difetto, Calasso finì probabilmente con l’esagerare in questo senso la novità di cui il giurista abruzzese sarebbe stato portatore60. Egli era però nel giusto quando coglieva nel proemio mariniano la limpida visione di una potestas plena et rotunda del rex Siciliae e la conseguente intuizione – «lucidissima nel pensiero» – dell’autosufficienza dell’ordinamento giuridico.
41Non vi è dubbio, in effetti, che l’intero proemio mariniano appaia ispirato all’unico obiettivo di affermare e celebrare la pienezza dei poteri del monarca e di eliminare gli ostacoli rappresentati in questo senso dalla subordinazione (più ideale che effettiva) del re nei confronti dell’imperatore e dal vincolo feudale che legava il sovrano siciliano al pontefice61. Così, in primo luogo, Marino rifiuta il dogma dell’estensione universale dell’impero e non ha esitazioni nell’affermare che il regno siciliano è exemptum ab imperio. A colpire è, però, soprattutto l’argomentazione utilizzata. Per Marino, infatti, il fondamento dell’autosufficienza del potere del sovrano ha carattere originario e risiede nel «patto d’obbedienza che lega i sudditi al principe»62.
42Più ancora però che nel progressivo distacco della realtà del Regno meridionale da una medievale concezione di soggezione all’impero universale, la modernità delle posizioni del glossatore abruzzese si coglie con riguardo ai rapporti fra il regnum e la chiesa: anch’essa, al pari dell’impero, autorità universale. Marino, in particolare, sembra voler declinare le relazioni tra il potere statale e quello ecclesiastico avendo gli occhi ben fissi sulla nascente realtà di una monarchia assoluta. Il glossatore pretende di sciogliere il problema della subordinazione feudale del sovrano siciliano al pontefice muovendosi sul filo della sola logica giuridica. Egli sceglie di avvalersi dei risultati cui era giunta la scienza giuridica italiana in tema di configurazione teorica del feudo e applica al regno di Sicilia il teorema del «dominio diviso»63. Marino parte dunque dall’assunto in base al quale al papa, in quanto superior feudi, competa il dominium directum sul regno. Al sovrano rimarrebbe dunque il solo dominium utile64. Marino prosegue, però, argomentando che il dominio feudale del papa interessa unicamente l’universitas regni e non si estende ai singola corpora che questa compongono. Sui corpora (città, castelli etc.), perciò, il monarca continua a vantare un diritto pieno (diretto e utile a un tempo). Come si vede, l’intero ragionamento viene condotto nei termini di un rapporto di natura privatistica che non tocca affatto la iurisdictio del sovrano, cioè, secondo la visione medievale, il complesso dei poteri di governo. Questi ultimi, invece, sono stati trasmessi dal pontefice al sovrano al momento dell’incoronazione secondo le stesse modalità e con i medesimi effetti che accompagnano l’incoronazione dell’imperatore. Nel pensiero di Marino, in altre parole, il trasferimento nelle mani del sovrano del potere di governo è del tutto slegato dal vincolo feudale65.
Modernità di Marino da Caramanico
43La novità e l’originalità del pensiero di Marino ci appaiono ancor più evidenti se confrontiamo questi spunti con il ragionamento sviluppato su questi medesimi temi da Andrea d’Isernia, altro grande commentatore del codice federiciano appartenente alla generazione successiva. Sia pure a malincuore, Andrea continua a rimanere legato alla dimensione universale dell’impero e, per giustificare la pienezza del potere del monarca siciliano, è quasi costretto a dimostrare che il regnum è exemptum ab imperio per via della subordinazione feudale che lega piuttosto il re al pontefice. Di contro, Marino si lancia in una originale e coraggiosa interpretazione del principio gelasiano sulla separazione dei poteri: intesa rigorosamente tale separazione comporta che in temporalibus lo stesso pontefice è soggetto al sovrano e gli deve obbedienza (§ 7).
44Ancor più istruttiva è la polemica sollevata da Andrea d’Isernia a proposito dei iura circa sacra di cui sarebbe titolare il rex Siciliae. All’origine del problema vi era stata, due secoli prima, nel 1098, la concessione a latere della Legazia Apostolica al Gran Conte normanno Ruggero e a suo figlio. Questa singolare concessione della chiesa romana a un laico trovava la sua giustificazione nei meriti che Ruggero avevo acquisito nei confronti della cristianità scacciando gli arabi dall’isola di Sicilia. Essa, peraltro, andava intesa come temporanea e revocabile. Furono poi i sovrani meridionali a trasformarla in una situazione stabile: quasi «un manto ecclesiastico» buono a legittimare le pretese di una supremazia regia in sacris che i normanni intendevano perseguire ispirandosi, anche qui, ai modelli della sovranità bizantina66.
45La chiesa aveva sùbito reagito contro tali atteggiamenti (era soprattutto la giurisdizione d’appello esercitata dal tribunale regio sulle cause ecclesiastiche a danno della tradizionale appellatio ad papam che appariva inaccettabile a Roma) insistendo appunto sulla occasionalità e revocabilità della concessione67. Andrea, intenzionato a difendere gli interessi e le prerogative della chiesa, negava perciò la concessione del privilegio e rivendicava l’appellatio ad papam contro le pretese del tribunale regio. Inoltre, confinava il potere di conferire benefici ecclesiastici e la nomina di prelati locali da parte del re innestandoli nel tradizionale istituto del patronato laicale (privando quindi tali concessioni di qualunque profilo di diritto pubblico)68.
46A differenza di Andrea, in conclusione, e pur scrivendo una generazione prima, Marino conduce la rivendicazione delle libertà nazionali e l’equiparazione dei poteri del re di Sicilia a quelli dell’imperatore in maniera assai più decisa e stringente, facendole assumere significati del tutto nuovi. Mettere da un canto il potere universale dell’imperatore, non era tuttavia sufficiente. Marino è, infatti, consapevole di come la realtà del suo tempo sia ormai caratterizzata da una pluralità di ordinamenti indipendenti, e avverte quindi la necessità di individuare quali tra questi possano dirsi davvero sovrani. Il glossatore si sforza allora di individuare alcuni elementi distintivi.
47Anzitutto viene in considerazione il potere legislativo (§§ 1-5). Sebbene circoscritta al solo territorio sul quale governa – osserva il giurista abruzzese – la potestà normativa del re «che non riconosce superiore al di sopra di sé» si estende anche alla possibilità di emanare provvedimenti contrari al diritto comune (§ 3). Analogamente, pure la persistente vigenza del diritto giustinianeo nel regno trova la sua giustificazione non nell’autorità universale di queste, quanto piuttosto nella volontà dagli stessi sovrani, esplicitata o meno che sia (§§ 19-20)69.
48A caratterizzare la pienezza della potestà regia è, in secondo luogo, l’esercizio della più alta giurisdizione e cioè quella in grado d’appello nei confronti dei giudizi emessi da tutti i magistrati del regno. Di contro, è da ritenersi escluso appello di sorta avverso le sentenze del re che superiorem non habet. Così è appunto per il rex Siciliae che secondo Marino – in base agli accordi intervenuti tra il papa e Carlo I al momento dell’incoronazione di quest’ultimo – non è sottoposto alla superiore giurisdizione del pontefice se non per le cause di competenza del giudice ecclesiastico (§ 21).
49Infine, componente fondamentale di un potere regio pieno e libero è la potestà tributaria. Era stata peraltro proprio la leva fiscale a consentire a Federico II di rendere il regno siciliano forte e potente. Marino non ha dubbi che tutte le prerogative e i privilegi che in questa materia le leggi romane garantiscono all’imperatore debbano intendersi estese anche al re (§ 22). Più oltre, egli affermerà per primo e con forza l’assoluta imprescrittibilità dei diritti demaniali70. Anche se in quest’ultimo caso, la novità dell’affermazione è in realtà affievolita dal fatto che Marino ricollega questo carattere al favor regis e non alla rilevanza della funzione pubblica di quei beni71, non v’è dubbio che la costruzione di questo giurista diede un contributo di decisiva chiarezza verso la definizione del moderno concetto di sovranità.
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Notes de bas de page
1 Dopo Calasso 1930, si vedano in particolare Calasso 1957, p. 130 e ss., 143-148, 160 e s. e, in forma più sintetica, Calasso 1954, p. 549-551.
2 Dal documento ricordato infra a nota 6, deduciamo che nel 1287 il padre Antolino era già subentrato come erede nel possesso dei feudi precedentemente concessi al figlio.
3 Kiesewetter2003, p. 351-354. In precedenza, si riteneva che la notizia più antica fosse quella che il Capasso derivava da una testimonianza di Fabio Giordano secondo cui dai registri angioini risultava che Marino sarebbe stato giudice del capitano di Napoli già nel 1269 (Capasso 1869, p. 74). La testimonianza di Giordano è tuttavia viziata da errore e si riferisce invece proprio al documento di nomina del 1278 di cui si sta per dire.
4 Kiesewetter 2003, p. 355.
5 Lo farebbe pensare anche il fatto che Marino trascurò quasi completamente di commentare l’ultima parte della legislazione federiciana (Kiesewetter 2003, p. 359).
6 Così come ignoriamo la data di nascita di Marino, nemmeno conosciamo la data della sua morte. Quest’ultima dovrebbe tuttavia collocarsi tra l’estate 1285 e l’autunno 1287: un atto del dicembre di quell’anno lascia infatti intendere come il padre Antolino fosse già subentrato nel possesso dei feudi precedentemente concessi al figlio (Kiesewetter 2003, p. 362 e 365-369). Per la biografia di Marino, si v. da ultimo Loschiavo 2013.
7 Nelle sue glosse, Marino considera sempre tra i vivi Carlo I che sappiamo esser venuto meno nel gennaio del 1285. In una di quelle glosse, inoltre, Marino lascia intendere che sta scrivendo quando è già trascorso un cinquantennio dal 1231. Certamente successivo al 1278 fu, in ogni caso, il famoso proemio che Marino antepose al suo apparato. Quanto scriveva in proposito già il Monti (Monti 1936, p. 105 e s.) è stato poi ripreso e avvalorato da Vallone (Vallone 1985, pp. 177-182). Si veda anche Stürner 1996, p. 50.
8 Capasso 1869, p. 74 nota 4.
9 Si può invece credere che ad ascoltare le lezioni di Azzone sia stato il primo glossatore del Liber e cioè quel Guisandus di cui si dirà più avanti (infra note 24 e 25).
10 Si ricorderà, infatti, che il padre di Marino è ancora vivo nel 1289. Doveva certamente essere molto anziano, ma è difficile credere che fosse addirittura ultraottuagenario. Se allora la nascita del giudice Antolino non può porsi prima del 1210, si può ragionevolmente escludere che Marino possa esser nato prima del 1230.
11 È molto improbabile che Marino potesse esser chiamato a fungere da giudice della Magna Curia quando aveva meno di 33 anni (si deve pensare che per assumere quel ruolo si dovesse disporre di una certa esperienza).
12 Quest’ultimo aveva cominciato a insegnare nel 1234, al momento della prima “rifondazione” dello Studium voluta da Federico II (Valentini 1998). È ricordato per l’ultima volta nel 1252, in occasione del trasferimento dello studio napoletano a Salerno ordinato da Corrado IV (dove – se no prima nello studio napoletano – Marino potrebbe averlo seguito). In ogni caso, sembra certo che lo stesso Benedetto fosse tornato a Napoli al termine del suo periodo d’insegnamento in Toscana; Cortese 20132.
13 Meijers 1959, p. 158-159. Per la biografia del giurista pisano, Maffei 20133. L’ipotesi che il Fazioli possa aver insegnato a Napoli ancora in età federiciana – ipotesi suggerita da Cortese 20051, p. 635, il quale riprende uno spunto di Maffei 1979, p. 79 (v. anche la rec. al libro di Maffei ora in Cortese 1999, p. 1457) – non è, infatti, a tal punto sicura da indurre a escludere del tutto l’eventualità che questi possa aver insegnato nella scuola napoletana anche dopo la morte dello Svevo.
14 Si è in genere concordi nel ritenere che un periodo d’insegnamento presso lo studio napoletano da parte del giurista di Fano vada posto nel periodo ricompreso tra il 1239 e il 1250; Cortese 20051, p. 635.
15 Arnaldi 1982, p. 118 e 122-123.
16 Cortese 20051, p. 635 e s.
17 Così Calasso 1954, p. 550 e Calasso 1957, p. 158-160.
18 D’Amelio 1972, p. 160-164; Cortese 1996, p. 96 nota 300;Kiesewetter 2003, p. 350 nota 7 e 366 (rr. 63-65).
19 L’ampiezza della sua cultura – di giurista e non solo – si può facilmente apprezzare considerando le citazioni che s’incontrano abbondanti nella sua glossa. Marino fa naturalmente ampio uso delle fonti normative (oltre che delle varie parti del Corpus giustinianeo, anche dei testi canonistici – Decretum e Decretali – della Lombarda, dei Libri feudorum e delle altre componenti della cosiddetta X collatio). Tra le opere dottrinarie, troviamo spesso citate la Glossa accursiana all’intero Corpus iuris, il commentario di Carlo di Tocco alla Lombarda e diversi apparati canonistici. Sono poi più volte richiamati la Summa Codicis di Azzone, i lavori di Goffredo da Trani sui feudi e sul Liber Extra, i Libelli di Roffredo Beneventano. Sporadicamente vengono infine menzionati anche glossatori più antichi come Piacentino e Giovanni Bassiano (è però probabile che questi ultimi riferimenti fossero già nelle glosse più antiche al Liber Augustalis). Con una certa frequenza Marino cita pure i ‘classici’ latini come Cicerone e Sallustio (Capasso 1869, p. 77-78). Naturalmente, solo un’edizione critica della glossa mariniana potrà dirci quanta parte di queste conoscenze non si debbano invece ai precedenti glossatori del Liber ripresi da Marino.
20 Come pare di poter dedurre dai frequenti riferimenti che lo stesso Marino fa al proprio ufficio appunto nella Magna Curia (sui quali, Monti 1936, p. 104 e s.).
21 Così Cortese 20051, p. 636.
22 Arnaldi 1982, p. 86.
23 Supra, nota 7.
24 Spadaccini 2014. Alla conclusione che il (finora) misterioso G. allegasse nella Curia era già giunta D’Amelio 1972, p. 39 (che però pensava a Guido da Suzzara).
25 La scoperta di Spadaccini viene a confermare quanto Cortese (20051, p. 637) aveva già immaginato e cioè che il glossatore G. scrivesse ai tempi di Federico, che fosse un pratico e che il suo apparato provenisse da corsi extrauniversitari.
26 Cortese 1996, p. 96-97 (l’espressione virgolettata è a p. 103). Inoltre Cortese 1995, p. 336-339.
27 È sufficiente ricordare qui le figure di Simone di Parigi (cancelliere di dal 1272) e Pierre de Ferrières (cancelliere di Carlo II dal 1296) : entrambi prima di arrivare nel regno erano stati professori rispettivamente a Orléans e a Tolosa.
28 Cortese 20131.
29 Guido ebbe cattedra a Napoli tra il 1268 e il 1270 periodo durante il quale fu anche consigliere di Carlo I; Benatti 2013, p. 1093.
30 Sul punto Mazzanti 2003, p. 422 e ss.
31 Cortese 20052, p. 639.
32 Così D’Amelio 1972, p. 36 e Mazzanti 2003, p. 422; Cortese 20052, p. 639.
33 Martino 1987, p. 29 e33; Speciale 1994, p. 142 nota 90 e 328-329.
34 Andrea inaugura il genere letterario delle differentiae inter ius Langobardorum et ius Romanorum destinato a un certo successo. L’obiettivo era quello di limitare, per quanto possibile, i problemi che si verificavano nella prassi ogni volta che i due ordinamenti così differenti venivano a contrapporsi.
35 La sua attività d’insegnante dello studio napoletano comincia dal 1268 e prosegue sicuramente sino al 1271. Nel 1269 è rettore dello studio e, contemporaneamente, Curiae regis magister e patronus fisci; Maffei 20131.
36 Nativo di Alessandria, Dullio studiò e cominciò a insegnare diritto a Vercelli. A Napoli tenne lezioni tra il 1270 e il 1293. Scrisse, tra le altre cose, un commentario ai Tres libri giustinianei e una margarita sul diritto feudale (su quest’ultima opera – a noi non arrivata se non attraverso citazioni indirette – v. Montorzi 2005); Cortese 20133.
37 Meijers 1959, p. 162-164. Sul soggiorno e sull’insegnamento di Dino a Napoli – probabilmente di breve durata – v. ora Padovani 2013, p. 769.
38 Iacopo studiò diritto a Bologna dove aveva già completati gli studi nel 1293. Dovette tuttavia attendere sino al 1298 e giungere sino a Napoli (probabilmente su consiglio del suo maestro Dino) per riuscire a ottenere il titolo di dottore – e quindi la licentia docendi – che Bologna gli negava in quanto legato alla fazione perdente dei ghibellini Lambertazzi (una norma imposta dai guelfi Geremei riservava il dottorato ai soli parenti di quanti fossero già dottori); Mellusi 2013, p. 1102.
39 Cortese 20052, p. 639.
40 Monti 1924, p. 78-84, ha contato oltre cento docenti di diritto canonico attivi nello Studium napoletano tra il 1268 e il 1400 : segno evidente d’una attenzione costante da parte dei sovrani angioini.
41 Di lui sappiamo solo che fu professore di ius civile a Napoli tra il 1271 e il 1276 e che concentrò la sua attività esegetica sul diritto romano (rimangono alcune glosse); D’Amelio 1972, p. 95 e 155.
42 Da non confondere col più famoso omonimo e concittadino che visse sul finire del sec. XII e collaborò alla compilazione delle consuetudini baresi, Sparano fu dapprima professore di ius civile nel 1277 e poi logoteta del regno dal 1289 sino alla morte (1296); Monti 1927.
43 Studente a Napoli (allievo di Guido da Suzzara), poi professore nello stesso Studium a partire dal 1275 (forse lo era ancora nel 1300), fu anche vice cancelliere del regno nel 1274-1278 e avvocato fiscale nel 1281-1282; Cortese 20134.
44 Dopo essere stato a lungo professore di diritto nello Studium, nel 1294 fu nominato Vice protonotario del regno assieme ad Andrea d’Isernia.
45 Professore di ius civile dal 1295, divenne magister rationalis della Magna Curia nel 1298.
46 In proposito Boyer 1999 e 2005, nonché Vallone 1985 e 1999.
47 Così P Maffei 20132, p. 183, che integra Walter-Piccialuti 1964.
48 Sulla biografia di Andrea, Novarese 2005 e, da ultimo, Vallone 2013.
49 Differenze tra i doctores di Orléans e quelli di Napoli si riconoscono tuttavia anche nel modo di affrontare il diritto dei feudi, come evidenzia Cortese 1996, p. 87-90 e 96 nota 299.
50 Si tratta del cap. Ut status rei publicae. È stata Giuliana D’Amelio (D’Amelio 1972, p. 164) a segnalare la corretta interpretazione della norma, desumendola dal commento di Paride dal Pozzo, contro le correnti letture che – falsate da una cattiva riproduzione del capitolo stesso nelle edizioni – intendevano che si dovessero studiare per cinque anni le norme regie. Il vincolo dei cinque anni di studio, già previsto nel falso privilegio teodosiano, composto tra il 1226 e il 1234 su ispirazione diretta della giustinianea const. Omnem, era presente anche negli statuti bolognesi del 1250 che lo ponevano per chi aspirasse a divenire iudex Communis o a rilasciare consilia (s’intende dalla cattedra d’un tribunale); ancora Cortese 1996, p. 81-82.
51 Caravale 2005, p. 65-114.
52 Risale al 1306 la solenne promulgazione delle Consuetudini raccolte per iniziativa di Carlo II mentre la stesura della relativa glossa fu conclusa nel 1351 da quel Napodano – o Napoletano – Sebastiani sfavorevolmente giudicato dal Montie che fu invece giurista dall’ingegno acuto.
53 D’Amelio 1972, p. 161.
54 D’Amelio 1972, p. 160-164; Caravale 1994, p. 510; Cortese 20051, p. 639 e ora Spadaccini 2014, p. 494-497.
55 Il lavoro è partito nel 2015; vi accenna Spadaccini 2014, p. 496 nota 25.
56 Ancora Spadaccini 2014, p. 495 e ss.
57 Proem. § 23 in fi. (ed. Calasso 1957, p. 204 e ss.) : Post hec deinde, et presertim quoniam in quibusdam constitutionum istarum legibus nihil obscuritatis habentibus mote sunt questiones ab aliquibus ex studio et ad suam intentionem eis obscuritatem introducentibus… providimus disputationes et decisiones per iudices et advocatos magne curie regie factas in causis, nec non notas alias, quas in quotidiano causarum usu utiles ex nobis adinvenire potuerimus, hoc opere ad commemorationem nostram et sociorum fidelium compilare, imitando Herennium Modestinum, qui notando et disputando ben optima ratione decrevit… ut ita questiones facti quas in regno varie responsiones peritorum confusas et ambiguas reddiderunt, erigamus in consonantiam luculentam.
58 Ivi, p. 161.
59 Calasso 1957. L’espressione riportata nel testo si legge a p. 149.
60 In particolare Calasso 1930 in polemica con Ercole 1915, il quale aveva sostenuto l’origine della formula negli ambienti francesi della seconda metà del XIII secolo. Come lo stesso Calasso ebbe a notare più tardi, la formula della sovranità aveva alle spalle una storia già abbastanza lunga ed era, in effetti, d’uso comune nelle scuole giuridiche dell’epoca; diffusamente Cortese 1966, p. 35-70.
61 Vincolo sorto – com’è noto – nel 1059 all’epoca di Roberto il Guiscardo.
62 Così Calasso 1957, p. 153 con riferimento al § 6 del proemio mariniano. Più avanti (§ 17-18), lo stesso Marino osserva che l’impero romano è stato costruito con la violenza ed è giusto quindi che le popolazioni, un tempo assoggettate, riacquistino oggi la loro libertà negando una soggezione imposta loro ingiustamente.
63 Era stato in particolare Pillio da Medicina (… 1169 – 1207 …), vari decenni prima, a elaborare questa teoria. Applicando per primo i raffinati strumenti della nuova scienza legale al diritto dei feudi, Pillio pensò di estendere per via analogica al feudatario la tutela (un’azione in rem per la rivendica diretta) che il diritto romano già assicurava all’enfiteuta, al superficiario, al conduttore a lungo termine. A costoro – che non erano proprietari – poteva però riconoscersi unicamente un’azione utile (cioè pretoria). Trasponendo l’idea di ‘utile’ dal piano processuale, l’azione di rivendica, a quello sostanziale, il diritto reale, Pillio poté configurare il diritto del feudatario come un diritto assai vicino alla proprietà (una «quasi-proprietà»). Pillio immaginò allora di scindere in due il concetto di proprietà: da una parte la titolarità astratta del diritto (il dominium directum), dall’altra l’esercizio concreto, o godimento, del diritto stesso (il dominium utile). Il pieno proprietario assomma in sé il dominio diretto e quello utile, ma può trasferire ad altri il godimento del bene (dominium utile) conservandone solamente il dominium directum (noi diremmo la «nuda proprietà»). Col dominio utile del bene, insomma al feudatario si trasferiva un «diritto reale su cosa altrui» di estensione particolarmente ampia; Cortese 1966, p. 35-42.
64 Marino sottolinea peraltro come, tra i due, sia proprio il dominium utile quello da preferire.
65 Ben diversamente Andrea d’Isernia, il quale criticherà Marino da posizioni guelfe mirando a un ridimensionamento dei poteri regi a vantaggio di quelli del papa. Agli occhi del commentatore trecentesco, il pontefice mantiene invece saldamente il dominium diretto sia sull’intero regno sia sulle parti che lo compongono che non pare ammissibile separare l’universitas facti dai singoli corpora da cui risulta ….; Cortese 1966, p. 42-45.
66 Una sintesi, rapida ma puntuale, della vicenda costitutiva del regno normanno-svevo, attenta ii profili costituzionali e ai rapporti col papato, è offerta da Cortese 1995, p. 312-326, il quale, tra l’altro, scrive che (p. 317) : «… la concezione della dignità e dei poteri monarchici, altrove un fatto scolastico di esegesi delle fonti giustinianee, nell’Italia meridionale era un’immagine vivente che vestiva i panni del basileús costantinopolitano».Alla precedente, ampia letteratura già ricordata da Cortese (Caspar, Ménager, Calasso, Marongiu, Deér, Caravale, Bellomo, Mazzarese Fardella, von Falkenhausen), si devono ora aggiungere i lavori di prossima pubblicazione di Condorelli (1) e (2).
67 Catalano 1973.
68 Cortese 1995, p. 319 nota 33.
69 Così anche nella glossa «specialiter» ad const. Rei vendicatione (Lib. Const., III, 27) su cui Calasso 1957, p. 142 e Caravale 2005, p. 67.
70 Glossa «censeatur» ad const. Si dubitatio (Lib. Const., III.8).
71 Marino, in altre parole, continua a muoversi all’interno della tradizione altomedievale della patrimonialità dei beni pubblici come appare pure dall’uso dei termini dominium regis e demanium come perfettamente equivalenti.
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Univ. degli studi di Teramo, loschiavoluca@gmail.com
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