Capitolo 5. Il coinvolgimento imperiale
p. 173-202
Texte intégral
1Il 19 marzo 1423, «per cagione delle genti d’arme, venute in Romagna, del duca di Milano», Rinaldo degli Albizzi e Alessandro di Salvi Bencivenni furono inviati al cospetto del legato di Bologna, Alfonso Carrillo, prima di andare a Venezia per trovarsi con gli ambasciatori di Amedeo VIII e trattare un accordo tra Sigismondo di Lussemburgo (al momento, e fin dal 1410, rex Romanorum, ma che per comodità non esiteremo a chiamare imperatore1) e la Serenissima2. Riteniamo importante attardarci su tale missione degli ambasciatori fiorentini poiché, nonostante il suo fallimento, questo invio ci permette di apprezzare almeno tre elementi importanti: innanzitutto, un ritrovato ruolo dell’imperatore negli scambi diplomatici dopo le difficili vicende attraversate durante il regno di Ladislao di Durazzo, scambi nei quali la Maestà cesarea torna a essere un interlocutore politico necessario3; in secondo luogo, fa apprezzare come, fin da questo momento, Firenze fosse disposta a inserirsi in qualunque spiraglio diplomatico, anche al di fuori dei confini peninsulari, pur di risolvere il problema col Visconti; infine, proprio in quest’occasione inizia a interagire in maniera più densa e diplomaticamente orientata la triade composta da Firenze, Venezia e la Savoia, che avrebbe avuto qualche anno dopo non soltanto occasione di riunirsi, ma anche di giungere a più felici conclusioni4. Cosa accadde dunque nella laguna, e per quali ragioni i tentativi di pacificazione non ebbero il successo sperato?
5.1. «Non potevano essere migliori mezzani». Le richieste di Sigismondo
2La repubblica fiorentina aveva certo riposto una buona parte delle sue speranze nella missione dell’Albizzi e del suo collega: una riconciliazione tra quei due eterni rivali che erano Venezia e Sigismondo avrebbe infatti sottratto alleati al duca di Milano e indebolito la sua posizione. Il Visconti, che proprio su quel conflitto aveva fortemente giocato, accordandosi separatamente con l’una e con l’altro5, sarebbe così stato indotto a ripensare la propria presenza al di là del Panaro e della Magra, e a ridimensionare la propria fame territoriale. Dietro esplicita e formale richiesta dell’imperatore6, il 20 ottobre 1422 Firenze aveva allora mandato alla corte sabauda un proprio ambasciatore, Buonaccorso Bonaccorsi7, per intendersi con il duca su come dare seguito alle richieste dell’imperatore. Sigismondo si mostrò in quel momento molto più favorevole ai Fiorentini che al Visconti, che l’imperatore sperava di vedere sconfitto: aveva infatti inviato a Firenze, come proprio ambasciatore, il fiorentino Filippo del Bene (che fu ricevuto da Niccolò da Uzzano e da Palla Strozzi), per spiegare che, oltre ad accordare alla repubblica certi vantaggi commerciali nelle terre imperiali, egli «era ben disposto […] in confermatione delle terre e dei luoghi si tengono d’Imperio» . Inoltre, proponeva di includere gli Svizzeri – di certo assetati di vendetta, poiché da poco sconfitti ad Arbedo dal Carmagnola – nell’alleanza tra Firenze e Amedeo VIII, e «pregava et confortava che questa Signoria si volesse intendere col duca di Savoia contro il duca di Milano, […] perché il desiderio suo è di passare per la corona »8.
3Di concerto con il duca di Savoia, si convenne dunque che gli ambasciatori fiorentini e sabaudi si ritrovassero a Venezia, per trattare dell’accordo direttamente là dove si trovava la parte più riluttante9. L’importanza accordata all’interlocutore, e la rilevanza che la pacificazione tra la Serenissima e Sigismondo rivestiva nelle dinamiche e nelle proiezioni politiche del momento, appaiono chiare non soltanto dall’intenso lavorio delle cancellerie, ma anche già semplicemente soffermandoci sulla composizione del gruppo diplomatico inviato per quell’occasione. Tali invii sembrano infatti coniugare i due elementi di quella «basic dichotomy» che prevedeva, in linea generale, l’uso di ambasciatori ‘prestigiosi’ per le occasioni più formali, e una selezione di personaggi più avvezzi al mondo della politica per missioni più lunghe10: sul versante fiorentino, al nobile miles Rinaldo degli Albizzi, già noto e rispettato per le sue plurime ambascerie, era stato affiancato un brillante giurista, Alessandro Bencivenni, la cui conoscenza capillare della legislazione fiorentina compensava le minori competenze del suo illustre collega11; su quello sabaudo, i nomi di Pierre Marchand e Nicod Festi – ambassiatoribus et consiliariis domini12 – sono comunicati direttamente dal duca in una missiva agli ambasciatori fiorentini. Questi inviati ducali furono scelti con non minore cura di quelli fiorentini, avendo Amedeo VIII spedito al doge veneziano due personaggi abili ed esperti13, capaci di un certo soft power per cui la solida preparazione giuridica si accompagnava alla forte intimità con il duca e, quindi, a una puntuale conoscenza dei giochi politici e delle intentioni del loro emissario14. La selezione di un convoglio diplomatico così preparato sotto il profilo giuridico-legale e così esperto nelle negoziazioni diplomatiche più delicate con interlocutori dalla notevole dignitas, non era solamente una decisione di rappresentanza ma anche – e soprattutto – una volontà di dimostrare l’alto interesse che le parti avevano nei confronti di quella mediazione, e la serietà con la quale volevano che essa fosse trattata.
4La scelta di Amedeo VIII e della Signoria fiorentina come intermediari per tale ricomposizione fu presa dunque dallo stesso Sigismondo, il quale credeva fermamente che, vista la sua situazione, la Savoia e la repubblica «non potesseno essere migliori mezani »15. Il futuro imperatore, infatti, sosteneva di avere «due discordie, et differente»: l’una, come rex Romanorum, col duca di Milano; l’altra, in qualità di re d’Ungheria, con Venezia. Per quanto riguarda la repubblica di S. Marco, i conflitti interessavano soprattutto il territorio dalmata: la Dalmazia era infatti divenuta, da possedimento veneziano, territorio magiaro dal 1381, con la stipula della pace di Torino (siglata con la mediazione del conte di Savoia, Amedeo VI)16, le cui clausole tuttavia la Serenissima non osservò a lungo, acquistando anni dopo, da Ladislao di Durazzo, Zara, Pago, Laurana e Castelnuovo, e rifiutando di versare all’Ungheria i 7000 ducati annui concordati17. Cessati nel 1418 i cinque anni di una tregua firmata il 17 aprile 1413 dopo un triennio di guerra aperta18, i conflitti con la Serenissima tornavano a turbare gli equilibri adriatici, e mantenevano la città dei Dogi in costante stato di allerta19 (ragione per la quale il re dei Romani accordò al Visconti la concessione di alcuni diplomi, con i quali si assicurava non soltanto la fedeltà del duca, ma anche la sua continua dipendenza). Per capire in cosa consistessero tali discordie, Amedeo VIII mandò allora alcuni ambasciatori a Filippo Maria Visconti, presso il quale già si trovavano Nello Giuliani e Averardo de’ Medici, inviati da Firenze per ragioni non meno importanti per la repubblica20.
5A dispetto dei buoni propositi espressi nel trattato del 1420, infatti, il duca di Milano, divenuto signore di Genova nei primi giorni del novembre 1421, non aveva perso occasione per intralciare i progetti della neonata marineria fiorentina. Firenze aveva «diliberato nostre galee et navilii nella parte di Levante mandare, per portare et conducere mercatantia»; per poter liberamente commerciare in acque orientali, quindi, aveva pregato Visconti ché rilasciasse «patenti lettere […] ne’ luoghi a lui subditi […] et salvocondotto». La risposta negativa e poco argomentata del duca meravigliò la Signoria, tanto più che – dicevano a Firenze – «non è Signoria al mondo a chui simile richiesta abbiamo fatto che liberamente et larghamente non habbi consentito» . I due ambasciatori furono dunque costretti a rientrare senza aver ottenuto quanto chiedevano21, e la repubblica iniziava a capire sempre meglio che quel «singularissimo et intimo fratello», in realtà, non aveva alcuna intenzione di conservare «benigni et amichevoli rapporti», e la costringeva a prendere misure tanto sul piano economico quanto su quello più strettamente diplomatico. Con una provvisione del 1423, il governo decise di tassare in maniera severa le merci fiorentine che viaggiavano su navi genovesi22; inoltre, nella primavera dello stesso anno, sollecitati dai discorsi di Rinaldo degli Albizzi nelle numerose pratiche sull’argomento23, i Fiorentini si diedero a una diplomazia serrata, inviando ambasciatori a Tommaso Campofregoso, a Braccio da Montone, a Siena, in Lunigiana, in Romagna, e ovviamente al papa e al duca di Savoia. Si trattava ormai di fare una ricognizione della situazione diplomatica al di fuori dei confini del proprio territorio, per capire di quali forze amiche si disponesse in caso di una offensiva antiviscontea24.
6Da quanto finora esposto, possiamo già avanzare due considerazioni: innanzitutto, costatiamo che il conflitto prese piede fin dai primi mesi del 1423, nel momento in cui si costituirono i Dieci di balia per fronteggiare il dilagare milanese in partibus Romandiole; in secondo luogo, notiamo ulteriormente come la negativa predisposizione del duca avesse dato i suoi chiari segnali ben prima che si verificassero, nella primavera-estate del 1423, i fatti di Lugo, di Forlì e di Imola; e quando gli inviati sabaudi si presentarono al suo cospetto «volendo mettere a executione la volontà del serenissimo re de’ Romani», ossia di giungere a un compromesso con Venezia mediato da Firenze e Savoia, Filippo Maria si mostrò poco recettivo.
7Il Visconti sembrava infatti non comprendere ciò a cui gli inviati sabaudi facevano riferimento, e affermò che i suoi rapporti con Sigismondo erano più che pacifici e distesi25. Per di più, se proprio la sua relazione con l’imperatore fosse stata problematica, il Visconti si sarebbe per sua scelta rivolto al duca di Savoia piuttosto che «ad altro principe che viva», avendo già assicurato i suoi confini orientali mediante un accordo di pace precedentemente firmato con Venezia26. Vogliamo soffermarci, seppur brevemente, su questa lega tra il duca milanese e il doge veneziano, poiché essa può rivelare alcuni dettagli importanti in merito alle decisioni prese da Filippo Maria, nonché alla condotta veneziana nei confronti delle richieste fiorentine di un aiuto in senso antivisconteo.
5.2. «Nisi specialiter contra regem Romanorum». L’intesa anti-imperiale tra Milano e Venezia
8A conferma, ancora una volta, di come i signori dei cosiddetti piccoli Stati giocassero in realtà un ruolo capitale all’interno delle alchimie diplomatiche italiane, di tale accordo decennale si era fatto mediatore Niccolò III d’Este27. Il nostro lavoro, condotto tanto sulla letteratura storica disponibile quanto sui documenti d’archivio sembrerebbe mostrare come molti degli studiosi che hanno parlato di questi accordi non abbiano mai verificato l’esattezza delle loro informazioni sulla documentazione originale, attribuendo di conseguenza a tale intesa una datazione piuttosto fluida. Riteniamo invece di un certo valore definire l’esatto ambito cronologico nel quale essa prese ufficialmente vita, poiché l’evento appare niente affatto scollegato da altri accadimenti, a esso più o meno sincroni (primo fra tutti, la presa di Genova da parte del Visconti, che pure ebbe il suo peso nella lotta ingaggiata da Firenze contro il duca milanese).
9La pace di Torino (1381) aveva chiuso il conflitto veneto-genovese, ma Venezia aveva mostrato leggerezza nell’ottemperare agli impegni presi28. Divenuto signore della repubblica ligure, un vincolo decennale con la Serenissima avrebbe dunque a priori garantito al Filippo Maria Visconti una gestione genovese meno difficile; da parte sua, poi, Venezia era già in precedenza detta «contenta venire ad ligam cum domino» Filippo Maria, ma i testi imbastiti fin dal giugno 1420 non sarebbero mai stati accettati dalla repubblica lagunare fintanto che, tra i capitoli, non ve ne fosse stato almeno uno che avesse contemplato seriamente l’impegno delle due parti al mutuo soccorso, quand’anche il nemico in questione avesse avuto dignità regia o imperiale. Nelle sue pretese, Venezia pensava naturalmente a Sigismondo il quale, sebbene impegnato in Boemia29, avrebbe dovuto prima o poi intraprendere una discesa in Italia per l’incoronazione imperiale: il primo dei capitoli del trattato voleva difatti regolamentare proprio tale discesa del re d’Ungheria:
Primo, que si Serenissimus rex Romanorum et Hungarie venire voluerit ad accipiendum coronas suas in Italiam et redire pacifice et quiete, possit et debeat ipse rex, cum deliberatione et consensu ambarum partium predictarum habere transitum et victualia per territoria ipsarum partium sine preiuditio ullo presentis lige. Si vero hostiliter veniret, tunc illustre ducale dominium Venetiarum teneatur et debeat mittere in subsidium et favorem illustris domini ducis Mediolani equos millequingentos in modum lanzearum, mittendo eos omnibus expensis prelibati ducalis dominii Venetiarum contra ipsum regem Romanorum et Hungarie seu gentes suas defendentes contra dictum dominum ducem et terras suas existentes in partibus Lombardie, Rege seu suis gentibus campizantibus, seu castra tenentibus contra dictum dominum ducem et terras suas ut supra, et per tantum tempus quantum dictus dominus rex Romanorum et Hungarie vel gentes sue campizabunt, seu castra tenebunt ut supra in partibus Lombardie predictis. Et versavice simile subsidium equorum mille et quingentorum in modum lanzearum omnibus suis expensis dare teneatur prefatus illustris dominus dux Mediolani prefato ducali dominio Venetiarum, terras et loca sua, Rege ipso seu gentibus suis campizantibus, seu castra tenentibus contra dictum ducale dominium et terras et loca sua, et per tantum tempus quantum dictus dominus rex Romanorum et Hungarie vel gentes sue campizabunt, seu castra tenebunt contra dictum ducale dominium, terras et loca sua, non intelligendo terras et loca sua Dalmatie, et extra Italiam quam subventionem una pars alteri dare teneantur, usque a unum menses ad longius, postquam ab altera parte de dicta subventione requisitur.30
10Prevedere certi comportamenti in vista del consueto Romzug imperiale (ossia della discesa del rex Romanorum per l’incoronazione31) si rivelava fondamentale per i potentati italiani: per quanto inevitabile, il passaggio del futuro imperatore costituiva sempre un elemento di disturbo all’interno dei meccanismi di gestione del proprio territorio da parte degli agglomerati politici peninsulari, soprattutto in un contesto così informalmente autonomo quale quello italiano32.
11I dibattiti e le proposte tra Venezia e Milano intorno ai capitoli di questa lega presero molti mesi, e l’alleanza veneto-milanese non fu firmata che il 22 febbraio 1421 (ratificata il 27 febbraio da Venezia, poi l’8 marzo da Milano)33. A costo di attirarsi le ire imperiali, Filippo Maria aveva così siglato un accordo con l’acerrima nemica di Sigismondo, contro il quale, per di più, il duca doveva essere pronto a scendere in campo, secondo le clausole del trattato. Il riconoscimento e l’apprezzamento di uno spazio politico-diplomatico tutto interno ai confini peninsulari erano dunque presenti in questa decisione del duca di Milano? È probabile, se si considera che tale strategia rientrava negli interessi di Filippo Maria il quale, diversamente da quanto sarà costretto a fare il suo successore34, non voleva certamente rivolgersi ai consanguinei di Francia, le cui pretese su Milano avevano lunga data35. Certo è, in ogni caso, che il pensiero imperiale sembrava non scevro di tale senso di globalità del territorio italiano: i negoziati ai quali Sigismondo aveva chiamato la repubblica di Firenze e il ducato di Savoia vertevano infatti «intorno alla pace di Italia», che il sovrano aveva cara, e nelle cui questioni si sentiva sempre implicato36.
12Quanto alla posizione veneziana, la Serenissima si poneva al di fuori di ogni possibilità di trattativa, e si diceva vincolata nel modo più assoluto a non stringere accordi con il re d’Ungheria senza la partecipazione concreta del Visconti, visto che i patti che intercorrevano tra i due potentati erano fortemente impostati proprio intorno al problema imperiale:
[…] Il perché tornarono a Marghera, luogo comune a ciascuna delle parti, et exposto quanto avamo in commissione, ringratiarono la S.V. della mandata […], et della intentione del Serenissimo re de’ Romani et dello illustre signor duca di Savoia, et della expositione facta per loro alla inclita Signoria di Vinegia. Et della risposta facta per la Signoria di Vinegia dissono quanto fu scripto per lettera de’ dì 29 março detto, per lo fante di Giovannello di Buontempo da Perugia, mandato a Ser Ristori. Di poi visitamo la gloriosa signoria di Vinegia, et narramo quanto avamo in comissione, con quelle parole acadevano all’onore della S.V., et preso tempo a deliberare, ultimamente risposono che ringratiavano la S.V. della cura et diligentia di mettere pace et concordia, et come buoni amici et cari fratelli sempre suti riputavano le S.V. Et che più volte avevano cercho per loro ambasciadori et in altri modi di avere buona pace et concordia col Serenissimo re de’ Romani, et che per loro non è rimaso. Il perché aveano facto confederatione et lega co’ llo illustre duca di Melano, dove era capitolo che non potessono fare pace o concordia co’ lla magnificentia del re de’ Romani sanza volontà del duca di Melano et, versa vice, lui sanza loro non potesse fare, sì che al presente non potevano attendere a questa materia, offerendo ogni cosa a lloro possibile, con larghe parole.37
13Nonostante gli obblighi nei confronti di Filippo Maria, quindi, la Serenissima non sembrava chiudere completamente la porta ai Fiorentini, esplicitando che, se nuove leghe – da intendersi come accordi che non coinvolgessero la presenza imperiale – la repubblica toscana avesse voluto proporre, avrebbe potuto farlo liberamente, poiché quella «confederazione [con il Visconti] era solo fatta al duca di Milano contro il re de’ Romani»38. Il Senato veneziano assicurava in effetti «que ista liga non est nisi specialiter contra regem Romanorum »39, e i capitoli dell’accordo denunciavano tale clausola in maniera inequivocabile. Dopo il primo capitolo, infatti, il testo della lega avanzava come segue:
Item teneatur illustre ducale dominium Venetiarum, tempore dicte unionis et lige, non dare nec dari facere aliquod subsidium, favorem, subventionem, receptum, transitum nec victualia in secreto neque palam regi Romanorum et Hungarie, nec gentibus suis, nec alicui domino dominio nec alicui potentie cuiuscumque gradus et conditionis existat defendere vel venire volenti ad danna seu offensiones dicti domini ducis Mediolani, terraque et locorum suorum, quas et que tenet et possidet ac tenebit et possidebit, et aliorum comprehensorum in presenti liga, durante tempore unionis et lige predicte. Teneaturque, versavice, illustris dominus dux Mediolani, tempore dicte unionis et lige, non dare neque dari facere aliquod subsidium, favorem, subventionem, receptum, transitum nec victualia, in secreto necque palam, dicto regi Romanorum et Hungarie, nec gentibus suis, neque alicui domino, dominio nec alicui potentie cuiuscumque gradus et conditionis existat, defendere vel venire volenti ad danna et offensiones prelibati ducalis dominii Venetiarum, terrarum et locorum suorum quas et que tenet et possidet, aut tenebit et possidebit, et aliorum comprehensorum in presenti liga, durante tempore dicte unionis et lige; et etiam que prelibatus dominus dux Mediolani, tempore dicte unionis et lige, non possit pro se, adherentibus et recommendatis suis ullam guerram et novitatem facere nec fieri facere terris et locis prefati illustris ducalis dominii, quas et que habet et tenet aut habebit et tenebit tempore dicte unionis et lige. Et, versavice, prelibatum ducale dominium Venitiarum, tempore dicte unionis et lige, non possit pro se, adherentibus et recommendatis suis ullam guerram et novitatem facere nec fieri facere terris et locis prefati domini ducis Mediolani, quas et que habet et tenet aut habebit et tenebit tempore dicte unionis et lige.40
14Non sembra allora essere frutto della casualità il fatto che, nei patti stretti con Gian Francesco Gonzaga un paio di settimane dopo, tra i nemici della Serenissima contro i quali il signore di Mantova era chiamato a prendere le armi il solo esplicitamente nominato fosse il re d’Ungheria Sigismondo, mentre gli altri potenziali avversari venivano raccolti in un largo quanto indefinito «alicuius alterius principis »41.
15I Fiorentini avrebbero approfittato di tale offerta, e a più riprese avrebbero in seguito domandato l’aiuto dei Veneziani per difendersi dalle pericolose ambizioni di Filippo Maria. Richiesto da Firenze, Gian Francesco Gonzaga avrebbe infatti tentato presso la Serenissima una mediazione a favore della repubblica ancor prima che il Visconti invadesse la Romagna42. Il ricorso al signore di Mantova non fu naturalmente una scelta poco ponderata da parte della Signoria fiorentina: il 14 marzo 1421, il Gonzaga aveva infatti stretto con la repubblica lagunare un accordo che regolamentava i rapporti tra Venezia e Mantova in caso di eventuali conflitti43. Il testo di tale intesa ci sembra altamente interessante per alcuni motivi: innanzitutto, perché il rapporto tra Venezia e Mantova, nello spazio cronologico che ci concerne, completa, quando non chiarisce, determinati atteggiamenti della Serenissima nei confronti di Firenze e delle sue richieste di alleanza contro il Visconti (i continui rifiuti, il graduale abbandono di una neutralità di facciata, alcune delle clausole che Venezia avrebbe imposto nel trattato di lega del 1425); e poi perché la decisione veneziana di rivolgersi al Gonzaga, e di utilizzarlo in maniera sempre più importante per controllare le mosse viscontee, ci mostra come la repubblica di Venezia non fosse affatto disinteressata o poco attenta ai progressi milanesi nel nord Italia tra 1420 e 1425 ma, anzi, considerasse tali progressi come una crescente minaccia, tanto più in un momento di evoluzione territoriale e politica. La posizione geografica del suo territorio faceva di Mantova il «bastione de mezo» (o «buffer state») tra Milano e Venezia, nonché un punto di raccolta delle informazioni che provenivano dal fronte milanese44. Fu per tali ragioni che Venezia – approfittando del fatto che il Gonzaga, seppure signore di uno stato che era al centro della rete diplomatica peninsulare, sentiva di aver bisogno della protezione di un attore politico più potente per conservare la propria presenza sulla carta geopolitica italiana45 – firmò con il signore di Mantova un accordo che ai nostri occhi si impone per la sua accecante asimmetria tra le parti: Mantova è un satellite della Serenissima, uno stato-cuscinetto da utilizzare contro i nemici o per gli amici di essa, che resta confinato al ruolo di aderente e raccomandato (e, quindi, non colligato). Potremmo allora suggerire che, già nel Quattrocento, il riconoscimento di un blocco amico o nemico, e l’investimento relativo al quale ci si impegnava, rientravano nelle logiche di quella che, con Machiavelli, Botero e Bodin tra gli altri, sarà conosciuta un secolo dopo come la ragion di Stato; fin dal XV secolo, tuttavia, ci sembra di poter dire che quanti aderivano al criterio della ragion di Stato erano anche costretti ad accettare l’esistenza dell’inimicizia come elemento concreto delle relazioni e a trovare il modo di includerla tra gli strumenti necessari alla conservazione dell’ordine interno46. Pertanto, il signore di Mantova è tenuto a trattare gli amici di Venezia come propri amici (e, parallelamente, i nemici come dei nemici del marchesato47), e deve assicurare loro il passaggio attraverso il proprio territorio e i rifornimenti necessari; in cambio, Venezia offriva gentilmente di accogliere il Gonzaga e i suoi figli sub sua defensione et protectione:
Primo, que magnificus dominus dominus Iohannesfrancischus de Gonzaga Mantue et cetera sit et esse teneatur, et debeat cum eius filiis et heredibus bonus verusque adherens et recommendatus illustris ducalis dominii et communis Venetiarum, cum omnibus terris, castris et locis quas et que tenet, habet et possidet de presenti.
Item que prefatus dominus Mantue omnes et quoscunque amicos prefati ducalis dominii Venetiarum tractabit et habebit, ac tractare et habere teneatur et debeat pro amicis, et contra omnes et quoscunque inimicos ipsius ducalis dominii habebit et tractabit, ac habere et tractare teneatur et debeat pro inimicis.
Item que prefatus dominus Mantue, in omnibus suis terris, locis et districtibus tam per terram quam per aquam dabit ac dare teneatur et debeat receptum et liberum transitum ac victualia omnibus gentibus et amicis dicti illustris ducalis dominii ac eas et eos bene tractabit et tractari faciet, ac omnia faciet et fieri faciet que pro ipso proprio et eius stati faceret. Et, e converso, prefatum illustre ducali dominium Venetiarum acceptat et recipit prefatum magnificum dominum Mantue ac filios et statum suum, cum omnibus terris et locis quas et que ad presens habet, tenet et possidet, pro adherente et recommendato, ac sub sua et communis Venetiarum defensione atque protectione; promittitque predictum ducale dominium prefatum dominum Mantue ac filios suos defendere, protegere et conservare in statu suo, cum omnibus terris et locis quas et que habet, tenet et possidet de presenti.48
16Questo dislivello gerarchico tra la potenza veneziana e il marchesato mantovano non costituiva certo una condizione piacevole per i Gonzaga i quali, ormai in disaccordo con la repubblica lagunare, sul finire degli anni Trenta, decisero di abbandonare la Serenissima per allearsi con il duca di Milano. Due anni prima, anche Luigi (Alvise) dal Verme, solitamente al servizio di Venezia, era passato agli ordini del Visconti49. Per Michael Mallett, tali defezioni erano legate all’incompatibilità delle ambizioni politiche di questi condottieri (in molti casi principi-soldati) con il forte controllo operato da Venezia50; se questa può essere una valida ragione, crediamo però di poter aggiungere che tali cambi di schieramento appaiono un chiaro segno di come, dopo gli anni 1423-1428, la Venetorum immoderata dominandi cupiditas51 stava catalizzando su di sé le attenzioni negative da parte dei condottieri e delle potenze italiane52. Durante una delle ultime fasi della guerra contro Filippo Maria Visconti, i marchesi di Mantova diedero tuttavia seguito non tanto a un tradimento nei confronti di Venezia, quanto all’adozione di una nuova linea politico-diplomatica, che privilegiava ora l’intesa col duca piuttosto che quella col doge; siamo cioè davanti a quello che Michael Mallet – forse impropriamente – definì «diplomatic volte-face»53, che dovremmo invece intendere più nel senso di un cambiamento nelle scelte del partner diplomatico. A seguito di trattative segrete con il Visconti, infatti, nel luglio 1438 Gian Francesco Gonzaga pose termine ai rapporti di lunga durata che lo avevano legato a Venezia per stringere una lega con Milano54. Tale specifica forma pattizia55 poneva il marchese al di là dell’abituale ruolo di signore-soldato, proiettandolo sulla scena politica italiana come uno dei protagonisti su più ampia scala; inoltre, l’intesa con Milano avrebbe fruttato al marchese più di quanto Venezia era stata fino ad allora capace di offrirgli: a particolari condizioni, al Gonzaga venivano infatti promesse o Verona o Bergamo/Brescia (la prima delle due che sarebbe stata presa dall’esercito visconteo) o Cremona. La pace firmata successivamente a Cavriana nel 1441, con la quale la guerra contro Filippo Maria Visconti poteva globalmente considerarsi terminata, avrebbe mostrato il fallimento dell’azione gonzaghesca: il marchesato, infatti, non solo non sarebbe stato accresciuto da alcuna conquista territoriale, ma avrebbe per di più perso alcune terre già sue56.
17In ogni caso, per tutto il primo trentennio del Quattrocento, e soprattutto negli anni da noi presi in considerazione, la presenza mantovana al fianco della Serenissima fu una costante57 e, a partire dal 1422, la pressione veneziana sul Gonzaga si trasformò in esplicite richieste di vigilanza sulle attività viscontee:
Cum consideratis terminis considerandis, habendo respectum que magnificus dominus Mantue, hic presentialiter se reperit, sit bonum comunicare cum ipso domino Mantue superinde. Vadit pars que auctoritate huius consilii detur libertas collegio domini, consiliarorum capitum de XL et sapientium consilii et terrarum aquisitarum de novo, essendi cum eo magnifico domino Mantue, et dicendi ei cum illo habili modo qui videbitur que credimus que, per illustrem dominum ducem Mediolani servabitur confederatio et liga firmata inter partes, prout pluries nobis dici fecit, et modo ultimate fecit nostro dominio etiam referri per notarium nostrum inde reversum ad presentiam nostram pro ut dicto domino est manifestum declarando sue magnificentie cum illis verbis que fuerint pertinentia quantum magnifica sua persona esset nobis cara et valde accepta in quibuscunque agendis nostris. Sed quia consideratis considerandis est penitus necessaria eius magnificentia ad debendum stare et vigilare opportuni gubernationi terrarum et locorum suorum pro bona conservatione sui status, dominatio nostra valde caritative cum dicto domino comunicando haberet earum scire a magnificentia sua, et informationem habere de illis personis que eidem viderentur bene apte et sufficientes pro capitano sive gubernatore nostrarum gentium, respectu extendendi cogitationes nostras quando foret necessarium ad conducendum in nostrum Capitaneum sive gubernatorem personam bene aptam et sufficientem, quantum requirit gravitas et exigentia facti.58
18Tutto il discorso è imperniato su quel Sed, una congiunzione che già solo graficamente si pone al centro del testo del documento originale, e attraverso la quale il Senato veneziano tentava di coniugare il duplice aspetto della realtà milanese: da un lato, la presenza di una confederatio et liga che Venezia aveva stretto con il Visconti; dall’altro le ambizioni del duca, chiaramente pericolose, e tanto significativamente quanto discretamente raccolte in quel «consideratis considerandis» . In altri termini, il sospetto nei confronti del duca di Milano era onnipresente, e ognuno lo sorvegliava come poteva, pro bona conservatione sui status.
19La prima richiesta di mediazione avanzata da Firenze attraverso il signore di Mantova non andò tuttavia a buon fine; pertanto, con le stesse intenzioni, nell’autunno 1423 i Signori si rivolsero nuovamente al Gonzaga59. Come vedremo, però, la repubblica veneta non avrebbe acconsentito a una liga, unio et confederatio con la collega toscana che nel dicembre 1425, e sotto condizioni decisamente pesanti per Firenze. Nel frattempo, le risposte veneziane perseveravano nella loro vaghezza e nella sostanziale negatività, una cautela che affondava le sue radici anche in ragioni di ordine economico: ora che i Turchi minacciavano i traffici a oriente, il partenariato commerciale con il Visconti si rivelava ancor più necessario che in passato60. Venezia era per Milano un porto fondamentale, luogo di smercio e distribuzione di molte delle materie prodotte sul suolo lombardo61, soprattutto di materie che, seppur non pregiate, mostravano una lavorazione esemplare (come ad esempio i panni di fustagno, prodotti a Cremona62), ed erano destinate agli ambìti mercati orientali; proprio nel 1423, inoltre, la Serenissima aveva accettato la proposta di Andronico Paleologo, figlio dell’imperatore Manuele II, di acquistare l’assediata Tessalonica (che Andronico stesso difendeva), poiché era chiaro a tutti che la città non avrebbe retto ancora a lungo alla pressione ottomana63. Venezia poteva dunque ancora assicurare i suoi traffici a oriente, e non c’era alcun bisogno di porsi su di un piano ostile nei confronti del Visconti: ancora nell’ottobre 1425, infatti, continuando a vanificare gli sforzi diplomatici fiorentini in direzione di una lega contra et adversus Filippo Maria (lega che poche settimane più tardi le due repubbliche avrebbero infine siglato)64, la Serenissima stringeva col duca accordi commerciali65.
5.3. «Concessio sine titulo»? La difficile riconquista viscontea del titolo ducale
20Per quanto riguarda le relazioni tra Filippo Maria e Sigismondo, esse erano alquanto complexes66: di situazioni poco armoniose tra i due, infatti, ve n’erano, ed erano anche importanti, poiché queste, oltre a interessare gli scontri con Venezia, riguardavano la legittimità stessa del potere del Visconti. Il titolo ducale (che nel 1395 aveva fatto seguito a quello vicariale, ottenuto nel 1380), concesso dall’imperatore Venceslao a Gian Galeazzo Visconti dietro lauto compenso67, non era infatti stato confermato da Sigismondo68, e fin dal suo insediamento Filippo Maria ne aveva chiesto al rex Romanorum la convalida69. La prima richiesta risale infatti al dicembre 141270, subito dopo la presa di potere da parte di Filippo Maria, e già dai primi anni di governo del ducato possiamo notare una comprensibile ansia del Visconti perché l’imperatore accettasse di confermare il titolo ducale prima della sua discesa in Italia (da compiersi per l’incoronazione a Roma), o al massimo – quando la presenza imperiale divenne per il duca una opzione vitale per la ricomposizione del conflitto portatogli dalla lega tra Firenze, Venezia e la Savoia – contestualmente a essa71. Fin dall’inizio, Filippo Maria era consapevole del fatto che tale convalida gli era necessaria non soltanto per evitare probabili pretese al trono, soprattutto da parte francese72, ma anche per legittimare in maniera inconfutabile il proprio ruolo sullo scacchiere italiano. Questa obbligata impazienza viscontea nei confronti del riconoscimento da parte imperiale emerge con vigore da un documento milanese del 20 maggio 1413, la cui dispositio riguardava la proclamazione di pubbliche feste in ragione dell’affetto dimostratogli dal rex Romanorum: non avendo ricevuto che belle parole da parte del sovrano alle sue richieste di conferma del titolo ducale, Filippo Maria cercò in quell’occasione di sopperire alla sua mutila condizione gettando fumo negli occhi dei sudditi e dichiarando a gran voce la splendida benevolenza con la quale Sigismondo lo aveva trattato73. Certamente il re – che, sempre secondo il Visconti, sarebbe stato prossimo a una discesa in Italia, durante la quale avrebbe visitato Milano dietro autorizzazione ducale74 – aveva mostrato buona predisposizione verso Filippo Maria (col quale voleva anche instaurare particolari vincoli commerciali75, una attitudine che il sovrano mantenne anche nei mesi successivi: il 23 ottobre dello stesso anno, infatti, Sigismondo promise «sub verbo regio et regali bona fide» che avrebbe confermato la «pacifica possessio civitatis Mediolani et aliarum civitarum, castrorum, opidorum et terrarum que et quas possidet presencialiter» . Le parole del re non avevano, a nostro avviso, niente di realmente compromettente: Sigismondo si riferiva infatti alla sua persona come – giustamente – a una figura regale e non imperiale (verbo regio et regali bona fide), una condizione che, quindi, non gli dava il potere di agire realmente sulla conferma del titolo; in secondo luogo, e pertanto, egli si impegnava solamente a intercedere come meglio poteva «apud illustres principes dominos electores imperii pro ipso», cioè per Filippo Maria,
ut ipsi consentiant quod dictus illustris Philippus Maria remaneat et remanere debeat in tytulis suis et, si ipsi consenserint, ex tunc cum eorum consensu et voluntate, ut premittitur, dictos suos tytulos eidem confirmabimus et […], si expediens fuerit, de novo conferemus uberiorem ad cautelam76.
21Si comprende insomma che la linea tenuta da Sigismondo era necessariamente di forte prudenza, sebbene ogni parola potesse essere letta in maniera ambivalente: da parte del re, come una labile promessa per mantenere la situazione pacifica; da parte di Filippo Maria, come un serio impegno cui aggrapparsi. Il documento milanese di quel 20 maggio 1413 si fa allora per noi spia di un bisogno impellente, da parte viscontea, di rassicurare quelli che, a seguito di eventi compromettenti77, erano ormai stati sottratti a un più debole vassallaggio ed erano stati inquadrati in un più stabile ruolo di sudditi78.
22Sebbene non si sia ancora in una vera fase di subjectification79, territorialità e sudditanza sembrano essere due linee di costruzione del potere visconteo, che realizzava la normalizzazione dei soggetti politici attraverso la sudditanza, legando così i sudditi tanto al Visconti quanto al territorio80. In effetti, il 17 luglio 1418 Sigismondo promise al Visconti che, al momento della sua futura discesa in Italia, «non conduceret ultra equites quinquecentum super territorium ipsius domini domini ducis, quod territorium idem dominus dominus dux teneat, seu tunc tenebit, […] et sic sub fide sua promisit»81, ma nessun riferimento veniva fatto alla nomina ducale. Inoltre, è vero che nei mesi precedenti, in ragione dello scadere della tregua quinquennale con Venezia, il sovrano aveva concesso al Visconti un diploma nel quale si diceva ben disposto a confermargli il titolo paterno, ma è anche vero che non solo tale decisione doveva essere propedeuticamente e obbligatoriamente sottoposta al vaglio ineluttabile dei Principi Elettori82, ma per di più Sigismondo avrebbe preso la decisione di affidare il diploma a Gian Giacomo Paleologo (1426), marchese di Monferrato, da poco succeduto al padre Teodoro II per investitura ufficiale da parte di Sigismondo83. Il re d’Ungheria avrebbe dunque esitato a lungo prima di accondiscendere alla concessio del titolo, giustificando i suoi indugi a volte con l’assenza di un mandato plenipotenziario nelle mani degli inviati viscontei, a volte con l’opposizione dei Principi elettori84, nonostante Filippo Maria si fosse dichiarato pronto ad mettere in gioco «corpus et anima etiam, si oportuerit» per quel «dominus [sibi] metuendissimus»85. In tale prospettiva, non sembra essere casuale il fatto che il primo inventario quattrocentesco dell’archivio visconteo di Pavia (e della biblioteca)86 venne compilato nel 1426, in un momento cruciale per la legittimazione di Filippo Maria Visconti da parte imperiale. L’esistenza di questo inventario (come di altri), «fondava la consapevolezza pubblica della legittimità del governo di principi e città dominanti»87. In quell’archivio del Visconti, infatti, si concentrava la documentazione atta a comprovare i diritti di sovranità, e le richieste di Sigismondo in merito alle carte da fornire per prendere in considerazione la riconferma del titolo ducale passavano proprio per il materiale conservato in quell’archivio88.
23La questione della conferma del titolo ducale potrebbe sembrare d’emblée un problema tutto milanese, che occupava con angoscia l’animo del Visconti e nutriva la sua azione politica nei confronti dell’imperatore; in realtà, la concessione di tale dignità avrebbe avuto le sue implicazioni al di fuori dei confini lombardi, sia in relazione agli spazi politici limitrofi, sia all’interno del più ampio contesto della guerra che sarà mossa contra et adversus la sua persona dalla lega fiorentino-veneta. Questa analisi non ci sembra sia stata mai condotta, e neppure Francesco Somaini ha dedicato a tale questione uno spazio all’interno del suo interessante lavoro sui difficili rapporti tra Filippo Maria e Sigismondo; crediamo pertanto possa rivelarsi utile ripercorrere alcuni momenti della richiesta viscontea al re dei Romani, che possono così elucidare certi elementi della guerra che è oggetto della nostra ricerca. Furono infatti proprio l’inarrestabile avanzata del Visconti e le misure che Firenze prese di conseguenza per convincere il rex Romanorum della necessità di confermare il titolo ducale al Visconti, con lo scopo di avere un alleato sicuro contro la minaccia portatagli costantemente dalla Serenissima. In che modo tale decisione si concretizzò?
24Va innanzitutto chiarito che, al luglio 1418, la discesa in Italia su invito visconteo veniva considerata – seppur non formulata esplicitamente – un progetto imminente, antecedente dunque al 1426, quando il Visconti pregò chiaramente l’imperatore di raggiungerlo in Italia89. Questo dato assume la sua importanza non solo perché mostra una volta di più la forte esitazione di Sigismondo verso la conferma del titolo ducale, ma anche perché aiuta a comprendere la risposta viscontea agli ambasciatori sabaudi nel 1423, secondo cui non v’era discordia alcuna tra il duca e l’imperatore. Filippo Maria, infatti, attendeva con ansia la venuta di Sigismondo, che gli avrebbe dovuto fornire aiuti militari e legittimità politica per fronteggiare l’opposizione fiorentina (che pure minimizzava); non avrebbe potuto, pertanto, rischiare di inimicarsi quell’importante alleato. La concessione della dignità ducale, inoltre, chiamava in causa anche altre questioni, che riguardavano la posizione stessa del Visconti sulla scena diplomatica italiana.
25Non potendo confermarlo «sub nomine tituloque ducatus», Sigismondo proponeva soluzioni palliative, che naturalmente al Visconti apparivano inaccettabili: giustificando sempre il mancato diploma di conferma con il veto dei Principi elettori, l’imperatore in un primo momento offrì a Filippo Maria di nominarlo marchese, titolo che sarebbe passato più facilmente al vaglio dei Kurfürsten; Sigismondo non lo esplicitava, ma la ragione di tale consenso ruotava ovviamente attorno al fatto che la nomina marchionale non implicava una alienazione territoriale definitiva, al contrario della conferma dei privilegi concessi a Gian Galeazzo da Venceslao. Naturalmente il Visconti rifiutò categoricamente tale soluzione, parendogli un serio declassamento, gravido di conseguenze:
marchionatum autem non requirit dominus dux prefatus, quoniam per modum loquendi: mundus marchionibus plenus sibi videtur, et ea a marchionatus dignitas nimis communis est omnibus90.
26Ciò che infatti Sigismondo non aveva forse considerato era che lo svilimento del titolo ducale con quello marchionale avrebbe posto il Visconti in una posizione di parità nei confronti di molte delle signorie che circondavano il suo dominio territoriale, impedendogli in questo modo di condurre una politica diplomatica di leader, e relegandolo di conseguenza a una potenziale condizione di aderente o raccomandato nel caso di trattati e leghe91.
27L’imperatore propose allora un riconoscimento informale, una concessio sine titulo, con la quale egli si impegnava a riconoscere il dominio visconteo, includendovi anche Genova (che il solo titolo vicariale avrebbe invece escluso):
Si non posset haberi titulus principatus, aut comitatus prout requiritur, contentatur prefatus dominus quod acceptetur una concessio sine titulo, quae tamen sit affectus requisiti, in qua concessione etiam includatur Janus, quia sub nomine Vicariatus eam non acceptaret.92
28Filippo Maria era però conscio del fatto che un riconoscimento così precario gli sarebbe stato inutile, se non fatale: tra le ragioni espresse dagli inviati del Visconti alla corte cesarea, infatti, vi era anche quella secondo cui la presa di Genova, così come la conquista di altri territori, aveva bisogno di appoggiarsi a una titolatura ufficiale per limitare le opposizioni a quelle imprese e renderle dunque valide ( «non videtur conveniens habere concessionem Janue et aliarum civitatum sine titulo dignitatis»93). Il Visconti era dunque ostinato a non accettare altre forme di riconoscimento se non «illo modo quo concessus fuit celebri memorie domini genitoris quondam sui»: voleva, insomma, essere legittimato quale duca di Milano, proprio come lo era stato suo padre, del quale era pronto a «exhibere copiam privilegiorum» affinché Sigismondo procedesse alla confirmatio94.
29Nonostante tutti questi indugi da parte imperiale nei confronti della conferma della dignità ducale, Filippo Maria non sembrava soffrire di uno svilimento all’interno dei spazi che ricadevano sotto la sua giurisdizione (spazi in relazione ai quali egli continuava a riferirsi come a «illustrissimo et inclito dominio domino meo duci Mediolani» o «Statu meo»95), al punto che, proprio nel 1423, seppur ancor ufficialmente sprovvisto di legittimità, il Visconti arrivò ad arrogarsi il diritto di lesa maestà, un attributo tipicamente principesco96 che, nel panorama feudale dello Stato visconteo, in molti casi avrebbe potuto rivelarsi un utile strumento per inglobare reati non meglio definiti o, in ogni caso, legati alla frattura del rapporto “sinallagmatico” col potere sovrano97. Va detto che, fin dall’ultimo quarto del XIV secolo, lo sforzo giurisprudenziale compiuto da Baldo degli Ubaldi (il quale, lo ricordiamo, era attivo nello Studium pavese fin dal 1390) era stato volto ad associare plenitudo potestas e lesa maestà, e a fare di tale binomio una qualità appartenente anche a dignitates inferiori a quella imperiale, come quella ducale appena acquisita dal Visconti98. Tuttavia, sebbene ancora nel primo quarto del XV secolo il fedele monaco Andrea Biglia si fosse sforzato di presentare il titolo ducale come equipollente alle dignitates imperiale e regale99, e il duca stesso si fosse – con falsa umiltà – dichiarato lontano dal fare «sicut plerique facere solent» (e cioè arrogarsi illecitamente i privilegi della majestas regia100) per apparire più potente agli occhi dei sudditi, Filippo Maria dovette chiarire questi «aneliti maiestatici» con il rex Romanorum101, il quale li considerava una avocazione di diritti principeschi che, pertanto, non competevano al Visconti102. Seguendo le categorie giuridiche, Sigismondo aveva qualificato tale usurpazione come crimen103, inquadrandolo dunque formalmente tra i reati previsti dal diritto romano104.
30In momenti di più acceso conflitto, il ricorso all’imperatore era certamente stato un utile espediente per ricordare alla Maestà cesarea la posizione giuridica non pienamente corretta dell’avversario105, e tra gli anni di Carlo IV di Boemia e quelli di Federico III, Firenze fece costante riferimento alla figura imperiale nel quadro delle guerre intraprese contro i Visconti. Subito dopo che Gian Galeazzo Visconti ebbe ottenuto il titolo ducale, ad esempio, i Fiorentini si congratularono col novello duca, rallegrandosi del fatto che egli ora non era più in una situazione precaria, e non avrebbe quindi dovuto più temere minacce intorno alla propria legittimità: «factum est hac tituli concessione perpetuum quod prius habebat alieni iuris et revocabilis officii fundamentum»106; eppure furono gli stessi Fiorentini a incoraggiare e sostenere la deposizione di Venceslao, presentando la sua attività di alienazione dei beni imperiali come illecita, con lo scopo di minare l’acquisita solidità del capo milanese107. Come ricorda Nicolai Rubinstein, la morte di Gian Galeazzo Visconti a inizio secolo aveva momentaneamente reso inutile l’aiuto imperiale contro Milano; le richieste fiorentine di un ausilio cesareo si fecero invece nuovamente pressanti al momento dell’ennesimo conflitto contro il tiranno visconteo108. Questo aiuto, tuttavia, prese sempre più le forme di un impegno diplomatico e militare, e finì col non concernere più lo statuto ducale. Infatti in Lombardia nessuno contestava al Visconti una qualsivoglia illegittimità sul trono milanese109, e la situazione non muta se ci allarghiamo all’ambito peninsulare: una missione di Rinaldo degli Albizzi e Nello Giuliani, destinati a Sigismondo110, ci fa capire come la percezione italiana fosse nettamente diversa da quella imperiale, e getta anche una luce sulle relazioni politico-diplomatiche che ormai erano in atto.
31Le Italiae potentiae accordavano infatti al Visconti in ogni momento la dignità ducale, riconoscendolo per ciò che egli si proponeva, e cioè «filius quondam illustrissimi principis et excellentissimi domini domini Johannis Galeaz, primi ducis Mediolani »111. Tale riconoscimento era talmente normale che i due ambasciatori fiorentini non poterono non stupirsi di come, alla corte imperiale, Filippo Maria fosse chiamato sempre e soltanto per nome, e «mai altrimenti lo chiamano»; e Sigismondo, come prevedibile, non voleva certo lasciare adito a dubbi, e cercava di chiarire anche attraverso strategie del discorso la posizione giuridica e politica del Visconti, «che mai nollo chiamò duca»112. Sullo scacchiere italiano, il ducato visconteo era una pedina importante, dalle mosse della quale dipendevano numerose altre posizioni; e anche se le invasioni del duca in Romagna e la coalizione fiorentino-veneta avevano dato a Sigismondo la possibilità di reinserirsi in maniera più diretta nella rete politica peninsulare, la selezione di uno spazio diplomatico interno ai confini peninsulari e modellato sulla ricerca della «pace di tucta Italia» era sicuramente, a questa altezza cronologica, già in costruzione.
32La rottura degli accordi del 1420 da parte di Filippo Maria avrebbe condotto i Fiorentini a prendere misure sempre più orientate in senso antivisconteo: con una provvisione del marzo 1424, Firenze decise di passare a una azione esplicitamente offensiva113, e dopo le numerose sconfitte che la repubblica subì in un lasso di tempo davvero ristretto, la minaccia viscontea cominciava ad apparire anche agli altri stati italiani come pericolosa. Dopo diverse esitazioni, nel dicembre Venezia avrebbe accettato di coalizzarsi con Firenze contro il nemico milanese, in una liga diretta non soltanto contro il Visconti ma anche contro quanti avrebbero potuto fornirgli un aiuto, nello specifico Sigismondo; nei primi mesi del 1426, la prima guerra contro Filippo Maria Visconti (e, di riflesso, contro l’imperatore) fu così ufficialmente bandita. Se – lo vedremo – da parte fiorentina nel mirino c’era soprattutto il ristabilimento delle sfere d’influenza e il ritiro visconteo dalla Romagna, da parte veneziana gli interessi erano ben diversi: il nemico della Serenissima era, più che altri, l’imperatore, che continuava con blocchi commerciali e sforzi militari a frenare l’espansionismo economico e territoriale della repubblica lagunare114. A Venezia, quindi, nonostante l’innegabile consapevolezza di un possibile pericolo visconteo, il problema milanese era visto come gestibile; ciò dava alla repubblica lagunare una sorta di forza nelle contrattazioni con la collega toscana, al punto che, nell’accordo con Firenze, essa si riservò il diritto esclusivo di poter stringere col duca, in qualunque momento, una pace115.
33La liga, unio et confederatio tra le due repubbliche indusse Sigismondo a stringere un legame più forte con Milano, e la moneta di scambio sarebbe stata ovviamente la conferma del titolo ducale, un’offerta alla quale il Visconti davvero non avrebbe saputo (né voluto) opporsi. Nel maggio 1426, un diploma imperiale riconfermava il privilegio che Venceslao aveva concesso a Gian Galeazzo, sebbene fosse chiaro che la sottomissione dell’atto ai Principi elettori era inevitabile; inoltre, avendo Sigismondo previsto di scendere al più presto in Italia per l’incoronazione, la concessio avrebbe dovuto restare segreta fino al 1427, in modo che la nomina imperiale avrebbe assicurato all’ancora rex Romanorum una posizione più solida. Il Visconti si impegnò dunque
ut aliqua injuriaruom et scandalorum non oriatur occasio per presentes firmiter et in fidei puritate promittimus Reverendissimo in Christo Patri domino Johanni, Dei gratia episcopo vesprimiensi, oratori prefati domini nostri regis nomine Majestatis sue stipulanti, privilegium confirmationis, declarationis et concessionis ducatus Mediolani nobis gratiore concessum et exhibitum per dictum dominum episcopum prelibate Majestatis non publicare, nemini ostendere nec in alicuius notitiam deducere; sed potius occultum tenere, et in secreto habere quoad prelibatus dominus noster presentialiter Romanorum rex in humanis aget116.
34Per questo motivo, il diploma fu rimesso nelle mani del marchese del Monferrato (col quale successivamente il Visconti si sarebbe unito in una lega di cui avrebbe fatto parte anche il duca sabaudo, per fronteggiare la coalizione fiorentino-veneta117); pochi giorni dopo, un’alleanza tra Sigismondo e Filippo Maria segnò l’ufficiale coinvolgimento dell’imperatore nella prima guerra di Firenze contro il Visconti. Prevedendo uno sforzo imperiale di pacificazione tra Milano e Firenze118, l’alleanza era rivolta esclusivamente contro Venezia119: in tal modo, il «modello Venceslao» (e cioè la stretta collaborazione tra l’Impero e il ducato di Milano) incontrava la «variante magiara» (ossia l’impegno antiveneziano da parte imperiale)120. L’avanzata turca in Valacchia121 tolse però al duca gli aiuti e le attenzioni italiane del proprio alleato, che per di più aveva accettato le richieste fiorentine di scuse per la lega coi Veneziani, essendo essa diretta in maniera esclusiva contro Filippo Maria122. La perdita di Bergamo e Brescia e l’ingresso sabaudo nella lega fiorentino-veneta destabilizzarono ulteriormente il Visconti, i cui continui insuccessi condussero all’intervento del pontefice, sempre al suo fianco123. Se già nel 1424 Martino si era rivolto al dilectus filius Filippo Maria per proporre una risoluzione del conflitto, il 30 dicembre 1426, attraverso la mediazione del cardinale Niccolò Albergati, la prima guerra del blocco fiorentinoveneto-sabaudo contro il duca Filippo Maria Visconti sarebbe infine giunta a una prima, effimera, conclusione.
35La conquista del titolo ducale da parte di Filippo Maria costituì insomma il perno delle interazioni con Sigismondo, che si inserivano in una trama di negoziazioni peninsulari esistenti e spesso vincolanti. Nel 1423, pur essendo le relazioni tra il Kaiser e il duca sicuramente distese, la risposta milanese a una richiesta di mediazione fiorentina tra l’imperatore e Venezia fu insomma improntata al diniego. Tuttavia, se non erano riusciti a farsi mezani di tale accordo, altre erano le interazioni politiche che più seriamente preoccupavano i Fiorentini.
Notes de bas de page
1 E, d’altronde, con un apprezzabile sforzo giurisprudenziale – tutto funzionale all’elevazione ducale di cui aveva beneficiato Gian Galeazzo Visconti –, Baldo aveva contribuito a parificare le due dignitates. Sbriccoli 1974, p. 178-185, 202-24. Sul pensiero di Baldo in merito a tale questione, si vedano anche Canning 1987, p. 121-123 (più in generale, p. 113-127); Lantschner 2015, p. 21-39.
2 ASFi, SLC, 7, cc. 21r-22v.
3 Ninci 1988; Williams Lewin 2003, p. 187.
4 Venezia sospettava fin da questo momento che Firenze si volesse «intendere intrinsecamente», ossia ambire a una lega, con la Savoia. Commissioni, I, p. 393.
5 Cognasso 1955a, p. 195-247; Id. 1966, p. 396-401.
6 «Il serenissimo e gloriosissimo re de’ Romani […] con sue lettere di credenza ci confortò e richiese […]»; la richiesta non avvenne quindi su proposta di Firenze, come invece veniva affermato in Raulich 1888, p. 443.
7 ASFi, SLC, 7, c. 14v. Il Bonaccorsi, in realtà, era stato destinato al duca Amedeo fin dal 30 agosto precedente, per negoziare con lui migliori condizioni per i mercanti Fiorentini in quei territori: «che gli piaccia levare qualunche rapresaglia o marra conceduta contro alla comunità nostra, nostri cittadini, subditi o beni; et dalla parte di qua s’è fatto il simile» (ivi, c. 9r). Il resoconto delle due commissioni è in ASFi, Rapp., 2, c. 106v. Su questo personaggio, si veda Cardini 1972.
8 Per esplicita richiesta dei Fiorentini, gli accordi tra la repubblica e l’imperatore avrebbero dovuto però concretizzarsi solo verbalmente ( «sanza la scrittura»), per non «provocare l’odio de’ Viniziani». Si vedano Diario Strozzi, p. 30-31; Canestrini 1843, p. 202.
9 Cfr. le informazioni contenute nella commissione di Rinaldo degli Albizzi e Alessandro di Salvi Bencivenni: «Insieme <scil. i Fiorentini e il duca di Savoia> ci siamo convenuti per queste cagioni mandare suoi et nostri imbasciadori, per operare et fare ciascuna cosa possibile et honesta per gli effecti predetti». ASFi, SLC, 7, c. 21r.
10 Lazzarini 2015a, p. 123-145. Per una trattazione cronologicamente più dilatata, cfr. Frigo 1999.
11 Alessandro di Salvi Bencivenni – del quale nessuno studioso ha finora mai indagato la presenza nel mondo diplomatico – non era solo ben integrato all’interno delle maglie del reggimento, ma padroneggiava la scienza del diritto con sorprendente competenza. Compilò infatti quello che è tradizionalmente considerato il primo commentario agli Statuta del 1415, creando una struttura per tali adnotationes che divenne una sorta di modello per quanti si sarebbero poi dati al medesimo compito. Morì poco dopo questa sua ambasciata a Venezia. Su di lui si vedano comunque Martines 1968, p. 68, 158 (e, in generale, ad indicem); Davies 1998, p. 163; Tanzini 2011, p. 113-114.
12 L’utilizzo dei propri consiglieri come ambasciatori era in effetti tipico di Amedeo VIII. Pibiri 2013, p. 50-52. La scelta era certamente determinata dall’intimità che legava questi personaggi al conte (poi duca), una confidenza che determinava una forte conoscenza degli ambienti di corte e delle materie politiche. Si veda anche Castelnuovo 1994, p. 299-301.
13 Commissioni, I, p. 391. Non disponendo di uno studio prosopografico su Pierre Marchand, giurisperito che aveva ricoperto di frequente il ruolo di ambasciatore per Amedeo VIII (e che era già stato inviato, in passato, alla corte imperiale), rimandiamo alle informazioni, più o meno brevi, contenute in Gabotto 1903, p. 315; Pibiri 2010, p. 61-80; Castelnuovo 1997, p. 91-99. Pierre Marchand figurerà come sindaco e procuratore nel trattato di confoederatio firmato l’11 luglio 1426 tra Amedeo VIII, Firenze e Venezia, e nell’alleanza stretta il 2 dicembre 1427 dal duca di Savoia con il Visconti. ASTo, MPRE, Trattati, Tr. div., m. 3, fasc. 8 (esposto al Museo storico); fasc. 21. Per le ambascerie alla corte imperiale, cfr. Regesta Imperii, vol. 1, num. 5059-5062. Neppure sul poliedrico Festi, segretario del vescovo di Ginevra e suo ambasciatore, prima di entrare nelle gerarchie sabaude come giureconsulto e consigliere intimo del duca di Savoia, si dispone di una biografia, per cui rinviamo il lettore almeno a Mallet 1843, p. 173; Binz 1973, p. 137-139; Caesar 2011, ad indicem. Nicod Festi prese parte alle negoziazioni del dicembre 1425 tra il duca di Savoia e il Visconti, intercorse mentre Firenze e Venezia, alleatesi fin dal 4 dello stesso mese, tentavano di coinvolgere Amedeo VIII nella loro coalizione. ASTo, MPRE, Trattati, Tr. div., m. 3, fasc. 6.
14 Leveleux-Teixeira 2016, p. 30-31.
15 Commissioni, I, p. 392, lettera di Rinaldo degli Albizzi, 29 marzo 1423. Per una illustrazione delle vicende, rinviamo brevemente a Romanin 1853, vol. 3, p. 144-152, 197-199, 214-215.
16 Cessi 1981, p. 341: «Il trattato di Torino, riportando le questioni territoriali principali, quella carrarese, quella trevigiana, quella aquileiese, quella dalmata, allo stato anteriore alla guerra, non aveva risolto il nodo del problema» .
17 Marin Sanudo, Vitae, col. 846-847.
18 Stefanik 2015, nota 54.
19 Si vedano Mallett – Hale 1984, p. 43-46, 207-208; Daru 1832, p. 81-93; Cognasso 1966, p. 396-397. Per i rapporti tra Sigismondo e le città dalmate, cfr. Teke 1998, p. 233–243; Szende 2006, p. 199-210.
20 Gli inviati furono mandati tra la fine del dicembre 1422 e l’inizio del gennaio 1423. Commissioni, I, p. 392. La commissione al Giuliani e al Medici è in ASFi, SLC, 7, c. 10r-12v, 30 agosto 1422. Si veda anche ASFi, Rapp., 2, c. 106rv.
21 ASFi, SM, 30, c. 59r; 31, c. 11rv.
22 ASFi, DOA, XXXV, c. 12v.
23 Brucker 1977, p. 447-449.
24 ASFi, SLC, 7, cc. 23v (Antonio Spini a imola e Forlì), 24v (Lipozzo di Cipriano Mangioni in Lunigiana), 25r (Palla Strozzi a Martino V), 27r (Carlo Fibindacci a Braccio Fortebracci), 28r (Cosimo de’ Medici a Paolo Guinigi).
25 Commissioni, I, p. 392, 29 marzo 1423: «E il duca di Milano, doppo molti dì, rispuose che alcuna quistione o discordia non avea col gloriosissimo re de’ Romani».
26 Con gli accordi dell’8 febbraio e del 4 giugno 1420, «il duca si fu stretto in alleanza colle due repubbliche di Firenze e Venezia, che sole ormai potevano essere d’ostacolo a’ suoi disegni» . Dell’istoria di Milano, t. II, p. 270. Sul trattato con Firenze, si vedano le considerazioni espresse in Piffanelli 2018c; per la lega con Venezia, ASVe, Sen., Sec., VII, cc. 158r-159r ( «[…] que dominatio nostra […] est contenta, ob contemplationem ipsius illustris domini ducis Mediolani, venire ad ligam duraturam iuxta intentionem dicti domini ducis Mediolani, annis decem proximis […]»).
27 Lo stesso dicasi per Gian Francesco Gonzaga, per cui si veda più oltre.
28 Sulla guerra di Chioggia e la conseguente pace di Torino, si vedano Casati 1866; Predelli, vol. 3, lib. VIII, num. 89-92, 94, 96-103, 111-114, 133, 136. Il trattato è edito in Liber iurium reipublicae Genuensis, t. II, col. 858-906. In più punti la Serenissima non rispettò le clausole dell’accordo (a volte per ragioni di sopravvivenza), ad es. nei confronti della Dalmazia, come abbiamo visto poco sopra, o del Patriarcato di Aquileia. Valeri, 1969, p. 218-219; Mallett 1996, p. 159-236; Bellabarba 2012, p. 213-219.
29 L’imperatore doveva infatti occuparsi del problema hussita, che avrebbe a lungo impegnato la politica e le finanze imperiali. ASFi, DM, 2, c. 102v, 2 agosto 1426, in cui si legge «del gram danno ànno facto gli ussi et simile i Turchi nel Regno, che è cosa crudele», e di come tale lotta avesse spossato le casse di Sigismondo ( «il re non aveva uno danaro, né modo a trovarne»). Sulle spinose questioni – politiche, economiche e religiose – tra Sigismondo e i seguaci di Jan Hus, si vedano Vàlka 2012, p. 21-56; Grant 2007, p. 459-470; Fa 2010, p. 285-299.
30 ASVe, Sen., Sec., VII, c. 158v, 14 giugno 1420.
31 Van Herwaarden 2003, p. 229. Si veda anche Tabacco 1986.
32 Lazzarini 2015a, p. 20-21. Per restare in ambito visconteo, molti di questi casi di legittimazione sono riscontrabili in 972 e Id. 1974, p. 78-79, 157. Una ricostruzione delle linee evolutive del Regnum Italiae in Somaini 2007.
33 ASVe, Sen., Sec., VII, cc. 158r-159r (14 giugno 1420); 186r-187r (3 novembre 1420). Il 9 novembre fu infine inviato a Niccolò d’Este un ambasciatore veneziano con i capitoli riformati della lega, che avrebbero dovuto costituire l’ultima versione del trattato (ivi, cc. 187v-188r). Sulla ratifica, cfr. I libri commemoriali, XI, p. 31. Sono di altro avviso Cognasso 1966, p. 404 e Id. 1955a, p. 197, che vogliono la lega firmata e in vigore dal 4 giugno 1420, e rinnovata nel 1422; Raulich 1888, p. 443, e Somaini 2007, p. 187, che datano l’alleanza al 1422; Soldi Rondinini 1997, che assorbe la versione ottocentesca del Raulich. Nessuno di questi lavori, però, cita le fonti d’archivio utilizzate per stabilire una tale cronologia.
34 Il 22 agosto 1452, Francesco Sforza scriveva a sua moglie che, «considerato che questo stato de Lombardia non pò stare senza lo appogio overo del imperatore o della prefatta maestà della corona de Franza, havimo deliberato fare fondamento in essa corona de Franza» (doc. cit. in Ilardi 1969, p. 133). Nella speranza di rafforzare la propria posizione nei rapporti con Federico III, l’illegittimo duca prese infatti la decisione (per certi versi suggeritagli da Cosimo de’ Medici) di rivolgersi al sovrano francese e appoggiarlo in una sua eventuale spedizione per la riconquista del trono napoletano. Si vedano in merito Rossi 1906; Ilardi 1982, p. 420-421.
35 Savy 2013a, p. 206; Fubini 2009a, p. 113. Valentina Visconti, figlia di suo padre Gian Galeazzo, era sposa del fratello del re di Francia, Luigi di Valois-Orléans. La pericolosa prossimità geografia e genetica dei re francesi ai Visconti era una delle ragioni dei felici rapporti instaurati dai duchi di Milano con i corrispettivi borgognoni. Fubini 1990, p. 98-99. Seppur maggiormente incentrato sul primo periodo sforzesco, si veda anche l’ancora valido lavoro di Cusin 1936, p. 277-369.
36 ASFi, SLC, 7, c. 14v. Va forse messo qui in evidenza il fatto che Sigismondo non solo non era ancora stato incoronato imperatore (lo sarebbe stato nel 1433), ma neppure aveva ancora ricevuto il titolo di re del Regnum Italiae (cerimonia che sarebbe avvenuta nel 1431, a Milano); quanto questo pesasse sulle sue scelte è difficile da dire, ma è certo che il pensiero imperiale – anche nel Quattrocento, quando in Occidente l’idea d’Impero si era indebolita – aveva chiara la propria posizione di unico legittimo detentore d’autorità del blocco centro-settentrionale. Canning 1996, p. 158, 171; Folz 1953; Rubinstein 1965, p. 101 e sgg; Moeglin 2011.
37 ASFi, Rapp., 2, c. 114r, Rinaldo degli Albizzi e Alessandro di Salvi Bencivenni, 13 aprile 1423 (cc. 113v-114r).
38 Cfr. anche Commissioni, I, p. 392-393: «[…] e che la Signoria di Vinegia, doppo tre dì, rispuose loro che aveano confederatione et conventioni col duca di Milano, che non potevano trattare di pace o concordia col re de’ Romani, né quasi udire chi trattar ne volesse, sanza licentia del duca di Milano» (p. 398).
39 ASVe, Sen., Sec., VII, c. 208v. Sempre nella relazione del 13 aprile, l’Albizzi e Bencivenni avevano indicato ai Signori questa peculiarità dell’accordo tra Venezia e Milano.
40 Ivi, c. 159r. I colligati, adherentes, e recommendati nominati dalla parte veneziana erano Niccolò III d’Este, Gian Francesco Gonzaga e Obizzo da Polenta (ibid.).
41 ASVe, Sen., Sec., VIII, c. 2v.
42 Ivi, cc. 55v-56r, 16-17 maggio 1422. Raulich cita in maniera rapida tale accordo, senza tuttavia fornirne né la data esatta né, tantomeno, il rimando archivistico. Raulich 1988, p. 443.
43 ASVe, Sen., Sec., VIII, c. 2v.
44 L’espressione – per la quale si veda Lazzarini 2001, p. 42 – è del cronista Andrea Schivenoglia; sulla seconda definizione ( «buffer state»), si veda Roberts 1980. Seppure per un periodo di poco posteriore, i Carteggi degli oratori mantovani alla corte sforzesca dimostrano la crucialità diplomatica della corte gonzaghesca. Si veda anche Neerfeld 2006, p. 137-174.
45 Si veda ad es. quanto affermato Mattingly 1955, p. 61: «The precarious position of their <scil. dei Gonzaga> little wedge of strategically important territory driven in among more powerful comptetitors required special vigilance». Sui piccoli stati, cfr. anche Fubini 2003; Frigo 2000; Cengarle 2012, p. 284-303. Un prossimo convegno, Small States and the Diplomacy of the Early Modern Period (Dubrovnik, 16-17 aprile 2020), intende rivenire sulla questione storiografica e geopolitica del piccolo stato.
46 Evrigenis 2009, p. 91. Si veda ad es. il caso del trattato di alleanza siglato il 2 dicembre 1427 da Amedeo VIII e Filippo Maria Visconti (o, meglio, dai loro procuratori), in cui il duca di Savoia si impegnava a considerare come propri nemici quanti, quindici anni prima, avessero avuto un ruolo attivo nell’assassinio di Giovanni Maria Visconti, fratello del duca di Milano. ASTo, MPRE, Trattati, Tr. div., m. 3, fasc. 21.
47 Lo stesso impegno verso amici e nimici avrebbe dovuto assumere nel novembre 1423 Guidantonio Manfredi nei confronti del legato di Bologna Gabriele Condulmer (in lega coi Fiorentini), e assumerà nel 1426 Filippo Maria nei confronti di Sigismondo, entrambi alleati contro Venezia. Cfr. rispettivamente ASFi, Min., 6, c. 59r; Cognasso 1955a, p. 231-232. Riecheggia in tali accordi uno dei consilia di Paolo di Castro, giurista noto soprattutto per ragioni legate agli Statuta fiorentini, che si era tuttavia dedicato, tra le altre cose, anche a dare alcune risposte attorno al tema del trattamento di amici pro amicis e inimici pro inimicis. Si veda, ad es., Consiliorum sive responsorum, vol. 1, p. 152 sgg. (Consilium CCXCV): «Pacem rumpere is dicatur qui promisit habere amicos pro amicis et inimicos pro inimicis alicuius…»; «Amicos pro amicis et inimicos pro inimicis habere cum quis promisit, si reperiatur tertius amicus unius et inimicus alterius…». Su Paolo di Castro, rinviamo almeno a Martines 1968, p. 87, 186, 499 sgg; Kirshner 1971, p. 229-264; Tanzini 2002; Id. 2004, ad indicem.
48 ASVe, Sen., Sec., VIII, c. 2v. Segue la regolamentazione degli interventi armati, secondo cui Venezia non ingaggerà Gian Francesco per le sue guerre in mare o contro alcune città della Terraferma (Verona, Brescello, Casalmaggiore, Turricella), tranne nel caso in cui l’attacco a tali luoghi provenga dall’esterno.
49 Si vedano Savy 2003; Id. 2013, p. 172-192, che parla esplicitamente di un tradimento del Dal Verme. Nella sua attenta analisi, Pierre Savy rinviene le ragioni della scelta del Dal Verme non soltanto nel disgusto e nella paura per l’esecuzione, nel 1432, del Carmagnola (suocero di Luigi), ma anche e soprattutto nel tornaconto territoriale del condottiere, che venne infeudato da Filippo Maria di un esteso territorio. Cfr. anche Savy 2009.
50 Mallett 1973, p. 133.
51 Aubert 2003, p. 177.
52 Fu infatti proprio in ragione di tale pericolosità di Venezia che Francesco Sforza avrebbe successivamente deciso di imbrigliare la Serenissima in rapporti ‘amichevoli’, al fine di operare quindi un controllo diplomatico. Cfr. almeno Fubini 1982b, p. 36; Rubinstein 2011, p. 144; Bertelli 1979, p. 126-127 e sgg.; Covini 1998b, p. 14-36; Lazzarini 2003, p. 140-141. Si vedano inoltre le considerazioni di Nicolai Rubinstein, che vede il ridimensionamento dello strapotere veneziano a opera delle forze della Lega di Cambrai come una vendetta contro la precedente tracotanza, una ὕβϱις che aveva caratterizzato l’azione veneziana proprio durante gli anni delle guerre contro il Visconti. Rubinstein 1973, p. 197-217 (cit. a p. 217); Piffanelli 2020c.
53 «Gonzaga’s was a diplomatic volte-face rather than a military betrayal as his condotta had expired and he had for some months expressed his determination to leave Venetian service». Mallett 1973, p. 124.
54 Questo momento appare particolarmente importante per la costruzione del rapporto quattrocentesco tra Mantova e Milano. Roberts 1980, p. 389 (si veda in generale tutta la sezione relativa alle p. 385-501). Sulla questione segnaliamo anche Tarducci 1899; Lazzarini 2001c, p. 56-57.
55 Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, b. 42, 4 luglio 1438. Isabella Lazzarini sottolinea giustamente la natura dell’accordo mantovano-milanese, chiarendo che non si tratta di una condotta, bensì di una lega. Lazzarini 2001c, nota 49.
56 Codex Italiae diplomaticus, t. 4, doc. 86, col. 1731-1754.
57 Roberts 1980, cap. III-IV; Lazzarini 2001c, p. 49-52. Si veda anche I libri commemoriali, XI, p. 32 (14 marzo 1421, che in realtà fa riferimento ad ASVe, Sen., Sec., VIII, c. 2v, citato più sopra, e datato al 13 marzo), dove il Gonzaga, nel trattato stretto tra Venezia e Milano nel febbraio 1421, è inserito tra gli aderenti e raccomandati della Serenissima, segno non solo di una tradizione diplomatica consolidata, ma anche di un impegno diplomatico futuro. Va ricordato che Francesco Gonzaga, alla sua morte (1407), aveva posto suo figlio Gian Francesco, ancora minore, sotto la tutela sotto la tutela di Venezia (e dello zio Carlo Malatesta). Lazzarini 2000a.
58 ASVe, Sen., Sec., VIII, c. 42r, 28 febbraio 1422.
59 Ivi, c. 125v, 26 settembre 1423. In più occasioni, durante lo scontro antivisconteo, Firenze cercò l’aiuto di mediatori per giungere alla conclusione di un accordo, e in alcuni casi la repubblica assunse essa stessa questo ruolo per conto di altri governi. Ha recentemente affrontato la questione della mediazione nella contrattazione diplomatica anche Isabella Lazzarini, in occasione dell’IMC 2019 a Leeds, con un intervento dal titolo In between. Difficult negotiations and unexpected mediators in late medieval Italian diplomacy.
60 Per le questioni economiche, rimandiamo agli importanti lavori di Mazzaoui 1981, soprattutto per i dati contenuti nella terza parte (p. 129-161); Hocquet 1979; Mainoni 2015a, p. 118-141; Mainoni 2015b, p. 167-210. Considerevoli linee guida anche in Martini 1981, p. 325-336; Frangioni 1989, p. 117-136; Pullan 1973, p. 215-232, dove l’autore spingeva ovviamente gli studiosi a considerare economia, politica e guerra come elementi fortemente interconnessi. Limitatamente al periodo che ci interessa, non si ravvisano invece particolari novità in De Luca 2013, p. 185-195 (p. 185-187 per la nostra cronologia), che anzi elude completamente gli anni che intercorsero tra la morte di Gian Galeazzo Visconti e la pace di Ferrara del 1433.
61 Attraverso alcuni dati riportati da Marin Sanudo, si può infatti apprezzare l’intenso flusso di mercatantie che, prodotte in territorio visconteo, giungevano ai porti della Serenissima per essere commercializzate. Marin Sanudo, Vitae, col. 953-954.
62 Frangioni 1977, p. 531-532; Mainoni 2015b, p. 202-203 (tabella di sintesi); Epstein 2000, p. 117. Per l’importanza di tale prodotto nell’economia milanese si vedano sia gli importi registrati dal Sanudo (dove le pezze di fustagno cremonesi costituiscono la cifra d’affari più consistente), sia un documento visconteo del 19 maggio 1414, tratto dall’Archivio Panigarola, secondo cui il duca imponeva che i «teli a fustaneis» non venissero commerciati con le «partes exteras dominio […] absque licentia spetiali» da parte sua. Cfr. rispettivamente Marin Sanudo, Vitae, col. 954 ( «Cremona mette pezze 40000 fustagni a ducati 40 e ¼ la pezza, che sommano ducati 170000»); Osio 1869, p. 40.
63 Sanudo il giovane, Vite, p. 14. Di altro avviso – meno probabile – è il veneziano Marin, secondo cui fu lo stesso sultano Murad II ad aver offerto la città al doge Francesco Foscari, «purché desistesse dal difendere il Greco Cesare Emanuello», che fino ad allora aveva ricevuto l’appoggio veneziano per gli assedi di Tessalonica e Costantinopoli. Marin 1800, lib. I, cap. 9. In un caso o nell’altro, gli attacchi ottomani contro Salonicco sarebbero durati fino al 1430, quando i Turchi ripresero la città sotto il loro controllo (cfr. Fine 1994, p. 536). Sui rapporti venetotessalonicesi, cfr. Manfroni 1910, p. 8-12; Lemerle 1951, p. 219-225; Vakalopoulos 1952, p. 127-149; Nicol 1988, p. 358-380.
64 «Da Vinegia comprendiamo non avete auta risposta al tempo che voi speravate», scrive da Roma, il 6 novembre 1425, Rinaldo degli Albizzi ai Dieci, rispondendo ad alcune lettere inviategli dalla magistratura a metà ottobre. Commissioni, II, p. 458.
65 Osio 1869, p. 155, 8 ottobre 1425.
66 L’aggettivo è ovviamente ripreso da Somaini 2007, p. 157-197.
67 Sulle vicende relative al primo duca di Milano rimandiamo ad Gamberini 2000; Fossati – Ceresatto 1998, p. 550-572; Valeri 1969, p. 210-272; Black 2003, p. 11-30; Black 2010, p. 119-130.
68 Il titolo fu anzi revocato non appena Venceslao fu deposto, per aver infangato l’honor Imperii. Gamberini 2015a, p. 19-45 (cit. a p. 33); Fubini 2009a, p. 114.
69 Si veda Romano 1986, p. 258, doc. 95.
70 Cognasso 1055c, p. 165.
71 Osio 1869, p. 269-270; 271-272; 278-280; 414-416. Dal 1426, in corrispondenza con la presa di Brescia e l’ingresso sabaudo nella lega, le richieste diventarono più insistenti.
72 Per conservare il proprio territorio, Filippo Maria si era alleato con Luigi III d’Angiò. Ivi, p. 109-113.
73 Ivi, p. 17. Il duca si adoperava «ut sacra Cesarea Majestas […] filiali affectioni respiceret et tractaret» la sua persona.
74 Cfr. ivi, p. 24-25: «[…] serenissimi domini nostri domini Romanorum regis qui, cum nostri beneplacito et voluntate, et pro evidenti utilitate nostra subditorumque nostrorum, accessurus est, Deo dante, ad hanc nostram civitatem Mediolani de proximo […]». L’atto era finalizzato alla raccolta di danaro per la venuta del re. Nonostante i successivi rifiuti di incontrare Sigismondo, il Visconti mostrerà costantemente una particolare attenzione alla gestione dei passaggi imperiali sul territorio milanese, e rivendicherà sempre questo imprescindibile diritto alla sua concessione del beneplacito per entrare in città (ad es. ancora nell’aprile 1426, poco prima di chiudere le trattative per l’agognato titolo). Filippo Maria ottene che, al momento del Romzug, l’imperatore «se contentaret non intrare civitates Mediolani nec Papie, nisi de beneplacito ipsius domini ducis, salvo tempore coronationis ipsius domini regis» (e infatti Sigismondo fu incoronato in Sant’Ambrogio, a Milano). Osio 1869, p. 193, 25 aprile 1426; Deut. Reich. 10, doc. 115. Sui rifiuti di un incontro diretto, si veda Somaini 2007, p. 159-160 e sgg.
75 Cognasso 1966, p. 402-403. Con lo scopo di escludere Venezia dai mercati con le città tedesche, nei primi mesi del 1418 Sigismondo concesse alcuni diplomi a Filippo Maria, tra cui uno riguardante vantaggi commerciali nelle relazioni con Genova. Deut. Reich. 7, doc. 239. I piani imperiali, tuttavia, non dettero gli esiti sperati, come dimostra Stefanik 2015.
76 Il doc. è edito in Shiff 1909, p. 153-155.
77 Per le manovre di Filippo Maria finalizzate all’ottenimento del potere (tra cui emergono il matrimonio con la vedova di Facino Cane, l’eliminazione fisica di alcuni rivali, l’esilio di parenti pericolosi) rimandiamo a Cognasso 1966, p. 391-439; Cognasso 1955c; Gentile 2015a, p. 5-26; Del Tredici 2015, p. 27-70. Si veda inoltre Somaini 1998, p. 729-763.
78 Sul termine e le nuove valenze del suddito, utilizzato da Filippo Maria tanto all’esterno dei confini milanesi quanto per i Mediolaneses, cfr. Cengarle 2006b, p. 9-11, 78-86. Già suo padre aveva preteso che gli abitanti dei territori da lui governati si definissero sudditi, espressione di una sua precisa concezione del potere. Gamberini 2003b, p. 21. Per un discorso più ampio, Alessi 1996.
79 Sul neologismo, si veda De Carvalho 2016, che con esso intende «how a (diverse) group of individuals or (direct) subjects of the ruler were gradually turned into a homogeneous group of political subjects owing their primary allegiance to the abstract notion of the state» (p. 58). Il lavoro di De Carvalho si rivela interessante anche per come sviluppa alcune importanti riflessioni di Skinner sulla costruzione e costituzione dello stato (su cui si veda Skinner 1987).
80 Per alcuni spunti comparativi, cfr. Chittolini 2015. Seguendo l’analisi di Quaglioni 1991, il processo di sudditanza si sarebbe infine rivelato come l’anticamera della cittadinanza (p. 167). Si vedano inoltre le riflessioni di Del Bo 2014a; Lazzarini 2007a; Silvano 1992; De Angelis 2014a. Se volessimo su questo tema trovare un tratto distintivo tra Milano e Firenze, potremmo far notare che, mentre la sudditanza milanese si isciveva nel discorso giuridico dello Stato, a Firenze l’assoggettamento era in prima istanza un problema di omologazione fiscale (il caso volterrano del 1429 è in tal senso paradigmatico). Fabbri 2004; Fabbri 2009.
81 Osio 1869, p. 64-65.
82 Sia per un accordo tra Sigismondo e i Kurfürsten (necessario per essere eletto al posto di Venceslao), sia, in generale, per le clausole previste dalla bolla del 1356. Si vedano almeno Fritz 1972; Schneidmüller 2005, p. 475-488; Boytsov 2013; Fajt 2005, p. 3-21 (meno focalizzato sulle innovazioni in materia di elezione imperiale ma comunque attento al rinnovamento operato da Carlo IV anche in ambito procedurale). Sui principi elettori, Heinig 2009, p. 65-92.
83 Deut. Reich. 10, docc. 4, 5; Cognasso 1955c, p. 183-184; Osio 1869, p. 299. Sigismondo sembra affidare costantemente al marchese Monferrato un ruolo di controllo della posizione viscontea (nel 1415 egli aveva persino investito Teodoro Paleologo del vicariato imperiale sulla Lombardia), un ruolo che non farà che acuire l’astio tra il duca di Milano e il marchese, contro cui Filippo Maria, alleandosi con Amedeo VIII, si sarebbe negli anni a venire diretto, col fine preciso di cancellare dallo scacchiere italiano il marchesato dei Paleologi. Cognasso 1915; Hoensch 1996, Kaiser Sigismund, p. 182; Gabotto 1903, p. 153-303.
84 Ivi, p. 134-135, 197-198, 199-200.
85 Ivi, p. 197-198 (le citazioni sono invertite; la seconda citazione, a p. 197, è stata trasformata per le necessità del discorso).
86 Sulla presenza nel castello di Pavia dell’archivio signorile, cfr. Vittani 1932, p. 406. Su quest’inventario, Pellegrin 1955, inv. A.
87 Lazzarini 2004, p. 58.
88 Il rex Romanorum chiedeva infatti al Visconti di fornire molti documenti, tra cui le prove documentarie dei privilegi concessi da suo fratello Venceslao a Gian Galeazzo a fine XIV secolo.
89 Francesco Somaini non tiene conto di questo dettaglio precedente il 1426. Somaini 2007, p. 161. Per alcuni documenti milanesi, cfr. Osio 1869, p. 146-147, 269-270.
90 Ivi, p. 192.
91 Si veda il caso dell’aderenza dei Manfredi, citato più sopra.
92 Osio 1869, p. 198.
93 Cfr. ivi, p. 208. Siamo nel maggio 1426 e, come capiamo, Sigismondo ancora non si era risolto nei confronti della concessione del titolo.
94 Per tutto, si veda ivi, p. 192, 207, 210. Le richieste del Visconti investivano anche i territori appartenuti a suo padre Gian Galeazzo e che in futuro avrebbero potuto essere riconquistati, «exceptis Verona, Vincentia, Padua, Feltro et Civitali de Belluno, Serravalle», che aveva reso a Venezia nel 1414. Cfr. ivi, p. 39-40, 193.
95 Ivi, p. 186, 198.
96 Pietro Paolo Bonetti, Antiqua, p. 254-257 (Decretum super crimine lesae majestatis, 1 settembre 1423), una legge volta anche a disciplinare il pulviscolo signorile riemerso dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti (cfr. anche la nota successiva). Sulla questione si veda anche l’interessante lavoro di Cengarle 2014 (p. 141 e sgg.).
97 Per tale ragione, Jolanta Komornicka ne parla come di un «umbrella term». Komornicka 2012, p. 189-223. Si veda anche Schnabel-Schüle 1994, p. 29-47.
98 Baldus, Consilium, III, 359, num. 1, cit. in Black 2009, p. 19-20, 27-28, 35. È a tal proposito che Pierre Savy parla di una «tendence à la royalisation», per di più particolarmente marcata nel periodo filippesco. Savy 2013a, p. 194.
99 Proprio nel 1423, il Biglia si spinse, in un elogio funebre per Gian Galeazzo Visconti, fino a ritenere intercambiabili i titoli ducale e imperiale: «Romani quoque quos gerendis bellis praefecissent hos modo duces, modo imperatores appellabant, nam regium nomen in ea civitate nec dici licebat, nec audiri» (citato in Ferraù 2005, p. 319).
100 Osio 1869, p. 169, Istruzione a Corrado del Carretto per andare alla corte cesarea, 21 gennaio 1426: «Postea, veniendo ad spetialitates, dicat Conradus quod prefatus dominus <scil. Filippo Maria> non disponit cum Majestate regia simulare, nec exquisitis et fictis uti verbis, sicut plerique facere solent, ut mercatantias suas vendant magis caras […]» .
101 L’espressione è tratta da Gamberini 2016b, cap. II.2.
102 Osio 1869, p. 194: «[…] respondit ipse dominus quod licet umquam nil commiserit contra dictum dominum suum regem, contentari et regratiari plurimum regie Majestati de huiusmodi benigna responsione quam acceptat […]».
103 Si vedano Gauvard 1991, vol. 2, p. 946, secondo cui il crimen maiestatis assume una più concreta autonomia giuridica tra 1350 e 1450; Thomas 1991; Cengarle 2007c, p. 83-87; Chiffoleau 1993, p. 183-213. Può essere interessante notare come il lavoro di Jacques Chiffoleau sul crimine di lesa maestà sia contenuto in un opera collettiva che tratta della genesi dello Stato moderno nelle aree mediterranee: quasi a dire che quel monstrum storiografico che è lo Stato moderno affonda le sue radici anche nell’appropriazione di diritti imperiali da parte di altri soggetti politici. È sulla base di queste (e di simili) considerazioni che, per Chiffoleau, l’incapacità di Amedeo VIII di affermare la propria – univoca – maiestas (che in termini bodiniani sarebbe stata intesa come «sovranità») impedì per il momento alla Savoia di realizzarsi nelle forme di uno stato moderno. Chiffoleau 1992, p. 47-49. La posizione di Chiffoleau presuppone però uno sviluppo praticamente unilineare dell’entità statuale, qualcosa che, alla luce delle interpretazioni degli ultimi trent’anni, andrebbe forse stemperato. Pennington 1993, p. 202-237; Origini dello Stato 1994; Kradin 2009; L’État moderne 1990; Nelson 2006; Chabod 1958; The Italian Renaissance State 2012.
104 E d’altronde, fin da Ulpiano, «Proximum sacrilegio crimen est quod majestatis dicitur» (citato in Chiffoleau 1993, p. 183). Sull’argomento si veda Solidoro 2003.
105 È chiaro che né Firenze né Milano potevano formalmente sganciarsi dall’autorità imperiale, le cui prerogative giuridiche e la cui natura legittimante ancora nel XV secolo si costituivano della fusione di immaginario e di concretezza ( «[the Empire] was both an idea […] and a concrete reality»). Watts 2009, p. 48, 170, 301-307. Tuttavia, l’erosione di quote d’autonomia sempre maggiori fu una caratteristica dei poteri politici italiani quattrocenteschi (fatta eccezione per il Regnum), al punto che – lo abbiamo visto – la costruzione di una nuova identità fiorentina ruotò proprio attorno alla definizione di una atavica estraneità (e di una sostanziale alterità) di Firenze rispetto al governo imperiale.
106 ASFi, SM, 24, c. 145v, 20 luglio 1395.
107 Si vedano Ercole 1928, p. 303; Lindner 1940, p. 331-334.
108 Rubinstein 2011, p. 135-136.
109 Nel contesto giuridico dell’Italia centro-settentrionale (di spiccata tradizione bartoliana), «le accuse di mos tyrannicus riguardavano l’esercizio del potere e non la legittimità del titolo» . Collodo 1993, p. 93. E d’altronde per Cavalcanti il «vivere tirannesco» era «non politico», ma non per questo illegittimo. Giovanni Cavalcanti, Istorie, I, p. 30.
110 Commissioni, II, p. 555, 16 febbraio 1426 (l’istruzione non è presente in ASFi, SLC). Ai due ambasciatori era chiesto di persuadere il rex Romanorum a mediare tra il Visconti e i Fiorentini, per «la quiete d’Italia».
111 Osio 1869, p. 110.
112 ASFi, Rapp., 2, cc. 132r-133r. Questo attenersi all’effettivo rilascio dell conferma del titolo, che rappresentava dunque un rivendicare di essere la fonte dello ius, fu tipica degli imperatori del Quattrocento nel loro rapporto con i Visconti: nel 1452, Federico III si riferì a Francesco Sforza – che non sarà mai confermato ufficialmente dall’imperatore – come a «comes Franciscus». Lettera di Sceva da Curte allo Sforza (8 aprile 1452), cit. in Margaroli 1990, p. 534.
113 ASFi, PR, 113, cc. 312v-314v.
114 Somaini 2007, p. 174-176 e sgg.
115 Cfr. infra, p. 159.
116 Osio 1869, p. 299. Luigi Osio non vi fa accenno, ma il «domino Johanni» al quale Filippo Maria promette di rispettare le volontà dell’imperatore è il vescovo di Vesprém Jànos Uski, che era stato ambasciatore per Sigismondo in numerosissime operazioni diplomatiche. Per un incarico così delicato, il re dei Romani aveva dunque fatto appello a un oratore di estrema fiducia e dalla forte personalità (si vedano ad es. i contenuti del doc. CLXVIII in ivi, p. 282). Sul vescovo ungherese, il solo vero lavoro è Lukcsics 1908 (su questa ambasceria del 1427, p. 22-24 e sgg).
117 La lega era stipulata «pro conservatione et augumento fraterni amoris quo continuo praefati domini dux et marchio se ad invicem dilexerunt et vixerunt, pro communi utilitate ipsorum dominorum et utriusque eorum Status et dominii, et Subditorum, Vassallorum, Adherentium et Recommendatorum ipsorum, utriusque eorum […]». Corps universel, p. 207. La relazione tra il Visconti e il marchese del Monferrato era delle più altalenanti: negli accordi del 30 dicembre 1426, il Paleologo figurava tra gli aderenti di Amedeo VIII; i tre, come detto, si sarebbero uniti in una lega contro Firenze e Venezia, il che non impedì nel 1427 che i due duchi si coalizzassero contro il marchese.
118 Si vedano ad es. alcuni tentativi di mediazione in Osio 1869, p. 200-201, 214-216..
119 Cognasso 1995a, p. 230.
120 La terminologia è proposta in Somaini 2007, passim.
121 Schwedler 2012, p. 411-427 (soprattutto p. 420-422).
122 ASFi, Rapp., 2, c. 132r: «[…] et così la sua Maestà […] acceptò la scusa della lega co’ Viniziani facta, mostrandosene contento di poi non era se non contra Filippo Maria […]».
123 Osio 1869, p. 109-113. Era infatti vero che «in segreto il papa s’intende col duca per omnia» . Commissioni, II, p. 502 (sulla presenza di espressioni latine nelle registrazioni dell’Albizzi, cfr. Lazzarini 2012b, p. 353-357). Anche dopo la morte di Braccio (2 giugno 1424), il papa non accetto di intervenire in favore di Firenze nella guerra che ormai si era aperta contro Filippo Maria. ASFi, Mss., 52, cc. 1v-4r, 32r-33v (Martino rimprovera i Fiorentini di aver aiutato il condottiero umbro nel suo intento di far ribellare Bologna all’autorità pontificia). Si veda anche Commissioni, II, p. 137.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Le Thermalisme en Toscane à la fin du Moyen Âge
Les bains siennois de la fin du XIIIe siècle au début du XVIe siècle
Didier Boisseuil
2002
Rome et la Révolution française
La théologie politique et la politique du Saint-Siège devant la Révolution française (1789-1799)
Gérard Pelletier
2004
Sainte-Marie-Majeure
Une basilique de Rome dans l’histoire de la ville et de son église (Ve-XIIIe siècle)
Victor Saxer
2001
Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle)
Charges, hommes, destins
Armand Jamme et Olivier Poncet (dir.)
2005
La politique au naturel
Comportement des hommes politiques et représentations publiques en France et en Italie du XIXe au XXIe siècle
Fabrice D’Almeida
2007
La Réforme en France et en Italie
Contacts, comparaisons et contrastes
Philip Benedict, Silvana Seidel Menchi et Alain Tallon (dir.)
2007
Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Âge
Jacques Chiffoleau, Claude Gauvard et Andrea Zorzi (dir.)
2007
Souverain et pontife
Recherches prosopographiques sur la Curie Romaine à l’âge de la Restauration (1814-1846)
Philippe Bountry
2002