Capitolo 3. La «lunga et grande guerra d’Italia»
Retorica e premesse
p. 99-124
Texte intégral
3.1. «Libertas utilior ceteris est»
1Attraverso le lettere pubbliche di Leonardo Bruni, Gordon Griffiths si propose di studiare le motivazioni addotte dai Fiorentini per giustificare le azioni militari contro Filippo Maria1. Nel suo studio, al di là di una ricostruzione dei punti nodali delle vicende tra 1428 e 1441, non ci sembra che l’autore abbia rilevato alcune sfumature terminologiche fondamentali, utilizzate consapevolmente dal cancelliere aretino2. Riducendo la reazione fiorentina a una generale paura del nemico3, Griffiths non tenne conto dell’oculato lessico impiegato dal Bruni nel comunicare col Visconti, perdendo in tal modo di vista il cruciale obiettivo del cancelliere.
2Uno studio di questo tipo porta a riconoscere come questo conflitto, che materialmente si esplicò in maniera possente sul piano diplomatico e militare, avesse senza dubbio una matrice ideologica preesistente e fondante4. Il binomio contra et adversus, infatti, «plus in recessu habet quam in fronte promittit» (diremmo con Quintiliano), e solo di primo acchito può apparire una endiadi: se, infatti, il senso di contrapposizione espresso da entrambi i termini è patente, ciò che una più accurata analisi filologico-lessicale può rivelare è la copresenza dell’elemento fisico (militare) con quello morale (ideologico). Le considerazioni che seguono possono dunque aiutare nella comprensione delle ragioni e delle giustificazioni fornite per questa prima guerra contro Filippo Maria Visconti, mettendo in risalto alcuni degli strumenti di cui la propaganda fiorentina si era provvista e mostrando le evoluzioni concettuali e le applicazioni pratiche attraversate dall’elemento cardine dell’esistenza di Firenze: la sua libertas.
3Effettivamente la florentina libertas era sempre in prima linea nelle discussioni, in opposizione esplicita alla malafede del duca di Milano, i cui «modi serpentini» nella gestione delle relazioni diplomatiche non potevano non farlo accusare di continue «serpentine machinationi »5. Questa politicizzazione del simbolo animale aveva delle chiare finalità antiviscontee, e rientrava tra le strategie che miravano alla conservazione della natura oligarchica del sistema politico fiorentino contro la prospettiva tirannica (una prospettiva che, in fin dei conti, rappresentava un’esperienza di governo come un’altra)6. Nelle comunicazioni ufficiali così come nei dibattiti dei cittadini, la propaganda ad defendendam libertatem attaccava da vicino il Visconti7. Salutati et Bruni operavano apertamente per questa libertas, uno dei termini del lessico giuridico-ideologico romano che a Firenze diveniva cardine dell’identità civica e della sopravvivenza della repubblica.
4All’origine del conflitto antivisconteo c’erano certamente ragioni di ordine politico ed economico, ma la giustificazione che si forniva veniva da uno sforzo propagandistico notevole, tanto da parte fiorentina quanto da parte milanese8. Tra Tre e Quattrocento, tale sforzo fece evolvere la retorica politica e l’umanesimo italiano fino a rimettere in causa categorie e modelli politici quali la figura e l’azione del tiranno, che erano stati oggetto anche della speculazione precedente9. Questa «lunga et grande guerra d’Italia», si inscrive infatti nella lotta che aveva opposto in passato e che ancora opponeva Firenze a Milano, e che la repubblica conduceva non solo con le armi militari ma anche – e a volte soprattutto – con le armi dell’ars rhetorica10. È innegabile che tra retorica e politica esista una marcata osmosi11: quando gli oratori che scrivevano a proposito della retorica parlavano di Cicerone, ne ammiravano innanzitutto non lo stile ma il suo forte coinvolgimento nella vita pubblica12.
5Attraverso un uso attento del linguaggio, la repubblica fiorentina da un lato mantenne la sua posizione contro la tirannide viscontea per la vittoria della libertas, dall’altro si dichiarava obbligata a rispondere con le armi all’aggressività e agli abusi milanesi, dai quali i Fiorentini si dicevano terrorizzati.
3.1.1. «Metus belli» e «formido potentie». Una guerra giusta
6Nello scrivere a Filippo Maria subito dopo una ennesima pace (questa volta stretta tra il duca ed Eugenio IV nell’agosto 1435)13, Leonardo Bruni esprimeva la grande letizia di Firenze per quegli accordi, che permettevano inoltre al Visconti di diventare nuovamente frater et amicus karissimus. La città non ha mai amato essere in guerra con il duca e, per indicare lo stato d’animo preoccupato e impaurito che l’aveva spinta alle azioni militari, il Bruni utilizza variamente metus, timor e formido:
Tenemus enim re vera, excellentissime domine, nonnullas hucusque turbationes et bella, ex suspicione potius ac formidine alterutrius potentie, quam ex libero proposito ac voluntate spontanea processisse. Quis enim non se armet, cum timeat? Aut quis expectare velit, ut is quem formidat, primam sibi plagam infligere possit? Atque ita fit, ut metu belli persepe ruatur in bellum14.
7Questi termini, solo in apparenza sinonimi, rappresentano modi diversi di sentire e di trasmettere il sentimento della paura. Nel vasto panorama lessicale della paura15, metus – termine sicuramente più generale – indica prevalentemente lo stato d’animo «depressivo e angoscioso», ed esprime una paura per qualcosa che non è precisamente definito ma che si sa aver determinato quella situazione di inquietudine16. Il metus, pertanto, rappresenta un’emozione endogena, determinata dall’incertezza, che non opera dall’esterno (come d’altronde la sua stessa morfologia indica17), ma è motus interior animi18.
8Al contrario, formido rappresenta la paura per qualcosa che ci minaccia dall’esterno in maniera diretta (formidinem alicui inicere o formidinem inferre, ad esempio19). Il termine esprime inoltre una sorta di preoccupazione permanente, che certo non è atavica ma che si inscrive nel tempo lungo20. Nell’impiegare formido (e formidare), il Bruni voleva dunque esprimere un qualcosa di diverso, una paura dalla natura differente rispetto allo stato d’animo espresso da metus21 : si tratta infatti di una paura esogena, che nasce in noi nel momento in cui siamo attaccati da qualcosa che ci minaccia «da fuori e da sopra»22. Per i Fiorentini, formido è la perenne inquietudine determinata dalla consapevolezza – sperimentata! – della costante possibilità di un attacco visconteo, e quindi dall’incessante scontro tra libertas e tirannide23. Utilizzando in luoghi diversi i due termini, l’implicito messaggio che il cancelliere, a nome del governo fiorentino, voleva far intendere al duca era proprio l’immagine di una aggressività viscontea, scaturita dalle ambizioni di Filippo Maria e abbattutasi sui Fiorentini loro malgrado. E tal messaggio/convinzione non faceva parte solamente delle inten zioni del cancelliere: già dieci anni prima, subito dopo la stipul della lega antiviscontea con Venezia, i Dieci scrissero ai propr ambasciatori in laguna complimentandosi per il risultato diploma tico raggiunto e, affinché mostrassero al Senato la giustezza dell scelta compiuta, ricordavano loro che
come è noto universalmente a tutto il mondo, et singularmente a cotesta illustre signoria, da noi non mosse alcuni inditio, acto o motivo di guerra, ma veggendo la pace essere rotta et violata, da necessità constrecti per difesa et conservatione della nostra libertà fumo forzati alla guerra24.
9Firenze si trovò quindi costretta a superare la paralisi che la formido spesso generava, e a reagire, prendendo la decisione di dichiarare guerra al duca di Milano25. In definitiva, tutta questa retorica della paura serviva a giustificare la guerra intrapresa contro Filippo Maria, uno scontro che Firenze non aveva cercato, ma alla quale era stata condotta proprio dal Visconti. L’iniziativa militare della repubblica contro il duca milanese era dunque, in sostanza, una “guerra giusta” (in senso ovviamente agostiniano e post-agostiniano)26: nasceva da una recta intentio, che nel caso fiorentino era rappresentata dalla «pace di tucta Italia»27; era difensiva e non offensiva28; era condotta “legittimamente”29, poiché giustificata dalla necessità – divenuta ormai quasi prioritaria ed esclusiva nella giurisprudenza – di ulcisci iniurias30. E infatti
ex quo <scil. l’eredità politico-giuridica che le veniva da Roma> etiam illud fit, ut omnia bella que a populo Florentino geruntur iustissima sint, nec possit hic populus in gerendis bellis iustitia carere, cum omnia bella pro suarum rerum vel defensione vel recuperatione gerat necesse est, que duo bellorum genera omnes leges omniaque iura permittunt31.
10Ragioni e giustificazioni di questo tipo, che informavano il discorso politico fiorentino, non si limitavano a questo caso specifico. Un’altra coppia lessicale si mostra infatti ancor più densa di significati in seno al tema di questo studio: il binomio contra et adversus, che ci porta a considerare e approfondire non solo le implicazioni politiche del lessico ma anche la dimensione ideologica della sintassi.
3.1.2. «Contra et adversus dominum ducem Mediolani». L’opposizione militare e ideologica
11Ponendo attenzione agli aspetti linguistici, ci si rende conto che i due elementi diventano complementari l’uno all’altro, e altamente esplicativi della posizione fiorentina nei confronti del duca.
12Parlando di posizione, il primo dato da esplicitare è la virtuale geometria indicata dai due termini: alla radice, contra indica infatti «quod apparet in aequali positione »32, ossia ciò che si situa sulla medesima retta, in posizione però opposta (contra aliquem adstare, ad esempio, cioè posizionarsi faccia a faccia). Con tale accezione, contra può allora rappresentare anche una posizione morale, contraria – appunto – rispetto a ciò che non condividiamo o che ci ripugna (si pensi ad esempio al Liber de veritate catholicae fidei contra errores infidelium di S. Tommaso); contra può dunque contenere un senso di ostilità, pur tuttavia restando legato a un atteggiamento di non necessaria intraprendenza, cioè non dinamico. Questo dinamismo è affidato ad adversus: la stessa natura etimologica della particella avverbiale esprime palesemente l’idea non solo di posizione contraria ma anche, e soprattutto, di direzione33, e cioè l’idea di movimento (adversus ire, che, in assenza di altri elementi, non esprime necessariamente una nocendi voluntatem, ma significa solamente che ci si dirige verso qualcuno o qualcosa, e si cambia quindi la propria posizione iniziale34). Se ne può dunque concludere che, sebbene in generale entrambi i termini facciano riferimento a una opposizione35, contra ne esprimeva la natura statica (e, non a caso, i corrispettivi greci più diffusi sono ἀντί, ἐξεναντίας, ἐναντίoν, che indicano appunto lo stare l’uno di fronte all’altro36), mentre adversus (nelle traduzioni prossimo del greco κατά37) esprime un’idea di movimento, di tentativo concreto di avversione/conversione e, associato a contra, assume soprattutto un senso ostile38. Ne consegue che contra e adversus, usati insieme, si completano e si compenetrano, per cui contra et adversus da un lato rappresenta il passaggio dalla potenza all’atto, cioè dalla presa di posizione all’azione, dall’altro indica che quell’azione non concerneva soltanto lo sforzo bellico (opposizione militare) ingaggiato dalla repubblica fiorentina contro il duca di Milano, ma anche l’avversione ideologica (opposizione morale) che caratterizzava il rapporto tra libertas e tirannide.
13Per quel che più attiene al nostro discorso, possiamo notare che l’uso dei due avverbi si ripresenta, nei suoi elementi-chiave, in maniera peculiare sotto la piuma del cancelliere Salutati39. La lunga risposta di Coluccio alla molto più breve Invectiva in Florentinos del cancelliere Antonio Loschi40 (che gestiva ampiamente la propaganda del primo duca Visconti41), era infatti qualificata dall’autore stesso come uno scritto Contra maledicum et obiurgatorem qui multa pungenter adversus inclitam civitatem Florentie scripsit42: uno scritto, cioè, sul fronte opposto rispetto a colui il quale si era scagliato violentemente contro Firenze, con critiche che non di rado sfociavano in incriminazioni e minacce43. Con quello scritto, Salutati replicava dunque alle accuse milanesi lanciate su Firenze secondo cui la repubblica, con la propria politica espansionistica, negava alle città inglobate nel suo territorio quella stessa libertà che, invece, dichiarava a gran voce di voler difendere. Il testo, per ammissione dello stesso Salutati, attaccava direttamente il cancelliere milanese44, ma allo stesso tempo era volto a mostrare lo spirito della condotta fiorentina e l’avversione per il modus operandi visconteo, con lo scopo di sovvertire il discorso del Loschi e mostrare quale fosse il governo giusto di fronte alla degenerazione politica dei duchi milanesi. Nella replica salutatiana, in brevi termini, se Firenze si batteva contro il tiranno visconteo non era certo per meschina volontà di espansione territoriale – come invece accadeva per il duca di Milano – ma per difendere proprio dal Visconti le città d’Italia, che in nessun caso si sarebbero sentite mutilate con l’ingresso nello stato territoriale fiorentino, ma anzi sarebbero state grate alla repubblica di governarle sotto l’egida della libertas, che tutte le città d’Italia amano45.
14E, per Goro Dati, i Fiorentini erano talmente convinti della giustezza dei loro propositi da ritenere che sarebbero infine usciti vittoriosi da quello scontro, che sentivano come una missione:
D’essere vinti e sottoposti non ebbono mai alcun dubbio, perchè gli animi loro sono tanto a lui contrarii et avversi che non lo poteano acconsentire in alcuno loro pensiero, e ogni volta parea loro avere molti rimedii, siccome fa il cuore franco e sicuro, che mai non gli manca via né rimedio, e sempre si confortavano con una speranza, che parea loro avere la cosa sicura in mano, cioè che ’l Comune non può morire, e il duca era un solo uomo mortale, che finito lui, finito lo stato suo46.
15«Contrarii et avversi». Lo scontro con Milano si carica nuovamente non solo di attibuti militari ma anche di valenze ideologiche; anzi: «il Comune non può morire»47, per cui nella narrazione l’animo dei cittadini, avverso ai soprusi viscontei, prende il sopravvento, e le sorti politiche della repubblica ( «vinti e sottoposti») finiscono col dipendere dall’attività morale dei Fiorentini ( «gli animi», il «pensiero», il «cuore franco e sicuro»).
16La vipera milanese non poteva insomma che uscire perdente ancora una volta da quel conflitto. Certo, sostanziali differenze politiche e territoriali marcavano la distanza tra lo scontro antivisconteo trecentesco e le guerre contro Filippo Maria; ciò che però, all’interno di questi cambiamenti, restava paradigmatica era la posizione fiorentina, contrapposta in maniera assoluta a quella dei Visconti, tiranni per eccellenza con l’ambizione di farsi re d’Italia48. Sulla base di un rinnovato utilizzo della libertas49, ad attraversare indenne il passaggio dal XIV al XV secolo era cioè la lotta contra et adversus i duchi di Milano, che pure aveva visto, all’inizio degli anni Venti, un tentativo di riconciliazione da parte di entrambi i protagonisti50.
3.2. «Cum sit dulce nomen pacis». Gli accordi del 1420 e le premesse della guerra
17L’8 febbraio 1420, dopo alcune reticenze da parte fiorentina51, Milano e Firenze avevano deciso di giungere a una pacificazione che risanasse ufficialmente i loro rapporti52. Nonostante «non si fosse guerreggiato con esso lui <scil. Filippo Maria>, perché così era piaciuto alle parti, […] niun trattato di tregua e di pace era infra» le due potenze53. L’accordo serviva dunque a entrambe: a Firenze per porre una chiusura ufficiale al conflitto terminatosi improvvisamente con la morte di Gian Galeazzo Visconti, e non dover temere una nuova avanzata viscontea; al duca per assicurarsi della non belligeranza dei Fiorentini, e riassorbire così i territori persi con la morte del padre e la fallimentare gestione del fratello Giovanni Maria54. Con il fermo proposito di ripartire su nuove basi55, gli accordi prevedevano
quod dicte partes debeant imperpetuum, bono animo et cum perfecta intentione, se invicem habere tenere et tractare pro veris et bonis amicis, et fraternaliter et pacifice vivere, et in bona et perfecta pace persistere, et se ad invicem non offendere nec molestare, per se vel alium, directe vel indirecte, publice vel occulte, tacite nec expresse, sub aliquo quesito colore.
18La stipula di questo trattato è per noi di capitale importanza, poiché fu proprio sulla base dei suoi contenuti che si fondavano le accuse fiorentine al Visconti, il quale, nell’opinione del reggimento, avrebbe infranto quegli accordi ancor prima «che le scritture fussino asciutte»56, spingendo così la repubblica alla decisione di entrare in guerra contro di lui. Nel presentare le proprie lamentele a Martino V per la condotta di Filippo Maria, infatti, gli oratori fiorentini adducevano puntualmente come motivazione la decisione viscontea di muovere «contro alla pace fatta con loro», per cui chiedevano al pontefice un intervento risolutore. In cosa consistevano le disposizioni del trattato, e in che modo, quindi, il duca avrebbe «rotta la pace »57?
19Stando a Niccolò Machiavelli, dal punto di vista delle rispettive competenze territoriali i limiti furono fissati in corrispondenza di due fiumi, il Panaro (un affluente del Po) e il Magra (fiume che da Pontremoli arriva fino in Liguria):
E così disputata la cosa assai, si fermò la pace: nella quale Filippo promise non si travagliare delle cose che fussero dal fiume della Magra e del Panaro in qua58.
20L’assunzione di elementi del paesaggio naturale con finalità di delimitazione di un perimetro non ha nulla di sorprendente59, ma leggendo il testo degli accordi ci si rende conto che in nessun punto del trattato le parti avevano affidato ai due corsi d’acqua quella funzione discriminante60. Le due potenze si erano infatti impegnate a rispettare ambiti territoriali di pertinenza61: Firenze riservava per sé le geografie presenti in partibus Tuscie; Milano era invece libera di operare in partibus Lombardie62. Riassumendo – e interpretando – i termini dell’accordo, gli oratori fiorentini a Roma spiegarono al pontefice che le parti erano convenute dunque sul fatto che
dictus dominus dux non potuit se intromittere de partibus Lunigiane a iugo Alpium existentium supra Pontem Tremulum citra versus Florentiam, ipso iugo incluso; nec de Bononia, Forilivio, Ymola, Faventia, et aliis multis locis in illo nominatis63.
21Dall’unione di tali delimitazioni con gli elenchi dei Signori e delle comunità nominati quali colligati, recommendati e adherentes (ossia, in breve, quali alleati o sottoposti a una tutela politica64), prendono origine quelle che vengono solitamente definite “sfere d’influenza”. Con questa espressione si intendono tradizionalmente quegli àmbiti geografici su cui insistevano e agivano le entità politiche che ognuno dei contraenti inseriva nella redazione del testo finale: la qualità spaziale della preposizione cum nei trattati diplomatici indicava infatti che l’associazione di quelle entità all’uno o all’altro contraente (non erano possibili sovrapposizioni o interferenze) aveva delle inevitabili implicazioni territoriali65.
22Siamo allora fin da subito in presenza di pericolose criticità, poiché le suddivisioni così operate non sono in realtà né nette né chiaramente definibili, e il problema veniva percepito anche dai contemporanei. I cardinali ai quali l’Albizzi, il Giuliani e il Pandolfini chiesero di valutare le possibilità di un aiuto pontificio per sanare i rapporti tra Firenze e Milano esternarono le loro perplessità in merito alle richieste degli ambasciatori fiorentini: i prelati, infatti, a nome degli oratori viscontei con i quali avevano appena conferito, «volevano si chiarissino i confini della pace vecchia, perché e’ gioghi dell’Alpi, di Pontriemoli e della Magra tenevano insino in Francia »66. Gli stessi fiorentini, inoltre, erano divisi sul grado di precisione di tali delimitazioni, così come lo erano sulla reazione da avere nei confronti di Filippo Maria: se i membri del reggimento erano d’accordo sul rispondere alle azioni del Visconti con minacce di guerra, «quelli che al governo della repubblica non erano eletti», consapevoli in ogni caso della superiorità militare del duca, non condividevano le accuse rivolte al Visconti, ritenendo che «ei non ha passato la Magra»67. Per tentare di fare chiarezza all’interno di questo problema e capire le ragioni di tale discordanza, abbiamo scelto di studiare tali sfuggenti delimitazioni prendendo in prestito alcuni strumenti e concetti dell’analisi estetico-filosofica, soprattutto sul piano della mereotopologia68. Attraverso questo approccio interdisciplinare, vogliamo innanzitutto condividere l’idea che il ricorso all’ambito filosofico può supportare tanto la disciplina storica quanto la geografica creando intersezioni utili per entrambe69. Nel nostro caso, inoltre, la decisione di far interagire tali prestiti con l’analisi di tale questione territoriale viene dalla costatazione che le caratteristiche e le relazioni mereologiche di oggetti fisici sono determinate dalle loro caratteristiche e relazioni spaziali70.
3.2.1. «Il termine e il confine tra la longobarda potenza e la libertà toscana». Il problema delle sfere d’influenza
23La questione del presunto travalico, da parte di Filippo Maria, dei confini imposti dal trattato del 1420 merita di essere seguita più da vicino; essa ci conduce infatti al cuore delle lamentele fiorentine, e dunque delle ragioni che scatenarono la decisione di entrare in guerra contro il duca. Per comprendere le conseguenze che una siffatta operazione ebbe sugli eventi che qui ci interessano, punto di partenza della nostra analisi si rivelano i risultati raggiunti da Barry Smith e Achille Varzi.
24Le riflessioni dei due studiosi, celebri per le loro ricerche nell’ambito dell’ontologia e della logica (soprattutto a partire dalla fenomenologia husserliana)71, sono concentrate sull’analisi e sui tentativi di definizione dei confini, e cioè su quegli elementi che – parafrasando lo stesso Smith –, sono utili a segnalare una discontinuità tra due entità, e una consequenzialità all’interno di ognuna delle due72. A Barry Smith si deve l’introduzione di due tipologie di confini (o, se si vuole, di separazioni), che sono in seguito state estese per determinare oggetti e processi relativi: fiat e bona fide. I confini fiat rappresentano delimitazioni, spaziali o temporali, che sono il prodotto dell’attività cognitiva umana, e hanno la funzione di articolare la realtà in termini di confini, anche quando questi non sono presenti fisicamente in maniera genuina (ossia confini bona fide)73, ossia tangibile e concretamente identificabile74. Proprio queste categorie possono rivelarsi utili per il nostro tema, e aiutarci a comprenderne i punti critici.
25Al fine di evitare eventuali contrasti futuri, Firenze e Milano si accordarono a proposito della rispettiva pertinenza su aree che, in realtà, si rivelarono non univocamente interpretabili. Giovanni Cavalcanti ci offre a tal proposito uno sguardo molto interessante, portando in primo piano non soltanto gli avvenimenti ma anche la ricezione e le reazioni della popolazione fiorentina (nella quale l’autore era certamente incluso75), che si mostrava contraria alle decisioni prese dai membri più influenti del reggimento. Il bisogno di stabilire sfere d’influenza era parte integrante dei meccanismi di controllo territoriale, e la realtà geografica doveva necessariamente piegarsi a questi fini politici. In effetti, se è vero che uno dei principi e dei risultati geopolitici fondamentali è la delimitazione di sfere d’influenza da parte di una potenza grossa (Schmitt), è allo stesso tempo vero che la geografia non è solo qualcosa di fisico, di tangibile, ma è anche un processo di concezione mentale, spesso organizzato sulla base della contingenza76.
26In tal senso, il fiume Magra designava un limite più preciso, pensabile e rappresentabile molto più facilmente rispetto allo «iugum Alpium existente supra Pontem Tremulum citra versus Florentiam, ipso iugo incluso», ed era quindi stato assunto, nell’opinione comune, quale «confine tra la longobarda presenza e la libertà toscana»77. Proprio attorno al presunto travalico della Magra da parte del Visconti si imperniavano, come detto, le lamentele fiorentine78. Il passaggio non era avvenuto con un esercito, ma riguardava l’alleanza stretta dal duca di Milano con il cardinale legato di Bologna, Alfonso Carrillo79. Naturalmente, Filippo Maria si opponeva fermamente a tali accuse di infrazione degli accordi firmati con Firenze, e mandò ambasciatori alla Signoria per illustrare come stessero davvero le cose e dimostrare che i Fiorentini «non avevano giusta cagione di dolersi» . Gli oratori ducali provarono a smontare le accuse fiorentine ricordando innanzitutto ai Signori che la Magra non entra in rapporto col territorio bolognese, per cui Filippo Maria non aveva potuto rompere la pace; procedendo poi per assurdo, quasi come in una dimostrazione matematica, gli inviati viscontei aggiunsero che, quand’anche quel fiume passasse per Bologna, e dunque Filippo Maria avesse oltrepassato i limiti impostigli dagli accordi del 1420, lo stringimento di una lega con il Carrillo non voleva certo dire la rottura degli accordi ma, al contrario, essa rappresentava «quasi uno indissolubile legame di conservazione» della pace, anche perché la salvezza di Milano dipendeva – a loro dire – dalla conservazione della bona salus fiorentina80.
27Per mostrare la lealtà e soprattutto l’inattaccabilità della posizione del duca, gli ambasciatori milanesi proposero che la questione fosse messa nelle mani dei più esperti giuristi, in modo da lasciare che fosse la legge a stabilire la verità81. La risposta fiorentina, frutto della riunione di un «grandissimo consiglio», ebbe termini duri ma lucidi, che ci permettono di apprezzare fin da ora un cambiamento nella considerazione del Visconti, che stava passando dall’essere «fratello et amico carissimo» all’incarnare ciò che a Firenze si opponeva ( «noi… voi…»):
noi conosciamo la pace averci rotta, […] e conosciamo che ogni difesa per voi si facesse […] è vana e bugiarda. […] Così tutto il capitolo dove voi allegate le giustificazioni del vostro Signore, è a noi di nulla sicurtà che la pace sia solida e sicura.
28È dunque inutile, per i Fiorentini, il coinvolgimento di legum doctores, anche perché la legge è facilmente soggetta a interpretazioni e modificazioni rispetto al suo senso primario82, mentre essi avevano due ragioni inoppugnabili per dimostrare quanto le parole del duca fossero «piene di dolci veleni»: innanzitutto, nel caso in cui i rapporti fra Firenze e Bologna si fossero deteriorati, Filippo Maria si sarebbe trovato nell’impossibile condizione di doversi schierare dall’una e dall’altra parte, essendosi impegnato a rispettare due diversi accordi83. In secondo luogo – ed è qui che il discorso sui confini fiat acquista tutta la sua pregnanza –, sarà anche vero che la Magra non passa fisicamente per Bologna, ma se si pensa in termini prospettici (e cioè tracciando una linea tra i due estremi fissati nel trattato del 1420), esiste per i Fiorentini una «linea della longitudine del diritto» che va considerata come realmente esistente, come visibile ( «si debba misurare come se visibilmente vi fusse»); in tal modo (ossia usando «l’occhio come regolo e sesta»), attraverso un processo mentale si può dare parvenza di sostanza alle «longitudini e linee incorporee»84, e «molto maggiormente si può misurare il dirimpetto della Magra con Bologna; e per questo si vede Bologna e le sue cose appartenenti essere di qua dalla Magra». Nel caso dei Fiorentini, insomma, la sfera cognitiva (il cognitive domain, ossia la concettualizzazione di questi confini sulla base della percezione umana e della rielaborazione mentale) aveva modificato non solo la realtà geografica (la geographic reality, e quindi il reale corso del fiume) ma anche quella spaziale (la spatial reality, e cioè i confini e le relazioni tra le entità)85. Non vi era dunque possibilità di errore per Firenze: checché ne professassero i suoi ambasciatori, il duca aveva infranto i patti.
29Filippo Maria era di certo cosciente di infiltrarsi, con quella lega, in maniera sospetta nella sfera fiorentina, tanto più che i territori intorno a Bologna (Imola, Forlì, Faenza) costituivano uno degli obiettivi territoriali del duca. Tuttavia, in questo contesto di disputa sui termini dell’accordo, il cuore del problema risiedeva nel fatto che si volle affidare a unità fisicamente concrete la funzione discriminante di discontinuità per un’area non altrettanto concreta non soltanto dal punto di vista materiale ma neppure sul piano giuridico86. E poiché iurisdictio cohaeret territorio, quelle sfere d’influenza risultavano essere né territorio visconteo né, tantomeno, fiorentino87. Il risultato è un ibrido che non poteva non condurre a disaccordi e strumentalizzazioni: completando le riflessioni di John Agnew, secondo cui l’estensione e la percezione della sovranità non sono necessariamente legate ai confini territoriali di uno stato (né sono da questi limitate), possiamo allora interpretare le sfere d’influenza come oggetti fiat – ossia entità non demarcate naturalmente in maniera netta ma con contorni determinati da uno sforzo percettivo, cognitivo e pragmatico88 – con confini bona fide – e cioè con elementi concreti del paesaggio89.
30Pur con questi punti deboli, le delimitazioni contenute negli accordi del 1420 lasciavano trasparire sulla carta geografica dei veri e propri oggetti geopolitici90, che permettono di rilevare le intenzioni e le ambizioni dei firmatari della pace91. All’interno di tali spazi, il Visconti operò non solo con autorità (finendo col determinare i raggi d’azione anche di altri principi92) ma anche e soprattutto con spregiudicata autonomia, al punto da «passare il proibito confino »93 e tentare di espandere le frontiere del proprio ducato.
3.2.2. «In partibus Lombardie». Le ambizioni viscontee
31Nonostante i ripetuti appelli alla più pura disposizione d’animo in merito alle intenzioni e al rispetto della pace con Firenze94, infatti, presto Filippo Maria avrebbe mostrato di sentirsi intrappolato nei limiti territoriali impostigli da quegli accordi. Questi freni diplomatici ingabbiavano i suoi disegni di ricostruzione ed espansione del ducato paterno95, e li relegavano a uno spazio definito e piuttosto circoscritto, trattandosi di un territorio ampiamente occupato da altre presenze statuali:
Degli stati principali, la reina Giovanna II teneva il regno di Napoli; la Marca, il Patrimonio e Romagna, parte delle loro terre ubbidivono alla Chiesa, parte erano dai loro vicari o tiranni occupate, come Ferrara, Modona e Reggio da quelli da Esti, Faenza da e’ Manfredi, Imola dagli Alidosi, Furlì dagli Ordelaffi, Rimino e Pesero dai Malatesti, e Camerino da quelli da Varano. Della Lombardia, parte ubbidiva al duca Filippo, parte a’ Viniziani: perché tutti quegli che tenevano stati particulari in quella erano stati spenti, eccetto che la casa di Gonzaga, la quale signoreggiava in Mantova. Della Toscana erano la maggiore parte signori i Fiorentini; Lucca solo e Siena con le loro legge vivevano: Lucca sotto i Guinigi, Siena era libera. I Genovesi, sendo ora liberi ora servi de’ Reali di Francia o de’ Visconti, inonorati vivevano, e intra i minori potentati si connumeravono96.
32L’assenza della Savoia dal numero delle «potenze grosse» (o «potentie maggiori», per usare l’espressione di Machiavelli) della penisola è segno di una precisa concezione geopolitica del Segretario, una lettura dell’Italia che appare anche nel trattato di stipula della Lega italica del 145597. Inoltre, in un registro di missive milanese del 1469, l’inclusione della Savoia nel gruppo formato dal «re di Franza, regina di Franza, conte de Dunoys, duca de Burbonnese» pone lo stato sabaudo in un complesso di poteri francesi98. Tale documentazione è prodotta, però, nella seconda metà del secolo: certo, sulla condizione binaria della Savoia quale stato non completamente italiano (o irriducibile, come ha spiegato Isabella Lazzarini), alcuni dati sono innegabili99; tuttavia, fu proprio durante questa prima guerra guerra antiviscontea che emerse con particolare intensità una volontà di integrazione sabauda nel contesto italiano – dal punto di vista sia territoriale sia diplomatico –, soprattutto in rapporto con il collega milanese, che si stava spendendo con vigore per riaffermarsi come imprescindibile attore della scena peninsulare100.
33Il Visconti voleva infatti rimettere in piedi l’immagine e la consistenza dell’intera estensione del dominio paterno, piuttosto che limitarsi a una visione legata alla Lombardia101. Nel dichiararsi «filius et universalis successor» di Gian Galeazzo Visconti (di cui assumeva anche il titolo di conte di Virtù)102, Filippo Maria intendeva esprimere un rapporto tanto cognatizio (filius) quanto agnatizio (successor) col primo duca Visconti, e riferirsi dunque non soltanto al suo status politico – e cioè alla legittimità della sua presenza alla guida del ducato milanese, e alla dignità afferente –, ma anche alla relativa eredità territoriale:
Et per forza d’armi et di tradimenti, occupate in Romagna più cictà et chastella di sancta chiesa et di nostri accomandati et adherenti per avicinarsi a’ confini de’ nostri territori, publicando i suoi commissarii et capitani da questa inpresa già mai non volersi ritrarre se prima tucte le terre che in Lombardia e in Toscana per lo suo padre furono signoreggiate et tiranneggiate quelle non racquista103.
34Una definizione ‘regionale’ di tale agglomerato geopolitico sarebbe, certo, alquanto complessa nonché anacronistica, essendo la Lombardia visconteo-sforzesca un territorio fluido104. Le rimodulazioni erano talmente costanti e le estensioni di giurisdizione talmente variabili105, che neppure i vicini veneziani sapevano con chiarezza quali ne fossero i confini106. Tale fluidità rappresentava una condizione non soltanto territoriale ma anche politica, che nel tempo si accompagnava a una semantica mutevole: potremmo quasi dire che l’utilizzo, da parte dei contemporanei, del termine Lombardia (che, grazie ai lavori di Jörg Busch, sappiamo differenziarsi dalla Langobardia107), si legasse di volta in volta a una precisa Weltanschauung, bipartita sostanzialmente tra una opposizione alla politica imperiale (ed è dunque il caso, per dirla brevemente, della Lega lombarda e della lotta comunale dei secoli XI-XII) e una collaborazione/intromissione in tale politica da parte dei signori di Milano (ed è invece il caso visconteo), attorno alla quale ruotavano ormai, fin dal XIII secolo, i destini lombardi108. La situazione era chiara anche al primo duca Visconti, mito e terrore dei Fiorentini ancora negli anni Venti del Quattrocento109, il quale, con l’intento di estendere in maniera uniforme l’acquisita autorità ducale sul variegato territorio conquistato, non a caso aveva coinvolto nello studium pavese un giurista del calibro di Baldo degli Ubaldi nell’opera di ridefinizione degli statuti milanesi110. La presenza di Baldo e della sua speculazione filosofico-giuridica avrebbe dovuto garantire a Gian Galeazzo la possibilità di assorbire e integrare le varie giurisdizioni locali all’interno di un’unica entità geopolitica (noi diremmo forse lo Stato, ma Baldo non la definì terminologicamente in tal modo111). In realtà, nonostante sia riscontrabile una certa progettualità nelle direttive politiche viscontee112, l’eterogeneità del territorio lombardo imponeva al governo milanese non solo metodi diversi ma anche risultati molto differenti113. Tale agglomerato si mostrava talmente inafferrabile che persino l’imperatore Venceslao dovette rinunciare a qualsivoglia imbrigliatura terminologica, aggirando così l’ostacolo di probabili dimenticanze114. Il nome attribuito a questo spazio peninsulare, infatti, era divenuto usuale nel linguaggio comune del XII secolo ma, sebbene esso designasse in maniera generale e riconosciuta una ampia regione del nord Italia, i suoi confini restavano ancora non chiaramente definiti115. Inoltre, l’estensione dell’autorità ducale non era cosa facile nemmeno all’interno della stessa Milano, dove l’oligarchia urbana tentava costantemente di sfuggire all’egemonia viscontea116. Il duca cercò allora di controllare la vita pubblica milanese imponendosi anche in opere edilizie dallo spiccato senso politico117, al punto che, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, Patrick Boucheron si chiedeva se il Duomo non fosse un mausoleo dei Visconti piuttosto che una cattedrale milanese118.
35Il lavoro di Boucheron ruota proprio attorno alla politicizzazione del messaggio architettonico, ossia alla questione dell’impegno visconteo-sforzesco nell’edilizia pubblica (siamo quindi in pieno «Stato come opera d’arte», di burckhardtiana memoria)119, una necessità trasversale e fortemente politica che aveva coinvolto non soltanto altri spazi del dominio filippesco (si veda ad esempio Brescia), ma anche importanti concorrenti quattrocenteschi del duca, come Venezia o Firenze120. Qui il rinnovamento urbanistico, espressione di un mutamento politico e socioeconomico121, passava non soltanto per le costruzioni materiali (edifici, iscrizioni)122, ma anche per il versante letterario (è il caso della Laudatio del Bruni, la cui Firenze ruotava attorno non più al battistero, come era nel Trecento per Morelli, ma al palazzo dei Priori)123. Anche il collega più diretto del Visconti, il duca Amedeo VIII di Savoia, sembra abbia adottato simili misure124, mentre per quanto riguardava il papa, la necessità di riappropriarsi degli spazi romani condusse Martino V non a una semplice riorganizzazione urbanistica ma a una vera e propria “rifondazione” dell’Urbe125, al punto da essere paragonato dai contemporanei – non senza una certa retorica del potere – a un terzo Romolo126.
36Come per Firenze – mutatis mutandis, naturalmente127 –, anche nei dominî ducali le strategie di governo sul territorio che si vuole assoggettato mostrano una coerente e funzionale strutturazione dello spazio geografico, attore attivo delle dinamiche sociali e culturali128. Questo sottolinea la semantica non univoca ma plurale della geopolitica viscontea129 : prendendo in prestito un linguaggio più contemporaneo, possiamo dire che essa si muoveva tra geopolitica esterna, “estera”, e una geopolitica dei conflitti interni al ducato130. E se il clima di diffidenza reciproca minacciava le possibilità di un equilibrio interstatale, la conflittualità all’interno del panorama politico-territoriale dell’Italia quattrocentesca nasceva proprio dall’incontro/scontro delle diverse proiezioni territoriali di ogni potentato, e cioè dalla sovrapposizione delle diverse ambizioni politico-territoriali (ambizioni di cui il gioco delle aderentie, colligantie e recommandationes era uno dei fulcri)131.
37Se, con l’instaurazione del già citato sottosistema conflittuale che fu la lega italica, i conflitti giurisdizionali divennero meno comuni132, nel primo Quattrocento queste sovrapposizioni erano più evidenti: la geopolitica viscontea, di tipo ducale ed espansionistico, entrava ad esempio in conflitto con la geopolitica fiorentina, di tipo repubblicano e più conservativo, a sua volta non totalmente in fase con le evidenti mire espansionistiche della collega lagunare133.
38Sottraendoli a signori più o meno affermati sul suolo lombardo appartenuto a suo padre Gian Galeazzo, tra il luglio 1419 e l’agosto 1422 Filippo Maria aveva ricondotto sotto il dominio del biscione visconteo gli importanti centri (tra gli altri) di Bergamo, Brescia, Cremona, Asti, Genova, «con abilità e fortuna, forza e diplomazia, frode e legalità»134. Appare dunque chiaro che il Visconti, da qualche tempo caratterialmente flesso verso un isolamento progressivamente più morboso135, anelava al difficile progetto di «colorare tutti i suoi disegni»136. Ambizioni territoriali di tal sorta, però, non poterono che provocare uno sfaldamento all’interno dei fragili equilibri raggiunti nei primissimi anni Venti del Quattrocento, una rottura che, nel 1423, avrebbe condotto alla prima di una serie di guerre condotte «contra et adversus dominum ducem Mediolani» .
Notes de bas de page
1 Griffiths 1999.
2 Sull’attenzione del Bruni verso un preciso e accurato impiego lessicale non è necessario dilungarsi qui, e rinviamo almeno a Rizzi 2013 (e, limitatamente, anche Rizzi 2014); Ianziti 2012. Ricordiamo inoltre che il cancelliere aretino fu autore (anche) di un trattato metodologico sul corretto uso dei termini nelle traduzioni, il De interpretatione recta, per il quale si vedano, oltre alla fondamentale lavoro di Paolo Viti (Leonardo Bruni, Sulla perfetta traduzione), Botley 2004; Marassi 2009.
3 Griffith 1999, p. 64.
4 La cit. che dà origine al titolo è tratta dal testo del trattato di lega tra Firenze e Venezia (ASFi, DRA, 4 dicembre 1425): le due repubbliche «[…] firmant inter se bonam unionem et firmam confederationem et ligam ad conservandum, manutenendum et deffendendum status suos contra et adversus illustrem dominum Filippum Mariam ducem Mediolani et cetera et successores suos […]» .
5 Per questi e altri esempi, ASFi, SLC, 9, c. 25r; SM, 35, c. 44v; PR, 113, c. 312v.
6 Già Bartolo dichiarava la natura di fondo oligarchica del sistema fiorentino, simile a quello veneziano: «Istis expedit regi per paucos, hoc est per divites et bonos homines illius civitatis […]. Sic enim regitur civitas Venetiarum, sic civitas Florentina» (cit. in Quaglioni 1983, p. 164-165).
7 Cfr. ad es. infra, p. 144, n. 906.
8 Anselmi 1980; Vasoli 1989; Piffanelli 2018a.
9 Coluccio Salutati e l’invenzione dell’Umanesimo 2011; Baldassarri 2012; Black 2014; Zaccaria 1975; Ianziti 2015.
10 Milner 2006.
11 Hankins 2000; Tanzini 2014; Baggioni 2014, p. 18-20; Ianziti 2012; Ricciardelli 2013. Più in generale, importanti riflessioni si leggono in Artifoni 1994; Grévin 2008; Renaissance-Rhetorik 1993; Pour une vision d’ensemble, Cox 2015; Rebhorn 2015.
12 Rebhorn 1995, p. 29-32 e Renaissance Debates 2000, che mettono in evidenza lo stretto legame tra retorica e politica. E mentre a Milano si tentava – com’era prevedibile – di seguirne più lo stile che le idee, Firenze non faceva eccezione e guardava innanzitutto al Cicerone uomo politico. Casale 2013; Viti 2016.
13 Vi erano già stati tre accordi di pace tra il Visconti e la coalizione che gli si opponeva: il 30 dicembre 1426, il 19 aprile 1428, il 26 aprile 1433.
14 ASFi, SM, 35, c. 17rv, trascritta in Griffiths 1999, p. 145-146.
15 Si vedano ad es. Wandruszka 1981; Thomas 2012; Expressions of Fear 2016.
16 Ricordava Cicerone nei Tusculanarum, V/18, che «metus est futurae aegritudinis sollicita exspectatio»: il metus, quindi, è l’angoscia legata all’imprevedibile, a qualcosa che non si sa identificare, né si sa quando colpirà (non è allora un caso che il «metus» sallustiano necessiti dell’aggettivo «hostilis» per essere qualificato e identificato). Tale costante stato di inquietudine per il risultato futuro, che motiva dunque un eccesso di attenzione, è del resto espresso nel lemma «meticoloso» .
17 Metus non ha infatti la forma in –or tipica dei nomina agentis, come ad es. timor (da tĭmēre), o terror (da terrēre). Benveniste 1948, p. 7-112 (incentrato su alcuni aspetti della lingua greca, ma con considerazioni valide anche per il caso latino).
18 Von Albrecht 2006, p. 235; Isidoro di Siviglia, Differentiarum, p. 753. Si veda anche Brussel 1750, p. 556-557.
19 Leonardo Bruni, Historiae, lib. VI ( «Ea formido movit populum»), 7 ( «formido iniecta est civitati»; «formido inducere»); Leonardo Bruni, Epistolarum, lib. III/4 ( «mentem […] formido incumbit»).
20 Thomas 2012, p. 151.
21 Traduce il greco δεῖμος, che rappresenta in particolar modo «ciò che deve essere temuto», un pericolo che viene da fuori, a differenza di metus, che renderemmo in greco con φόβος, ossia la sensazione di angoscia, come quella che scatena la guerra. Hederich 1827, Novum lexicon, p. 358, 506.
22 Von Albrecht 2006, p. 235-236.
23 Leonardo Bruni, Historiae, lib. VII: «Et suberat formido mentibus infixa». Può essere interessante far notare che la stessa idea di una formido inculcata nella mente umana si ritrova in Sallustio (Bellum Iugurthinum, XLI): «Sed ubi illa formido mentibus decessit» . Il caso è ancor più calzante, a nostro avviso, poiché lo storico romano mette in relazione questa perenne paura (per liberarsi della quale occorre che essa abbandoni la nostra mente) con il metus hostilis, ossia lo stato d’animo impaurito per l’idea di un possibile scontro con ipotetici nemici.
24 ASFi, DM, 2, c. 8r, 8 dicembre 1425.
25 Thomas 2012, p. 151; Von Albrecht 2006, p. 239.
26 Berger 2010, Krieg und Völkerrecht, p. 45-58 (per Agostino e San Tommaso); Loreto 2001; Brunstetter – Holeindre 2012, p. 7-10; Raynaud 2012.
27 La recta intentio era uno dei tre criteri posti da Tommaso d’Aquino a fondamento del bellum iustum: «Tertio, requiritur ut sit intentio bellantium recta: qua scilicet intenditur vel ut bonum promoveatur, vel ut malum vitetur» (Summa theologiae, II, II, 40.1, cit. in From Just War 2012, p. 91). Sui tre criteri (auctoritas principis, causa iusta, recta intentio), si veda Brundage 1969, p. 19-20.
28 Russell 1975, p. 5: «the causa belli was a necessary precondition for a justum bellum». La qualità difensiva era espressa anche dalla volontà di tenere in campo un contingente militare paritario rispetto a quello ducale, ulteriore caratteristica – ancora oggi – di un bellum iustum: «[…] ché nelle parti di qua per le nostre difese et de’ nostri adherenti et offesa del nimicho, noi possiamo tenere altretanta gente d’arme di quelle che per la legha siamo obbligati avere, quanta da Bologna in qua n’avesse il nostro nimico et suoi adherenti […]» . ASFi, DM, 2, c. 2r. Per la cit., Fellmeth – Horwitz 2009a, p. 43: «even a defensive use of armed force must be necessary and proportional to the threat posed in order to qualify as bellum iustum».
29 In ragione della speculazione bartoliana e ubaldina, e della condizione politica di Firenze nel Quattrocento, la questione della legittimità e del relativo ius ad bellum, tanto cara a San Tommaso, diveniva quasi superflua. Cassi 2012, p. 14 e sgg; Fubini 1990a; Reichberg 2016, cap. VI.
30 Russell 1975, p. 21: «the concept of ulcisci iniurias rather than defense was the necessary point of departure for every ius ad bellum». Si vedano inoltre Panizza 2013; Haggenmacher 1983, p. 153 e sgg.
31 Leonardo Bruni, Laudatio, cit., p. 15. Il riferimento al Digesto è evidente ( «vim vi defendere omnes leges omniaque iura permittunt»). Digesta, 9.2.45.4 (Paulus, X, ad Sabinum).
32 Tursellino 1829, p. 108.
33 «Adversa acclamatio populi», ad es., ossia le grida ostili della folla contro qualcuno, Gaffiot 1934, p. 68 (che cita dal De oratore di Cicerone). E ancora, si legge nel Thesaurus Linguae Latinae, 1.0.851.25-30: «‘contra’ et ‘adversus’ hoc differunt, quod ‘contra’ loci est, velut contra basilicam, ‘adversus’ ad animi motum refertur, velut adversus illum facio».
34 In tal senso, il verbo animadverto mi sembra più che eloquente.
35 Tursellino 1829, p. 184.
36 Cfr. ad es. la traduzione in latino che, nel 1484, Piero de’ Medici fa del Περί τῆς πολιτείας τῶν Φλωρεντίνων di Leonardo Bruni, dove il figlio del Magnifico, sotto la guida del Poliziano, rende l’avverbio «ἐναντίoν» con contrarium (la versione del Bruni e la traduzione del Medici sono riportate in Moulakis 1986, p. 174, 187). Per le corrispondenze dei due avverbi col greco, nell’uso tardo-medievale e moderno, cfr. Ciccolella 2008, p. 195.
37 In questo caso, si pensi ad es. al Κατὰ Ιουδαίων, il violento scritto di Giovanni Crisostomo, reso in latino con Adversus Judaeos; al Κατὰ τοῦ Παλαμᾶ (Adversus Palamam), di Gregorio Pelagonio, che si scaglia contro la dottrina palamita; o, ancora, al Κατὰ αἱρέσεων (Adversus haereses) di Ireneo di Lione
38 Così ad es. Salutati nel De laboribus Herculis: «Nam qui largitati indulget contra non largientes, cum donet, et adversus illos, quibus non largitur, quasi suo iudicio reprobatos latrat et clamat» (lib. III, cap. 16). La differenza nell’uso dei due termini, pur sottile, è chiaramente percettibile.
39 È noto come, anche dal punto di vista lessicale, il Salutati dimostri volersi riappropriare del latino classico. Baldassarri 2012, p. 40; Witt 2000, p. 292-337; Fiesoli 2011.
40 L’invettiva era divenuta la diffusa espressione letteraria delle accuse politiche, al punto che si è anche parlato, per i secoli XIV e XV, di un’età di invettive. De Blasi – De Vincentiis 2010. Si vedano inoltre L’invective 2006; Laureys 2003.
41 Per un profilo biografico del Loschi, cfr. Viti 2006.
42 Stefano Baldassarri, che ha reso editi i testi del Loschi e del Salutati, sottolinea come alla risposta del cancelliere fiorentino sia stato a lungo dato impropriamente il titolo di Risponsiva in Antonium Luschum o Invectiva in Antonium Luschum. Baldassarri 2012, p. 17.
43 A guisa di esempio, riportiamo qui solo alcuni passi: «Illucebitne unquam dies, perditissimi cives, vastatores patrie et quietis Italie turbatores, quo dignam vestris sceleribus penam meritumque supplicium consequamini? […] Sic erit profecto, non fallor: adventant tempora, fata sunt prope, pleno cursu appropinquat diu exoptata mortalibus ruina vestre superbie. […] Non possunt amplius homines sine stomacho vestrum nomen audire; non potest pati Italia eos incolumes videre qui, cum eam cladibus multis affixerint, ad extremum suffocare turpissima servitute conati sunt. […] An fortasse fines vestros tueri posse confiditis? Ego sane non video tantum virium vobis esse ut quattuor equitum legionibus, tot enim contra vos armantur, possitis obstare» . Antonio Loschi, Invectiva in Florentinos, p. 125, 127.
44 Per non fare che un esempio, ricordiamo che il cancelliere visconteo fu apostrofato dal Salutati quale «turpis fetidaque sentina, sterquilinium et sordium sordes». Baldassarri 2012, p. 198, num. 115.
45 Hörnqvist 2000, p. 116-117. La caratteristica lettura baroniana della libertas, tuttavia, riscuoteva ancora negli anni Novanta del secolo scorso un discreto successo. Machiavelli and republicanism 1990.
46 Goro Dati, Istoria, p. 69. Non senza ragione, partendo dal modello bruniano Claudio Varese ha letto l’Istoria del Dati come un’altra Laudatio (Varese 1958).
47 Su come tale percezione quattrocentesca derivasse dalla speculazione teorico-filosofica medievale, si veda Rubinstein 2001.
48 Le ambizioni viscontee sono ben riassunte da un anonimo aretino: «E un signor avrà Italia bella / che tanto tempo è stata vedovella, / De conte, duca e poi sarà reale / un che è tiranno nella gran pianura» (cit. in Gilli 2006, p. 78). Del resto, le operazioni ideologiche portate avanti da Gian Galeazzo miravano a inserire il primo duca Visconti in una linea dinastica di stampo regale; inoltre, che Gian Galeazzo Visconti pensasse alla sua persona in termini monarchici appare chiaro anche dalle decisioni che volle fossero prese per i suoi funerali. Cfr. ad es. Succurro 2016; Majocchi 2016; Del Tredici 2018.
49 Per una più ampia e articolata trattazione della libertas e della sua strumentalizzazione a Firenze tra XIV e XV secolo, cfr. Piffanelli 2018a.
50 In relazione al Trecento, la nostra posizione si allontana dunque non poco da quella di Herde 1973, secondo cui il conflitto contro Gian Galeazzo non arrivò mai a porsi sul piano ideologico ( «[…] und es findet sich auch jetzt in den Quellen nicht das geringste Anzeichen einer gemeinsamen ideologischen Frontstellung der „ freiheitlichen Republiken “gegen den„ Tyrannene “Giangaleazzo», p. 233).
51 Sebbene qualche mese prima, nell’offrire la sua mediazione per riappacificare il Visconti con Pandolfo Malatesta e Niccolò III d’Este, fosse stata la stessa repubblica a spiegare al duca che «alla conservazione delle Signorie, alcuna cosa non è né essere può più utile o migliore che la pace» (ASFi, SLC, 6, c. 102v, 30 settembre 1419), la decisione di firmare una pace con Filippo Maria fu inizialmente respinta nelle votazioni (ASFi, LF, 52, cc. 10v-11r, 12v-13v) e caldamente sconsigliata da cittadini savissimi (come Niccolò da Uzzano e Lorenzo Ridolfi); venne infine approvata il 29 novembre 1419 (ASFi, PR, 109, cc. 182v-183r). Per pareri contrastanti in merito a questa pace (soprattutto Uzzano e Medici), cfr. Francesco Guicciardini, Cose fiorentine, p. 151-154.
52 Il testo della pace è edito parzialmente, e con qualche imprecisione, in Commissioni, II, p. 232-237, e integralmente qui in Appendice (Documento I). Se non indicato diversamente, le citazioni che seguono si intendono tratte da questo documento.
53 Mecatti 1755, p. 363.
54 Una sintesi di tali ragioni in Ammirato 1647, vol. 1, pt. 2, p. 985-987.
55 I contraenti avrebbero firmato «duraturam pacem, liberationem, remissionem, et quietationem plenissimam de omnibus et singulis guerris, inimicitiis, odiis, iniuriis, homicidiis, incendiis, cavalcatis, depredationibus, rapinis, robariis, et offensionibus quibuscumque in genere vel in spetie aut singularitate hinc inde habitis, illatis, factis, comissis et perpetratis consilio, opere, facto, verbo vel scripto» (e tra questi scripta non possiamo non far rientrare l’Invectiva del Loschi e la risposta del Salutati).
56 Commissioni, II, p. 538, 24 luglio 1425.
57 Le cit. sono rispettivamente in Vespasiano da Bisticci, Vite, p. 379 (vita di Lorenzo Ridolfi, che abbiamo scelto per la capitale importanza rivestita dal decretalista fiorentino negli eventi della prima guerra antiviscontea); Giovanni Cavalcanti, Istorie, I, lib. I, cap. 4, p. 11.
58 Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, lib. IV, cap. 3, p. 471.
59 Il caso del fiume Adda, ad es., è del tutto pertinente al nostro tema: fin dal 1448 – e poi in maniera definitiva con la pace di Lodi –, l’Adda costituì infatti il confine tra la repubblica di Venezia e il ducato sforzesco. I libri commemoriali, vol. 5, p. 17-18; Riva – Aldeghi 1994; Cavalieri 2007, p. 219-220. Per altre realtà, e per discorsi più ampi, si vedano Nordman 1979; Sereno 2007; Evans 1992; Redon 2008; Bergier 1989; Dauphant 2012; Confini 2005. Innumerevoli spunti utili, infine, in Lazzarini 2011b.
60 Nessuno dei 164 capitula della pace di Sarzana, inoltre, menziona tali confini, limitandosi a definire ampie circoscrizioni regionali sotto i nomi di Tuscia e ducatum spoletanum. È interessante notare che solo eventuali intromissioni in quegli spazi da parte dell’arcivescovo Giovanni Visconti, con cui Firenze e altri comuni del centro Italia stavano appunto stringendo l’accordo, avrebbero causato una rottura della pace (lo stesso non sarebbe avvenuto nel caso in cui il Visconti avesse voluto, ad es., riprendere Borgo San Sepolcro): «Item quod suprascriptus dominus Archiepiscopus et alii de domo sua, […] tacite vel expresse se non intromictant nec aliquid acquirant de iure vel de facto in Tuscia vel Spoletano ducatu, […] et, si contra factum fuerit, intelligatur et sit pax rupta». Pax cum Archiepiscopo Mediolanensi, p. 212-294 (p. 237 per la sezione relativa alle suddivisioni). Il confronto con la pace del 1353 non è certo una scelta casuale: si è anzi rivelato necessario per individuare possibili riferimenti a un testo fondamentale, visto solitamente come un utile punto di partenza per indagare le prime attestazioni di sfere d’influenza fiorentina e milanese. Si vedano Fubini 2003b; Rubinstein 1952, p. 41 e sgg. È per tale ragione che abbiamo voluto usare il testo edito più recente, anziché affidarci a Codex Italiae diplomaticus, t. 3, p. 1523-1558, o al regesto contenuto ne I capitoli del comune di Firenze, vol. 2, p. 305-327.
61 Rivolgendosi, nella finzione poetica, a Filippo Maria, il fiorentino Anselmo Calderoni gli ricordava quanto segue: «Tu sai, signor, quando volesti pace/con quell’alma città capitolasti/e insieme t’accordasti/di quel che d’ogni parte era salute» . Lanza 1973, p. 342.
62 Su queste ripartizioni territoriali e sul pulviscolo signorile che gravitava nella loro orbita, si veda Fubini 2003b, p. 94. Parliamo di “geografie” perché non ci riferiamo solamente al paesaggio fisico (il Landscape, diremmo adottando una terminologia più precisa), ma anche alle presenze politiche (esplicitate attraverso le liste di colligati, recommendati e adherentes). Su questa molteplicità, semantica e pratica, si vedano Cengarle – Somaini 2009; Cosgrove 2004.
63 Commissioni, II, p. 497, 3 dicembre 1425, brevis nota su quanto esporre davanti al papa. Va notato che, anche in questo caso, nessun riferimento è fatto ai due fiumi.
64 Nella definizione di Giovanni Soranzo, che per primo si dedicò allo studio di tali gruppi di alleati, queste e altre denominazioni rappresentano «politici rapporti correnti tra minori e maggiori signorie o comunanze cittadine, in forza dei quali rapporti le prime apparivano legate alle secondo, o comunque sembravano godere o subire una certa protezione, non si sa se rischiesta o imposta, se più o meno lietamente tollerata». Soranzo 1941, p. 3. Si trattava insomma di uno strumento di raccordo politico e, per certi versi, anche territoriale.
65 Ogni nominato poteva essere presente in una sola delle due ripartizioni: «[…] ita quod prefata communitas <scil. Firenze> non possit dicere nec allegare, aliquem ex nominandis per prefatum dominum ducem […]» . Si tratta inoltre di una rete politico-diplomatica con evidenti ripercussioni anche sul piano economico e culturale. Cfr. anche Soranzo 1941, p. 16-19; Cassidy-Welch 2010, p. 3.
66 Commissioni, II, p. 214, 7 ottobre 1424.
67 Giovanni Cavalcanti, Istorie, I, p. 44-45: «E si vedevano i meno possenti, e quelli che al governo della repubblica non erano eletti, con ferventi sospiri e dolorose note […] dicevano […]: “Ei non ha passato la Magra; e se pure l’avesse passata, che se gli può fare? Egli è più forte di noi» . Va detto che la felice situazione militare del Visconti (dovuta anche alla regolarità nelle retribuzioni dei soldati) era riconosciuta anche da membri dell’inner circle, come Lorenzo Ridolfi: «dux Mediolani plurima equitum et peditum milia habet, et de suis redditionibus solvit omnibus» (ASFi, CP, 44, c. 144v). Sull’insolvibilità dei Fiorentini nei confronti delle milizie assoldate, resta centrale Mallett 1979.
68 La mereotopologia è la branca della teoria delle parti e delle sue relazioni con l’insieme (theory of parthood) – la mereologia – che si occupa di proprietà topologiche quali la connessione e la relazione spaziale, con l’obiettivo di offrire una struttura del modo in cui rappresentiamo mentalmente lo spazio, gli oggetti in/su di esso e le relazioni tra di loro. Smith 1996; Varzi 1994; Varzi 1998.
69 Elementi interessanti in Dosse 2016; Elliott – Lukeš 2008, p. 112: «each researcher should have a philosopher by his or her side».
70 Per alcune coordinate bibliografiche si vedano Markosian 2014; Forrest 2010; Smith 1995; Varzi 2007; Smith – Mark 2003.
71 Sul lavoro dei due filosofi, rimandiamo a Parts and moments 1982; Calemi 2015.
72 Si veda anche Talmy 2000, p. 261: «There seems to be some sense of ‘connectivity’ throughout the material enclosed within the boundary and, contrariwise, some sense of ‘discontinuity’ or ‘disjuncture’ across the boundary between the enclosed and external material» . Sebbene non lo citi espressamente, appare chiaro che il punto di partenza di Leonard Talmy sia la Metafisica di Aristotele (Metafisica Δ, 17, 1022a).
73 Un confine bona fide è una delimitazione concretamente osservabile o, per dirla con Griffero, «un’immanente discontinuità qualitativa dello spazio» . Griffero 2014, p. 19. Sulle possibilità di transizione da confine fiat a confine bona fide, si veda Morena 2002, p. 15: «[…] ‘in corrispondenza’ di un qualsiasi confine fiat possiamo generare un confine bona fide, una discontinuità reale, ma non si dà mai il caso che un confine fiat ‘si trasformi’ in un confine bona fide».
74 Varzi 1997. In entrambi i casi (spaziale e temporale), il problema è insomma dell’ordine della consequenzialità e della discontinuità, che ci si riferisca tanto ai confini quanto agli oggetti o ai processi conseguenti: gli oggetti fiat saranno dunque quelle entità che esistono solo in virtù del fatto che è stato preliminarmente tracciato un qualche contorno fiat corrispondente (la fluidità del concetto di Rinascimento, la cui estensione è affidata di volta in volta a una operazione concettuale umana, è un evidente caso di processo fiat). Smith 1999, p. 321-324; Smith 2001, p. 134.
75 Kent 1979, p. 107. Si veda anche Varese 1961b, p. 115 e sgg.
76 Deleuze – Guattari 1991, p. 91-92; Vollaard 2009; Di Méo 2009. Per la visione geopolitica di Carl Schmitt sulla State authority si possono vedere Schmitt 2003; Hooker 2009, soprattutto p. 126-155; Legg 2011; Schröder 2012; Minca –Rowan 2015.
77 Giovanni Cavalcanti, Istorie, I, p. 10: «Ma perché nei tempi passati, nella pace che i Fiorentini e il duca avevano fatta, era un capitolo, che la Magra non era a esser passata, né il duca di qua néi Fiorentini di là; anzi: quella fosse il termine e il confine tra la longobarda potenza e la libertà toscana». Se non segnalato diversamente, le cit. che seguono sono tratte da ivi, I, p. 10-20. Per il legame tra la pensabilità di un confine e la percezione di uno spazio (a livello non solo visivo ma anche concettuale), cfr. Gibson 2015.
78 «[…] del duca dicevano avere rotta la pace, perché aveva la Magra in tutto passata» .
79 Per le tormentate vicende di questa lega, si veda Piffanelli 2018b.
80 «Voi gridate ch’egli ha passato la Magra: questo non è né può essere, perché la Magra non si trova nelle contrade di Bologna. Adunque: come ha passato quella cosa che non è in quelle parti, e non vi si trova? Ma s’ella pure vi fosse, per le ragioni dette, la vostra pace non è rotta, anzi è più tosto di ragione quella confermata! Conciossia che il loro conservamene non può, senza il vostro, sicuro né difeso essere» .
81 Gli oratori viscontei erano talmente certi della strategia trovata per respingere le accuse fiorentine che la questione, a loro dire, poteva essere posta anche agli specialisti di Padova o Perugia, se Firenze avesse avuto bisogno di pareri ancor più autorevoli di quelli dei propri giuristi.
82 «Voi allegate la legge: la legge è fatta come la pelle del cervio, che quelle mani che la tirano per la longitudine, quelle medesime la distendono per l’ampio […]. Similmente addiviene che la legge, colui che la tira a un uso sofistico, altra volta la tira al rovescio di quello; e così la legge obbedisce alle volontà degli uomini, e non all’intenzione del senso litterale della legge» .
83 «Se noi, per alcuna cagione, ci volgessimo contro ai Bolognesi, non siete voi, secondo la natura della lega, obbligati a prestar loro il vostro favore? Questo non potete voi difendere, né negarlo che cosi non sia: e se voi attenete la lega, come difendete voi che non ci fate contro? E così dunque avete rotta la nostra pace» .
84 Sul rapporto tra proiezione mentale ed elementi geografici, si veda Thomasson 2001.
85 Sono questi i tre «levels of reality» determinati da Barry Smith e David Mark nel loro studio sui rapporti tra categorie geografiche e assetti culturali, per cui si veda Smith – Mark 1999 (p. 312-312 per gli esempi citati).
86 Per un ampio approfondimento sulla questione delle sfere d’influenza e sulle implicazioni ideologiche e territoriali di tali fattizie delimitazioni, rimandiamo a Piffanelli 2018c. Alcune riflessioni di epoca contemporanea sul tema delle sfere d’influenza mostrano quanto il problema posto dal loro inquadramento politico-territoriale non si sia mai realmente estinto. Rutherford 1926; Hast 2014, p. 32-34; Costa Buranelli 2018 (e, più in generale, i contributi del relativo numero di Geopolitics).
87 Su tale questione, e sul relativo parere di Bartolo, si possono vedere Marchetti 2001, p. 83-95; Rossetti 2006; Quaglioni 2006; Lee 2016, p. 90-108.
88 Griffero 2014, p. 19; Smith 2001. Per le considerazioni di John Agnew, si vedano almeno Agnew 1994; Agnew 2005; Agnew – Muscarà 2012.
89 Riprendendo Smith, i confini bona fide possono infatti essere intesi come «boundaries in ‘the things themselves’. They would exist (and did already exist) even in the absence of all delineating or conceptualizing activity […]. These are boundaries which exist independently of all human cognitive acts – they are a matter of qualitative differentiations or discontinuities in the underlying reality». Smith 1995, p. 475-479 (cit. a p. 476). Si veda inoltre Smith – Varzi 2000, p. 401.
90 Smith – Mark 1999, p. 313. Il caso delle sfere d’influenza, pertanto, potrebbe – e forse dovrebbe esplicitamente – rientrare tra quelle «non-classical geographies» affrontate da Casati, Smith e Varzi in Casati 1998, che promuove lo sviluppo di una comprensione anche ontologica dello spazio e del territorio.
91 A tal proposito, è interessante notare una sorta di costanza, da parte di Firenze, nella selezione degli alleati: tra la pace di Sarzana (1353) e gli accordi del 1420, è infatti apprezzabile una regolare predilezione per gli spazi (e i poteri) romagnoli, che spesso di buon grado ricambiavano le attenzioni fiorentine. Già nel Decameron la Romagna è presente come vicino “naturale” di Firenze, in senso tanto geografico quanto politico; e non un caso che Salutati, poco dopo la stipula della lega di Bologna in funzione antiviscontea (1392), scrivesse al signore di Imola col duplice intento di ringraziarlo per aver appoggiato i Fiorentini, e di rassicurarlo sull’aiuto che sempre avrebbe avuto da questi. Anselmi 2015, p. 34; Coluccio Salutati, Epistolario, vol. 2, p. 380-384 (15 agosto 1392). Sulla questione, si vedano Cengarle – Somaini 2016, p. 51 (carta che riporta la sfera d’influenza fiorentina a metà Quattrocento); Chittolini 2009a; Fubini 2003b, p. 93-95; Pellegrini 1999 (utile, seppur in una cronologia successiva, per sottolineare la longue durée degli interessi fiorentini in quelle zone). Proprio questi spazi romagnoli saranno il punto di partenza della prima guerra contro Filippo Maria.
92 Cengarle 2007b, che analizza la relazione tra Filippo Maria e Niccolò III d’Este.
93 Citiamo ancora dal sirventese del Calderoni, per cui cfr. supra, nota 136.
94 Le parti «contraxerunt, fecerunt, reddiderunt et solemniter firmaverunt […] puris, meris et rectis cordibus, veram puram et sinceram pacem concordiam et bonam voluntatem perpetuam […]» .
95 Chiare in tal senso appaiono le vicende della conquista di Genova del 1421, legate com’è noto non solo alla lotta tra Angioini e Aragonesi nel Mediterraneo e in Italia, ma anche all’acquisto di Livorno da parte di Firenze, che così poté realizzare definitivamente i progetti di una flotta commerciale. Fossati – Ceresatto 1998, p. 585-587; Somaini 2015, p. 113-118; Mallett 1968; Mallett 1967, p. 10-21; Goldthwaite 2009, p. 167-170; Cardini 2009.
96 Niccolò Machiavelli, Storie fiorentine, lib. I, cap. 39, p. 340.
97 Theiner 1861, III, p. 379-386; sulle due espressioni, la prima delle quali risalente a Nicodemo Tranchedini, si vedano Fubini 2003b, p. 91, e Chittolini 2008, p. 475, entrambi cit. in Lazzarini 2011b, p. 164.
98 Il doc. è cit. in Savy 2005, p. 749.
99 Lazzarini 2001a, p. 20-21. Si vedano inoltre Castelnuovo 1995; Marini 1962; Lo spazio sabaudo 2007; Raviola 2010, p. 271-289; Barbero 2006; Waquet 2008, p. 171-178. Già il primo duca sabaudo, Amedeo VIII, si rendeva in effetti conto che, rispetto al blocco savoiardo d’Oltralpe, i territori cisalpini costituivano uno specifico agglomerato territoriale, per la cui gestione creò il Principato del Piemonte, con a capo il primogenito maschio di ogni duca sabaudo dopo di lui. Cognasso 1991, p. 213. Sull’organizzazione del territorio sabaudo sotto Amedeo VIII cfr. Barbero-Castelnuovo 1992, p. 469 e sgg.
100 L’opposizione aveva al suo interno elementi anche religiosi, che avrebbero visto un punto di svolta quando Leone X eresse Torino a sede metropolitana, decretando in tal modo la fine della superiorità milanese, soprattutto negli spazi subalpini. Cozzo 2007, p. 197. Si veda inoltre Ricuperati 2007, p. 33, che mostra come questo sia il momento in cui il rapporto tra Savoiardi e Piemontesi si inverte a favore dei secondi, proprio come Chambéry perde il suo primato a favore di Torino.
101 ASFi, SLC, 7, c. 38r: «[…] il duca di Milano dicie publicamente volere acquistare tutto quello possedette il padre»; Francesco Guicciardini, Dialogo, p. 361: «A’ tempi de’ padri nostri, volendo Filippo Maria Visconte ricuperare lo stato vecchio della casa de’ Visconti che per la morte di Gian Galeazzo suo padre si era dissipato in molte parte […]» .
102 «Filipus Maria Anglus dux Mediolani et cetera, Papie Anglerieque comes, filius quondam alte et nunquam delende memorie illustrissimi principis et excellentissimi domini domini Iohannis Galeas Vicecomitis, primi Mediolani ducis et cetera et ipsius universalis successor […]».
103 ASFi, SLC, 7, c. 40r, 11 settembre 1424. «Et tiranneggiate», nel margine destro del documento, è aggiunto in un secondo momento, nell’intenzione di accentuare agli occhi dei Veneziani (cui gli ambasciatori andavano a chiedere l’adesione a una lega contro Filippo Maria) il pericolo rappresentato dalle invasioni del Visconti, secondo il linguaggio politico poc’anzi esaminato.
104 Al tempo di Gian Galeazzo, potremmo persino parlare di un’area padanoveneto-toscana, per cui cfr. ad es. Bueno de Mesquita 1941, soprattutto cap. V-XI. Pur attuando progressivamente strategie diverse di raccordo tra centro e periferia, la situazione fiorentina risultava altrettanto variegata. Si vedano Zorzi 1998; Zorzi 2004; Tangheroni 1998; De La Roncière 2004; Tanzini 2007. Sul senso di questo anacronismo della percezione geopolitica rimandiamo a Oakeshott 1980; Goldie 2007 (che prendono evidentemente le mosse da Skinner 1978). In tale fluidità, sembra però riconoscibile nel rapporto tra principe e città una direttiva costante dei progetti ducali (si veda ad es. Lazzarini 2003, p. 101-102), pur nelle sfumature di una storiografia più cauta nel vedere nella città il pilastro dell’assetto statale visconteo-sforzesco, e tendente a restituire centralità al territorio anche nella sua natura di spazio di produzione e di circolazione di cultura politica. Gamberini 2009, p. 9-25; Gamberini 2016b.
105 Anche sul piano giuridico, è stata notata una pletora di regolamentazioni, e dunque l’assenza di una forte legislazione principesca. Massetto 1990, p. 49-50, 61. È tuttavia innegabile, nel periodo filippesco, uno sforzo di disciplinamento di questa nebulosa giuridica, di cui forse uno degli esempi più noti resta il decreto De maiori magistratu, del 1441 (che fu infatti definito, ancora 25 anni dopo, un provvedimento a danno dei feudatari, per cui cfr. Gentile 2009a, p. 126-127). Il decreto, spiega Chittolini, riservava ai magistrati ducali gli appelli contro le sentenze dei tribunali feudali, e Federica Cengarle vi ha osservato una sorta di progetto di disciplinamento (appunto) del ducato visconteo dal punto di vista politico-territoriale. Chittolini 1974; Chittolini 1972; Cengarle 2006b, p. 100-103.
106 Al momento delle richieste avanzate dal duca di Savoia per il proprio ingresso nella lega antiviscontea con Firenze e Venezia (11 luglio 1426), la Serenissima chiese al proprio capitano generale, il Carmagnola, di dare informazioni circa le dimensioni geografiche e le località che si ritenevano comprese nel comitatus Mediolani. ASVe, Sen. Sec., IX, c. 137v. Sul territorio milanese nel Medioevo, si possono vedere Fossati – Ceresatto 1998, p. 521-528 e sgg.; Gamberini 2003a.
107 Busch 1995, p. 289-295 (nonché il recente Busch 2016).
108 Andenna 1998, p. 5, 11, 15-17; Varanini 2016, p. 95; Della Misericordia 2011, p. 118, che sottolinea come la Lombardia del Quattrocento fosse politicamente organizzata «nelle strutture di un ducato assai stratificato, entro cui signori locali, comunità urbane e rurali obbedivano all’autorità dei Visconti e poi degli Sforza, senza però aver smarrito la propria identità e una specifica memoria culturale» .
109 Stando ai giudizi formulati da molti fiorentini durante alcune pratiche, lo stesso Filippo Maria appariva meno minaccioso e pericolo di quanto non fosse stato suo padre. ASFi, CP, cc. 120v, 122v, 126r.
110 Si vedano in merito Chittolini 2001, p. 263-294; Gilli 2008, p. 257-279 (soprattutto p. 266-276); Cengarle 2006a, p. 61-86. Sulla presenza di Baldo degli Ubaldi al fianco di Gian Galeazzo Visconti, cfr. Black 2009, p. 19 e sgg; Conetti 2005. Per l’importanza dello Studio pavese come luogo di riformulazione giurisprudenziale delle ideologie del potere, rimandiamo almeno a Radding 2013, p. 57-87.
111 Pennington 1993, p. 202-237 (soprattutto p. 207-210); Pennington 2003, p. 27. Si vedano inoltre Fredona 2011; Conetti 2005.
112 Tale sembra essere infatti l’interpretazione globale che possiamo trarre dal noto lavoro di Somaini 1998. Si veda anche Della Misericordia 1998. A queste riflessioni possiamo però affiancare quanto espresso da Gian Maria Varanini, il quale evidenzia la natura quasi “casuale” delle evoluzioni politico-territoriali tardomedievali. Varanini 2004, p. 153 (più in generale, p. 121-193); Varanini 2015, p. 227 e sgg.
113 Questa molteplicità emerge con vigore da una serie di studi che, diacronicamente disposti, offrono una lettura organica e coerente dell’azione politico-territoriale dei duchi milanesi. Si vedano dunque Chittolini 1972; Gamberini 2005; Gamberini 2003c; Gamberini 2003b (dove lo studioso dimostra come, nel Reggiano, il processo di comitatinanza visse un chiaro fallimento); Covini 2014 (per sottolineare le diversità della presenza ducale nel territorio ‘lombardo’, tra una Pavia fortemente controllata e una Reggio, come detto, fortemente autonoma); Gentile 2001; Gentile 2007; Cengarle 2007b.
114 In realtà, pur avendolo elevato al rango di dux Mediolani – e non Lombardiae –, nel diploma imperiale con cui, il 30 marzo 1397, Venceslao concedeva a Gian Galeazzo l’uso delle insegne imperiali, l’imperatore estendeva tale privilegio «toti Lombardiae», il che per noi non solo indica la nuova dimensione politica assunta dal Visconti, ma anche si fa spia di una diversa condizione territoriale, esondando ormai entrambe dai confini strettamente milanesi. ASMi, RD, 2, c. 110rv (Privilegium ducatus totius Lombardiae). Sull’influenza che il modello imperiale potrebbe aver avuto sulla strutturazione territoriale (feudale) viscontea, si veda Tabacco 1974, p. 378.
115 Black 2014, p. 61. Quanto tutta questa attenzione terminologica si diluisca nel corso di un secolo, dall’investitura di Gian Galeazzo alla riconferma di Ludovico Sforza, ce lo ricorda Isabella Lazzarini, che nota come il diploma imperiale del 1494, concesso da Massimiliano I al Moro, avesse abbandonato la «dicitura “regionale”» (Lombardia), in favore del solo ducatus Mediolani: il ducato ora riconfermato agli Sforza, infatti, era ormai inteso come un dominio «risolto lessicalmente nella titolarità della capitale» . Lazzarini 2011b, p. 169.
116 Sulla diversità giuridica di Milano rispetto alle altre città del dominio visconteo, si veda Gilli 2006, p. 88-91.
117 Del resto «the city is not only a language but also a practice», scriveva Henri Lefebvre parlando di alcune qualità dello spazio urbano. Lefebvre 1996, p. 143, che riprende quanto già affermato in Lefebvre 1968. Si vedano inoltre Arnade 2002, p. 517-522; Boucheron 2012b, p. 173.
118 Boucheron 1998, p. 177-197. Per alcuni modelli comparativi, cfr. Varanini 1994, p. 331-341. Si veda inoltre il lavoro di Rossetti 2014, che sottolinea come l’esperienza viscontea fosse peculiare innanzitutto per dimensioni: con le loro abitazioni private, infatti, i Visconti finirono col gestire almeno un sesto dello spazio di Milano (p. 35). Per alcuni aspetti dell’opposizione al Visconti interna alla stessa Milano, si vedano anche Saltamacchia 2011; Gilli 2008, p. 268 e sgg.
119 L’analisi di Boucheron si sarebbe in seguito estesa ad altre cronologie (il secondo Quattrocento) e ad altri spazi del nord Italia (Urbino e Mantova), per cui cfr. Boucheron 2004.
120 Lo spazio urbano fu infatti costantemente utilizzato per esprimere il potere politico e quello economico, e divenne quindi il riflesso e la rappresentazione anche dei cambiamenti cittadini. Cassidy-Welch 2010; Goldthwaite 1980; Schultz 2004. Più in generale, Classen 2009.
121 La divisione del tessuto urbano fiorentino aveva infatti subìto nel tempo diverse rimodulazioni, per cui cfr. Snzura 1991; Piffanelli 2014, p. 19. Su alcuni nessi, a Firenze, tra potere politico e pianificazione urbana, si vedano Najemy 2006b; Elam 1978; Cribaro 1980; Johnson 2000.
122 Fontana 2005, p. 13-44 (soprattutto p. 20 e sgg.); Goldthwaite 1980, p. 67-112.
123 Si vedano Fubini 2003a, p. 292-293; Leonardo Bruni, Laudatio, p. 7.
124 Castelnuovo 2015, p. 210.
125 Si vedano Helas – Wolf 2009; De Vincentiis 2014, p. 55-57, 68-69; Bianca 2009, p. 15 sgg; le relative sezioni in Esch – Frommel 1995.
126 Bracke 1992; McCahill 2013, p. 20-43 (soprattutto p. 35-38).
127 Sulla differente struttura politica e sulla diversa impostazione data da Firenze e Milano al territorio loro soggetto, rimandiamo almeno a Hankins 2010; Chittolini 1996c; Chittolini 2015; Pirillo 2001; Zorzi 2004; Gamberini 2003a; Del Tredici 2012; Del Tredici 2015; Cengarle 2006b, p. 7-13, 87-134. Più in generale, si vedano Florence and Milan 1989, vol. 1; Florentine Tuscany 2004; A Companion to late medieval and early modern Milan 2015.
128 Siamo qui in pieno spatial turn e nell’affascinante campo della geografia culturale, la cui trattazione esula però dagli scopi del nostro lavoro. Rimandiamo dunque almeno a The Spatial Turn 2009 (p. 10 per la cit.); Claval 2012; Cultural Turns 2000. Sulla coerenza di un progetto “filippesco” – pur complesso – nei confronti del territorio lombardo, si veda Covini 2012b.
129 In altre parole, quel «groviglio di giurisdizioni particolari», così finemente analizzato da Giorgio Chittolini, che si cela dietro le «omogenee campiture di colore che, sulle carte degli atlanti storici, pretendono di rappresentare l’estendersi dell’autorità viscontea». Chittolini 1972, p. 52.
130 Subra 2012, p. 45-70. L’analisi di Subra è rivolta principalmente all’identificazione di una geopolitica “locale” contemporanea ma, come messo in evidenza per i commissari-oratori, l’osmosi tra attività diplomatica ad intra e ad extra è rilevabile anche nelle cronologie che più interessano il nostro studio (Subra stesso riconosce l’attuale convergenza tra “géopolitique” e “relations internationales”, p. 46). Si veda anche Cengarle 2006b, p. 100-103.
131 Per Francesco Somaini, l’onnipresente clima di sospetto che intercorreva tra gli Stati italiani vanificava costantemente i risultati raggiunti con un accordo, al punto che nuove leghe e nuovi accordi si rendevano necessarî: l’equilibrio era, in sostanza, niente affatto duraturo. Somaini 2012, p. 105-106. Si vedano anche Shaw 2000, p. 234-235); Senatore 2015, p. 197.
132 Fubini 1994c, p. 26; Watts 2009, p. 287. La geopolitica sforzesca, come detto, si rivelò infatti diversa da quella viscontea, e lo stesso valse per quella fiorentina che, in periodo mediceo (cosimiano, ma soprattutto laurenziano), si occupò di consolidare la posizione acquisita piuttosto che di espandere fines, termini e limites. Per Milano, oltre a quanto cit. supra, p. 58 n. 112, rimandiamo a Catalano 1956; Soldi Rondinini 1965; Senatore 1998; Gli Sforza a Milano 1982; su scala lombarda, interessanti riflessioni in Chittolini 1978. Per Firenze, eloquenti i titoli di numerosi lavori di alcuni tra i più importanti studiosi del Quattrocento: Butters 1994, Bullard 1994b, Mallett 1994b; per Cosimo, si veda Lang 2009
133 Kennedy 2019; Somaini 2012. Su alcune nuove possibilità di descrizione delle tipologie di stati italiani, si veda Savy 2005 (alcune riflessioni nella stessa direzione erano già presenti in Lazzarini 2001a).
134 La cit. è tratta da Storia del mondo medievale 1981, p. 757. Sul processo di ricostruzione, oltre a Cognasso 1955b e Cognasso 1966, si vedano Gamberini 2008; Gamberini 2009, cap. II (che arricchisce il precedente contributo); Gentile 2010; Chittolini 2012a; Menniti Ippolito 1985; Forghieri 1935; Musso 1993; Gentile 2015a, p. 17-20.
135 Sull’atteggiamento del Visconti, che a partire dal 1422 mostra una spiccata tendenza all’isolamento, cfr. Andrea Biglia, Rerum Mediolanensium Historia, col. 60 sgg; Pier Candido Decembrio, Vita Philippi Mariae, cap. XLIII: De dissimulatione ingenii sui, p. 261-262 (sul ritratto fornito dal Decembrio, un lavoro interessante è in Ianziti 2016). Sull’attività del Biglia, Ferraù 2005 si mostra ben più approfondito rispetto alla asciutta (e anonima) voce redazionale contenuta nel DBI, 10, 1968.
136 Francesco Guicciardini, Ricordi, num. 169: «Abbiate per una massima che, o in città libera o in governo stretto o sotto uno principe che voi siate, è impossibile coloriate tutti e’ vostri disegni» .
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