Le risorse economiche delle donne
Uno sguardo dall’Italia
p. 353-370
Résumé
Since the early 1990’s, the Italian women’s historian Angela Groppi suggested that the issue of women’s work could be improved, asking a number of new questions. Women’s wealth, their opportunities to access welfare institutions, the circulation of goods, the central role they played in urban businesses (although marginalized by the guild system) needed to be taken into consideration in terms of overall resources that women were able to manage in early modern and modern times. When the second volume of the Storia delle donne in Italia, Il lavoro delle donne, edited by Groppi, was published, an amount of fresh research in this perspective provided new insights into female strategies in the economic sphere. In the following years, a lot of research has been carried out in Italy, and even more in a broader context with a comparative, transnational approach. My talk aims to outline just a couple of issues that seem to me quite promising for further new results, especially from an Italian standpoint. The first one deals with the position and strategies of women as economic actors on the marketplace in formal and informal economies, and between licit and illicit trades. The second one takes into account women’s investments in (micro) financial activities.
Texte intégral
1Nel 1990 alla Settimana dell’Istituto Datini di Prato, dedicata alle Donne nell’economia, Angela Groppi proponeva una riflessione su Il lavoro delle donne: un questionario da arricchire,1 in cui si mostrava come l’approccio alla storia del lavoro femminile fosse incompleto e fuorviante se non veniva inserito nel complesso dell’insieme delle altre risorse (economiche e relazionali) la cui circolazione si integrava con il mercato del lavoro. Una «nozione restrittiva» di lavoro,2 mutuata dai paradigmi di classificazione e di rappresentazione delle donne nelle società storiche, che le legavano alla sfera del privato e della riproduzione, occultandone la presenza nella sfera pubblica e nell’ambito della produzione. Intrecciare lo studio del lavoro delle donne con quello delle altre fonti di reddito e, più in generale, delle altre risorse a loro disposizione significava rendere anche il loro lavoro meno marginale, e coglierne l’importanza in un quadro più ricco e articolato dell’economia nel suo insieme. Tra le risorse da prendere in considerazione insieme al lavoro vi era, prima fra tutte, l’assistenza, ma non ultimi la dote e i patrimoni. Attraverso una successiva elaborazione da parte dell’autrice sulla rivista «Memoria», ancora nel 1990,3 venivano posti i punti di partenza delle domande di quel nuovo e più ricco questionario, che sarebbero in seguito state alla base dell’impianto del volume sul Lavoro delle donne della Storia delle donne in Italia, il secondo dei quattro volumi di Laterza, pubblicato nel 1996 a cura della stessa Groppi.4
2Più che il semplice arricchimento immaginato qualche anno prima, il volume mostrava una profonda rifondazione dell’approccio storico alla relazione delle donne con l’economia. Ripercorrendone l’indice, si nota come la proposta scientifica implicasse un significativo ingresso critico, nutrito dai risultati di ricerche innovative sviluppate in Italia negli anni precedenti soprattutto da storiche, nell’ambito di alcune questioni di notevole rilievo per la storiografia economica e sociale, e non solo per la storia delle donne.
3La prima questione era quella delle «sfere separate»: in particolare, in ambito economico e più precisamente di storia del lavoro, l’approccio che individuava nel lavoratore maschio il breadwinner, e separava appunto sfera della produzione e sfera della riproduzione, sfera privata e sfera pubblica.5 Un paradigma fortemente legato alla lettura dell’attività produttiva secondo un criterio che potremmo definire per comodità «fordista», che vede tempi e spazi della produzione come omogenei al proprio interno e distinti da quelli domestici, fissa la forma della retribuzione nel salario, e scinde nell’analisi produzione e consumo, autoconsumo e mercato. L’approccio delle «sfere separate» comportava il paradigma della progressiva esclusione delle donne, in età moderna e contemporanea. Per l’età moderna esso si legava alla tesi formulata agli albori della storia delle donne, nel 1919, dallo studio pionieristico di Alice Clark,6 secondo cui le donne, dal Cinquecento in poi, si sarebbero viste progressivamente escludere dal lavoro maschile corporato e specializzato. Una esclusione che sarebbe stata smentita dai più recenti studi di storia sociale del lavoro femminile,7 che avrebbero mostrato la presenza diffusa e informale delle «lavoranti senza statuto»8 e il significato politico e civile della loro invisibilità.9 Le dense implicazioni simboliche dei tentativi di allontanare le donne dal mercato del lavoro sarebbero apparse soprattutto per il periodo contemporaneo, con la diffusione di un modello di lavoro operaio che veniva sempre più connotato al maschile. La brillante analisi fatta da Joan Scott della figura della lavoratrice, pubblicata nel 1991 nel volume sull’Ottocento dell’Histoire des femmes en Occident,10 ne mostra le conseguenze attraverso la decostruzione del processo di «demonizzazione» della lavoratrice operaia, colei che andava a insidiare il lavoratore-uomo sul terreno, rappresentato appunto come maschile, del lavoro extradomestico salariato; raffigurata dai contemporanei come temibile, sediziosa, sessualmente pericolosa o, viceversa, in pericolo; insomma, fuori posto rispetto alla concezione normativa del ruolo delle donne/angeli del focolare prodotta dall’età vittoriana: le ladies of the leisure class,11 figure costruite in base a potenti criteri di genere che delle altre, all’estremo opposto della stratificazione sociale, costituivano l’antitesi, lo specchio e la conferma.
4Se la tesi della marginalizzazione delle donne nella vita economica viene sottoposta a critica, ciò implica che le donne, nell’economia, non occupano spazi separati ed esclusivi/escludenti, ma si trovano coinvolte in attività e relazioni di potere gender-oriented che connotano opportunità e limiti delle loro azioni economiche. Gli ambiti e i significati delle loro attività e dei loro ruoli possono diventare accessibili allo sguardo degli storici attraverso gli interstizi lasciati aperti da norme e istituzioni. Per questa ragione, un secondo tipo di approccio critico, che andava nella stessa direzione, mirando a travalicare i limiti di una visione “supplementare” della storia delle donne, era quello che sottolineava l’importanza dell’economia della pluriattività, soprattutto – ma non soltanto – nei contesti urbani, e del «makeshift», del combinare diverse risorse e lavori per arrangiarsi. Al di là delle identità economiche connotate dal punto di vista istituzionale (come l’appartenenza alle corporazioni di mestiere) esisteva un amplissimo spettro di altre attività, plurali ma integrate fra loro, e a propria volta intrecciate con la vita domestica. La questione era nota, e già affrontata, nel caso della pluriattività rurale, soprattutto nei contesti mezzadrili e/o protoindustriali, in cui uomini e donne si integravano avvicendando attività parziali, manifatturiere e agricole, secondo il corso delle stagioni e delle rispettive disponibilità di tempo nel ciclo di vita. Ma la visione proposta dal volume a cura di Groppi era assai più estensiva, e soprattutto applicabile alla storia sociale degli ambienti urbani in antico regime, ma anche per buona parte dell’età contemporanea; anzi, veniva ispirata proprio da questi. Cercando le donne nell’economia informale, anche nelle città appariva una molteplicità di occupazioni e una pluralità di fonti di reddito, che si intrecciavano nelle biografie dei soggetti e si integravano nello spazio e nel tempo. Gli interni domestici e le pubbliche piazze e strade ne erano lo scenario, contigui e non separati. Mestieri strutturati, anche se esclusi dall’apprendistato formale – e connessi all’universo corporato in determinati casi che occorreva spiegare nella loro specificità – coesistevano con occupazioni saltuarie; i beni circolavano in prestito o a noleggio, e si univano agli impieghi creditizi di denaro e oggetti; apparivano servizi di ogni genere – da quello domestico, alla preparazione e rivendita di cibi, alla prostituzione. Le donne, inoltre, avevano accesso alle istituzioni assistenziali che elargivano a loro, ai figli, alle famiglie protezione, educazione, ricovero, sussidi; e, infine, vi si univa il ruolo importante della proprietà e della sua trasmissione sotto forma di doti, donazioni, eredità, e la gestione libera e spesso informale di averi che sfuggivano ai vincoli dell’incapacità giuridica. Non era possibile comprendere la posizione delle donne nell’economia e nei processi di formazione del reddito senza integrare tra loro tutti questi elementi, che venivano dunque presi in considerazione in quanto risorse. Questo era il punto di arrivo e insieme di partenza di quel volume della Storia delle donne in Italia, che quindi si poneva in stretta relazione con quello sulla Storia del matrimonio, curato da Christiane Klapisch e da Michela De Giorgio e uscito nello stesso anno, il 1996.12 Quest’ultimo infatti dedicava attenzione, oltre alla dimensione sociale, simbolica, relazionale, religiosa delle nozze anche a quella economica dei rapporti patrimoniali tra i coniugi e tra le generazioni.
5La questione del rapporto con le risorse, economiche e relazionali, è uno dei campi in cui mi sembra che la storia delle donne si sia avvicinata maggiormente a realizzare quella trasformazione complessiva della storia a cui ambiva sin dalle sue origini. «La storia delle donne rappresenta una sfida sia alla pretesa della storia di fornire un racconto unitario, sia alla completezza e all’autonoma esistenza del soggetto della storia – l’Uomo Universale» aveva scritto Joan Scott, sempre nel ’91, in New perspectives on historical writing.13 Ancora prima, nel 1983, Gianna Pomata l’aveva definita «una questione di confine»,14 che poneva in contatto discipline e problemi di ricerca fino ad allora separati, e metteva in questione la dimensione evenemenziale della storia e quella statica e funzionalista dell’antropologia strutturale. La storia delle donne, condividendo molti obiettivi e metodi della storia sociale, aveva la capacità di sottrarre i propri oggetti di ricerca alla dimensione ciclica e senza tempo erroneamente attribuita alle vite femminili, e nello stesso tempo alla frammentarietà degli episodi e dei «casi notevoli» che nella storia tradizionale includevano le azioni e le figure di donne in qualche modo eccezionali. La riconsiderazione del rapporto delle donne col complesso delle risorse da loro costruite o utilizzate porta a riesaminare sotto una nuova luce anche le azioni, strategie, scelte economiche, conflitti e negoziazioni messe in atto dagli uomini, sottraendole a visioni altrettanto monodimensionali. Diviene possibile disporre tanto gli uomini che le donne in un insieme di relazioni di potere asimmetriche, che include il genere, ed è dunque più complesso di quello a cui è consentito accedere partendo dalle categorie analitiche di classe e di patronage. Studi come quello di Steven Kaplan sui «faux ouvriers» del Faubourg St. Antoine di Parigi nel XVIII secolo15 (come le donne, considerati «socially illicit, politically seditious, morally cankered, and technically inept») – che mette in discussione la tassonomia sociale offerta dall’autorappresentazione delle corporazioni, mostrando la possibilità di interstizi e spazi di manovra per soggetti che con esse convivono, pur essendo svalutati e definiti come ambigui e pericolosi – possono essere ora inseriti in una prospettiva più ampia che li accosta ad altri soggetti, le donne, altrimenti invisibili, e che come loro occupano i margini, i confini, le zone grigie di una economia il cui versante istituzionalizzato è solo una parte del tutto.16
6Questa visione rende possibile, in aggiunta, articolare in modo asimmetrico e attraversato da conflittualità i «fronti parentali»17 e i «giochi di squadra»18 di uomini e donne nelle famiglie. Un rischio corso dalla storia sociale della famiglia – che in Italia contrastava l’approccio tassonomico della demografia storica – era infatti quello di enfatizzare gli aspetti strategici dei comportamenti economici delle coppie e delle parentele, le sinergie nelle alleanze matrimoniali, nelle scelte migratorie, nella gestione dei patrimoni. Le donne sembravano avere, in questi sistemi basati sul buon funzionamento delle famiglie, ruoli precisi volti a diversificare le azioni del gruppo familiare, garantendone meglio la riuscita. La chiave di lettura che dà rilievo alla pluralità delle risorse utilizzate dalle donne lascia spazio a una visione più complessa, in cui diventa visibile l’uso delle istituzioni deputate alla tutela e alla mediazione, come nel caso della fiorentina Magistratura dei Pupilli studiata da Giulia Calvi, che affidava alle madri vedove, piuttosto che ai parenti paterni, la tutela degli orfani proprio grazie alla loro incapacità giuridica di divenirne le eredi;19 o i conflitti, come nei diversi casi relativi ai «tribunali del matrimonio» studiati dal gruppo coordinato da Silvana Seidel Menchi e Diego Quaglioni,20 presso i quali l’intreccio degli interessi non è secondario rispetto a quello delle emozioni, e gli strumenti del diritto e le relazioni di potere giocano un ruolo non secondario nella loro allocazione. Infine, i ruoli maschili e femminili nell’economia delle famiglie contadine risultano segnati non soltanto da complementarietà, ma anche da divari di genere, come hanno fatto notare le ricerche di Maura Palazzi sulla divisione dei ruoli familiari e lavorativi, e sull’accesso diversificato e asimmetrico di uomini e donne alla proprietà nella comunione familiare tacita delle zone appoderate dell’Emilia21, e di Alessandra Pescarolo22 sul lavoro protoindustriale e sulla pluriattività ancora nelle famiglie mezzadrili, in questo caso toscane.23
7La ri-concettualizzazione della categoria di «risorse» alla luce delle specificità offerte da una lettura di genere ha costituito il punto di arrivo di riflessioni critiche sui ruoli economici delle donne nella storia, ma anche, nella sua dimensione operativa, un punto di partenza da cui muoversi nella ricerca e nel dibattito storiografico, così come nella didattica e nella divulgazione. Nei venti anni che ci separano dall’uscita dei volumi della Storia delle donne in Italia è stata prodotta molta ricerca da parte delle storiche prendendo come punto di partenza la categoria di «risorse» intesa come complesso di opportunità economiche, materiali e immateriali, per le donne. Sarebbe troppo lungo, e forse pleonastico, offrire una rassegna completa di tutto il lavoro fatto da allora in avanti, e altri saggi presenti in questo volume offrono sguardi aggiornati su risorse come la mobilità territoriale, le capacità giuridiche e l’uso dei diritti, la costruzione gendered degli spazi; su attività lavorative percorse da profonde trasformazioni, come il servizio domestico; su ambiti come il mondo degli oggetti e le culture materiali. Cercherò quindi di presentare alcune diverse linee di ricerca tra quelle che si stanno sviluppando negli ultimi anni a partire dalla categoria complessa di «risorse delle donne», che mi sembrano aprirsi in modo particolarmente promettente sul futuro, con cantieri attualmente in corso. Lo sguardo si posiziona, come dichiarato nel titolo, principalmente da un punto di osservazione italiano, anche se nel secondo decennio degli anni Duemila è diventato difficile, e forse poco dotato di senso, distinguere in modo netto e definitivo la storiografia italiana delle donne da quella di altri paesi, in particolare europei. L’internazionalizzazione degli studi, il moltiplicarsi di occasioni di confronto e di produzione di ricerca in Europa e con storiche di altri continenti, e la circolazione delle nostre storiche nei laboratori internazionali della ricerca e dell’accademia le ha rese partecipi della vita di altre storiografie molto più profondamente di quanto non fosse due decenni fa, impegnate in cantieri di storia che analizzano in chiave comparata e sovranazionale la specificità delle diverse situazioni locali.24 Non è più possibile, oggi, ragionare in maniera esaustiva di storiografia esclusivamente per appartenenze nazionali, e dunque le riflessioni che seguono prenderanno in considerazione ricerche aperte anche su altri scenari storiografici in cui le storiche italiane hanno voce in capitolo, in costante dialogo in cantieri di storia innovativi sui temi della costruzione e dell’uso delle risorse economiche.25
8Il primo dei filoni su cui è interessante fermare l’attenzione è quello che riflette sulla presenza delle donne sui mercati, formali e informali, leciti e illeciti. Per il mondo del commercio sembra che stia accadendo oggi qualcosa di analogo a quanto si era verificato in passato a proposito dello studio dei mestieri corporati: si prende coscienza del fatto che le donne sono poco visibili attraverso la maggior parte delle fonti istituzionali, e, come è noto, per nulla rappresentate nelle istituzioni stesse, di cui sono tuttavia in molti casi le principali utenti e con cui interagiscono con più che quotidiana frequenza. Un solo esempio, molto eloquente: l’assordante silenzio sulle donne delle fonti di tipo annonario,26 laddove invece esse sono ben visibili nei food riots di età moderna, e talvolta prese in considerazione marginalmente dalla legislazione come autrici di trasgressioni e contrabbandi, contravvenendo alle regole e alle privative cittadine. In età contemporanea esse appaiono nei periodi di emergenza, ancora nelle rivolte, nelle vicende legate al razionamento. È in questo modo che si costruisce, anche riguardo al genere primario più diffuso, il pane, la figura della donna come consumatrice, mentre rimane nascosta quella della donna produttrice e commerciante, anche su piccola scala. L’assenza dalla rappresentazione delle istituzioni, in cui le donne non sono incluse per la loro condizione di minorità giuridica, si specchia nella loro ridondante presenza nel piccolo commercio al minuto, su cui torneremo tra poco, sempre informale, spesso illecito, e interroga sul bisogno sempre più pressante di prendere in considerazione gli aspetti non formalizzati dell’agire economico. La coesistenza di circuiti formali e informali, visibili e invisibili, dello scambio dei generi alimentari di competenza annonaria, rende infatti, in un senso più generale, problematiche le valutazioni quantitative di prezzi, tariffe, consumi27 basate esclusivamente su fonti istituzionali che tacciono sulle donne. Sulla questione degli effetti deformanti impressi alla ricerca storica sul lavoro dalla sottorappresentazione delle donne nelle fonti istituzionali ha richiamato l’attenzione Anna Bellavitis nel suo recentissimo volume sul Lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna28. Lo studio del lavoro corporato urbano, di cui l’autrice è specialista, e sul quale ha affinato uno sguardo capace di oltrepassare i limiti e le insufficienze dei documenti prodotti dalle istituzioni, compresi i corpi di mestiere, silenti o reticenti sulle donne, ha in questo saggio un ruolo di paradigma nei confronti dell’insieme della ricerca di storia economica e sociale sul lavoro in antico regime. Adottando un punto di vista di genere, il mondo dei mestieri, dell’artigianato, della bottega mostra attraverso il suo prisma i tanti nodi problematici collegati al lavoro femminile, ricchi di nessi e di ricadute sull’intera storia del lavoro. Includendo o escludendo, mostrandosi rigido o flessibile, mutando e trasformandosi esso ci mostra come l’intera produzione di reddito delle donne nelle città dell’età moderna avvenga in un delicato equilibrio tra pesi economici, identità pubbliche e private, ordine sociale, familiare e di genere.
9Come nel caso delle corporazioni, le donne nel commercio possono essere distinguibili “in trasparenza” nelle attività dei mariti: viventi, nel caso delle doti investite in fondi di negozio, con la preminenza del credito dotale e la conseguente iscrizione, nell’Ottocento, delle doti delle mogli dei commercianti presso i Tribunali di commercio;29 oppure con le istanze di separazione di doti in caso di cattiva amministrazione o di pericolo di dissesto dei commerci dei mariti (per proteggere questi ultimi dai creditori, o, viceversa, per mettere in salvo i propri beni);30 o ancora con le richieste di autorizzare l’alienazione dei beni dotali da parte della sposa, con lo scopo di farsi corrispondere l’importo promesso dalla famiglia, per poi investirlo nel fondo di negozio del marito e infine, in seguito alla morte di lui, ricondurlo nella disponibilità della vedova che continuerà a gestire l’attività, questa volta da sola.31
10Il caso di subentro delle vedove ai mariti defunti nell’esercizio del commercio, in quanto loro usufruttuarie e/o tutrici dei figli/ eredi, è comune e diffuso tra medioevo ed età contemporanea, e consente di sviluppare ricerche da numerosi punti di vista, da quello storico giuridico a quello economico e sociale. Lo status di mercantessa è connesso in maniera significativa al problema della capacità giuridica delle donne, sul quale gli studi di Simona Feci sull’età moderna hanno tracciato un ponte tra storia sociale delle donne e storia del diritto.32 Rispetto alle pratiche patrimoniali, in età moderna la posizione familiare (moglie, figlia) e quella professionale sono articolate fra loro su un terreno sfumato e duttile che consente spazi di negoziazione e di scelta. Su questo punto Beatrice Zucca Micheletto ha ricordato, sulla scia delle considerazioni di Marjorie McIntosh sul tardo medioevo e la prima età moderna,33 come questa condizione giuridica venisse chiamata in causa, a seconda del contesto, soltanto nei casi in cui fosse più conveniente rispetto alla condizione di “donna sposata” a un mercante,34 benché le donne fossero di fatto molto presenti nel settore del commercio, insieme ai mariti nel caso delle grosse ditte urbane, e da sole nel commercio al minuto. Una condizione, quella di mercantessa, che nell’Ottocento, pur mantenendo molte delle sue ambiguità, tende a precisarsi dal punto di vista normativo, e diventa quindi più visibile perché inclusa nei rilevamenti statistici, come dicono gli studi di Maura Palazzi sull’Italia tra Otto e Novecento sui dati censuari e delle Camere di commercio,35 ormai disponibili per quell’epoca.
11In antico regime, in un’economia che Jean Yves Grenier ha definito de l’echange et de l’incertitude,36 coesistono sistemi giuridici e normativi plurali, spesso in competizione tra loro, che permettono alle donne di beneficiare delle loro contraddizioni. Questa fluidità va chiamata in causa a proposito dei mercati e dell’organizzazione degli scambi, anche se è legittimo interrogarsi sull’adeguatezza delle categorie di formale e informale per capire e spiegarsene il funzionamento, a fronte di pratiche talvolta ambigue. Sta di fatto, però, che è proprio nell’ambito dell’analisi dell’economia ai limiti dell’informale, del piccolo e piccolissimo commercio, delle botteghe minori, che trovano spazio le più recenti piste di ricerca sulla presenza attiva delle donne nell’ambito della circolazione. Il commercio al minuto è oggetto in questi ultimi anni di uno specifico interesse da parte della storiografia economica e sociale in Italia: una recente Settimana di studi dell’Istituto Datini di Prato37 ha dato modo di incrociare studi su diverse aree urbane europee dal medioevo alla fine dell’età moderna. Il ruolo delle donne nel piccolo commercio è stato presentato da Zucca Micheletto nel quadro del contesto al centro dei suoi studi, la Torino della seconda metà del XVIII, che con le sue fonti ricche e ben conservate le ha consentito di collocare le pratiche economiche delle donne nell’ambito delle economie familiari e di articolate «strategie di coppia».38 Un’altra grande città italiana, Roma, e il ruolo del commercio al dettaglio tra gli immigrati nella capitale pontificia, come Torino meta in età moderna di notevoli flussi migratori, è al centro dell’attenzione di Eleonora Canepari,39 che lo ha focalizzato nell’insieme delle attività economiche delle donne nei percorsi di immigrazione nella città del Papa, mostrando la presenza signficativa delle rivenditrici, specie di frutta e manufatti alimentari come pasta e pasticceria, nel suo contributo40 al volume del 2013, Female Agency in the Urban Economy, frutto delle ricerche di una rete internazionale di storiche attive nello studio del Gender in the European Town.41 Una delle curatrici del volume, Anne Montenach, tematizzava, alla stessa Settimana Datini sul commercio al minuto, la questione del genere nelle reti di commercializzazione al dettaglio, con un contributo sulle donne nel commercio dei tessuti.42 Montenach è la storica francese che in questi anni ha proposto con più costanza nei suoi studi la presenza delle donne rivenditrici e attive in quei settori chiamati dell’economie sombre, o shadow economy, al confine non solo tra formale e informale, ma anche tra lecito e illecito. Proprio su questo terreno, ancora largamente inesplorato, si riscontrano presenze femminili che non è facile individuare, protagoniste di vari traffici e contrabbandi, attive nelle «economie della frontiera».43 Come quelle individuate da Silvia Marzagalli in azione nel porto di Livorno, accanto agli uomini, impegnate nel contrabbando di filtration, la frode douce che trasferisce piccole quantità di merci oltre le barriere doganali o utilizzando gli interstizi istituzionali e spaziali del porto franco;44 oppure quelle coinvolte a Stromboli nello smercio di frodo delle prede dei corsari siciliani.45 Si tratta a volte di ricerche già definite, a volte di tracce molto promettenti che necessitano di una attenzione metodologica particolare, basandosi su una pluralità di fonti, giudiziarie e di polizia, istituzionali, memorialistiche, che difficilmente possono consentire ricostruzioni quantitative ma che offrono la possibilità di acuti affondi nei case-studies.
12La seconda prospettiva di studi che mi sembra oggi particolarmente incoraggiante è quella che si focalizza sugli impieghi delle «ricchezze delle donne» (in particolare del denaro), sugli investimenti e sul credito. Di questo tema, dagli studi di Isabelle Chabot sulle doti fiorentine tra basso Medioevo e Rinascimento,46 fino all’Ottocento delle famiglie nobili bolognesi di Manuela Martini,47 l’aspetto finora meglio conosciuto è quello degli impieghi dotali. La dote, cioè, è sempre un credito nei confronti del marito, e quindi spesso un investimento nelle sue attività e un supporto al suo patrimonio, della cui gestione, e delle reti di relazione che vi sono connesse, si trova traccia nei testamenti. Il credito è un rapporto che salda concretamente le due fasi della devoluzione, quella che si situa nel ciclo di vita al momento del matrimonio, e quella che giunge al momento della morte. Da un’amplissima bibliografia sappiamo che la moglie dotata è la prima creditrice del marito. E non solo tra i ceti proprietari: la stessa presenza femminile nel mondo delle botteghe e dei laboratori è condizionata dal diritto a recuperare la dote, che conduce all’ingresso della vedova in maniera indipendente nell’attività artigianale/professionale lasciata dal defunto marito.48
13Una delle possibili chiavi di lettura del credito dotale è la complementarietà dei coniugi in strategie condivise. Come nel caso delle separazioni di beni, che possono nascondere la volontà di salvare dai creditori patrimoni e attività familiari ponendoli sotto lo scudo della preminenza del credito dotale, simmetricamente la solidarietà della coppia può emergere anche dalla rinuncia da parte della moglie a quel credito. Si tratta delle coppie in cui la moglie chiede al tribunale, insieme al marito, lo svincolo della propria dote per utilizzarla come ultima risorsa, alienandola definitivamente, come mostra una recente ricerca su Torino nel XVIII secolo che ricostruisce i percorsi di discesa verso l’indigenza di queste coppie, e i loro tentativi di salvataggio attraverso l’impiego della dote messa a disposizione dalla moglie.49 Vi è però anche una prospettiva diversa, che valorizza e sottolinea invece l’agency delle donne, la loro autonomia nel gestire le proprie risorse, finanziarie e non. Si tratta di un tema presente come un fiume carsico nella storiografia italiana delle donne già dai tempi del volume sul Lavoro delle donne, dove Renata Ago mostrava le modalità con cui le donne mettevano a frutto i beni extradotali, prestando tra l’altro denaro e oggetti.50 La stessa Ago, nel suo libro Il gusto delle cose,51 aveva inserito il noleggio e il prestito di oggetti, praticati, anche se non unicamente, in maniera significativa dalle donne, tra gli aspetti importanti non solo per comprendere le diverse articolazioni tra valore d’uso e valore di scambio e la storicità del rapporto che i diversi generi hanno con le cose,52 ma anche un aspetto rilevante dell’intero funzionamento dell’Economia barocca53 e di tutti quei contesti in cui la moneta circolante è poca, e quindi il denaro non è l’unica misura della rendita. L’importanza dei prestiti di indumenti e gioie fatti dalle donne, come quelli rintracciati, tra medioevo ed età moderna, sempre a Roma, da Anna Esposito,54 non è soltanto cerimoniale, ma anche economica, come hanno mostrato gli studi di Maria Giuseppina Muzzarelli sia sulla storia del vestiario che sul credito su pegno:55 come sappiamo, gli abiti e la biancheria del trousseau sono alla base anche del movimento inverso, le richieste di credito fatte dalle donne ai monti di pietà e a privati usurai e usuraie. Tuttavia gli aspetti simbolici e rituali spesso vi si intrecciano, come aveva indicato Christiane Klapisch anche per quei contesti, come la Firenze rinascimentale, dove sono invece gli uomini a gestire gli scambi di capi d’abbigliamento preziosi.56 In un suo intervento pubblicato nel recente volume a cura di Giovanna Petti Balbi e Paola Guglielmotti, Dare credito alle donne: presenze femminili nell’economia tra medioevo ed età moderna,57 Anna Bellavitis sottolineava appunto la compresenza tra il versante simbolico e quello economico, scrivendo che «non è facile distinguere una nozione ideale-metaforica di credito da una nozione concreta e finanziaria, poiché ovviamente le due cose andavano insieme».58
14Tra medioevo/età moderna ed età contemporanea si riscontrano, in chiave comparativa, continuità significative anche per quanto riguarda quelle forme creditizie che le donne gestiscono non più impiegando gli oggetti legati al corpo e alla persona – che, come ha mostrato Sandra Cavallo, sono più facilmente disponibili59 – ma proprio il denaro. Esse infatti sono attive, malgrado le limitazioni – ovviamente diverse per tempi e luoghi – che il diritto impone loro, anche sul mercato dei crediti in denaro. La presenza delle donne nella concessione di prestiti, a privati o a enti, ne segnala il rilievo non soltanto su un piano pratico-economico, ma spinge a riflettere anche sulla loro capacità di agire non sempre e non solo in funzione delle esigenze familiari. Alle moltissime donne comuni che riconoscono nei testamenti i crediti informali concessi e ricevuti si aggiungono figure di ricche prestatrici, di soggiogatarie nei debiti pubblici delle città, di acquirenti di immobili ceduti con patto di retrovendita (una forma dissimulata di prestito a interesse), di donne che investono in depositi fruttiferi presso privati, dalle piccole somme delle popolane a quelle assai più consistenti delle donne agiate.60
15È un tema caro da tempo ad Angiolina Arru, che se ne è occupata in diverse occasioni, tra le più recenti curando con Maria Rosaria De Rosa il numero di «Quaderni storici» dedicato a Debiti e crediti,61 dove appare un importante contributo di Laurence Fontaine – una delle storiche più attive su questo tema – sul Posto delle donne nella piccola economia finanziaria in età moderna;62 o nel volume curato assieme a Franco Ramella su L’Italia delle migrazioni interne, in cui il saggio di Arru ricostruisce, tra l’altro, le reti femminili nella circolazione del denaro tra gli immigrati.63 In età contemporanea, divengono visibili le figure meno rassicuranti delle prestatrici e delle usuraie, come le “imprestatrici” napoletane del XIX secolo,64 oppure quelle che troviamo negli studi di Gabriella Gribaudi sulle donne nei traffici criminali ancora a Napoli;65 ma il credito assume anche la forma di investimento, come per quelle donne che nell’Ottocento impiegano denaro nelle sigurtà e nei cambi marittimi, pienamente immerse nelle economie dei porti e dei centri costieri,66 o in titoli del debito pubblico, prima e dopo l’Unità. Certamente l’individuazione di tali figure e di tali attività, inserite nei grandi numeri dei fondi notarili, dei tribunali di commercio, degli uffici del registro,67 specie al momento di oltrepassare la ricognizione quantitativa per passare alla ricostruzione di percorsi e reti, richiede un grande investimento di lavoro, e domande che ad oggi sono in corso di elaborazione. Ma la ricerca di oggetti nuovi e di domande nuove è un’ottima notizia per la storia delle donne.
Bibliographie
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BIBLIOGRAFIA
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Notes de bas de page
1 Groppi 1990.
2 Groppi 2003, p. 104.
3 Groppi 1990b.
4 Groppi 1996.
5 Sui secc. XIX-XX, v. Sarti 1999; ma anche, in una prospettiva comparata a livello europeo e di più lungo periodo, Simonton 1998.
6 Clark 1992 (1919).
7 V. le ricognizioni storiografiche di Groppi 2004 e Curli 2004, e anche Bellavitis 2002.
8 Laudani 2004.
9 Cerutti 2002.
10 Scott 1991.
11 Smith 1981.
12 De Giorgio, Klapisch-Zuber 1996.
13 Scott 1991b.
14 Pomata1983.
15 Kaplan 1988.
16 Buchner – Hoffmann-Rehnitz (a cura di) 2011
17 Mi riferisco alle strategie di ricongiungimento dei fondi nelle aziende contadine studiate da Levi 1985, in part. le p. 44-82
18 Ago 1992
19 Calvi 1994
20 Seidel Menchi – Quaglioni 2000, 2001, 2004, 2006. Una sistemazione comparativa relativa all’Europa, che tiene conto di buona parte di quella esperienza, è oggi in Seidel Menchi 2016.
21 Palazzi 1998, 1990.
22 Presente anche come autrice in Groppi 1996, Pescarolo 1996.
23 Pescarolo 1999, 1990.
24 Martini – Borderias, Genesis 2016.
25 Le relazioni scientifiche tra Francia e Italia su questi temi sono particolarmente intense.
26 Unica eccezione, per quanto mi risulta, il caso di Ragusa in età moderna, dove nel Cinquecento le pancocolae, cuocitrici pubbliche di pane, erano molto numerose: D’Atri 2012 p. 54.
27 Martinat 2012.
28 Bellavitis 2016.
29 Scardozzi 1998.
30 Fazio 1998, Zucca Micheletto 2015.
31 Zucca Micheletto 2014, 2011.
32 Feci 2004.
33 McIntosh 1986.
34 Zucca Micheletto 2015, p. 153-154.
35 Palazzi 2002. Sulle questioni di genere implicate nella statistica postunitaria sul lavoro in Italia, v. Patriarca 1998.
36 Grenier 1998.
37 Nigro 2015.
38 Zucca Micheletto 2015.
39 Canepari 2015.
40 Canepari 2013.
41 http://www.sdu.dk/en/om_sdu/institutter_centre/ih/forskning/forskningsnetvaerk/gender_in_the_european_town
42 Montenach 2015a.
43 Tra gli altri, Montenach 2015b.
44 Marzagalli 1999.
45 Fazio – Foti 2013. Il caso dell’isola di Stromboli è analizzato alle p. 532-535.
46 I suoi numerosi studi sono confluiti in Chabot 2011.
47 Martini 1998.
48 Groppi 2003 p. 110.
49 Cuccia, 2014. Sulla stessa pratica in una comunità rurale della Sicilia dell’Ottocento, Fazio 1987.
50 Ago 1996.
51 Ago 2006.
52 Cavallo – Chabot 2003; ma v. anche Feci 2003, Allegra 2003, Ago 2003, Arru 2003.
53 Ago 1998.
54 Esposito 2012.
55 Una sintesi mirata sull’intreccio tra i due aspetti in Muzzarelli 2012.
56 Klapisch-Zuber 1988.
57 Sul tema del volume, cfr. Petti Balbi 2012.
58 Bellavitis 2012, p. 261.
59 Cavallo 1998.
60 Per il periodo medievale, si veda ad esempio Mulè 2012. Ma per una visione più estesa nel tempo, si rimanda di nuovo alla ricognizione di Petti Balbi 2012.
61 Arru – De Rosa – Muldrew 2011.
62 Ibid., p. 513 -532.
63 Arru 2003.
64 Avallone 1995, p. 30.
65 Gribaudi 2010.
66 Avallone – Salvemini 2015, p. 6-7.
67 Licini 2009.
Auteur
Università degli Studi di Palermo
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