Ripensare il “politico” :
Genere e sfera pubblica nella storia politica statunitense
p. 265-283
Résumé
The US historiography in women’s and gender history is so huge that it is impossible to synthetize it. Therefore, in my article I will focus on three major points. First of all, what I would like to emphasize is the rise of a political women and gender history which has exercised a crucial influence on political history as such. Women and gender history have played an important role in criticizing the so-called presidential synthesis by underlining the importance of an approach bottom-up even in the political field. Secondly, I would like to point out how one of the most interesting trends of US women and gender history is the focus not only on American women movements, i.e. the suffrage movements or the second-wave feminist movements, but also on benevolent and civic women associations that not always could be defined as feminist. Focusing on those associations helps us to have a more complete view of how, in many cases, the language of rights, on the one hand, and the maternalist and moral languages, on the other, instead of being in mutual opposition, have been interrelated with the concrete activism of women associations. In this context, a more complex view on the relationship between white and Afro-American women has been offered by historiography. The third and last point concerns the ongoing attention towards transnationalism as a category useful to understand American women’s activism from the Revolution period on.
Texte intégral
1Mi sarebbe piaciuto interessarmi della «real solemn history», confessava la protagonista di Northanger Abbey di Jane Austen, ma una storia fatta solo di «quarrels of popes and kings, with wars or pestilences, in every page; the men all so good for nothing, and hardly any women at all – it is very tiresome».1 È ancora così si è chiesta la storica politica statunitense, ed esperta di storia europea, Karen Offen? La sua risposta è stata: «No longer only that».2
2Questo intervento non vuole tanto offrire una panoramica della produzione storiografica statunitense degli ultimi venticinque anni – impresa che risulterebbe piuttosto ardua vista la mole dei lavori apparsi –, ma soffermarsi su alcune questioni che, a mio avviso, possono dare conto del modo in cui l’incontro della storia delle donne e di genere con la storia politica abbia negli Stati Uniti (e non solo) contribuito al ripensamento del «politico» come ambito diverso, seppure collegato, da quello dell’esercizio della «politica». Mi riferisco, qui, alla tesi di Pierre Rosanvallon secondo il quale «fare riferimento al politico e non alla politica significa parlare del potere e della legge, dello Stato e della nazione, dell’uguaglianza e della giustizia, dell’identità e delle differenze, della cittadinanza e dell’essere civile, insomma, di tutto ciò che costituisce una polis al di là del terreno immediato della competizione partigiana per l’esercizio del potere, dell’azione quotidiana del governo e della vita ordinaria delle istituzioni» .3 Oltre a definire in termini ampi e plurali il «politico», la storia delle donne e di genere ha contribuito anche a una ridefinizione dello «spazio» del politico, sempre più soggetto a sfide interne ed esterne per la crescente differenziazione tra potenza e territorio, individuando nello spazio transnazionale uno dei terreni privilegiati di indagine.
Oltre la «presidential synthesis»
3L’incontro tra storia politica e storia delle donne e di genere è relativamente recente e si situa nel momento in cui la storia politica ha cominciato ad emergere dal declino che l’aveva caratterizzata a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Furono quelli gli anni che videro, infatti, gli attacchi portati dalla storia sociale e da un dibattito storiografico che criticava la cosiddetta «presidential synthesis», una storia politica incentrata fondamentalmente sulle élite bianche e maschili, sui presidenti e sui grandi leader politici.
4Dopo un primo tentativo negli anni Ottanta, ad opera soprattutto degli storici della new political history che, utilizzando categorie proprie delle scienze sociali, mettevano l’accento sui comportamenti politici, sulle strutture di partito, sui comportamenti elettorali, è stato soprattutto l’introduzione, nel dibattito statunitense, del concetto di sfera pubblica, grazie al contributo del sociologo Craig Calhoun che riprendeva il lavoro di Jurgen Habermas, a imprimere una vera svolta per il risorgere, per alcuni in realtà ancora relativo, della storia politica4. A partire dagli anni Novanta, nuovi e significativi contributi sono infatti apparsi sul tema della cittadinanza e sui suoi confini etnici e razziali, sulle politiche sociali e sulle traiettorie del welfare statunitense, sui movimenti sociali, sulle modalità formali e informali dell’azione politica di gruppi, movimenti, associazioni che non necessariamente si risolvevano all’interno dei partiti, ma riguardavano, come ha messo in luce Robyn Muncy5, coffee klatch dei sobborghi urbani, i saloni di bellezza, i jazz club.
5Una storia politica che è risultata progressivamente sempre più permeabile dai diversi «turns» che hanno riguardato il dibattito storiografico statunitense e in particolare dal linguistic e dal cultural turn che hanno indotto a prestare attenzione ai processi discorsivi, alle rappresentazioni, ai processi di costruzione dell’immaginario politico, ai temi delle identità. A cui occorre aggiungere una progressiva attenzione alla dimensione internazionale e transnazionale che ha permesso di considerare in modo più fluido i confini fra ambiti della politica interna e internazionale.
6Come si inserisce il genere in tutto questo visto che, come insegna Joan Scott, non solo «gender constructs politics», ma «politics constructs gender» ?6 Da un lato, lo spostamento dello sguardo dalle istituzioni formali della politica (istituzioni e partiti politici) al contesto più ampio e flessibile della sfera politica e verso ambiti ritenuti non considerati immediatamente politici, ha permesso di rendere visibile il protagonismo politico delle donne e anche di quelle minoranze etniche e razziali che erano rimaste ai margini della politica formale e del discorso storiografico.
7Dall’altro, l’attenzione posta sulla cultura politica, sulle modalità informali della politica, sul diverso posizionamento nella sfera pubblica, sono tutti elementi che hanno reso evidente come l’utilizzo della categoria di genere abbia permesso di illuminare le complesse interazioni che permeano le relazioni sociali e politiche, come pure quello di rendere chiare le aporie e le asimmetrie della democrazia statunitense.
8Da questo punto di vista, un saggio seminale può essere considerato quello di Paula Baker del 19847. La storica statunitense metteva in luce come, fin dalla rivoluzione, le donne avessero utilizzato, anche in modo pionieristico e innovativo, diverse modalità per influenzare l’azione di governo al di là dei normali canali elettorali dai quali, peraltro, vennero immediatamente escluse. Soprattutto, dimostrava come l’azione delle donne nello spazio pubblico, pur in nome del principio di separazione delle sfere, si era prodotta all’interno di una relazione dialettica con i processi di espansione dello stato su terreni come quelli della povertà, prostituzione, istruzione, immigrazione. Fu all’interno di tale contesto che si aprirono spazi inediti per l’azione femminile visto che, già a partire dall’inizio dell’800, come effetto del Secondo Risveglio Religioso, le associazioni filantropiche e caritatevoli furono segnate da un processo di femminilizzazione per quel che riguardava la loro composizione e struttura organizzativa interna. Legittimate dall’ideologia delle sfere separate che rendeva il linguaggio «morale» strumento di azione pubblica, le donne videro nel contesto filantropico un terreno privilegiato di intervento nello spazio pubblico, approfittando degli interstizi di un sistema che rendeva porosi i confini fra pubblico e privato. Le politiche statali ottocentesche, infatti, affidavano proprio alle associazioni filantropiche compiti di natura pubblica (dalle prigioni agli asili per le donne sole o per gli orfani), attraverso lo strumento della «incorporation» (la concessione di «charter»). Invisibili o «civilly dead», in nome della coverture, le donne, in quanto membri di «individui collettivi» (le associazioni) venivano invece riconosciute dallo stato8. Un paradosso denso di potenzialità per l’agire femminile e che favorì lo sviluppo di una cultura politica delle donne che usava linguaggi e codici comunicativi specifici (il linguaggio della «moralità» e della domesticità) differenziati da quelli della sociabilità politica maschile sempre più associata alla forma partito. Perché ciò potesse risultare visibile all’indagine storica, avvertiva Baker, occorreva utilizzare una definizione più inclusiva di politica di quella in auge all’epoca. Inoltre, sosteneva che la differenza di genere rappresentasse una divisione importante della politica americana perché uomini e donne operavano all’interno di distinte subculture politiche, ognuna delle quali aveva le sue proprie basi di potere, modalità di partecipazione e obiettivi.
9L’articolo di Baker gettava quindi un macigno nello stagno della storia politica americana, contribuendo a creare le condizioni per quell’allargamento semantico di politica che sarà poi veicolato dal concetto di sfera pubblica. La sua ipotesi di una dicotomizzazione della politica ottocentesca, segnata dalla differenza di genere, risulterà estremamente produttiva per mettere in discussione una visione schematica del nesso inclusione/esclusione che non rendeva giustizia a una presenza politica delle donne che aveva riguardato sia l’ambito locale e comunitario sia quello nazionale per la rilevanza crescente assunta dalle associazioni caritatevoli e filantropiche. Furono quest’ultime, infatti, ad costituire spesso il luogo di formazione politica delle donne, come nel caso della Women’s Christian Temperance Union e delle sue battaglie contro l’alcolismo a cui si associavano però temi come la giustizia sociale, il problema della povertà delle donne e infine, la questione del voto9.
10Insomma, gli studi sulla storia delle donne e di genere hanno permesso di dimostrare come, già nell’Ottocento, i partiti politici non includessero tutto lo spettro delle modalità dell’agire politico e come si dovessero fare i conti con differenti stili e linguaggi politici. Da qui, la necessità di rivedere e rileggere la storia delle politiche pubbliche, del welfare state e del modo stesso attraverso il quale si è articolato lo sviluppo dello stato americano. Ne prese atto, negli anni Novanta, uno storico dei partiti politici come Michael McGerr, mettendo a confronto i diversi stili politici, maschile e femminile, presenti nella politica americana ottocentesca.10
11Ne è risultato, inoltre, anche un altro nodo soggetto a discussione, sintetizzato da Mary P. Ryan come: «Man is not to public as woman is to private»11. La dicotomia pubblico/privato deve essere calata in una complessa mappa concettuale capace di rendere visibili le diverse stratificazioni e articolazioni a seconda del posizionamento sociale, culturale, geografico, di classe, razza ed etnia di uomini e donne. Da questo punto di vista, republican wives, madri, fondatrici delle società filantropiche femminili devono essere considerate, non soggetti di uno spazio privato, ma attrici politiche, portatrici di visioni diverse della modernità politica, frutto della cultura politica delle donne.
12Sulla scia dei lavori pionieristici di Baker e Ryan, gli studi di storia delle donne e di genere hanno avuto un ruolo cruciale, a mio avviso, nel rinnovamento degli studi sui processi di costruzione e sviluppo dello stato americano. Soffermandosi sulle linee porose fra pubblico e privato che, come si è accennato sopra, avevano permesso alle associazioni femminili ottocentesche di giocare un ruolo significativo nella costruzione ottocentesca dello stato, questi studi hanno contribuito a offrire nuove prospettive di indagine, inserendosi nel dibattito storiografico sulle forme e la natura dello Stato americano12. Gli studi delle storiche hanno messo in luce come la relazione fra attivismo femminile e strutture statali non venne meno neppure quando si avviarono, tra Otto e Novecento, quei processi di modernizzazione che trasformarono il volto dello Stato americano stesso. Le nuove strutture amministrative di regolamentazione, per esempio, create a livello locale e nazionale (commissioni indipendenti prima e agency poi) continuarono ad avvalersi del contributo del «privato» che nell’azione amministrativa vide un modo per incidere direttamente sui processi decisionali13. I rapporti tra women’s club, social workers, associazioni civiche con leadership femminile e le nuove strutture di regolamentazione hanno permesso di illuminare i modi in cui si riplasmavano, in modo complesso e a geometria variabile, le dinamiche di inclusione ed esclusione, ma anche le diverse articolazioni dei dispositivi di potere, se non di dominio sulla base dell’intreccio di genere, classe, razza ed etnia14.
13Infatti, gli studi di genere hanno dimostrato come lo stato americano, oltre che essere a «bassa intensità» o privilegiare l’azione «infrastrutturale »15, presentava non pochi aspetti coercitivi ed escludenti. Margot Canaday16, ad esempio, ha messo in luce in che modo i burocrati americani, nel clima repressivo della «domestic cold war», avessero recepito e riprodotto la categoria di «omosessuale», naturalizzando e legittimando la contrapposizione binaria fra omosessualità ed eterosessualità, attraverso le norme della legge sull’immigrazione del 1952 che dovevano impedire l’ingresso di omosessuali nel paese17.
14Non solo, sia gli studi sul welfare, sia quelli che mettono l’accento sulle leggi emanate su temi come la prostituzione, il divieto dei matrimoni interrazziali, l’uso della contraccezione obbligatoria per le donne povere e afroamericane, solo per fare qualche esempio, sottolineano i molteplici dispositivi di potere e di dominio che hanno contraddistinto l’azione dello stato americano, nelle sue diverse articolazione e attraverso l’ausilio di associazioni e gruppi «privati »18.
15Proprio l’uso della categoria di genere, assieme a quelle di classe, etnia e razza – o meglio del concetto di «intersezionalità»19 – ha permesso, quindi, alla storiografia politica di rivedere la vulgata dello stato americano come assente o debole, per mettere in luce invece come lo stato americano sia stato forte, soprattutto in relazione ad ambiti come quelli del controllo del corpo, della riproduzione, e della sessualità20.
Non solo Stato e partiti: il ruolo della «voluntary politics»
16Dagli studi sulle associazioni abolizioniste di inizio Ottocento fino a quelli più recenti che mettono l’accento sul ruolo delle associazioni e dei gruppi nelle politiche locali e nazionali che riguardano i temi dell’ambiente, della difesa dei consumatori, delle politiche di natalità, fino all’affermazione dei diritti delle donne lesbiche e dei gruppi LGBTQ, questo mi pare il terreno più denso di ricerche da parte degli studi di storia politica e di genere negli Stati Uniti21.
17Molte sono le ragioni per una costante attenzione a questo aspetto specifico di attivismo femminile e, in questa sede, non posso che indicarle sinteticamente.
18Innanzitutto, credo che proprio l’indagine di queste forme di attivismo permetta di rendere evidente l’intreccio fra modalità formali e informali attraverso cui si è prodotta una vera e propria agency politica delle donne – dalle donne rurali che nello Stato di New York, dieci anni prima di Seneca Falls firmarono una petizione per chiedere l’uguaglianza dei diritti a quelle appartenenti alla Young Women Christian Association che a livello locale negli anni ’60 del ’900 affrontavano i temi della sessualità e del cambiamento delle norme sessuali.
19Un secondo motivo, proprio guardando alle dinamiche locali, mi pare risieda nel fatto che l’indagine storiografica abbia reso maggiormente visibili le modalità di azione delle donne afroamericane, immigrate, latina, delle donne lavoratrici, come pure delle donne lesbiche e transgender e le complesse dinamiche con le donne bianche di classe media che sembravano essere state le protagoniste dei primi lavori e dello stesso saggio di Paula Baker.
20In ultimo, questo è il terreno dove più evidente appare il fatto che quando parliamo di attivismo politico femminile dobbiamo anche tener conto della crescente azione delle associazioni e delle donne che «resistono» ai cambiamenti prodotti dallo sviluppo del movimento femminista o che, a partire dagli anni Quaranta del ’900 e poi soprattutto dagli anni Settanta, in nome della rivolta antifiscale e in opposizione alle politiche newdealiste, aderiscono al nuovo movimento conservatore, contendendo ai gruppi femministi e progressisti la scena politica.
21Tema complesso, quest’ultimo, e a volte non facilmente inseribile nella dicotomia progressismo/conservatorismo o femminismo/ antifemminismo, come dimostra la figura di una delle donne che agirono a livello grassrooots, Vivien Kellems, che alimentò la rivolta antifiscale nel 1944. Kellems, spiegando perché ricorreva alla disobbedienza civile in ambito fiscale, affermava: «This is a one-woman tea party», con riferimento all’episodio della rivoluzione americana (richiamato dagli oppositori della riforma sanitaria di Barack Obama nel 2009), invitando tutti, poi, a mettersi gli abiti di guerra indiani, dipingersi la faccia e unirsi a lei nella battaglia per le libertà americane22. Kellems era però una tipica esponente di quel movimento libertario, più che conservatore, che la portò anche a battersi contro quelle forme di discriminazione giuridica che riguardavano le donne sposate o a lottare per permettere alle donne di accedere a posizioni qualificate nelle industrie elettriche, o infine che si batté per l’approvazione dell’Equal rights amendment, l’emendamento sulla parità dei diritti che, a partire dagli anni Venti del ’900, costituiva un terreno trasversale di lotta per le donne americane e che naufragò definitivamente negli anni ’80.
22Vera e propria madre del moderno conservatorismo americano è stata, invece, Phyllis Schlafly, il cui pluridecennale impegno politico a livello interno e internazionale (è morta nel settembre 2016 dopo aver dato l’endorsement alla candidatura di Donald Trump) ha mostrato una capacità di agency delle donne conservatrici che merita di essere indagata in quanto, come sostiene Karen Offen, frutto del costante dialogo/scontro con l’attivismo politico femminista23. Schlafly è stata la più accanita oppositrice, a differenza di Kellems, dello Equal rights amendment e proprio la battaglia su questa proposta dimostra come in realtà gruppi conservatori e gruppi femministi finivano per condividere modalità e terreni di azione comuni. Fra tutti, la costante attenzione alla permeabilità fra ambito interno e ambito internazionale. La rappresentazione plastica della contrapposizione fra conservatrici e femministe, su una questione di politica interna, ma che si nutriva di processi messi in atto dentro lo spazio internazionale, si ebbe a Houston nel 1977. In ottemperanza agli impegni presi alla Conferenza di Città del Messico del 1975, che aprì il cosiddetto Decennio delle Donne, venne organizzata, infatti, una Conferenza nazionale delle donne, finanziata con fondi federali, che divenne palcoscenico privilegiato soprattutto per i gruppi conservatori e religiosi guidati da Schlafly24.
23Inoltre, l’esame dell’attivismo femminile grass-roots se da un lato contribuisce a gettare luce sui dispositivi di potere che hanno riguardato i rapporti fra le donne statunitensi sulla base dei criteri di classe, etnia e razza (a partire dal concetto di domesticità e delle sue implicazioni imperiali25), dall’altro permette anche di individuare forme di collaborazione e di solidarietà fra donne appartenenti a classi e a identità etnico-razziali diverse. Così, se la riflessione teorica femminista ha messo in luce le fratture e i conflitti, per esempio fra il femminismo bianco e quello afroamericano, sul terreno delle lotte specifiche, le divisioni, pur esistenti, non hanno impedito forme di solidarietà e di cooperazione26.
24Da questo punto di vista ha altresì permesso di mettere in discussione una narrazione che ha voluto vedere l’emergere del femminismo afroamericano come successivo e in reazione al femminismo radicale bianco27. L’accento posto sulla dimensione locale e associativa ha teso in realtà a valorizzare le radici «lunghe» dell’attivismo femminile afro-americano, grazie alle ricerche sull’associazionismo filantropico prima e comunitario poi che, anche per le donne nere, ha costituito terreno privilegiato di formazione politica28.
25Più in generale, ciò che risulta ormai priva di rilevanza storica è una periodizzazione classica basata sul concetto di «ondata». Lo spostamento dello sguardo dalla lotta per il suffragio a una molteplicità di espressioni di attivismo grass-roots, ha reso evidente come l’impegno politico delle donne non venne meno dopo la conquista del voto nel 1920. Semmai, occorrerebbe indagare di più le ragioni per cui tale attivismo finì per concentrarsi su alcuni ambiti – pace, diritti delle donne lavoratrici, difesa dei consumatori che significava però investire questioni di giustizia sociale. Da questo punto di vista, alcune biografie sono particolarmente illuminanti come quella che riguarda la fondatrice stessa della storia delle donne negli Stati Uniti, Gerda Lerner. Arrivata negli Stati Uniti nel 1939 da Vienna, attivista politica e sindacale, leader del Congress of American Women, collaborò con le attiviste afroamericane. Prima ancora di ottenere il dottorato alla Columbia University con una tesi sulle sorelle Grimké, nel 1962 aveva tenuto il primo corso di storia delle donne alla New School for Social Research29. Lerner distrusse i documenti del Congress of American Women come atto di difesa nei riguardi delle politiche maccartiste, a dimostrazione degli ostacoli che un certo tipo di attivismo femminile incontrò nel clima di guerra fredda. D’altro canto, proprio l’accanimento dei comitati sulle attività anti-americane dà conto della forza della presenza politica delle organizzazioni femminili, particolarmente evidente già a partire dalla formazione del Dies Committee nel 1938.
26C’è un ulteriore aspetto che mi pare emerga proprio in connessione con l’importanza dell’indagine storica sull’attivismo grass-roots, vale a dire, di nuovo, una riarticolazione, in modo più complesso e dialettico del rapporto tra femminismo «maternalista» (o social feminism) e femminismo «equal rights», a volte eccessivamente contrapposti fra loro, nonostante l’indubbio conflitto che ha avuto effetti importanti sul movimento sia dentro sia fuori gli Stati Uniti (come nel caso dei dibattiti all’interno della Commission on the Status of Women delle Nazioni Unite)30.
27Di nuovo, ciò che emerge dall’indagine storica è un quadro più sfaccettato in cui il discorso sulla parità dei diritti si è spesso intrecciato con quello maternalista. La messa in gioco nello spazio pubblico di costruzioni discorsive incentrate di volta in volta sulle parole d’ordine della cura, della protezione non ha significato necessariamente negare l’agency e la soggettività individuale e collettiva31. Quando, per fare un esempio, nel 1947 ad Harlem le donne afroamericane sostenevano attivamente le azioni del Consumers’ Protective Committee, lo facevano come Harlem Housewives League, ma anche come «citizen consumers» che si battevano contro qualsiasi forma di discriminazione, da quella economica a quella razziale32. Un discorso analogo è emerso anche dalla ricostruzione di episodi più recenti, come quello studiato da Jessica Wilkerson sull’azione delle donne nei riguardi delle politiche restrittive messe in atto dalle compagnie minerarie in Harlan County, Kentucky negli anni ’70 del ’900. Le donne della contea si mobilitarono in quanto working-class caregivers, non come femministe, spinte dal fatto che nei loro confronti le compagnie minerarie non avrebbero potuto mettere in atto misure di ritorsione, come sarebbe invece successo per i lavoratori. E tuttavia le loro richieste apparivano oltremodo radicali in un contesto di smantellamento delle politiche regolatrici proprie di quegli anni: rivendicavano nei confronti delle compagnie minerarie non solo migliori condizioni economiche e il riconoscimento del sindacato, ma anche maggiore attenzione all’ambiente, case migliori e miglioramento delle condizioni lavorative degli operai maschi perché questo avrebbe alleviato il loro carico di cura. Una battaglia che mise assieme tre generazioni di donne, a partire da quelle che negli anni Trenta avevano partecipato ai grandi scioperi promossi dalla United Mine Workers of America33.
28Forse, proprio a partire dalla ricchezza di studi e ricerche sull’attivismo femminile grass-roots si dovrebbe ritornare a prestare attenzione a quella politica «formale» che è finita per diventare ambito di ricerca della scienza politica più che della storia: il rapporto fra donne, istituzioni, partiti, su cui, tutto sommato, sappiamo ancora poco34.
29L’attenzione alla soggettività e ai percorsi individuali come espressione delle relazioni fra donne ha, invece, portato a privilegiare il lavoro sulle biografie politiche. La lente dei percorsi individuali sembra più capace di dare conto di processi collettivi più generali35. Come ha sostenuto Alice Kessler-Harris, autrice di un bel volume su una figura controversa e suggestiva come Lillian Hellman:
30My task has been to see how the life of a single woman can help us to understand some of the salient contradictions of a challenging century by highlighting the thorny situations that Hellman faced… I seek not only to explore how the world in which Hellman lived shaped the choices she made, but to ask how the life she lived illuminates the world she confronted.36
Tra interno ed esterno: la dimensione inter e transnazionale
31In un suo intervento sullo stato della storia politica negli Stati Uniti, Kathryn Kish Sklar dichiarava che la vera novità degli ultimi anni è stato lo sviluppo di una «new International political history», rappresenta una sfida per quel che riguarda l’uso delle fonti, delle categorie di analisi, degli schemi concettuali più appropriati.
32Kathryn Kish Sklar, promotrice assieme a Thomas Dublin dell’archivio e del database online, Women and Social Movements, International 1840 to the Present, che raccoglie materiali provenienti da più di 300 fondi archivistici, è anche l’autrice, assieme a James Brewer Stewart, di un volume che esemplifica il nuovo approccio, Women’s Rights and Transatlantic Antislavery, del 2007. Sulla scia del ripensamento dello spazio atlantico avviato, pur da prospettive diverse, da Bernard Bailyn e Paul Gilroy37, il volume curato da Kish Sklar e Stewart ha visto nello spazio atlantico il luogo dove, attraverso la partecipazione a sette della dissidenza protestante, ad organizzazioni volontarie, a friendship networks si crearono le basi per la creazione di reti e la circolazione di idee e di saperi fra donne delle due sponde dell’Oceano, che costituirono le premesse per nuove forme di un attivismo politico di carattere transnazionale. Tra la fine del ’700 e gli inizi del XX secolo si posero, infatti, le basi per la creazione di una vera e propria «Atlantic community sisterhood »38, accomunata dall’adesione a concetti, linguaggi sia femministi sia non femministi, forme di attivismo e che diede forma, secondo Margaret McFadden, a una vera e propria «matrice», nel senso matematico del termine, vale a dire come ciò da cui si sviluppava e poteva espandersi una struttura39.
33Questa crescente attenzione alla dimensione transnazionale dell’attivismo femminile statunitense, da un lato è il risultato dell’impegno politico del movimento delle donne statunitense in ambito internazionale. Secondo Christine Stansell, con la vittoria di Ronald Reagan nel 1980 e l’avvento dell’egemonia conservatrice, i movimenti delle donne da una parte si ritirarono nelle nicchie, spesso accademiche, della cultura, delle arti e del sapere, dall’altro essi «reorient political ambitions to women’s movements abroad. Stymied at home, American feminists projected themselves onto a global stage»40. Scelta favorita anche dal fiorire di un movimento transnazionale e globale delle donne che le grandi conferenze promosse dalle Nazioni Unite sui diritti delle donne rendevano visibile nello spazio internazionale41. Dall’altro lato, questa attenzione si inseriva e diveniva parte integrante di un processo di riflessione storiografica che, a partire dagli anni ’90, aveva cominciato ad affrontare le questioni relative allo spazio-nazione e alle sue aporie. Thomas Bender invocava la necessità di sprovincializzare la storia americana, di mettere al centro della narrazione storica il confine, visto sia come simbolo del nesso inclusione/esclusione sia come attraversamento di popoli e idee nello spazio e nel tempo. Il termine «transnazionale» fu quello che sembrava meglio esprimere le nuove domande di ricerca e che faceva riferimento al modo in cui era stato utilizzato, nel 1916, dall’intellettuale progressista Randolph Bourne che aveva parlato di una «Trans-National America».42
34Tuttavia, è stata proprio la categoria di genere a rendere possibile la pratica di una storia internazionale o transnazionale, perché alle storiche che utilizzavano questa categoria analitica per comprendere l’insieme delle idee alla base della politica nazionale, apparve subito evidente che il solo modo di utilizzarla in modo efficace fosse quello guardare attraverso le culture piuttosto che all’interno di un singolo assetto culturale43.
35Anche in questo caso, l’impatto del linguistic e del cultural turn, come pure degli studi postcoloniali, ha fatto sì che la dimensione politica, basandosi sulla definizione foucaldiana del potere, si sia dispiegato all’interno di un’attenzione alle politiche del corpo e della sessualità, al nesso fra rappresentazione di genere, razza ed etnia e produzione di discorsi imperiali, al modo in cui nel contesto inter e transnazionale si sono delineate strategie e conflitti sulle questioni riproduttive e sul controllo della sessualità44 e molto meno sulle dimensioni istituzionali e organizzative, per non parlare dei grandi quadri interpretativi con cui leggere le dinamiche della politica estera statunitense45.
36Se l’approccio transnazionale sembra dominare il panorama storiografico statunitense, non di minore importanza rivestono però gli studi che prestano una costante attenzione all’impegno internazionale delle donne. Numerosi sono ormai gli studi sui movimenti pacifisti femminili americani e in particolare su figure come quella di Jane Addams o di organizzazioni come la WILPF46.
37Tuttavia, più che sugli studi sulle organizzazioni internazionali, vorrei di nuovo soffermarmi sui lavori che hanno privilegiato il livello grass-roots e che non casualmente si sono concentrati soprattutto sugli anni ’40 e ’50 del ’900 per mettere in luce i percorsi non sempre lineari. Il clima politico e il crescente fervore internazionalista che si sviluppò alla vigilia dell’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, infatti, rivitalizzarono quelle associazioni e women’s groups che non avevano abbandonato gli ideali wilsoniani. La nuova sfida ideologica che si nutriva del linguaggio dei diritti e delle quattro libertà rooseveltiane sembrò aprire in effetti nuove opportunità di azione sia per le associazioni bianche sia per quelle afroamericane, coniugando attenzione ai diritti umani e sicurezza nazionale come espressione della cittadinanza femminile47. Per le organizzazioni femminili afro-americane, come nel caso del National Council of Women o di figure come Mary McLeod Bethune48, questo significava un’elaborazione teorica che legava la battaglia per i diritti civili e la racial diversity alle istanze poste dai movimenti anticoloniali in Africa e in Asia.
38Per i women’s clubs formati da donne di classe media bianche, invece, questo attivismo presentava non poche ambivalenze e contraddizioni, connesse al modo in cui il concetto di domesticità si era storicamente coniugato al discorso egemonico se non imperiale. Il loro internazionalismo, infatti, doveva fare i conti non solo con una visione eccezionalista, ma anche con le difficoltà di coniugarlo con la realtà e le costrizioni della guerra fredda.
39L’entusiasmo delle donne americane per il contributo che potevano offrire alla costruzione della democrazia nell’Europa post-bellica si nutriva della fiducia in un modello democratico americano che sembrava tanto più forte in quanto espressione della società americana tutta. Tuttavia, questo impegno ed entusiasmo, spesso ingenuo, non nascondeva l’introiezione di un eccezionalismo (o nel caso del contesto asiatico di un vero e proprio orientalismo) che vedeva nel modello democratico statunitense la norma a cui adeguarsi, sottovalutando o considerando come “sorelle da aiutare” le donne giapponesi o le stesse donne europee, con cui pure vi erano state maggiori occasioni di scambio dentro la «Atlantic sisterhood» . Per fare un esempio, nel 1949, grazie all’impegno della League of Women Voters arrivarono negli Stati Uniti, prima sette donne tedesche e poi l’anno successivo dieci donne giapponesi con l’intento di formarle alla democrazia. Le donne straniere, soprattutto le tedesche, in molte occasioni facevano presente l’ironia di essere considerate «studentesse» di un modello di partecipazione democratica in un contesto, come quello statunitense, in cui le donne americane elette nei pubblici uffici non superava il 5 %, mentre, nella Germania Ovest la percentuale si attestava, già nel 1949, al 7,1 % per arrivare al 9,2 % nel 195749.
40Ciò che, però, mi pare terreno fruttuoso da indagare è in che modo l’impegno di associazioni come la League of Women Voters o la American Association of University Women si inseriva in un progetto che potrebbe anche essere definito di soft-diplomacy o di «grassroots diplomacy», che finì per diventare parte integrante (in che misura e con quale efficacia dovrebbe essere oggetto di ulteriori indagini) delle più generali strategie di diplomazia pubblica messe in atto dal governo americano nel contesto di guerra fredda. L’impegno internazionalista delle organizzazioni civiche femminili, da questo punto di vista, si dispiegava dentro un quadro molto scivoloso. Da un lato poteva favorire la messa in atto di strategie che si situavano all’interno del secolare attivismo transnazionale femminile e all’interno di un impegno civico che riteneva superata la tradizionale distinzione fra ambito interno ed esterno. Dall’altro, le costrizioni della guerra fredda finivano per creare nuovi ostacoli a quello stesso attivismo transnazionale che risultava possibile solo entro lo spazio politico occidentale. Un’ambivalenza che si ritrova anche nel caso dell’impegno internazionalista di una figura cruciale come Eleanor Roosevelt, la cui statura politica era data non solo dal suo carisma e dall’impegno come first lady, ma dalla sua capacità di essere allo stesso tempo vettore e fulcro di modalità politiche che privilegiavano i processi dal basso e forme di democrazia partecipativa50.
Conclusioni
41In questa breve e per niente esaustiva disamina di alcuni dei temi della storia politica delle donne e di genere negli Stati Uniti, ho più volte messo in evidenza come la maggior parte della storiografia si sia concentrata, sia per quello che riguarda le dinamiche di politica interna sia nei confronti di quelle internazionali, sulle politiche del corpo, sulle rappresentazioni, su un concetto di potere diffuso nelle relazioni sociali e individuali. Il che ha significato prestare attenzione alle relazioni di genere con chi ha o con chi non ha potere: dall’analisi delle rappresentazioni culturali di genere nei progetti imperiali di inizio novecento, alle concezioni della nazione proprie di una cultura maschile prodotta e riprodotta nelle scuole delle élite, come ha messo in luce Robert Dean a proposito dell’élite internazionalista di epoca kennediana51. Il che potrebbe anche sollevare il dubbio che si tratti di «storia sociale» del politico invece che di storia politica tout court.
42Come ho cercato di dimostrare, io ritengo che l’introduzione della categoria di genere abbia non solo innovato, ma contribuito a una ridefinizione in senso più ampio e plurale del «politico», contribuendo a quello smantellamento delle gabbie disciplinari che rischiano di imbrigliare la ricerca e l’indagine storiografica, soprattutto se alle categorie ritenute eccessivamente «normative» se ne sostituiscono altre, non meno escludenti.
43In un articolo del 2008 Hilda Smith, notando l’assenza di saggi di storia intellettuale delle donne in una rivista come il Journal of Women’s History, sostenne che la forte enfasi sull’importanza del corpo nella ricostruzione del passato delle donne avesse prodotto la curiosa separazione della mente delle donne dal loro stesso corpo: «It has turned women from the past into somewhat truncated beings, namely headless ones».52 Per quanto provocatoria, la sua affermazione solleva l’interrogativo se e fino a che punto le storiche statunitensi (ma il discorso può essere allargato), privilegiando la dimensione micro e individuale, valorizzando i processi di frammentazione e le differenze, non corrano il rischio, però, di contribuire a quella «frattura» epistemologica che caratterizza il sapere contemporaneo53. Da un lato, lo svelamento del falso universalismo, delle contraddizioni inerenti una master narrative che aveva al centro lo stato-nazione, che privilegiava la politica e le sue forme invece che indagare il «politico» nella sua molteplicità, ha prodotto un’innovazione metodologica che ha rivoluzionato il modo in cui si pongono le «domande», a partire dal riconoscimento dei soggetti e del loro posizionamento dal punto di vista di genere, sessuale, etnico, razziale. Dall’altro lato, se la storia è e dovrebbe essere un «laboratorio attivo del nostro presente e non solo comprensione del suo passato »54, allora urge chiedersi se la storiografia politica delle donne e di genere, negli Stati Uniti e non solo, sia in grado di dare risposte alle domande del presente. Non casualmente Kessler-Harris ha riproposto la necessità di ritornare a utilizzare il genere come un modo per nutrire e sviluppare l’indagine su come queste relazioni influenzano, interagiscono, modellano o restringono le formazioni sociali e le decisioni politiche della società in cui si dispiegano, contribuendo a chiarire e contestualizzare il significato di termini come libertà, democrazia, uguaglianza. Senza che tutto ciò, aggiungerei io, venga definitivamente delegato alle scienziate politiche e sociali, apparentemente in grado di fornire chiavi di lettura più immediatamente spendibili a decodificare i processi in atto, sancendo ancor di più la minorità della storia come disciplina di comprensione del presente.
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Notes de bas de page
1 Austen 1833, p. 87.
2 Offen 2011, p. 22.
3 Rosanvallon 2005, p. 10.
4 Logevall – Osgood 2016 e Calhoun 1993.
5 Muncy 2012, p. 65-67.
6 Scott 2008, p. 1422-1430.
7 Baker 1984.
8 Muncy 1991; Isenberg 2000; Dorsey 2002.
9 Tyrrell 1991.
10 McGerr 1990, p. 866-868.
11 Ryan 2003.
12 Novak 2008, p. 752-772.
13 Flanagan 2002; Deutsch 2000.
14 Storrs 2006.
15 Baritono 2009.
16 Canaday 2009.
17 Zaretsky 2015, p. 161-67.
18 Gordon, 1994. Sul rapporto genere welfare, cfr. Vezzosi 2002.
19 Crenshaw 1991.
20 Gerstle 2010, p. 779-81.
21 Ginzberg 2005; Jeffries 1999. Vedi fra gli altri, Laughlin – Castledine 2011; Blair 2014; Dayton – Levenstein 2012, p. 793-817.
22 Burtin 2016.
23 Offen, p. 23.
24 Mattingly – Nare 2014.
25 Bederman 1998; Newman 1998. Sul rapporto genere-militarizzazione, Enloe 1989.
26 Wilkerson-Freeman 2002, p. 132-154; Salmond 1988.
27 Questa è la tesi di Roth 2004.
28 May 2004.
29 MacLean 2014, p. 37-43; Gordon 2014, p. 31-36.
30 Fraser 2009, p. 97-117.
31 Zaretsky 2015.
32 Sandy-Bailey 2011, p. 115-135.
33 Wilkerson 2016, p. 199-220.
34 Ware 1981; Freeman 2008.
35 Ware 2010, p 413-35. Vedi Kish Sklar 1995; Muncy 2016; Wiesen Cook 2016.
36 Kessler-Harris 2013, pos 64 e pos 70.
37 Bailyn 2005; Gilroy 2003.
38 Smith 2000.
39 McFadden 1999, p. 11. Vezzosi 2014.
40 Stansell 2010, p. 355.
41 Marx Ferree – Mali Tripp 2006.
42 Bender 1999, p. 965-75. Cfr. anche Fasce – Vaudagna – Baritono 2013, p. 3-20. Sulle biografie transnazionali cfr. Marino 2014; Pratt Guterl 2013, p. 130 ss.
43 Kessler-Harris 2007, p. 153-59.
44 Glenn 2010.
45 Vedi discussione in Perry 2009, p. 138-145.
46 Rupp 1997; Garroni 2005; Suriano 2012.
47 Laville 2002.
48 Rief 2004; Vezzosi 2013.
49 Rymph 2011.
50 Baritono 2017.
51 Dean 1998.
52 Smith 2008.
53 Rodgers 2011.
54 Rosanvallon, p. 14.
Auteur
Università degli Studi di Bologna
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