Le finanze pubbliche milanesi al servizio del re di Francia
Costi e ricavi delle guerre di Francesco I
p. 67-84
Résumé
Il saggio analizza il contributo delle ricchezze milanesi alle campagne militari di Francesco I nell’ambito delle guerre d’Italia del primo Cinquecento. Dopo una breve premessa sulle diverse fonti di finanziamento alla guerra a disposizione dei sovrani di Francia, si propone l’esame di alcune scritture contabili relative allo Stato di Milano redatte in quegli anni e conservate presso gli Archivi Nazionali di Parigi, soffermandosi su tre aspetti peculiari : 1. l’amministrazione delle finanze pubbliche in relazione alle necessità contingenti di guerra e alla progressiva costruzione statuale ; 2. la relazione tra la gestione finanziaria sotto Francesco I e quella dei domini precedenti ; 3. il ruolo delle scelte operate da Francesco I e dal suo entourage a Milano sulla gestione delle finanze nel resto del Regno di Francia.
Texte intégral
Introduzione
1Il lavoro più recente e di maggior completezza sulle finanze del Regno di Francia al tempo di Francesco I è stato scritto qualche anno fa da Philippe Hamon1. In quel volume e in alcuni altri saggi più o meno coevi2, l’autore si è posto il problema di comprendere quanto le campagne condotte dai sovrani di Francia nell’ambito delle guerre d’Italia del Cinquecento si fossero autofinanziate grazie alle ricchezze dei nuovi territori conquistati. Le sue conclusioni, per quanto non perentorie, suggeriscono che quelle guerre avevano faticato ad auto sovvenzionarsi e che anche il più ricco dei territori italiani conquistati – lo Stato di Milano – seppure contribuì in modo sostanziale a pagare parte delle truppe impiegate, in particolare i mercenari svizzeri, non era stato in grado di sostenersi autonomamente, soprattutto durante gli anni che precedettero la battaglia di Pavia (24 febbraio 1525).
2A partire da questi lavori fondamentali e approfittando di alcune recenti ricerche che hanno messo a disposizione ricche informazioni sulle finanze pubbliche milanesi durante le due dominazioni francesi del primo Cinquecento3, in questa sede mi propongo di definire il contributo dello Stato di Milano alle campagne militari di Francesco I e di delineare i costi e i ricavi delle guerre, muovendo dall’osservatorio milanese, benché più in una prospettiva qualitativa che quantitativa. In buona sostanza con questo lavoro si cerca di comprendere il contributo richiesto alle province di nuova conquista per far fronte alle campagne militari, considerando sia la dimensione «privata» del sostegno italiano alle spedizioni francesi, sia il contributo che si derivava dalla diretta amministrazione finanziaria e fiscale dei nuovi territori. Per fare ciò è necessario anzitutto premettere una sintesi che illustri le diverse fonti di finanziamento a disposizione dei sovrani di Francia per sostenere le loro ambizioni di conquista4.
Costi della guerra e mezzi per finanziarla
3I sovrani francesi potevano disporre di almeno tre fonti d’entrata distinte ma fortemente interrelate tra loro: il bilancio «nazionale», il «mercato» del credito e le ricchezze dei nuovi territori conquistati. Di quest’ultima, come accennato, mi occuperò nello specifico in questo saggio, entrando nel dettaglio della gestione delle finanze dello Stato di Milano sotto il dominio di Francesco I, proponendo un paragone con il primo dominio francese in Lombardia (Luigi XII) e presentando per la prima volta l’analisi dei cespiti d’entrata de l’état des finances del Ducato di Milano del 15175.
4Partiamo dunque dalla prima fonte di finanziamento ricordata nell’incipit di questo paragrafo, richiamando anzitutto il carattere policentrico del bilancio francese, formato da diverse camere fiscali e da diversi «stati» delle finanze provinciali da cui si derivava il bilancio «nazionale »6. Questo aspetto rende complicato definire con precisione puntuale cespiti d’entrata e voci di spesa nel complesso della monarchia francese, perché spesso entrate e uscite erano spostate (o poste a carico) da una camera finanziaria all’altra e la non perfetta sincronia nella registrazione può rendere vano il tentativo di quantificare con precisione un dato evento: ad esempio l’impatto del militare in una specifica congiuntura storica. A questo si aggiungano altri due elementi che possono minare la possibilità di proporre ricostruzione quantitative certe, quali la frammentaria e parziale conservazione delle scritture contabili del periodo e il ruolo non secondario giocato dalle finanze locali nel sostenere oneri che dovevano e potevano essere considerati più propriamente di competenza statale, soprattutto riguardo al militare. La gestione della guerra, infatti, imponeva agli organi di governo locale (comunità rurali, città e, più di rado, feudatari o grandi enti ecclesiastici) di farsi carico degli oneri dell’alloggiamento di soldati, se non addirittura dell’anticipo del soldo, sotto promessa di compensazioni o di restituzioni future che spesso non venivano onorate e che, comunque, allo storico rendono difficile ricostruire puntualmente il carico degli eserciti soprattutto in tempo di guerra guerreggiata7. La gestione policentrica delle finanze pubbliche non deve tuttavia far supporre che non esistesse una certa omogeneità nel apparato finanziario delle varie province8, né tanto meno che le diverse aree soggette alla corona non dovessero contribuire al bilancio generale. A loro era invece richiesto di sostenere l’apparato burocratico locale, garantire la difesa del territorio e se possibile partecipare al sostentamento della corona e dei suoi domini. Questo schema generale tendeva a modificarsi, parzialmente o completamente, durante le campagne militari, quando lo spostamento di truppe in alcuni territori e in generale la spesa per lo sforzo di difesa o di offesa andava distribuito sulle diverse camere finanziarie e fiscali, con il corollario che spesso le aree meno toccate dalle operazioni belliche erano quelle che dovevano teoricamente contribuire in modo maggiore a sostenere l’impresa, sotto forma di prestiti forzosi o di oneri fiscali straordinari9.
5La struttura delle entrate del bilancio «nazionale» era già consolidata quando salì al trono Francesco I, che cercò di far fronte alle crescenti esigenze finanziarie della guerra incrementando la pressione fiscale. Si stima, tuttavia, che la crescita dell’imposizione ordinaria fu più contenuta sotto il suo regno (1,5 % annua) rispetto a quanto fece il suo predecessore (Luigi XII: 2,38 %) e ancor di più il suo successore (Enrico II: 5,7 %)10. Si tratta di grandezze che vanno prese con il dovuto beneficio d’inventario, che nondimeno sono indicative di alcune linee di tendenza e della diversa propensione dei tre sovrani, ma che non devono trarre in inganno soffermandosi ad un’analisi superficiale. Francesco I, infatti, non può essere considerato un sovrano che aumentò meno la pressione fiscale rispetto agli altri, ma più precisamente dobbiamo sostenere che aumentò relativamente poco la fiscalità ordinaria, facendo invece largo ricorso alla fiscalità straordinaria, ai prestiti forzosi e alle imposizioni sugli esenti. Per tali ragioni la pressione fiscale sotto Francesco I non fu meno onerosa, anzi, come si argomenta di seguito per il caso milanese, il suo regno coincise con una delle fasi di maggior crescita degli oneri tributari, soprattutto in termini pro capite.
6L’altra grande fonte d’entrata per la corona era il «mercato» del credito, da non considerarsi un’alternativa ai cespiti del bilancio «nazionale», ma piuttosto come consustanziale alle stesse modalità di gestione della finanza pubblica. Gli officiali e i corpi territoriali locali implicati nella gestione della fiscalità e delle finanze erano soggetti all’anticipo (volontario o forzoso) di somme per conto dell’amministrazione centrale. Allo stesso modo alle parentele più prossime alla corona erano continuamente richiesti anticipi di denari necessari alle contingenze ordinarie e straordinarie, che andavano compensate sugli oneri fiscali dovuti dalle stesse famiglie. Questo sistema tendeva a divenire sempre più intenso nelle fasi di guerra, quando la necessità di denari aumentava improvvisamente e il confine tra il semplice anticipo e il prestito ad interesse diveniva meno netto. Nella necessità di ottenere denaro in prestito, come piuttosto tipico di altre realtà europee, i sovrani di Francia ricorrevano alle garanzie reali offerte dalle rendite sulle entrate fiscali o su specifici beni patrimoniali11. Questo espediente limitava il rischio d’insolvenza da parte della corona e garantiva i prestatori, dai quali si potevano ottenere tassi d’interesse e tempi per la redenzione del debito meno gravosi. Nel corso del Quattrocento, Lione si era affermata come la piazza finanziaria principale di Francia, grazie allo sviluppo di fiere ben radicate nel grande commercio internazionale e allo stabilirsi di mercanti-banchieri provenienti da diverse parti d’Europa, soprattutto italiani (Fiorentini, Lucchesi e Genovesi)12. Seppure la corona poteva godere di altre piazze finanziarie, come Parigi o le città italiane progressivamente incluse nella propria sfera d’influenza (Milano e Genova), è indubbio che Lione giocò un ruolo di prim’ordine nel corso delle guerre d’Italia e in particolare sotto Francesco I, che prese sempre più a foraggiare le campagne militari grazie ai denari lionesi e in particolare a quelli dei mercanti-banchieri italiani installatisi a Lione13. Anche da questo punto di vista le guerre d’Italia possono essere considerate un punto di svolta, giacché le ingenti necessità di denaro intensificarono talmente la tradizionale relazione tra corona e credito lionese da renderla quasi ineludibile negli anni a venire.
7Le spese per le campagne militari di Francesco I crebbero, infatti, esponenzialmente nel corso del suo regno e il ricorso al credito, così come l’imposizione di prestiti forzosi, di taglie straordinarie, di imposte sugli esenti, non fecero altro che seguire la medesima parabola. Già sostenute nel corso della prima campagna (1515-1516), con la riconquista dello Stato di Milano a seguito della vittoria di Marignano (13-14 settembre 1515), le spese furono quasi triplicate nel corso del primo scontro con l’imperatore Carlo V (1521-1525) e la conseguente disfatta di Pavia, di poco ridotte per il secondo conflitto con l’Imperatore (1536-1538), per riesplodere definitivamente negli anni ’40 durante l’ultima campagna intrapresa da Francesco I (1542-1546) (Fig. 1)14.
8Il crescente impatto della guerra nel regno di Francia sembra essere confermato anche dal rapporto tra incremento del costo della guerra e crescita delle entrate di bilancio, qui presentate in confronto con altre realtà europee tra tardo Quattrocento e primo Seicento (tab. 1). L’analisi dei dati suggerisce almeno due considerazioni utili alla nostra narrazione. In primis risulta piuttosto evidente l’impatto che le guerre d’Italia del primo Cinquecento ebbero su tutte le parti in causa, tanto che, prima o poi, il costo della guerra arrivò a superare le entrate annue dei diversi stati. Tra gli anni ’20 e gli anni ’40 del Cinquecento, praticamente ovunque, il costo delle campagne militari eguagliava la capacità d’entrata, arrivando addirittura a superarla di oltre due volte. In secondo luogo, e più nello specifico del caso qui analizzato, le cifre confermano una costante crescita del costo delle campagne militari francesi, di pari passo all’incremento della capacità impositiva del regno. Eppure ciò non fu sufficiente a far fronte al costo delle guerre, che arrivarono a superare i cespiti d’entrata nel 1554. Ad ogni buon conto, si deve sottolineare un ultimo importante elemento ai fini della nostra analisi. In confronto agli altri casi considerati, il rapporto tra spese militari e entrate di bilancio è molto più favorevole in Francia che altrove, pur in un continuo logoramento di questo quoziente.
Il ruolo finanziario delle province di nuova conquistata
9Ma come già ricordato i sovrani potevano anche disporre delle ricchezze dei nuovi territori conquistati, sia in termini di facoltà «private» (soggette, però, alla contrattazione tra sovrano e sudditi), sia di denari ottenuti dall’amministrazione diretta della nuova provincia. In tal senso si tratta di comprendere se il costo per allargare il proprio dominio fosse ripagato dalle nuove entrate fiscali, in quanto tempo le spese per la campagna militare di conquista potessero essere ricompensate (se potevano esserlo) e in quale misura la nuova provincia potesse contribuire al bilancio «generale» di Francia e a finanziare nuove imprese belliche. Un discorso ancora a parte meriterebbe il vantaggio che derivarono i singoli officiali e le singole famiglie francesi dal controllo e dalla partecipazione all’amministrazione del nuovo territorio: un tema del quale mi occupo solo parzialmente con qualche cenno più avanti15.
10Tra i territori italiani conquistati dai Francesi nel primo Cinquecento, quello che poteva garantire una maggiore entrata era certamente lo Stato di Milano. Prima della sua conquista, Carlo VIII aveva previsto che dal Regno di Napoli si sarebbe potuta derivare un’entrata annua di circa 500-600 mila lire tornesi. Nel primo decennio del Cinquecento da Napoli si ricavavano tra i 450 e 500 mila ducati, un valore che in lire tornesi non si discosta troppo dalla stima di fine Quattrocento16. Lo Stato di Milano garantiva invece un’entrata di oltre 700 mila lire tornesi, vale a dire una cifra superiore a quanto si ricavava annualmente dal Delfinato (662.000 lire tornesi) o appena poco inferiore alla Linguadoca (770.000 lire tornesi)17, ma che era destinata ad aumentare notevolmente sotto il regno di Francesco I, quando si arrivò a superare il milione di lire. Se osserviamo il trend plurisecolare delle entrate dello Stato di Milano (Fig. 2), pur considerando gli effetti della svalutazione monetaria, si possono notare consistenti picchi nella capacità di prelievo in occasione dei principali periodi di guerra. Considerate in termini assoluti, le entrate dello Stato di Milano ebbero il loro apice, come prevedibile, nel Seicento, ma valutate in termini pro capite la tendenza cambia significativamente e le differenze fra Cinquecento e Seicento appaiono più risicate. Proprio durante il regno di Francesco I si registrò uno dei picchi maggiori nel corso del Cinquecento, in coincidenza dell’avvio del nuovo dominio francese su Milano e del forte aumento di prelievo ordinario e straordinario tra 1516 e 1517.
11Si può sottolineare un ulteriore elemento di contesto prima di addentrarci nell’analisi specifica delle finanze lombarde al tempo di Francesco I: per tutto il Cinquecento – e sarà altrettanto nel secolo successivo – il militare fu centrale nella dinamica della finanza pubblica milanese, tanto che l’incidenza della spesa logisticamilitare (stipendi, pensioni, manutenzioni, eccetera) sul bilancio fu costantemente elevata, arrivando a incidere per circa l’80 % della spesa sia in fasi di guerra guerreggiata (con Luigi XII e Francesco I), sia quando la guerra si spostò dalla Lombardia (sotto l’Imperatore Carlo V), sia ancora durante le fasi di relativa tranquillità (negli anni ’60-’70 con Filippo II di Spagna)18.
12È già stato più volte sottolineato che, tra tardo Quattrocento e primo Cinquecento, la base imponibile milanese subì un processo di logoramento continuo per effetto dello stabile ricorso all’alienazione delle entrate. Nella necessità di liquidità immediata per motivi molto spesso legati alle guerre e in particolare per le diverse implicazioni delle guerre d’Italia, gli Sforza non avevano trovato soluzione migliore che vendere le rendite delle entrate fiscali dello Stato, spesso sotto forma di prestiti forzosi mai redenti. Il processo fu particolarmente intenso sotto Ludovico il Moro, trovò una fase d’assestamento con Luigi XII, riprese con vigore con Massimiliano Sforza, per poi toccare l’apice negli anni ’40 e ’50, sotto l’Impero di Carlo V, seppure in un contesto di ristrutturazione della finanza pubblica milanese19. Tutto ciò avveniva e diventava sempre più rilevante nel frattempo che crescevano le esigenze di spesa, per il progressivo costituirsi dell’amministrazione statuale ma soprattutto, come ricordato, per le esigenze belliche. In pratica era necessario trovare nuove fonti d’entrata, ma per farlo si continuavano ad alienare i cespiti fiscali, che avrebbero dovuto garantire la gestione finanziaria ordinaria. Così facendo si produceva una costante crescita della quota di denari ottenuti attraverso il credito, volontario o forzoso (concesso però con tassi d’interesse e condizioni di redenzione sempre più proibitive), imponendo nuovi oneri straordinari (che rischiavano di deprimere le già difficoltose attività economiche e produrre, per assurdo, una contrazione del gettito riscosso20) oppure scaricando i costi sui corpi territoriali locali (tuttavia già fortemente provati e a loro volta indebitati21).
Francesco I e le finanze pubbliche milanesi
13La recente riscoperta di alcune scritture contabili dello Stato di Milano relative alle due dominazioni francesi del primo Cinquecento permette di entrare nel dettaglio della gestione delle finanze pubbliche lombarde sotto Francesco I e di confrontare la sua politica con quella di altri periodi. Come accennato, ai bilanci milanesi già oggetto di edizione critica (relativi agli anni 1510, 1516 e 1518), in questa sede si aggiunge l’analisi del bilancio del 1517, che riguarda il secondo anno di gestione contabile interamente sotto il dominio di Francesco I. Per ragioni di sintesi e di opportunità non si presenteranno nel dettaglio queste preziose fonti, conservate presso gli Archives Nationales di Parigi22. Mi basti ricordare che si tratta di rendiconti contabili relativi allo Stato di Milano, databili all’inizio del Cinquecento, in una serie discontinua ma coerente, racchiusa in meno di dieci anni, che sono passati quasi inosservati fino ad oggi e che comunque sono stati oggetto di uno studio sistematico solo molto di recente23. Per le medesime ragioni di brevità e utilità mi soffermerò prevalentemente sui cespiti d’entrata di questi bilanci, intese come la capacità del sovrano francese di gestire le ricchezze locali e di drenare risorse per l’amministrazione della provincia lombarda.
14Una prima analisi dei bilanci dei quattro anni considerati mostra che la quasi totalità dei cespiti derivava dalle entrate fiscali (secondo un’impostazione tradizionale delle finanze statali milanesi24), più che modeste erano le entrate patrimoniali e giudiziarie, mentre sotto Francesco I assunsero maggiore importanza i denari ottenuti da prestiti e donativi (tab. 2).
15La quasi totalità degli oneri fiscali di competenza camerale rientrava nella ferma generale, il sistema attraverso il quale i Francesi appaltavano la riscossione della maggioranza delle entrate fiscali statali. L’appalto al fermiere generale, di durata quadriennale o quinquennale, nei bilanci presi in esame costituisce il primo capitolo d’entrata, dove è indicato il nome del fermiere (Alexandre Gamberane e soci nel 1510 e Bartolomeo Ferrier tra 1516 e 1518), la data d’assegnazione, l’importo dell’appalto lordo e gli eventuali sconti per alienazioni d’entrate o posticipazioni nei pagamenti degli oneri. La cifra del capitolo è pertanto l’entrata netta della camera, che è identica o molto prossima a quella d’appalto. L’entrata derivata dalla ferma generale crebbe tra il primo e il secondo dominio francese (da 560.000 a circa 640.000 lire tornesi) ma non fu modificata nei tre anni di governo di Francesco I. Pressoché stabile fu anche l’ammontare della tassa dei cavalli, l’unica importante imposta esclusa dalla ferma generale, che, a parte per il 1516, si assestò attorno alle 60.000 lire tornesi. Completavano l’entrata fiscale ordinaria una serie di tributi, in particolare legati allo sfruttamento di risorse ambientali, a diritti di transito o di natura doganale. Si tratta di somme che raddoppiarono nel passaggio da Luigi XII a Francesco I, ma che hanno un’incidenza marginale sul totale delle entrate fiscali.
16È, ad ogni modo, sul fronte delle entrate fiscali straordinarie che risiede la differenza principale tra le due dominazioni francesi: questa voce si impennò con lo stabilizzarsi del dominio di Francesco I, tanto che tra 1516 e 1517 crebbe di oltre venti volte (Fig. 3). Si tratta per lo più di sovvenzioni imposte alle città, ai feudatari e agli esenti, secondo uno schema che diverrà tipico della gestione delle finanze pubbliche di Francesco I. L’acuirsi della crisi delle finanze francesi a seguito delle campagne militari italiane, soprattutto dopo la disfatta di Pavia e la perdita dello Stato di Milano, come ricordato, aveva spinto Francesco I ad accompagnare l’aumento delle entrate ordinarie ad una progressiva crescita delle entrate straordinarie, soprattutto ai danni delle città, del clero e degli esenti, oltre che a farlo dipendere sempre più dal credito lionese25. Il parallelo con quanto avvenuto nello Stato di Milano qualche anno prima è piuttosto evidente, quasi che la Lombardia avesse rappresentato un laboratorio per testare un modello di politica delle finanze pubbliche messo successivamente in atto anche in madrepatria.
17L’accresciuta capacità impositiva sotto Francesco I non deve, ad ogni modo, trarre in inganno sulla effettiva maggiore disponibilità di risorse durante il secondo dominio francese. Per considerare il giusto peso delle entrate fiscali è necessario epurarle tanto dalle partite di giro, quanto da tutta una serie di valori già iscritti nell’uscita di bilancio come rimborsi a dazieri o a particolari per la perdita di entrate fiscali. Una sottrazione di fiscalità già rendicontata a bilancio a causa del citato processo di alienazione delle entrate, così come in conseguenza della perdita più o meno temporanea di parti di territorio e dell’impossibilità di esigere gli oneri per la guerra. Al netto di questi valori, il trend delle entrate fiscali effettive (vale a dire di cui si poteva disporre liberamente) risulta parzialmente differente, se non addirittura in controtendenza. Più o meno identiche nel 1510 (circa 636.000 lire tornesi), le entrate fiscali si contrassero significativamente nel 1516 (circa 422.000 lire tornesi), per tornare a crescere nel 1518 (circa 855.000 lire tornesi) ma ad un tasso ben più contenuto di quello che sarebbe risultato considerando i semplici valori iscritti nell’entrata di bilancio26.
18Allo stesso modo si deve considerare che la crescita del gettito fiscale si accompagnava ad un progressivo complicarsi dell’amministrazione fiscale lombarda, con l’istituzione dell’officio di controllore generale delle finanze, l’ingrossarsi degli impiegati nelle tre principali camere fiscali (delle entrate ordinarie, delle entrate straordinarie e del sale) e l’introduzione dell’avvocato fiscale nelle amministrazioni periferiche. Tutto ciò comportò una progressiva crescita della spesa per l’amministrazione finanziaria, che passò dalle circa 17.800 lire tornesi nel 1510 alle circa 24.500 durante il secondo dominio francese, equivalente al 2-3 % della spesa complessiva e al 2,5-3,5 % dei cespiti d’entrata. In buona sostanza, seppure per ordini di grandezza ben differenti, le entrate fiscali (epurate delle somme sopra ricordate) e la spesa per l’amministrazione finanziaria erano cresciute di pari passo, vale a dire entrambe tra il 35 % e il 37 % nel periodo 1510-1518.
19Oltre al tema della leva fiscale, con il caratteristico ricorso alla fiscalità straordinaria, ci sono altri aspetti della gestione della finanza pubblica milanese sotto Francesco I che possono esser d’interesse al nostro scopo. Osservate tramite la lente della relazione tra controllo di nuove province e sostentamento della guerra, le finanze pubbliche milanesi (e queste preziose fonti) possono offrire un angolo visuale privilegiato per indagare almeno due altre questioni fondamentali. La prima di queste riguarda la possibilità o la capacità di utilizzare Milano e la sua camera finanziaria come centro di raccolta di denari provenienti dall’Italia e in parte anche dalle altre province francesi. La seconda è quella di fare del bilancio lombardo un centro per la redistribuzione di risorse verso gli alleati o un mezzo per ripagare gli sforzi finanziari richiesti ai «connazionali».
20Per affrontare il primo aspetto accennato è sembrato utile analizzare congiuntamente i prestiti e la fiscalità straordinaria tra 1516 e 1518 (tab. 3). Se per il 1516 le entrate straordinarie erano derivate sostanzialmente da prestiti, più o meno forzosi, anche da regioni fuori dal diretto controllo francese (Ferrara e Piacenza), nell’anno successivo, quando il valore totale era cresciuto di quasi 10 volte, la gran parte dello straordinario era imputato alla fiscalità (sovvenzioni dalle città), mentre un aiuto significativo era arrivato da altre camere finanziarie francesi. La transizione dai prestiti e donativi alla fiscalità si realizzò definitivamente nel 1518, quando le entrate straordinarie importavano circa ¼ del totale dei cespiti e derivavano tutte dai domini lombardi. In pratica, così aggregato, sembra di intravedere una politica ben precisa di gestione dello straordinario che, come già sottolineato, crebbe notevolmente nei tre anni, ma che soprattutto si modificò qualitativamente. Venuta meno la volontà o possibilità di ottenere prestiti da altre realtà italiane, si fece in modo di spostare il peso delle entrate straordinarie dal credito alla fiscalità, facendo leva, nell’anno di transizione (1517), sulle risorse delle altre province del Regno (sfruttando dunque la policentricità del bilancio francese), per poi stabilizzare la gestione l’anno successivo, quando i cespiti straordinari vennero imputati alla sola fiscalità dello Stato di Milano.
21Anche in considerazione delle risorse messe direttamente a disposizione dal bilancio francese a quello milanese rimane da analizzare se e in quale misura le risorse lombarde erano redistribuite anche a favore degli ultramontani. Di questo aspetto mi sono già occupato nel dettaglio in altra sede, per tale ragione ci si limiterà a richiamare la questione in sintesi, anche perché non è ancora stata completata l’analisi sulla spesa del 1517 e dunque gli elementi di originalità proposti sono essenzialmente relativi al confronto con i nuovi dati derivati dai soli cespiti d’entrata. Per analizzare l’elemento redistributivo del bilancio ci si sofferma soprattutto sulla dimensione «nazionale» nella distribuzione delle pensioni e dei donativi pagati con la cassa milanese. Per definire la nazionalità dei destinatari si è deciso di tener fede alle fonti, che già sono organizzate dividendo i riceventi per la loro origine. A queste somme si sarebbe potuto aggiungere quelle pagate per offici politici, giudiziari o militari, ma sarebbe stato difficile e in alcuni casi impossibile individuare tutti i beneficiari e definirne la nazionalità. Nei bilanci analizzati, le informazioni sugli stipendiati militari sono in effetti generiche, riguardando l’intera tesoreria di guerra o qualche compagnia di stanza in una località specifica, ma senza altra indicazione. Maggiori dettagli si derivano per i membri del senato o per quelli delle magistrature fiscali, ma la loro incidenza sulle spese (circa il 5-6 %) è poca cosa rispetto a quelle per le pensioni e i donativi (più o meno il 20 %)27.
22L’analisi dei destinatari di pensioni e donativi permette di mettere in luce, ancora con maggior evidenza, il diverso stato delle finanze tra prima e seconda dominazione francese e di avviarci ad alcune conclusioni sulla capacità delle province di nuova conquista di ripagare i costi della guerra. Le pensioni e i donativi pagati da Luigi XII rispecchiano il periodo di «potenza» del Regno e della sua campagna in Italia, tanto che, circa ¼ delle lire spese, servirono ad allargare l’alleanza (politica e militare) all’esterno, soprattutto verso i vari Cantoni svizzeri, ma anche in Inghilterra, Scozia e Spagna. Il resto andava a favore prevalentemente degli Italiani (40 %), mentre i Francesi assorbivano circa il 30 % del totale. Questo quadro mutò e si radicalizzò con la seconda dominazione francese, quando pensioni e donativi vennero spesi quasi esclusivamente a favore degli Italiani (in minima parte Napoletani, quindi parzialmente a favore dell’impero spagnolo) e dei Francesi. A questi ultimi andarono circa metà delle risorse messe a disposizione nel 1516 (circa 86.000 lire tornesi) ma in termini assoluti si tratta di poca cosa riguardo alle cifre stanziate nel 1518, quando si arrivò a toccare la quota record di circa 226.000 lire tornesi. In quest’ultimo caso i denari destinati ai Francesi, seppure crebbero in senso assoluto, assommavano a poco più del 30 % del totale, mentre il resto era destinato agli Italiani (compreso il pontefice, Leone X de’ Medici) ai quali, come ricordato in precedenza, era stato richiesto un maggiore sforzo per far fronte alla fiscalità straordinaria.
Brevi conclusioni
23L’analisi condotta integrando i lavori prodotti sulle finanze pubbliche francesi con quelli sullo Stato di Milano e con le nuove indagini presentate sul bilancio del 1517 permette di proporre alcune sintetiche conclusioni. Va subito premesso che il quadro delineato originariamente da Philippe Hamon tende a trovare conferma ma altresì a precisarsi grazie a questo lavoro. Si può certamente concordare sul fatto che le ricchezze dello Stato di Milano abbiano parzialmente contribuito a pagare le guerre e l’amministrazione francese in Italia durante la prima dominazione, vale a dire sotto Luigi XII . In un contesto già parzialmente complicato (si ricordino le alienazioni di Ludovico il Moro), la facile conquista del milanese e la relativa tranquillità degli anni successivi avevano permesso di gestire le ricchezze lombarde anche a favore dei Francesi e sicuramente d’imputare alla cassa milanese la quasi totalità dei costi di difesa.
24Il quadro si presenta a tinte molto più fosche sotto Francesco I, che a Milano ereditò una situazione finanziaria ben più grave e in un contesto di generale affanno per le finanze del Regno di Francia. La ristrutturazione della finanza lombarda promossa da Francesco I, basata soprattutto sul ricorso alle entrate straordinarie, potrebbe lasciar supporre che non si intendeva procedere ad una riforma organica della struttura fiscale, che pure rappresentava l’ossatura principale dei cespiti milanesi. Ma l’analisi del bilancio del 1517 ha permesso di far emergere un’idea piuttosto chiara di gestione dell’emergenza tra 1516 e 1518, con il progressivo spostamento degli oneri sulle risorse interne allo Stato di Milano, passando attraverso il temporaneo «soccorso» delle altre camere finanziarie del Regno. Se questa operazione di riassesto sarebbe servita da preludio ad una riforma delle finanze milanesi da realizzare negli anni successivi (quando però si riaccesero i conflitti e arrivò sulla scena delle guerre d’Italia l’imperatore Carlo V) è piuttosto difficile a dirsi, almeno allo stato attuale delle ricerche. Nondimeno, quali che fossero le intenzioni è certo che dal 1518 le ricchezze milanesi bastarono a fatica per pagare l’amministrazione dello Stato, mentre ben poca sostanza poteva derivarvi la corona di Francia. In definitiva, l’impressione (che tende sempre più a diventare una convinzione) è che dopo Marignano il re di Francia potesse continuare a godere dei denari italiani solo grazie al credito dei mercanti banchieri lionesi e che i territori italiani, più che un bottino, si fossero ormai trasformati in un pozzo senza fondo.
Notes de bas de page
1 Ph. Hamon, L’argent du roi. Les fiances sous François Ier, Parigi, 1994.
2 Id., L’Italie finances-t-elle les guerres d’Italie?, dans J. Balsamo (éd.), Passer les monts. Français en Italie. L’Italie en France (1494-1525), Parigi-Firenze, 1998, p. 25-37; Id., Aspects administratifs de la présence française en milanais sous Louis XII, in Ph. Contamine et J. Guillaume (ed.), Louis XII en milanais: guerre et politique, art et culture, Parigi, 2003, p. 109-127.
3 M. Di Tullio et L. Fois, Stati di guerra. I bilanci della Lombardia francese del primo Cinquecento, Roma, 2014.
4 Mi sono occupato diffusamente della questione in M. Di Tullio, Finanziare la guerra nel rinascimento: Francesco I, le finanze francesi e i denari italiani, in C. Lastraioli et J.-M. Le Gall (ed.), L’Italia e Francesco I. Scambi, influenze, diffidenze fra Medioevo e Rinascimento, Turnhout, in corso di pubblicazione.
5 Archives Nationales, Parigi, serie J 910, n. 5. Ringrazio Séverin Duc per avermi aiutato nel reperire copia di questo bilancio. Gli altri bilanci francesi del periodo sono stati oggetto di edizione e commento in M. Di Tullio et L. Fois, Stati di Guerra… cit.
6 La gestione policentrica delle finanze pubbliche era abbastanza tipica nell’Europa del Rinascimento. In merito si veda R. Bonney, The rise of the fiscal state in France. 1500-1914, in B. Yun-Casalilla et P.K. O’Brien (ed.), The Rise of Fiscal States. A global history 1500-1914, Cambridge, 2012, p. 93-110. Per un parallelo con alcune realtà italiane si consideri che nello stato sforzesco, fino al governo del duca Galeazzo Maria, le diverse camere fiscali avevano una gestione separata (F. Leverotti, Scritture finanziarie dell’età sforzesca, in C. Paganini (ed.), Squarci d’archivio sforzesco, Como, 1981, p. 123-142). Diverse tesorerie e camere fiscali centrali e periferiche si trovano anche nello stato sabaudo (E. Stumpo, Finanza e stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma, 1979) e nella repubblica di Venezia (L. Pezzolo, Una finanza d’ancien régime. La repubblica veneta tra XV e XVIII secolo, Napoli, 2006).
7 Sulla questione, con specifico riferimento alle Guerre d’Italia e alla Lombardia rimando a M. Di Tullio, La ricchezza delle comunità. Guerra, risorse e cooperazione nella Geradadda del cinquecento, Venezia, 2011. Più in generale, si veda la recente sintesi di A. Buono, M. Di Tullio et M. Rizzo, Per una storia economica e istituzionale degli alloggiamenti militari in Lombardia tra XV e XVII secolo, in Storia economica, 1, 2016, p. 187-218.
8 Da un punto di vista finanziario, il Regno di Francia era gestito da quattro generali delle finanze (Languedoil, Languedoc, Outre Seine et Yonne, Normandie) e dai generali delle province particolari (Picardie, Bourgogne, Dauphiné, comté de Provence, Duché de Bretagne, Duché de Milan). Si veda S. Meschini, Luigi XII duca di Milano. Gli uomini e le istituzioni del primo dominio francese (1499-1512), Milano, 2004, p. 153-154.
9 In questa sede usiamo i termini «ordinario» e «straordinario» per riferirci alla materia finanziaria e fiscale in modo non proprio ortodosso rispetto agli attuali dettami di scienze delle finanze. Si considera «ordinaria» quella voce che ricorre con una certa stabilità nelle scritture contabili dei diversi anni, di là dalla capacità degli organi di governo di definire l’ammontare a priori. Tutte le voci che hanno carattere più sporadico vengono definite, al contrario, come «straordinarie».
10 Ph. Hamon, L’argent du roi… cit., p. 101.
11 Fu il caso, in particolare, delle rendite sull’Hotel de Ville di Parigi, che proprio Francesco I implementò massicciamente. Si veda Ph. Hamon, L’argent du Roi… cit., p. 154.
12 R. Doucet, Le grand parti de Lyon au XVIe siècle, in Revue Historique, 171 (1933), p. 473-513 e 172 (1933), p. 1-41; R. Gascon, Grand commerce et vie urbaine au XVIe siècle. Lyon et ses marchands (environ de 1520-environs de 1580), Parigi, 1971.
13 Ph. Hamon, L’argent du Roi… cit., p. 158.
14 R.J. Knecht, French Renaissance Monarchy. Francis I and Henry II, London-New York, 1984, p. 47-56; Ph. Hamon, L’argent du roi... cit., p. 64-65. A titolo di confronto, si consideri che la spesa ordinaria della monarchia francese nella prima metà del Cinquecento si aggirava attorno a 6-7 milioni di lire tornesi l’anno (F. Bayard, Avant-Propos, in Ph. Hamon, L’argent de roi… cit., p. 11).
15 Sul fattore «redistributivo» delle Guerre d’Italia si è soffermato di recente G. Alfani, Il Grand Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo cinquecento» (1494-1629), Venezia, 2010. È piuttosto noto che il militare potesse rappresentare un vero e proprio business, soprattutto per coloro che gravitavano attorno alle attività di alloggiamento e mantenimento delle truppe, come sottolineato ancora di recente da D. Parrot, The Business of War Military Enterprise and Military Revolution in Early Modern Europe, Cambridge, 2012.
16 Ph. Hamon, L’Italie Finance-t-elle les guerres… cit., p. 26-27.
17 R.J. Knecht, French Renaissance Monarchy. Francis I and Henry II, Londra-New York, 1984, p. 49.
18 M. Di Tullio, D. Maffi et M. Rizzo, Il fardello della guerra. Governo della finanza pubblica e crisi finanziarie nello Stato di Milano fra centri e periferie (secc. XV-XVII), in Le crisi finanziare: gestione, implicazioni sociali e conseguenze nell’età preindustriale, Firenze, 2016, p. 239-260 (p. 239-40).
19 F. Chabod, Storia di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, p. 238-411; F. Leverotti, La crisi finanziaria del ducato di Milano alla fine del Quattrocento, in Milano nell’età di Ludovico il Moro, Milano, 1983, vol. II, p. 585-630; G. Chittolini, Alienazioni di entrate e concessioni feudali nel ducato sforzesco, in Id., Città, Comunità e Feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Milano, 1996, p. 143-166; G. Vigo, Finanza pubblica e pressione fiscale nello Stato di Milano, Milano, 1979; G. De Luca, Debito pubblico, mercato finanziario ed economia reale nel Ducato di Milano e nella Repubblica di Venezia tra XVI e XVII secolo, in G. De Luca e A. Moioli (ed.), Debito pubblico e mercati finanziari in Italia (secc. XIII-XIX), Milano, 2007, p. 119-146; M. Di Tullio, L’estimo di Carlo V (1543-1599) e il perticato del 1558. Per un riesame delle riforme fiscali nello stato di Milano del secondo Cinquecento, in Società e Storia, 131, 2011, p. 1-35.
20 Il processo è noto come curva di Laffer, ideata dall’omonimo economista statunitense, riprendendo la teoria keynesiana, che mise in relazione la pressione fiscali con l’ammontare delle entrate tributarie, dimostrando che l’aumento della pressione fiscale oltre un certo limite non è più conveniente perché riduce il complesso delle entrate fiscali.
21 M. Di Tullio, La ricchezza delle comunità… cit.
22 Archives Nationales, Parigi, serie J910, n. 1 (1510), 4 (1516), 5 (1517) e 6 (1518).
23 M. Di Tullio e L. Fois, Stati di guerra… cit.
24 F. Leverotti, Scritture finanziarie dell’età sforzesca… cit. Percentuali simili si riscontrano anche nel periodo post-francese (F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa nell’epoca di Carlo V, Torino, 1971; M. Rizzo, Finanza pubblica, Impero e amministrazione nella Lombardia spagnola: le «visitas generales», P. Pissavino e G. Signorotto (ed.), Lombardia spagnola e Lombardia Borromaica, Roma, 1995, vol. I, p. 303-361) mentre diversa era la situazione, ad esempio, dei ducati padani, dove la contiguità (e promiscuità) tra proprietà del principe e finanze pubbliche determinava la rilevanza delle entrate patrimoniali. In merito si vedano A. De Maddalena, Le finanze del ducato di Mantova all’epoca di Guglielmo Gonzaga, Milano-Varese, 1961; M.A. Romani, Finanza pubblica e potere politico: il caso dei farnese (1545-1593), in Idem. (ed.), Le corti farnesiane di Parma e Piacenza (1543- 1662), Roma, 1978, vol. I, p. 3-5; G.L. Podestà, La finanza pubblica nel Ducato di Parma e Piacenza in età farnesiana, in G. De Luca e A. Moioli (ed.), Debito pubblico e mercati finanziari in Italia. Secoli XIII-XX, Milano, 2007, p. 167-175.
25 Ph. Hamon, L’argent du Roi… cit., p. 106-113.
26 Nel 1518 la crescita erariale effettiva fu del 34,3 % contro il 53,5 % che sarebbe risultato considerando le entrate non epurate da partite di giro e le somme già iscritte in uscita. In specifico sulla questione rimando a M. Di Tullio e L. Fois, Stati di guerra… cit., p. 56-58.
27 Sicuramente, comunque, gli offici milanesi furono un’occasione di carriera e uno strumento per distribuire favori dal sovrano tanto agli Italiani quanto ai Francesi. In generale sembra che ai Francesi fossero destinati i vertici dell’amministrazione statale, mentre le cariche minori fossero distribuite tra i fedeli lombardi. In merito si vedano L. Arcangeli, Esperimenti di governo: politica fiscale e consenso a Milano nell’età di Luigi XII, in Ead. (ed.) Milano e Luigi XII. Ricerche sul primo dominio francese in Lombardia, 1499-1512, Milano, 2002, p. 255-339; S. Meschini, La seconda dominazione francese nel ducato di Milano. La politica e gli uomini di Francesco I (1515-1521), Varzi, 2014; M. Di Tullio, Finanze pubbliche, fiscalità e mobilità sociale tra tardo Quattrocento e primo Cinquecento, in A. Gamberini (ed.), La mobilità sociale nel Medioevo italiano. La Lombardia del Tre-Quattrocento, Roma, 2017, p. 283-304.
Auteur
Università di Pavia
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