Antichi santi, politica e diplomazia nella corte sabauda di età moderna
p. 429-445
Résumé
Il contributo intende mettere in luce l’attenzione rivolta al culto degli antichi santi nei domini sabaudi fra età moderna e contemporanea. Tanto i duchi di Savoia quanto i re di Sardegna manifestarono un interesse particolare verso un sistema agiografico (ampiamente illustrato e propagandato dagli apparati ideologici a servizio della corte) che puntava ad esaltare il prestigio della dinastia attraverso l’esaltazione di patroni celesti risalenti a tempi remoti. È il caso di san Maurizio e dei martiri della legione tebea (evocati quali tutori della stirpe e del suo impegno antiereticale), ma anche di Lorenzo (il cui culto enfatizzava i legami con altre corti cattoliche), di Pietro, di Paolo, dell’imperatore Costantino (dei quali si esaltava il passaggio nelle terre subalpine come prova della loro precoce dedizione al cristianesimo), e dei tanti martiri estratti dalle catacombe romane che, giunti in Piemonte, vennero assunti a patroni di numerose comunità locali.
Texte intégral
1Le celebrazioni per il 150o dell’unità d’Italia hanno contribuito a rinvigorire un interesse (tutt’altro che scontato alla vigilia dell’anniversario) per i protagonisti del Risorgimento nazionale1, fra i quali un posto di rilievo hanno trovato anche i Savoia, «maledetti» e «benedetti» dalla pubblicistica più recente2. Nel quadro di una pur rinnovata attenzione verso la monarchia sabauda3 accentuata, negli ultimi anni, anche da eventi culturali di ampio impatto mediatico (come la riapertura al pubblico nel 2007 della Reggia di Venaria4) e non limitata al contesto italiano5, il tema dei rapporti con la sfera del sacro è rimasto, complessivamente, piuttosto secondario al punto da indurre alcuni fra i più acuti studiosi della dinastia a dubitare che quella dei re d’Italia sia stata «una dinastia senza sacralità »6. A ciò non è certo stata estranea quella lunga stagione storiografia durante la quale si è voluto vedere nella stirpe sabauda uno strumento del processo di laicizzazione che avrebbe trovato il suo pieno compimento il 20 settembre 18707. In questa prospettiva i Savoia, nella cui storia il ruolo esercitato dalla dimensione sacrale era (e rimane) una realtà difficilmente occultabile8, divenivano il paradigma di una dinastia capace di «usare» la sfera religiosa per legittimare le sue aspirazioni, per giustificare la sua spregiudicatezza, per compiere la sua missione che, in fondo, era stata quella di unificare l’Italia liberandola dal giogo del papato, giudicato a posteriori – come nelle parole pronunciate dal sindaco di Roma nel 1910 – «il frammento di un sole spento, lanciato nell’orbita del mondo contemporaneo »9. Questa lettura, ideologicamente connotata e metodologicamente limitata, ha reso difficili altri approcci, che avrebbero potuto evidenziare la propensione dei Savoia (ma, a ben vedere, tipica di ogni dinastia di età moderna e contemporanea) a interpretare il sacro e le sue manifestazioni non solo come strumento, ma soprattutto come linguaggio attraverso il quale comunicare all’interno e all’esterno dello stato.
2È il caso del culto dei santi che anche presso i Savoia, come in ogni casato d’Europa, fu un efficace mezzo di veicolazione di messaggi politici e culturali10. Dalla prima età moderna i Savoia cercarono di arricchire il loro santorale attraverso la promozione di culti propriamente dinastici: per un casato che, a differenza di altre stirpi, non poteva vantare un «santo in famiglia »11, risultava naturale il tentativo di ottenere il riconoscimento canonico di devozioni incentrate su insigni personalità della dinastia. Si spiega così il forte investimento che, a partire dal XVI secolo, la corte ducale profuse per arrivare alla canonizzazione di Amedeo IX (il duca morto nel 1472) proposto – anche da Roberto Bellarmino – come modello di quei sovrani giusti e pii, valorosi e misericordiosi, disposti a «sottomettere a Cristo gli scettri »12, e delle principesse Ludovica (figlia di Amedeo IX, divenuta clarissa dopo la vedovanza) e Margherita di Savoia-Acaia (marchesa del Monferrato, morta in odore di santità nel 1464). Nonostante gli ingenti sforzi, i Savoia non arrivarono che a risultati limitati: Amedeo venne beatificato solamente nel 1677 (un anno dopo la beatificazione di Margherita), mentre per Ludovica si dovette attendere il 183913. Il parziale fallimento del progetto di canonizzazione di Amedeo IX e il ritardo con il quale si arrivò alla sua beatificazione sono indizi delle difficoltà che segnarono i rapporti fra la Sede apostolica e il ducato sabaudo nel pieno Seicento14. Forse proprio la consapevolezza di questa problematicità spinse i Savoia a coltivare, insieme all’agiografia «familiare» (per la quale era indispensabile una legittimazione romana), anche un’agiografia più sicura, non vincolata alle dinamiche variabili della diplomazia pontificia: quella degli antichi santi.
3Per una cultura che tendeva a far coincidere il vero con l’antico, il culto rivolto a santi le cui origini risalivano ai primi secoli del Cristianesimo rappresentava una garanzia; la quale diventava ancora più rassicurante quando quei santi afferivano ad una tradizione agiografica abbondantemente diffusa nella cristianità e ampiamente riconosciuta dalla Chiesa. È il caso, innanzitutto, della tradizione tebea che divenne il vero leit motiv della cultura e della propaganda sabauda di età moderna. Maurizio, il capitano della legione tebea martirizzato ad Agaune nel III secolo, era considerato patrono della stirpe e dei suoi domini. Come tale gli fu intitolato l’ordine cavalleresco di casa Savoia (rifondato – mediante la fusione con l’ordine di San Lazzaro – da Emanuele Filiberto nel 1572), assurgendo poi a principale modello agiografico dell’impegno antiereticale della dinastia sabauda.
4Attraverso la propaganda di corte, che nelle opere dell’erudito Guglielmo Baldessano (un gesuita a servizio del duca come storiografo) trovava la sua più efficace elaborazione ideologica15, Carlo Emanuele, nel cui valore militare risiedeva l’essenza del suo prestigio, proponeva una trasposizione tra la sua figura e quella del santo. Alla legione dei martiri capitanati da Maurizio, duce della legione, veniva così a corrispondere l’esercito di Carlo Emanuele, duca di Savoia, le cui imprese militari erano presentate e giustificate quali provvidenziali interventi volti a preservare il ducato e l’Italia tutta dell’infezione ereticale. In questi termini era stata giustificata l’impresa militare con cui nel 1588 il duca aveva invaso il marchesato di Saluzzo, un microstato di grande valore strategico passato sotto il controllo dei francesi, molti dei quali – a partire dal maresciallo Lesdiguières16 – avevano aderito al calvinismo17. Nella «politique du précipice »18 di Carlo Emanuele I, la conquista del marchesato venne così presentata come un necessario provvedimento assunto per fermare il contagio ugonotto che dalla Francia minacciava di estendersi in Piemonte e da qui nella penisola. A tale obiettivo contribuirono anche i santi tebei: nelle pagine di Baldessano (la cui più celebre opera, la Sacra Historia della legione thebea, venne pubblicata nel 1589, proprio all’indomani dell’impresa di Saluzzo) due martiri della legione (Chiaffredo e Costanzo), anticamente venerati nelle terre del marchesato dei quali da secoli erano i patroni19, vennero «rivestiti» della croce trilobata e arruolati nella milizia di san Maurizio, metafora celeste dell’esercito di Carlo Emanuele20. La conquista di Saluzzo, condotta sotto l’auspicio dei martiri tebei che finivano idealmente per riunirsi al loro capitano, assumeva così un significato religioso oltre che politico.
5Se il culto tebeo riuscì a diventare uno dei maggiori strumenti di affermazione del prestigio dinastico, esso assunse anche le forme di un linguaggio, condiviso e praticato sia all’interno del ducato (dove i Savoia dovevano rafforzare la loro autorità) sia all’esterno, in quella società dei principi nella quale i Savoia cercavano visibilità. Di questo linguaggio articolazioni fondamentali furono oggetti concreti e tangibili: immagini e reliquie. È infatti attraverso le immagini e le reliquie dei martiri che i Savoia riuscirono a comunicare, ai loro sudditi e agli altri sovrani, il patrocinio dei tebei sul loro casato, con tutti i risvolti – in termini di prestigio e di legittimazione – che questo fatto comportava.
6Nel gennaio 1591 le reliquie di san Maurizio erano giunte dal Vallese a Torino: un evento che aveva richiesto complessi sforzi diplomatici, ingenti spese e grandiose cerimonie. Le trattative con gli svizzeri (condotte non dal duca, impegnato in Provenza nella guerra contro i francesi, ma dalla moglie, l’infanta Caterina d’Asburgo) si conclusero con la cessione delle ossa del martire, che iniziarono un lungo viaggio attraverso le Alpi, conclusosi il 15 gennaio nella capitale ducale, con una solenne processione al termine della quale il corpo di san Maurizio venne riposto nel duomo. La collocazione non era affatto casuale: la cattedrale di San Giovanni (che da alcuni anni custodiva la Sindone) si trovava così ad ospitare i «due gran propugnacoli che la serenissima casa ha nelle sue mani »21.
7La circolazione delle reliquie tebee non era un fenomeno ristretto al solo territorio ducale. I Savoia seppero infatti indirizzare la sacralità mauriziana anche al di fuori dei confini sabaudi, seguendo logiche improntate alla sensibilità devozionale dei loro interlocutori ma anche alle differenti opportunità politico-diplomatiche. Il culto di san Maurizio, con la sua ampia diffusione in diversi contesti geografici e dinastici, rappresentava un messaggio universalmente comprensibile nella società dei principi. I Savoia, che attraverso il sistema degli onori incardinato sull’ordine mauriziano erano riusciti a stabilire una vasta rete di relazioni con le nobiltà italiane ed europee22, seppero perciò dialogare con le altre corti anche usando il lessico delle reliquie tebee.
8Il caso più significativo riguarda la Spagna asburgica, della quale il Piemonte sabaudo fu alleato per oltre cinquant’anni, a cavallo fra XVI e XVII secolo. Nella corte di Madrid il culto mauriziano era un evidente retaggio della cultura borgognona: non è un caso che il santo comparisse fra i patroni dell’ordine del Toson d’oro, anche’esso nato in Borgogna e divenuto in Spagna il maggior segno di prestigio equestre. Fu sotto Filippo II che la devozione a Maurizio e ai tebei divenne più forte: basti pensare al Martirio dipinto dal Greco per l’Escorial (dove il santo è raffigurato insieme al re e ad altri coevi protagonisti della corte, fra cui lo stesso duca Emanuele Filiberto) e alle complesse vicende che portarono alla sua sostituzione con il più «tradizionale» Martirio del pittore romano Romolo Cincinnato.
9La devozione per i tebei si alimentava soprattutto di reliquie, e l’Escorial ne era particolarmente ricco. Nelle cronache del real monasterio si ricordava infatti un «cuerpo… casi entero» del «valoroso capitan de la santa legion de los Tebeos, llamado Mauricio», custodito «en un arca o caja de metal dorado, plata y cristales, harto rica »23. Fra i «brazos des santos» vi erano poi numerose reliquie dei martiri di quei «santos escuadrones que pelearon debajo de la bandera de san Mauricio »24. A Madrid, nel monastero di «Santa Maria di Consolatione» (las Descalzas Reales), «in una pretiosa cassa d’argento» si trovava poi il corpo di san Vittore, «anch’egli thebeo», donato a Filippo II dalla giovane moglie Anna d’Asburgo25. Anche a Barcellona vi erano reliquie tebee: si trattava di quei commilitoni martirizzati in Germania, le cui reliquie erano state conservate a Treviri fino a quando, nel 1581, dopo un breve passaggio nel collegio gesuitico di Milano, erano state trasferite a Genova e da qui imbarcate alla volta della Spagna26.
10Se molte di queste reliquie provenivano dai giacimenti tedeschi, altre arrivavano invece dal Piemonte sabaudo. Il duca aveva infatti trasmesso a Filippo II alcuni resti sacri di martiri tebei (fra i quali i «gloriosi capi d’essa legione»: Maurizio, Secondo, Solutore, Avventore, Ottavio) fatti riporre in un prezioso reliquiario «tutto d’argento indorato» e ricoperto di cristalli27 (lo stesso che fra Sigüenza avrebbe poi ricordato nel suo inventario28). Nei primi anni del Seicento lo sfortunato viaggio dei principini sabaudi Filippo, Vittorio e Filiberto29 fu l’occasione per rinvigorire il «pio disegno» di Carlo Emanuele «d’accrescere la divotione della Spagna verso i gloriosi thebei per mezo delle venerande reliquie mandate alla detta Maestà cattolica »30. A testimonianza di ciò, nel 1604 le reliquie di Maurizio, Vittore e Orso, accompagnate da grandi stendardi processionali, erano state esposte a Valladolid31. Nelle speranze del duca, ampiamente riprese dalla propaganda sabauda, la «cattolica e opulenta natione» spagnola avrebbe tratto grande giovamento «ne’ bisogni» dal «patrocinio e aiuto» di «così segnalati hospiti »32. Già un decennio prima, in un momento difficile per il Piemonte, con «potenti nemici a fianchi di là dell’Alpi» e con Torino «attorniata da strepiti dell’armi delli heretici», proprio una principessa spagnola (l’infanta Caterina, rimasta sola a governare il Piemonte mentre Carlo Emanuele era in guerra in Francia) aveva invocato, fra gli altri, anche «il patrocinio di san Mauritio tutelare della casa serenissima »33.
11Se il culto tebeo doveva diventare un solido ponte fra le sensibilità religiose delle due corti, si poneva l’esigenza di inquadrare la circolazione delle reliquie dei martiri in Spagna in un preciso progetto politico e culturale. Sembra questa la logica che presiede alla traduzione in castigliano della maggiore opera di Baldessano, la Sacra historia thebea, redatta nel 1594 da Fernando de Sotomayor «para los caballeros que andan en corte y los que hazen profession de la guerra »34. Sotomayor constatava che pur «estando llenas de sus sagradas reliquias las mas principales iglesias de España, a penas se sabe quien fueron, ni de donde vinieron, ni en que tierras o parte del mundo, o quando o quales tormentos pedecieron »35. La sua opera, attraverso la quale anche il pubblico iberico avrebbe potuto conoscere la grande diffusione di martiri tebei fra «los Treverenses, Coloneses, y Borgonones, Lombardos y Piamonteses los quales [aggiungeva l’autore] no siendo inferiores a los de Agauno han ilustrado el nombre tebeo y christiano tanto como ellos »36, sarebbe così servita a conferire dignità e prestigio anche alle tante reliquie tebee che nei secoli – e specialmente negli ultimi anni – erano giunte in Spagna.
12 Nel regno iberico, in quegli anni, non erano arrivate dal Piemonte solamente reliquie tebee. Nel 1568 Emanuele Filiberto, da poco rientrato in Piemonte dopo il lungo periodo di occupazione francese, fece giungere all’Escorial una venerata reliquia di san Lorenzo custodita nell’abbazia della Novalesa e «tenida en tanta veneracion» nel monastero benedettino «y en su contorno »37. Si trattava di un braccio del santo che un non meglio precisato beato Nicola avrebbe portato da Costantinopoli al Mons Jovis (cioè il Gran San Bernardo), e che da lì sarebbe poi giunto nelle mani dei monaci novalicensi. La traslazione sarebbe risalita agli inizi del XIII secolo, com’era attestato in un documento del 1203 redatto dal vescovo Aimone, che il nunzio pontificio presso la corte sabauda, Francesco Bachod, aveva duplicato e inviato al duca38.
13San Lorenzo non era, per Emanuele Filiberto, un santo qualunque. Il 10 agosto 1557 (festa del santo) Emanuele Filiberto, fedele alleato di Filippo II, aveva sbaragliato le truppe francesi nella battaglia di San Quintino, ponendo le premesse per la liberazione del ducato e per il suo rientro in Piemonte. Da quel giorno Lorenzo era diventato uno dei più venerati patroni del principe, che al santo fece costruire una chiesa destinata a divenire uno dei fulcri della pietà ducale. In quegli stessi anni in Spagna Filippo II dedicava a san Lorenzo l’ «enigma arquitectónico »39 dell’Escorial, che, oltre ad essere reggia e monastero, era un enorme reliquiario, dove il rey prudente arrivò a raccogliere quasi 10.000 reliquie, inviategli da tutta la cristianità40. Lorenzo era dunque un santo che, per la concomitanza di particolari contingenze politiche e di parallele sensibilità devozionali univa due sovrani, due corti, due stati che, proprio in quegli anni, stavano stabilendo legami sempre più saldi. I rapporti fra Savoia e Asburgo, già solidi con Emanuele Filiberto (che di Filippo II era cugino) divennero strettissimi con Carlo Emanuele I, che nel 1585 aveva sposato la figlia del re Cattolico, l’infanta Caterina. Al termine del loro viaggio di nozze iniziato a Saragozza nel marzo del 1585, il due sposi decisero di entrare a Torino proprio il 10 agosto41. Era quella una «giornata felicissima» per le due casate42 ; un «buen dia» per lo stesso Filippo II, che si congratulò con la figlia per aver scelto proprio quella data, «pues ahì y aca es razon hacer mas fiesta a san Lorenzo que en otra por haber vuestro suegro el que venciò la batalla en su dia »43. Fra le due dinastie, alleate sul piano politico e familiare, Lorenzo, antico martire di origine iberica, diventava così un ulteriore elemento di coesione, da celebrare ed esaltare in ogni occasione.
14La devozione per san Lorenzo coinvolse tutta la corte sabauda, a partire dalla giovane duchessa figlia di Filippo II. Tra le gioie appartenute all’infanta numerosi erano gli oggetti che riconducevano (attraverso immagini o frammenti di reliquie) al santo. Nel maggiore santuario torinese, dedicato alla Madonna Consolata, ancora a metà Seicento esisteva un ritratto del’infanta posto sotto una statua di san Lorenzo, quasi a voler indicare la protezione del martire iberico sulla duchessa spagnola44.
15Se san Lorenzo era un santo funzionale al consolidamento dei vincoli fra i Savoia e gli Asburgo, altri santi avrebbero potuto contribuire, per la loro antichità e autorevolezza, a rafforzare il prestigio della casa ducale e a gettare dei ponti con quelle realtà politiche con le quali essa intratteneva rapporti più problematici. È il caso, in primo luogo, della Roma papale: una realtà imprescindibile per la strategia sabauda di affermazione nel panorama italiano, con la quale, tuttavia, non mancarono tensioni e incomprensioni. In questo quadro si inserisce il tentativo, avviato nella seconda metà del Cinquecento e ripresa per tutto il Seicento, di dimostrare la precocità della cristianizzazione del Piemonte. Nelle opere di storiografia ecclesiastica di quell’epoca (ad esempio nella Storia ecclesiastica della più Occidentale Italia, un lavoro di Guglielmo Baldessano rimasto inedito) si arrivava infatti a ipotizzare l’origine apostolica del cristianesimo in Piemonte.
Segnalato favore ha avuto quella provincia [scriveva l’erudito gesuita] se è vero ciò che si legge nella Cronaca della Novalesa, la quale testifica che san Pietro fu nel detto luogo e vi eresse un oratorio per i cristiani che ivi in compagnia di Priscilla, nipote di Nerone, stavansi nascosti per tema della persecuzione di lui, e che per questa ragione fu quel luogo dedicato al principe degli apostoli45.
16La notizia del passaggio di Pietro in Piemonte è ripresa anche da Paolo Brizio (un frate francescano divenuto vescovo di Alba nel 1642) nei suoi Progressi della Chiesa occidentale, dove ampio spazio venne dato agli albori del cristianesimo in Piemonte, una terra evangelizzata proprio da Pietro, che avrebbe sostato nella valle di Susa46 e prima ancora da Barnaba, che avrebbe visitato di persona Asti, Alba, Acqui, Nizza e altri centri del ducato47. Il mito dell’origine apostolica del cristianesimo subalpino – sui cui sarebbe tornato, di lì a poco anche l’erudito canonico vercellese Marc’Aurelio Cusano, ipotizzando il passaggio di Pietro e Paolo a Vercelli48 – non deve stupire. Sappiamo, infatti, che in quegli stessi anni André Du Chesne (1584- 1640), nelle Antiquitez et recherches de villes, chasteaux et places les plus remarquables de toute la France (1607), un’opera scritta «vite, sans beaucoup de discussions critiques »49, affermava che san Paolo avesse evangelizzato la Francia50 ; mentre Tamayo Salazar nella Commemoratio omnium sanctorum Hispanorum (1651-1659), raccontava i viaggi dei due apostoli in terra iberica51.
17Reso sacro dai viaggi di Pietro e dal martirio dei tebei, il Piemonte aveva assistito al trionfo del cristianesimo ai tempi di Costantino, imperatore che per l’erudizione ecclesiastica ebbe un vincolo speciale con la terra subalpina: proprio qui, infatti, a Costantino sarebbe apparsa la visione della croce e del motto In hoc signo vinces. Il prodigioso evento si sarebbe prodotto nella pianura circostante Torino: Paolo Brizio ne era convinto al punto da ritenere giusto confutare anche Cesare Baronio e «confessare quivi, e non in Bretagna, né vicino al Tevere, né vero altronde, essere apparso questo cotanto celebrato segno »52.
18Assegnare al Piemonte un ruolo attivo nella conversione di Costantino permetteva di fornire alla politica sabauda una carta in più nella complessa partita in atto con il Papato, che di quella conversione era stato il primo beneficiario. Potersi presentare ai pontefici come sovrani di una terra cristianizzata dagli apostoli e rivelatasi decisiva per il primo imperatore cristiano consentiva ai Savoia di trattare con Roma se non su di un piano di parità, almeno con quel prestigio (dovuto proprio all’antichità e all’autorevolezza dei santi che avevano percorso la terra subalpina) che rendeva legittime le loro aspirazioni, prima fra tutte quella al titolo regio53.
19In questa prospettiva va vista l’attenzione con cui Carlo Emanuele seguì la scoperta di reliquie di antichi santi, nelle città e nelle terre del ducato. Nel 1607 nella chiesa di San Giusto di Susa, in una cappella dedicata a santo Stefano fu rinvenuto proprio il cranio del protomartire. Il cardinale Giacomo Serra, protettore dei canonici lateranensi titolari della chiesa, si affrettò a presentare la scoperta come una «fra le maggiori grazie» ricevute dal duca, il quale informò il papa di tale ritrovamento, reso ancor più straordinario dai prodigi che lo accompagnarono54. Qualche anno dopo l’interesse ducale si concentrò su Ivrea, nella cui cattedrale nel 1620 vennero casualmente rinvenute le reliquie di san Tegolo, un martire ascritto alla legione tebea. Il vescovo di Ivrea, Giuseppe Ceva, decise di trasferire alcuni corpi santi (tra i quali anche il corpo di Tegolo, che si ritenne subito fosse stato portato in duomo dal beato Varmondo, vescovo fra X e XI secolo) in una cappella la cui costruzione era stata finanziata dal duca Carlo Emanuele. È significativo notare che al centro dell’interesse non vi è san Savino (il vescovo di Spoleto portato ad Ivrea in età arduinica e subito assunto a patrono della città55) cioè un santo «forestiero» attraverso il quale risultava difficile celebrare il rapporto fra Ivrea e i Savoia, bensì Tegolo, un martire tebeo che, in quanto tale, era veicolo di messaggi devozionali a cui la propaganda ducale non era estranea. Non stupisce allora che l’attenzione del vescovo Ceva si fosse concentrata su quelle «prove» (trattandosi «di cosa antiquissima e da tempo immemorabile») necessarie a dimostrare «che queste reliquie ritrovate siano del glorioso san Tegolo della legione tebea, al quale» – aggiungeva non casualmente il vescovo – «piaccia d’intercedere continuamente appresso Dio per questa serenissima Casa e per tutto il suo felicissimo Stato »56.
20Anche le reliquie degli antichi martiri contribuivano a potenziare il prestigio che la propaganda ducale cercava di celebrare esaltando le sacralità che erano nate o che erano fiorite nel «giardino genealogico della Real Casa di Savoia »57. Non sempre, tuttavia, le reliquie rinvenute nelle terre subalpine erano sufficienti a soddisfare le esigenze devozionali che emergevano dalla corte o dalle comunità (grandi e piccole) dello stato: si rendeva dunque necessario supplire a questa necessità reperendo altrove le reliquie di antichi santi. È in quest’epoca che dalle catacombe romane, veri e propri «arsenali della fede »58, presero ad arrivare in Piemonte con sempre maggiore frequenza corpi santi, subito assunti dalle autorità locali come patroni o compatroni delle loro comunità. Il fenomeno, che si inquadra nella stagione dei «cacciatori di reliquie», quando irresistibile divenne (anche per eruditi come Cesare Baronio)59 il «fascino dell’immaginario cittadino ubicato nella sotterraneità delle catacombe »60, coinvolse diversi centri subalpini. Alcuni di questi erano di piccole dimensioni, come Giaveno, non lontano da Torino, dove nel 1611 giunsero le reliquie di Sant’Antero papa e martire, proclamato compatrono insieme a san Lorenzo61 ; Palazzolo, nel Vercellese, dove nel 1626 arrivarono alcuni resti di papa Caio e di santa Faustina62 ; Cavallerleone, nel Cuneese, dove nel 1663 giunsero le reliquie di san Romano, immediatamente proclamato patrono; Bioglio, nel Biellese, dove nel 1671 furono portate dalle catacombe di Priscilla le ossa delle sante Lucia e Giustina, donate al canonico Giovanni Battista Carpano dal cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni, nipote di Clemente X63. In altri casi si trattava di grandi città (come la stessa Torino, dove nel 1611 erano giunti i resti di san Tigrino, estratti dal cimitero della via Salaria, che furono collocati ed esposti alla pubblica venerazione nella chiesa dei Santi Martiri64), o di centri di medie dimensioni come Pinerolo, dove fece la sua comparsa Leavio, un santo destinato ad avere grande fortuna – sia pur con una trasformazione onomastica65 – sino al tardo Ottocento. Di Leavio (il cui nome sembrerebbe essere una corruzione di Livio, santo che peraltro non compare nel Martirologio romano e negli Acta Sanctorum) non si hanno informazioni su vita, morte e miracoli. Le sue spoglie erano state estratte dalle catacombe di Priscilla (insieme a quelle dei martiri Virginio, Euflamia e Calosseno) nel 1622 su ordine del generale della Compagnia di Gesù, Muzio Vitelleschi. A questa decisione non era risultato estraneo monsignor Secondo Ferrero di Ponziglione, referendario apostolico e agente del cardinale Maurizio di Savoia, il cui interessamento era stato decisivo perché i resti sacri fossero traslati in Piemonte66. Nel 1623 Virginio ed Euflamia presero la via di Cherasco (la città natale di Ferrero di Ponziglione), dove vennero subito assunti a patroni della città67. Gli altri due corpi rimasero invece ancora qualche tempo a Torino, nella chiesa carmelitana di Santa Maria di Piazza (sita nei pressi della dimora torinese del referendario Ferrero di Ponziglione), finché nel 1625 non si decise di trasferire Calosseno (chiamato anche Calocerio) a Collegno (dove fu collocato «unitamente all’ampolla di vetro rotta ed intrisa di sangue» in una cappella del castello del gran cancelliere di Savoia, Giovanfrancesco Provana68), e Leavio a Pinerolo. Qui le reliquie del santo (la cui proclamazione a compatrono lasciava trasparire evidenti finalità antiprotestanti69) furono dapprima consegnate ai cappuccini, in attesa di essere poi collocate nella chiesa collegiata di San Donato70. In realtà la permanenza presso i cappuccini si protrasse – nonostante diversi solleciti da parte dei canonici e delle autorità cittadine – per quasi trent’anni, sino a quando, il 27 aprile 1653, le reliquie furono solennemente portate nel duomo, dove divennero oggetto di attenzione e di devozione specialmente da parte delle autorità cittadine71.
21Leavio non fu il solo martire portato a Pinerolo dai cimiteri romani agli inizi del Seicento. Nel 1612 erano arrivate alcune reliquie (probabilmente ottenute dal cavatore Giovanni Battista Cavagna72, sacerdote novarese ben noto alle carceri pontificie per aver infranto gli editti di Clemente VIII contro le estrazioni abusive nelle catacombe73), mentre nel 1625 il cardinale Scipione Borghese aveva affidato ai cappuccini le reliquie dei martiri Tiberio, Genesio, Paolino, Narciso, Semplice, Liberato, Domizio, Valeriano, Casto, Baiano, Panfilo e Teodora74. L’anno successivo il cardinale Ludovico Ludovisi aveva donato, sempre ai cappuccini, la mandibola di san Zenone75, mentre il cardinale Maurizio di Savoia aveva fatto trasmettere i resti di Valentino, Giustino, Innocenzo, Felice, Vittorio, Abramo, Vito, Amato, e Ignazio vescovo e martire76. Giunti a Pinerolo questi corpi santi furono subito abbinati a quello di Leavio di cui condivisero il destino, essendo anch’essi proclamati compatroni della città. Poco importava che la maggior parte degli antichi martiri di cui erano giunte le reliquie non fosse neppure menzionata nel Martirologio romano, poiché – si argomentava allora – «volendoli scrivere tutti nominalmente troppo sarebbe, et in tal caso bisognerebbe scrivere molti libri, sendo che il numero de’ martiri è molto grande »77.
22I corpi santi arrivavano in Piemonte non solo da Roma. Alla fine degli anni Venti del Seicento un carico di reliquie (quelle dei martiri Cristina, Elisabetta, Caterina, Margherita, Petronia, Emanuele, un’altra Caterina virgo et martyr cum sociis suis) giunse infatti dalla Sardegna a Torino, dove l’arcivescovo Filiberto Milliet, dopo aver messo al sicuro i resti sacri in locali pertinenti al duomo di San Giovanni, aveva ordinato «che detti corpi santi fussero esposti alla venerazione »78. Ad organizzare la spedizione dalla Sardegna – avvenuta non senza profusione di grazie e di prodigi – era stato Antonio Scotia, un protomedico cagliaritano a servizio della duchessa Cristina di Francia. Nel 1648 – anno nel quale era stata sventata una congiura per assassinare la duchessa attraverso oscuri rituali magici79 – Scotia aveva sollecitato la ripresa della devozione, «havendo sicuramente questi santi liberate lor Altezze Reali dalla morte del veleno e malefici». Per il protomoedico i duchi, essendo nell’obbligo di ringraziare i martiri del loro provvidenziale interevento, avrebbero dovuto «adornare di sette busti d’argento essi sette corpi santi» che sarebbero poi stati collocati in diverse chiese della città80.
23A corte come nella capitale, nei piccoli centri come nelle grandi città, il ducato di Savoia vide fiorire il culto di molti santi il cui prestigio – fondato sulla loro antichità – era funzionale alle politiche di affermazione del potere sabaudo. La propaganda ducale seppe valorizzare questi santi per celebrare vincoli dinastici e rafforzare alleanze diplomatiche, e per consolidare l’idea (tutt’altro che condivisa in Italia) di un ruolo – o, meglio, di una missione – che la Provvidenza avrebbe affidato ai Savoia, e che i santi di più antica tradizione avrebbero contribuito a testimoniare e a legittimare.
24 A ben vedere, questo fenomeno non è limitabile alla prima età moderna. Vittorio Amedeo II, il duca che nel 1713 riuscì ad ottenere il titolo regio con la corona di Sicilia (corona ricevuta dal consesso internazionale, e non dal papato che per questo riconobbe con notevole ritardo la dignità regale assunta dai Savoia81) manifestò una forte devozione mariana, che assunse le forme architettoniche della basilica di Superga, plasmate dal genio di Filippo Juvarra82. Il re mostrò tuttavia un altrettanto intenso interesse cultuale per gli antichi santi che trovarono spazio e risonanza nella chiesa di Sant’Uberto della reggia di Venaria Reale, dove, oltre ad essere custodite numerose reliquie martiriali83, furono realizzate imponenti statue di sant’Ambrogio, sant’Agostino, sant’Anastasio e san Giovanni Crisostomo84.
25Un secolo dopo, in piena restaurazione, fu un altro re di Sardegna, Carlo Felice (al quale si deve l’ «importazione» e l’esaltazione a Torino del culto di sant’Efisio, l’antico sardae patronus insulae85), ad ottenere da papa Leone XII le reliquie di un antico martire particolarmente venerato a Torino, san Paolo, patrono di una delle più influenti e facoltose compagnie devozionali della città, dal cui patrimonio sarebbe poi sorto uno dei maggiori istituti bancari italiani86. Nel 1827 venne infatti recapitata a Torino una colonna di marmo e bronzo, sormontata da una statua di san Paolo contenente, nel piedistallo, una reliquia dell’apostolo. Il prezioso dono, poi collocato nel castello di Aglié, era stato offerto da Leone XII a Carlo Felice in ringraziamento dell’impegno profuso dal monarca sabaudo per la ricostruzione della basilica Ostiense, distrutta da un incendio quattro anni prima87.
26Non stupirà se a chiusura di queste riflessioni, aperte ricordando l’Unità d’Italia e il ruolo giocato dai Savoia per il suo conseguimento, si ritorni a quegli anni, per ripercorrere una vicenda che, alla vigilia del Risorgimento, vide ancora come protagonista l’antico santo patrono della dinastia, Maurizio.
27Nell’estate del 1840 l’ambasciatore piemontese a Roma ebbe modo di notare un frammento della testa di san Maurizio custodita nel palazzo apostolico del Quirinale. «Pensando che potrebbe piacere a Sua Maestà di avere ne’ suoi reali domini la preziosissima reliquia del santo protettore della sabauda corona» – scrisse il diplomatico – «mi adoperai nel migliore modo possibile per ottenerla in dono da Sua Beatitudine »88. Dopo una breve trattativa la reliquia, munita di autentica, venne inviata a Torino dove fu accolta con un certo imbarazzo. La corte non riusciva infatti a celare le sue perplessità su di una reliquia che, di fatto, avrebbe potuto rappresentare un’implicita confutazione dell’unicità (e dunque della superiorità) delle reliquie mauriziane arrivate a Torino il 15 gennaio 1591. Urgeva pertanto verificare «la provenienza di detta insigne reliquia», ossia di quella testa «mancante di alcuni denti e dell’intera mandibola inferiore» che, dopo essere stata custodita ab antiquo nella cappella del collegio germanico in Sant’Apollinare, era poi giunta al cardinale vicario di Roma Giacinto Placido Zurla e, dopo la sua morte, riposta nella «custodia» del Quirinale. L’autorevolezza delle mani attraverso le quali la reliquia era transitata non smorzava tuttavia i dubbi sulla sua «genuinità»: a Torino non si riteneva convincente l’ipotesi che la reliquia fosse originariamente stata conservata a Vienne (città francese dove il culto mauriziano era assai radicato89), mentre vi era chi faceva notare le analogie della situazione con una vicenda accaduta oltre mezzo secolo prima. Nel 1780 era infatti arrivata notizia che a Bologna, nella chiesa agostiniana di San Giacomo, si custodiva un’altra testa di san Maurizio. Benché fosse stato suggerito a Vittorio Amedeo III di richiedere il resto sacro del martire al generale degli agostiniani, essendo «cosa ragionevole che presso la Maestà Sua fosse venerata la parte principale del di lui corpo, che è il capo »90, la corte non aveva compiuto quel passo interpretabile come una presa d’atto della dispersione delle più importanti testimonianze della sacralità mauriziana al di fuori dei confini sabaudi. Non devono dunque meravigliare le resistenze che nel 1840 furono opposte all’accettazione della reliquia mauriziana rinvenuta a Roma, forti al punto da indurre l’ambasciatore sardo a far notare al governo che «ogni difficoltà che si elevasse andarebbe a ferire materie assai delicate», finendo di fatto coll’impedire «la venerazione che s’intende essere comandata ai fedeli quando la Santa Sede concede una reliquia perché si collochi nelle chiese». Sollevare ulteriori dubbi sull’autenticità della reliquia sarebbe inoltre stato interpretato come un «mancare verso la Sedia apostolica di quella deferenza e di quel rispetto che è prescritto ai cattolici per tutto ciò che da lei emana», senza contare che «se si concedesse ai fedeli la facoltà di poter discutere sull’autenticità della santa reliquia solennemente dalla Chiesa riconosciuta colla spiegazione delle debite autentiche, è fuor di dubbio che da siffatte discussioni deriverebbero inconvenienti gravissimi» .
28La sacralità martiriale continuava dunque ad esercitare, tramite le reliquie di Maurizio, un ruolo sorprendente, tanto più in un contesto politico e culturale – quello della corte sabauda di metà Ottocento – che di lì a poco avrebbe visto concretizzarsi il più energico processo di secolarizzazione mai messo in atto da uno stato italiano. Eppure, è proprio in quell’ambito e in quell’epoca in cui prendeva nuovamente slancio l’idea di «missione» affidata dal destino ai Savoia (una missione tutta politica, quella di unificare l’Italia), che l’agiografia ritornava ad essere centrale nelle strategie sabaude. Ai santi di più consolidata tradizione e di più antica memoria (dai tebei a Lorenzo, passando per i molti martiri le cui reliquie erano state trovate in Piemonte o importate da Roma), a metà Ottocento si affiancarono, promossi agli onori degli altari, i principi e le principesse che nel corso dei secoli, con la loro vita pia e la loro condotta esemplare, avevano contribuito a fare dei Savoia una beata stirps91. La stessa che nel 1861, al termine di una lunga epopea nella quale erano intervenuti anche santi «vecchi» e «nuovi», aveva cinto la corona d’Italia, e che nove anni dopo, facendo di Pio IX un pontefice non più sovrano, aveva innalzato a capitale del regno quel «miracolo di Dio »92 che, agli occhi di tutti (cristiani e non) appariva Roma: l’ «alma città» che continuava ad essere – come lo era stata sempre e senza contraddizioni – allo stesso tempo «sacra e moderna »93.
Notes de bas de page
1 Francia 2013.
2 Del Boca 2010.
3 Bianchi – Merlotti 2017.
4 Castelnuovo 2007.
5 Si vedano, ad esempio, per il mondo anglosassone Vester 2012 e per quello francofono Meyer 2014.
6 Merlotti 2007a, p. 132-133.
7 Sull’uso politico della storiografia sabaudista cfr. Merlotti 2007b.
8 Cozzo 2006.
9 Il passo di un discorso di Ernesto Nathan del 1910 è citato da Vidotto 2013, p. 85.
10 Un esempio significativo è offerto da Le Gall 2003; per una panoramica più ampia si veda Marin – Vincent-Cassy 2015; Ducreux 2016.
11 Barbero 1991.
12 Motta 2005, p. 375-376.
13 Cabibbo 2015.
14 Rosso 2015.
15 Cozzo 2005.
16 Sulla sua figura cfr. Gal 2007.
17 Fratini 2004.
18 Gal 2012.
19 Il patronato dei santi Costanzo e Chiaffredo sul marchesato di Saluzzo (e sulla diocesi, eretta nel 1511) è splendidamente raffigurato nel prezioso polittico di Hans Clemer, nella cappella del Santissimo Sacramento della cattedrale di Saluzzo (Ragusa 2002, p. 115-117). Nel duomo sono conservate le reliquie di san Chiaffredo, solennemente traslate a Saluzzo dal castello di Revello (dov’erano state portate da Carlo Emanuele I) il 16 febbraio 1642.
20 Cozzo 2000. Per una rappresentazione iconografica del «rivestimento» tebeo di san Chiaffredo si veda il busto-reliquiario del santo nella cappella delle reliquie del duomo di Saluzzo (Damiano 2011).
21 Cit. in Cozzo 2006, p. 62. Sull’uso propagandistico della Sindone presso i Savoia si veda ora Nicolotti 2017.
22 Merlotti 2002; Brunelli 2015.
23 De Sigüenza 1963, p. 368.
24 Ibid., p. 365.
25 Baldessano 1604, p. 258.
26 Ibid., p. 398.
27 Ibid., p. 400.
28 De Sigüenza 1963, p. 372.
29 Del Rio Barredo 2006, p. 407-434.
30 Baldessano 1604, p. 403.
31 Wattenberg Garcia 2012.
32 Baldessano 1604, p. 403.
33 Ibid., p. 364-365. Su Caterina si veda ora Raviola – Varallo 2013.
34 Sotomayor 1594, p. 2r-v.
35 Ibid., p. 2v.
36 Ibid., p. 4v.
37 Mediavilla Martín – Rodríguez Díez 2005, p. 18. Il trasferimento della reliquia fu «sentido extranamente» (ibid.) dai monaci, per ricompensare i quali Emanuele Filiberto aveva loro assegnato cospicue somme di denaro. Il duca aveva poi segnalato al re di Spagna la possibilità di ricordare il monastero «en alguna vacancia en la iglesia en Milan u en otra parte» (ibid., p. 18-19). Dal canto loro i religiosi si impegnarono a celebrare nella cappella di San Lorenzo del monastero novalicense «ogni giorno annualmente e perpetuamente» una messa per la salute della Maestà cattolica «e dei potentissimi ed invittissimi suoi predecessori, ed anche per la felicità, prosperità e crescimento di detta sua Maestà e dei suoi posteri e augumentazione dei suoi regni» (ibid., p. 20).
38 Ibid.
39 Chueca 1998.
40 Lazure 2009.
41 Bianchi 2010, p. 47-50.
42 Così scriveva l’ambasciatore veneto Costantino Molin il 13 agosto 1582 (cit. in Cozzo 2006, p. 57).
43 È un passo di una lettera scritta il 3 ottobre 1585 da Filippo II alla figlia (cit. in Cozzo 2013, p. 218).
44 Ibid., p. 218-219, n. 27.
45 Cit. in Cozzo 2014, p. 532. La notizia fornita da Baldessano «può o essere supposizione del tutto fantastica su basi di vaga analogia, oppure dipendere anch’essa da una certa tradizione milanese che legava le origini del cristianesimo nell’Italia del nord alle andate e ritorno dalle Gallie di san Pietro e san Paolo o da uomini apostolici (san Marziale, discepolo di san Pietro, san Luca)» (Bolgiani 1997, p. 247, nota 65).
46 Brizio 1649, p. 72.
47 Ibid., p. 70. Sulla venuta di Barnaba in Piemonte Brizio aveva precisato: «vuole uno scrittore de’ nostri tempi che l’apostolo san Barnaba sia il primo che introdusse la fede del Redentore ne’ popoli subalpini del Piemonte» (ibid., p. 69). La sua fonte potrebbe essere Baldessano (a cui era nota la tradizione del viaggio di Barnaba nell’Italia nord occidentale), oppure Filiberto Pingone (1525-1582), che nella sua Augusta Taurinorum (Pingone 1577, p. 13) aveva già citato la presenza del santo a Milano e poi a Torino, città delle quali sarebbe stato il primo vescovo.
48 Cusano 1676, p. 2-3.
49 Tallon 2005, p. 33.
50 Tallon 2002, p. 31.
51 Henriet 2002, p. 73.
52 Brizio 1649, p. 130.
53 Cozzo 2008b.
54 Cit. in Cozzo 2006, p. 191. Una ricognizione delle reliquie, compiuta il 22 dicembre 1622 dall’arcivescovo di Torino Filiberto Milliet, chiariva che nella cappella di Susa era conservata «una testa compita eccetto le mandibole, et da esse separata con tre denti, doi intieri et l’altro con la sola radice, quali sono masellari, nella quale si vedono, prima sopra il fronte nella regione della sutura coronale, una macatura grande come un giulio incirca, nella quale per la vechiaia si vede mancamento dell’osso osia consomptione» . Probabilmente tale ricognizione venne richiesta anche dalla curia romana: qualche mese dopo l’arcivescovo di Torino si era infatti dovuto scusare con il cardinal Borghese per la «tardanza» con cui aveva provveduto a inviare la «verificazione» e il «processo verbale» delle reliquie di santo Stefano (ibid., n. 139).
55 Settia 1998, p. 110-113.
56 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie Ecclesiastiche, Materie Ecclesiastiche per Categorie (= AST, C, MEC), cat. 36 (Reliquie), mz. 1, n. 10, 1620, 29 aprile, Relazione delle reliquie di S. Tegulo, martire della legione thebea, ritrovate da mons. Ceva vescovo d’Ivrea in una capella della sua cattedrale.
57 Codreto 1655, p. VI.
58 Ghilardi 2006.
59 Guazzelli 2012; Ditchfield 2012.
60 Ghilardi 2010, p. 283.
61 Gallizia 1724. Insieme a quelle di sant’Antero, giunsero con la medesima spedizione anche le reliquie dei santi Vitale, Giustiniano, Orazio, Fortunato, Vincenzo e Claudio (Cozzo 2008a, p. 96).
62 Casalis 1846, p. 67.
63 Riccardi 2010.
64 Signorelli 2000, p. 381, 398.
65 Di «Santi Martiri Leonio e Compagni», invece di Leavio, si fa menzione in diversi documenti del tardo Ottocento, come gli Atti del Consiglio di Pinerolo del 20 giugno 1890 (Supplemento alla Gazzetta di Pinerolo del 25 ottobre 1890, n. 43, p. 124), e gli atti della causa civile fra il Comune e il Capitolo della Cattedrale di Pinerolo (La Cattedrale di Pinerolo ed il suo diritto alle prestazioni di culto verso al Città di Pinerolo, per gli avvocati Boccacino F. e Caucino A., Torino, Tip. Subalpina, 1887, p. 3 e ss.), conservati in Archivio del Capitolo di San Donato di Pinerolo, tit. 1, cl. 3/F, sr. 65.
66 Adriani 1856.
67 Cracco – Cracco Ruggini 2003, p. 152-154.
68 Gazzera 1850, p. 23.
69 Caffaro 1897, p. 57-58.
70 Archivio del Capitolo di San Donato di Pinerolo, tit. 3, cl. 2, sr. 17, 1627, 6 ottobre. Donazione delle reliquie di san Leavio e altri martiri già del p. Valeriano Mafione.
71 Caffaro 1897, p. 60.
72 Ibid., p. 51.
73 Ghilardi 2005, p. 129-130; sul Cavagna, «sacerdote figlio di genitori ebrei» che dovette possedere «una sorta di oratorio temporaneo» pieno delle reliquie cavate e pronte ad essere distribuite in tutta Italia, cfr. Ghilardi 2006, p. 29-31, 60-61.
74 Caffaro 1897, p. 11.
75 Ibid.
76 Ibid., p. 56.
77 L’annotazione a proposito di Leavio e degli altri martiri estratti da Santa Priscilla nel 1622 emerge in un Breve discorso sopra la translazione dei gloriosi corpi de’ santi Virginio et Eflamia martiri, portati da Roma a Cherasco et delle solennità in essa seguite del mese di marzo prima domenica di Quadregesima dell’anno 1623, riedito in Adriani 1856, p. 412.
78 AST, C, MEC, cat. 36 (Reliquie), mz. 1 non inventariato, 1648, 10 marzo, Lettera del protomedico Antonio Scotia a Madana Reale relativa ai corpi santi di Cristina, Elisabet, Caterina, Margarita, Petronia, Emanuele, Catharina virgo et martir cum sociis che il medesimo avea portati dal Regno di Sardegna alle loro AARR.
79 Il tentativo di assassinio, ordito dal senatore Bernardo Sillano, dal valletto di Vittorio Amedeo I Giovanni Gioia e dal monaco fogliante Giovanni Gandolfo, portò alla condanna a morte del religioso; tale fatto scatenò le reazioni della Sede apostolica, che per ritorsione rispose negativamente alla richiesta della duchessa Cristina di estendere ai sudditi ducali la possibilità di lucrare le indulgenze giubilari dell’anno santo del 1650 presso il santuario di Mondovì (sulla vicenda cfr. Rosso 2002, p. 638-639; Cozzo 2015, p. 29, n. 50).
80 «Due d’essi per la capella che Vostra Altezza Reale fa fabricar in San Giovanni, due alli padri carmelitani scalzi, due alle sue meritamente dilette sante religiose carmelitane scalze, et l’ultimo alle monache capuccine» . Il riferimento ai carmelitani (ordine prediletto dalla duchessa) non era casuale. Proprio a un carmelitano, il padre Andrea Costaguta, architetto e ingegnere a servizio della principessa, nonché «antico e cordial amico» di Scotia, il protomedico affidava la richiesta di intercedere presso la corte per i suoi «occorrenti bisogni» (AST, C, MEC, 36, Reliquie, mz. 1 non inventariato, 1648, 10 marzo, Lettera del protomedico Antonio Scotia a Madana Reale, cit.). Sul ruolo dei carmelitani nella corte di Cristina di Francia si veda Cozzo 2017.
81 Visceglia 2015.
82 Jöchner 2014.
83 «Nella camera del beato Sebastiano Valfré, trasformata in cappella, si conservavano due antiche e preziose urne contenenti reliquie di santi martiri. Queste urne un tempo facevano parte della cappella del castello di Venaria. Il duca Vittorio Amedeo II, per salvarle da eventi bellici, le aveva donate al beato Sebastiano Valfré allora suo confessore. Il beato Valfré conservò sempre nella sua camera queste reliquie con molta venerazione. Di entrambi si conservano le lettere autentiche». La testimonianza, redatta nel 1970 dal padre oratoriano Walter Oddone (allora parroco della chiesa di San Filippo Neri a Torino e di lì a poco eletto procuratore generale della Congregazione) è conservata in Archivio della Congregazione di San Filippo Neri a Torino, unità 279 (Catalogo delle sacre reliquie di santi martiri che si conservano in diversi reliquiari rovinati dal tempo… Reliquie insigni conservate nella chiesa di San Filippo in Torino).
84 Castellani Torta 2003.
85 Cozzo 2012, p. 970-971.
86 Barberis – Cantaluppi 2013.
87 Sulla vicenda Cozzo 2015, p. 19-20.
88 La vicenda (la cui base documentaria è costituita dalla corrispondenza diplomatica conservata in AST, C, MEC, cat. 36, Reliquie, mz. 1 non inventariato) è ricostruita in Cozzo 2015, p. 20-23.
89 Nimmegeers 2012.
90 AST, C, MEC, cat. 36, Reliquie, mz. 1 non inventariato, cat. 36, Reliquie, mz. 1 non inventariato, Copia di un articolo di lettera con cui si dà notizia che nella Chiesa di San Giacomo de PP. Agostiniani eremitani di Bologna si conservano il capo di San Maurizio e si suggerisce il modo col quale potrebbe la M.S. procurarsi tale reliquia.
91 Cabibbo 1996,
92 La definizione, lanciata in pieno risorgimento da Giacomo Margotti sulle colonne del giornale intransigente L’Armonia, è ripresa da Vidotto 2015, p. 440.
93 Panciroli 1725.
Auteur
Università degli Studi di Torino
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