Chapitre 2. La nozione di sacer in etrusco : dai riti del liber linteus a ritroso
Texte intégral
1Iscrizioni etrusche non solo votive, ma anche funerarie, restituiscono termini con significati attinenti alla sfera del sacro. Partendo dallo studio dei contesti, è possibile effettuare qualche considerazione sulla valenza che la nozione di sacralità ricopre nell’Etruria soprattutto di età ellenistica, quando è attestato un maggior numero di testi epigrafici rispetto alla vicina cultura romano-repubblicana. Un parallelo spunto di valutazione è offerto dalla valenza dei titoli magistratuali etruschi con competenza in materia di sacro : le prime attestazioni in età arcaica, una fase in cui i vicini popoli del Lazio conoscono ancora la monarchia, rendono utile qualche riflessione sulla loro possibile evoluzione in parallelo o disgiuntamente rispetto all’uso di Roma.
Premessa
2Se sul significato di sacer per la cultura latina è possibile ad oggi dibattere partendo dalle testimonianze letterarie degli autori di età imperiale, occorre però premettere la pressoché totale assenza di termini di confronto per il mondo etrusco, nel quale una letteratura di tema religioso non si è conservata. Non sarà dunque possibile tentare di rintracciare concetti anche lontanamente avvicinabili a quelli di uia sacra, di lex sacrata, di mons sacer, etc., essendo i significati stessi di molte voci lessicali etrusche oggetto di dibattito. Occorrerà piuttosto attenersi a riflessioni più basilari, ripartendo dai termini che mostrano di avere un’attinenza con il concetto di « sacro » allo scopo di confrontare il loro impiego con l’uso latino e di ricostruire in astratto una parallela nozione di « sacro » anche per l’area etrusca. Una simile operazione mira dunque a comprendere quali siano i riflessi cultuali che l’impiego di tale terminologia implica e a rintracciare eventualmente un gradiente cronologico per determinate variazioni.
3In primis occorre naturalmente rifarsi a quella documentazione che acquista a partire dal VI secolo a.C., insieme all’apparire delle prime strutture templari, un carattere non solo contenutisticamente ma anche formalmente sacro con la codificazione delle dediche votive, e che continuerà ad essere regolarmente attestata fino all’età ellenistica. In tale fase si data la comparsa della ricca messe di informazioni – almeno potenziali – contenute nel calendario di Zagabria (d’ora in poi LL), una sorta di testamento dell’intensità della vita cultuale etrusca.
Sacer sanctus religiosus
4Sul concetto di sacer/sanctus per il mondo latino non occorre tornare, se non per quanto concerne una delle distinzioni che si sono volute cogliere nella letteratura sull’argomento, ovvero tra ciò che è interno al rito (sacer) vs. ciò che ne è al di fuori (più che sanctus, cfr. in tal senso religiosus, purus)1. Tale caratteristica è stata desunta dalle definizioni già antiche del senso di sacer rispetto a sanctus, e in ultima analisi anche rispetto a religiosus :
Elio Gallo in Fest., p. 424, 14 L. : Sacrum esse, quocumque modo atque instituto ciuium consecratum sit, siue aedis siue ara siue signu siue locus siue pecunia siue quid aliud, quod dis dedicatum atque consecratum sit.
Marcian., Dig., 1, 8, 8 : Sanctum est, quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est.
Ulpian., Dig., 1, 8, 9, 3 : Proprie dicimus sancta, quae neque sacra neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata ; ut leges sanctae sunt : sanctione enim quadam sunt subnixae. Quod enim sanctione quadam subnixum est, id sanctum est, etsi deo non sit consecratum.
Elio Gallo in Fest., p. 348-350 L. : Religiosus est non modico deorum sanctitatem magni aestimans, sed etiam officiosus aduersus homines. […] Inter sacrum autem, et sanctum, et religiosum differentia bellissime refert : sacrum aedificium, consecratum deo ; sanctum murum, qui sit circum oppidum ; religiosum sepulcrum, ubi mortuus sepultum aut humatus sit, satis constare ait. […] Idem religiosum quoque esse + qui non iam + sit aliquid, quod ibi homini facere non liceat ; quod si faciat, aduersus deorum uoluntatem uideatur facere. Similiter de muro, et sepulcro debere obseruari, ut eadem sacra, et sancta, et religiosa fiant, sed quomodo [quod] supra expositum est, cum de sacro diximus.
5In base alle fonti latine, sacer risulta essere dunque tutto ciò che non solo è dedicato agli dei, ma anche consacrato secondo il rito, vale a dire da figure specifiche e in ogni caso legato alla dimensione pubblica2. Come si accennava, in base all’analisi di É. Benveniste sacer riguarderebbe la dimensione della sacertà implicita, mentre sanctus di quella esplicita3.
6Volendo per il momento limitarci a considerare la valenza delle voci lessicali note per l’etrusco sotto l’aspetto sommariamente richiamato per l’ambito latino, i termini cui è riconosciuto un significato nella sfera del sacro non sono pochi : sacni, χi,4 zec, zarve,5 *tuθ, aisia, aisna, eter(a), *sanχuna ?,6 per tacere di altri ormai noti, come cver7, tinscvil/tinścvil8. Tra questi se ne evidenzieranno di seguito alcuni, meglio attestati, in merito ai quali è possibile effettuare qualche considerazione più generale.
Sacni, sacni[š]a, *sacnica
7Il primo termine in questione è rappresentato da sac-ni, che compare nelle formule ripetitive del LL rientranti nelle parti di preghiera, in forma solitamente articolata come *sacni-ca e *sacni-[š]a9. La distinzione risiede essenzialmente nei due pronomi impiegati nell’articolazione : il primo, -ca, è stato ritenuto identificare un referente non animato, il secondo, -[š]a, uno animato, ovvero « confraternita » vs. « confratello » ;10 « cosa santa » vs. « persona santa/sacra, sacerdote »11. Di seguito le occorrenze di *sacni-ca nel LL12 :
1. nessi « pro quo » : śacnicleri cilθl śpureri meθlumeric enaś ..
2. nessi « a quo » : śacnicśtreś cilθś śpureśtreś enaś.. : II 3-4 : .. śacnic]śtr[e]ś cilθś [śpureśtreś enaś s]vels[t]reś svec ; III 21 solo śpureśtres ; V 3-4 solo śacnicstreś cilθś śpureśtreś ; VIII f5-f6 solo śacnicśtreś leggibile ; IX 9 .. in zec fler θezince śacnicśtreś 10cilθś śpurestreś enaś ..
LL, V 22 : .. śacnicla 23cilθl śpural meθlumeśc enaś cla θesan
LL, VI 6 : .. naχva tinθaśa 7etnam velθinal etnam aisunal θunχerś 8 iχ śacnicla
LL, VII 6 : .. ciz trinθaśa śacnitn 7an cilθ ceχane sal (śuciva firin)..
LL, VIII 10 : .. vacl ar flereri sacnisa 11sacnicleri trin flere neθunsl..
LL, XII 11 : .. an śacnicn cilθ ceχa sal 12cus cluce..
8Dal punto di vista etimologico, generalmente vi è accordo nel riferire la parola alla radice *sak- di sacer13. Al di là delle motivazioni avanzate per le due forme pronominali -ca e -[š]a, interessa qui il senso del termine, formalmente un aggettivo ricorrente in espressioni formulari e attestato anche al di fuori del LL, in testi funerari in cui i termini sacni[š]a/ sacniu sono stati riferiti al defunto14.
9Oltre all’aggettivo sacni sono note anche forme verbali attestate nel più antico calendario della Tabula Capuana, di inizio V secolo a.C., ovvero il congiuntivo sac-a e il necessitativo sac-ri15 :
TC 6 : .. vacil l7eθamsul scuvune marzac saca ⋮
TC 10 : .. marza inte hamaiθi ital sacri
10Le due forme corradicali di sac-ni rappresentano pertanto le più antiche attestazioni del termine. Visto il riferimento in tali contesti ad un’azione rituale in cui sono coinvolti doni votivi (ma occorrerebbe meglio specificare il significato di marza) e la loro presentazione alla divinità (si vedano i genitivi di dedica leθamsul, ital), non è fuori luogo pensare alla consacrazione degli stessi secondo il rito16.
11Per quanto concerne invece il significato di « confraternita » ormai invalso per *sacnica nel testo del LL, bisogna in primo luogo ritornare al valore di cilθ, che ne rappresenta sempre la specificazione nei formulari dei riti paralleli, e ripensare dunque al senso del nesso *sacni-ca cilθl, se davvero da rendere con « confraternita dell’arce ».
12Cilθ è stato acquisito come designazione dell’« arce/acropoli » grazie ad un datato studio di Giovanni Colonna, che non ha perso la sua validità17. Sarà anzi opportuno tornare alle considerazioni dell’autore per rivedere il senso dell’espressione e in particolare alla valutazione dell’arx come il luogo designato per i culti. Il rito del liber è stato sempre ritenuto ancorato, come ogni rito antico, ad una comunità in particolare (di *Ena, si pensava), fino a quando Enrico Benelli non ha individuato nel presunto toponimo il pronome indefinito, ciò che ha tolto ogni valore di specificazione alle invocazioni del liber. Il cerimoniale qui prescritto è divenuto dunque in letteratura un rito-modello, generico, da attuare di volta in volta da parte di ogni comunità etrusca che vi si riconosca18. Una locuzione del tipo « confraternita dell’arce » non può dunque avere un valore designativo, vista la varietà di situazioni che ogni comunità presenta. Diversamente, una costante delle città etrusche anche di stampo coloniale è la collocazione dei templi con relativi culti nell’arce19. *sacni-ca potrà quindi più probabilmente tornare a designare i sacra dell’arce.
13Attenendoci nel complesso a quanto si può comprendere dalle attestazioni scritte, di fatto sacni-ca/-[š]a, in quanto aggettivo articolato, in base ai contesti può assumere significati diversi, quali :
(a) la sacertà/inviolabilità del cilθ (nelle espressioni con acc. sacnitn ?) ; oppure
(b) designare il nume stesso come inviolabile ( ?), cui sono riservati i suoi propri sacra.
14Alla base della seconda interpretazione vi è in effetti la considerazione che -[š]a possa rappresentare un pronome/aggettivo possessivo e che in quanto tale sintatticamente si comporti come un sostantivo o come un aggettivo, assumendo dunque il caso assolutivo20. A differenza dei pronomi dimostrativi noti, non si conoscono infatti attestazioni di una forma in -n (eventualmente *-[š]n) come in tutte le altre forme pronominali21 : se l’assenza non è casuale, occorre pensare ad un pronome che sia caratterizzato da un’identica forma (-[š]a) per i casi retti. Su questa interpretazione si veda più avanti.
15Per il senso di « inviolabile » o simili, riferito alla divinità, si può ad esempio considerare l’espressione dell’VIII colonna del LL sopra riportata, flereri.. sacnicleri, in cui per accordo sintattico sacnicleri qualifica il nume flereri. Allo stesso modo può essere intesa anche l’espressione VI 6, relativa ad un’azione (tinθaśa) concernente i naχva delle singole (θunχerś ?) (divinità) ctonie e celesti così come di quelle *sacni-ca (inviolabili ?). I due contesti ricordati portano a considerare le occorrenza di *sacni-ca come riferite alle divinità, o a una particolare cerchia di divinità, piuttosto che in favore di una confraternita (manca una definizione del tipo Fratrer Atierie del rito iguvino, o dei fratres Aruales romani, ma il carattere indefinito dei culti del liber ammetterebbe questa soluzione). Nelle formule all’ablativo (śacnicśtreś) si potrebbe pensare a riti celebrati o voluti da parte degli dei inviolabili dell’arce (oltre che da parte del popolo, della città e degli uomini, indicati con svele-ri-c). Un confronto per azioni richieste dalla divinità, espressa all’ablativo, proviene infatti dal testo di Pyrgi, in cui vatieχe unialastres è abitualmente interpretata con « per volere di Uni ».
16Al di fuori del LL, le occorrenze di sacni[š]a da iscrizioni funerarie indicano qualcosa di riferito non tanto al defunto-sacerdote, quanto piuttosto alla consacrazione/inviolabilità delle spoglie del defunto o della tomba, ottenuta per mezzo di un rito funerario (si veda l’elenco delle attestazioni riportato di seguito). A questo proposito si può ricordare un documento figurato, l’oinochoe sovradipinta di Vulci con scena di sacrificio e di offerta incruenta (libagione), su cui ha richiamato l’attenzione Simona Rafanelli22. La studiosa ha rilevato che, in assenza di sacerdote a dirigere la cermonia, il soggetto della prima scena potrebbe riunire le funzioni di vittimato e di sacrificante insieme. Il rito raffigurato sull’oinochoe si lascerebbe identificare dunque come cerimonia privata23, verosimilmente ctonia in base alla tipologia delle offerte24. Di qui la proposta di intendere la forma sacni[š]a delle iscrizioni funerarie come termine identificante :
(c) i riti sacri o di consacrazione relativi alla tomba.
ET, Ta 1.47 : ramθa aprinθnai an sacniśa θui ---eθrce
ET, Ta 5.3 : [- ?- spur]inas : sacni : θui : ceseθce
ET, Ta 5.4 : [larθ : velχa]s [velθur]us : cla[n : ravnθu]sc ap2[rθnal : - ?-]rθ : [--- u]i acalusve sacn[iś]a mulv3--i ceχam : papac : marθ : svlisva..
ET, Ta 5.5 : zilci : vel[u]s[i] : hul2χniesi larθ : vel3χas : vel[θu]r(u)s : aprθn[al]4c : cl[a]n : sacniśa : θui5[ecl]θ : śuθiθ : acazr6ce.
ET, AT 1.193 : elnei : ramθa clθ śuθiθ 2sacniśa θui huts teta 3avles velus θansinas 4ati θuta
ET, Vs 1.248 : a seies : ha 2sacniśa
ET, Vc 1.8 : [ra]mθa : papni : armnes : apu[- ?- 2pui]a hatrencu : sacniś[a]
ET, Vc 1.17 : aravn2θu sei3tiθi bativu 2sacni3śa atur4ś
ET, Vc 1.4 : eca. śuθi. larθal. tarsalus. sacniu
ET, Vc 1.10 : eca śuθi tarχas levial hatr[en]cu sacniv
17I predicati ]eθrce, ceseθce, acazrce, sono in ogni caso attivi e indicano a tutti gli effetti azioni rituali di sacrificio o di offerta25. Nelle occorrenze riportate, sacni[š]a, se da considerare come oggetto piuttosto che come apposizione del soggetto, indicherebbe ancora una volta, come forma di possessivo, « i suoi sacra », spoglie o azioni rituali, deposte oppure celebrate « nella tomba » (θui, θui eclθ śuθiθ), probabilmente su disposizione del defunto. Il fatto che altre espressioni presentino, in luogo di sacni[š]a, la forma sacniu/-v riferita alla tomba conferma per analogia che simili locuzioni abbiano per oggetto la consacrazione della tomba stessa. Che sacni sia infine riscontrato su un altare consacrato al culto infero di Tinia risulta coerente con quanto osservato26.
ET, Vs 4.13 : tinia : tinscvil 2s : asil : sacni
18Volendo cercare nell’impiego della parola etrusca un’analogia con l’uso romano, le categorie di sacertà/santità non risulteranno necessariamente combacianti. Sembra in generale di poter concludere che l’aggettivo sacni sia parzialmente affine all’impiego che conosce sacer. Sacni nei contesti del LL pare indicare ciò che è consacrato in forma pubblica, ufficiale, secondo l’uso romano. Tuttavia, nelle occorrenze funerarie già ricordate, giusta l’interpretazione, la forma sacni[š]a, piuttosto che indicare il defunto stesso come « persona pia » o come « sacerdote », rappresenta probabilmente qualcosa di inerente ai riti funerari. Se dunque va riconosciuta a sacni[š]a la valenza di « (atto, rito) sacro, il suo », da riferire alla consacrazione della tomba o delle spoglie del defunto stesso, occorre anche riconoscere che il termine connoti non solo la sacertà oggetto della devozione e della consacrazione pubblica, ma anche quella propria della sfera privata27.
La radice *tuθ-
LL, VII : 8..cepen tutin 9renχzua..
ET, AV 4.1 : acauθas. tuθiu. avils. LXXX. ez. χimθm. casθialθ. lacθ. hevn. avil. neśl. man. murinaśie. falzaθi aiseras. in. ecs. mene. mlaθce. marni. tuθi. tiu. χimθm. casθialθ. lacθ mariśl. menitla. afrs. cialaθ. χimθm. avilsχ. eca. cepen. tuθiu. θuχ. iχu tevr. heśni. mulveni. eθ. zuci. am. ar
b.. mi menicac marca lurcac eθ tuθiu..
ET, Vs 3.10 : ecn : turce : avle : havrnas : tuθina : apana 2selvansl [ :] tularias
ET, Pe 3.3 : auleśi : meteliś : ve : vesial : clenśi 2cen : flereś : tecesanśl : tenine 3tuθineś : χisvlicś
ET, Co 3.6 : veliaś. fanacnal. θuflθaś 2alpan. menaχe. clen. ceχa. tuθineś. tlenaχeiś
19Agli effetti di una consacrazione ufficiale potrebbe valere anche l’impiego della radice *tuθ, attestata anche al di fuori del LL, nelle forme tuθiu del piombo di Magliano e tuθina di alcune dediche votive28. Il maggiore interesse è rappresentato dal nome verbale/perfetto tuθiu, che compare sul lato (b) del piombo all’interno di un testo « parlante » : qui l’oggetto, secondo una pratica diffusa nel tardo orientalizzante e nell’età arcaica, si autodefinisce mi menicac marca lurcac eθ tuθiu. Riconoscendo il valore di eθ come avverbiale29, si può comprendere approssimativamente l’espressione come qualcosa di fatto/dedicato (meni-) e cerimoniale (marca lurca-c), che così (eθ) è stato tuθiu. Dato il contesto, si direbbe che il termine indichi in tal modo qualcosa di « consacrato, dedicato, celebrato »30.
20Lo stesso dicasi anche dell’espressione iniziale del piombo, cauθas tuθiu, e del seguente cepen tuθiu : nel primo caso, l’azione è circoscritta da un termine temporale, che comporterebbe una consacrazione, dedica o altra azione rivolta alla divinità Cautha per un tempo di ottanta anni o risalente a ottanta anni prima. Il secondo contesto è più difficile da definire, trattandosi di qualcosa che sembra destinato a Maris *meni-ta e circoscritto da una serie di locativi, nonché da un termine temporale indicato in modo anomalo dalla parola avilsχ. Riccardo Massarelli, nel commentare il testo, ha sottolineato che secondo l’uso grafico del piombo, il segno chi finale difficilmente si lascerebbe interpretare come numerale, come pure è stato suggerito a suo tempo da Massimo Pallottino31. I teonimi sono comunque, in un caso e nell’altro, espressi al genitivo, che ben si motiva se inteso come dedicatorio. Allo stesso modo si può intendere anche il nesso ceuś cilθcval nel contesto del liber linteus, come genitivo retto dalla forma tutin, che invece funge da imperativo medio32. Se dunque la radice *tuθ è motivabile con il senso di « consacrare » o simili, il derivato nominale tuθina della dedica a Selvans Tularias, nonché l’ablativo tuθineś delle altre due dediche, può rappresentare il signum o l’ex voto, com’è stato proposto33.
Etera : uso e accezioni
21Abbandonando ora i contesti di tipo sacro e votivo per guardare all’uso funerario, si osserva che nel mondo latino e italico i tituli possono far riferimento al sepolcro in quanto luogo sanctus o religiosus. La stessa valenza è stata inoltre richiamata da G. Rocca a proposito dell’iscrizione peligna34 :
ST, Pg 12 ( = Ve 204) : saluta musesa pa 2anaceta ceria 3et aisis sato
22con sato inteso come sanctus e riferito al luogo della devozione funeraria, alla sepoltura stessa, corrispondente al locus religiosus35. Come osservato, per l’area etrusca questo non sembra tanto il caso di sacni[š]a, in quanto sintatticamente riferito al soggetto o, come sopra proposto, all’oggetto di un’azione (di consacrazione ?) nella tomba. Tuttavia è possibile pensare ad un altro termine ricorrente in connessione diretta con la sepoltura : è quanto si propone per la voce etera.
23Sull’interpretazione di etera esiste un lungo dibattito, cui l’intervento di E. Benelli ha messo finalmente un punto36. Secondo le conclusioni raggiunte in questo studio, la parola, nella forma etera, è di norma riferita all’urna o al segnacolo funerario, trovandosi in posizione enfatica a fine iscrizione, e di solito anche visivamente distaccata da quest’ultima. Nella forma eteri è invece ricorrente in formule del tipo lautn eteri. In base all’analisi morfotattica, il primo termine è stato riconosciuto come aggettivo in -ra riferito al supporto funerario stesso, mentre il secondo è stato interpretato come locativo *eter-i accanto a lautn, dunque corrispondente all’espressione di « famiglia nell’*eter/pertinente a *eter »37. La seconda espressione tuttavia può essere analizzata diversamente. Da un lato occorre infatti sottolineare che la stessa forma lautn, rispetto a lautni, rappresenta una forma primaria vs. una derivata in *-naie > -nie > -ni con valore aggettivale38. Il suffisso -ie dà luogo dunque a qualcosa di simile alla contrazione nelle forme recenti in -i (cfr. ad esempio tinθurie vs. tinθuri) : allo stesso modo è possibile che si comporti anche l’uscita -ie agglutinata al tema *eter. Una locuzione del tipo lautn eterie è inoltre restituita da un’attestazione aretina (ET, Ar 1.52) ed è difficimente spiegabile come confusione grafica originata dalla forma di locativo. Eterie accanto a lautn, dovrà pertanto fungere da aggettivo qualificativo e rappresentare un’apposizione rispetto al nome del defunto. Di conseguenza, l’espressione lautn eteri si lascerebbe intendere come un nesso appositivo del soggetto (ad esempio, « di famiglia pia » oppure famulus pius ?)39.
24Il termine ricompare anche in un contesto del liber linteus nel nesso hilarθune etertic caθre, in forma di locativo, come luogo (concreto o astratto) per lo svolgimento di qualche azione rituale, e inoltre all’assolutivo, in un altro passo piuttosto oscuro dello stesso testo (LL X 22θapna θapnzac lena etera θec peisna 23hausti fanuśe neriś -ave epa θui neri).
25Tralascio di ricordare l’iscrizione di S. Anna in Camprena per la quantità di lacune : il contesto che restituisce la parola etera, non necessariamente funerario, è stato proposto come pertinente ad un collegio di persone per la pluralità di nomi qui menzionati40.
1) XY ... etera ; suθi etera
2) XY ... lautn eteri/ lautn eterie/ lautn eterś
3) ET, Ta 1.50-1.51 : a) 1ramθa : huzcnai θui ati : nacnva : larθial : 2apaiatrus zil eteraias
b) ramθa : huzcnai : θui : cesu : ati nacna : larθial : apiatrus : zil eterais
4) ET, Ta 1.96 : larziu cuclnies. larθal. clan 2larθialc einanal 3camθi eterau
ET, Ta 1.115 : θanicu. arnθal. vipenalc. camθi 2eterau
ET, AT 1.105 : aleθnas. v. v. θelu. zilaθ. parχis. 2zilaθ. eterav..
ET, Vc 1.56 : zimarus v 2zila eter 3avls XIV
ET, Vc 1.60 : larθ : [ : pruśln]as vel[u]s 2pruś[lnas : -- --(-)]viu : lupr[-(-)] : eteri 3ceisat[rual avil – sv]alce
26In base alla suddivisione qui riportata delle attestazioni, possiamo dunque supporre che le accezioni di etera/eteri siano all’incirca le seguenti :
1) (luogo funerario) sanctus (oppure purus, o religiosus), per confronto con le iscrizioni latine e italiche, quando riferite a luoghi ;
2) « (persona) pia » per il termine eteri se è opportuno riferirlo a persona.
27In forma derivata sono attestate anche le voci eteraias/eterais (3) come specificazione di zil nel sarcofago delle Amazzoni41 e le forme eterav/eterau riferite a camθi o a zilaθ in altre iscrizioni funerarie (4).
28La forma *eteraia si presenta come ulteriore derivato mediante un morfema -ia presente anche in tularia-s (vs. tular), in ceχinia-i (vs. ceχa, ceχane), in clivinia (vs. cleva, clevana), etc., nel quale è sembrato di individuare, dove possibile, un formante di sostantivi a partire da basi solitamente aggettivali (ad esempio tular « (cippo) confinario » ; tularias « della delimitazione »)42. Così si analizzerebbe anche la forma *eter + ra + ia, che dunque varrebbe all’incirca come « etera-zione ».
29Per questo impiego di *eter non possono soccorrere eventuali attestazioni di area latina o italica. Si possono solo proporre con ogni beneficio di dubbio le seguenti ipotesi. Nell’elogio funerario di Ramθa Huzcnai, l’espressione zil eterai(a)s sarebbe composta da zil come testa del sintagma, dunque con il significato di « capo/maestra/signora », partendo dall’idea che la radice valga all’incirca « reggere, governare »43. Il genitivo eteraias potrebbe dunque valere « della purezza/devozione/pietas (funeraria) ? ». Un’altra ipotesi – ma del tutto aleatoria – consiste nel ritenere che l’espressione formi sintatticamente un superlativo (valendo nel caso purissima/sanctissima). Occorre naturalmente osservare che in ambiente romano simili qualifiche della defunta si trovano attestate solo nell’epigrafia di età cristiana : ad esempio domina piissima44 ; anteriormente sembra usato piuttosto l’appellativo di sancta/sanctissima femina, oppure coniuge ; si veda anche l’espressione sancta uixit, comunque in formule di età imperiale45.
30Le attestazioni funerarie contenenti titoli magistratuali, elencate al punto (4) potrebbero valere camθi/zilaθ « etera-to, addetto alla pietas funeraria ( ?) ». L’ipotesi sarebbe congruente con la giovane età degli individui così qualificati46.
31Ammesso che quanto osservato non si discosti troppo dal vero, l’accezione dell’aggettivo etera in iscrizioni funerarie e sacre (LL) è tutt’altro che negativa, come pure si è rilevato per sacni. Nessuno dei due termini riveste una connotazione analoga all’ambivalenza riconosciuta a sacer quando riferito a persona, che insieme alla « consacrazione esclusiva al dio » comporta esclusione dal consorzio umano. Questa è invece l’interpretazione tradizionalmente riconosciuta ad un’altra parola.
Aisia e sacer
32Nel senso sopra accennato sono impiegati due termini in etrusco : uno è rappresentato da aisna/eisna che, formato come *ais + na, equivale all’umbro esono, l’altro dal suo corradicale *aisia. Le interpretazioni tradizionali per la prima voce, ben attestata ancora una volta nel rito del LL, oscillano fra il senso di « appartenente al dio »47 e quello di « sacro, sacrificio »48. A giudicare dai contesti del LL, la voce aisna indica piuttosto il complesso delle azioni rituali, dunque la « cerimonia » tout court49.
33Dalla stessa base *ais è derivata anche la forma aisias, graffita sulla parete della tomba 29 di Crocefisso del Tufo e già interpretata come damnatio memoriae apposta al di sopra del nome del defunto non completamente abraso50. Il corredo indica una datazione fra il terzo e il quarto quarto del VI secolo a.C., rispetto al quale l’iscrizione è stata ritenuta recenziore. Francesco Roncalli ha evidenziato la valenza particolarmente forte di questa negazione di pietas al defunto, particolarmente in un contesto in cui il ricordo del nomen di ciascun individuo ktistès di tomba è perpetuato dall’iscrizione al di sopra dell’ingresso51.
34Il confronto con aisias è stato richiamato anche a proposito della didascalia esia che identifica la figura di Arianna nello specchio di Palestrina, di V secolo a.C.52. La scena riproduce il ratto/morte di Arianna per mano di Artemide che, presala in braccio, è pronta a trascinarla all’Ade davanti a un Dioniso rassegnato e ad un’Atena che manifesta disapprovazione53. L’appellativo esia, con cui Arianna è qualificata, sarebbe motivabile, secondo la spiegazione offerta da G. Colonna, attraverso l’unica occorrenza di *aisia che, interpretato come aggettivo in -ie o in -sie (dunque *aisie), avrebbe il valore di « consacrato (agli dei) »54.
35Per pronunciarsi sul valore di *aisia/esia occorre tuttavia preliminarmente considerare se la parola rappresenta un apellativo e possa considerarsi, alla stregua di forme onomastiche con analoga terminazione, come un femminile o se piuttosto sia da intendere come lessicale e dunque da interpretare diversamente55. Nella seconda ipotesi, la voce aisias di fine VI secolo a.C. potrebbe rappresentare un genitivo ottenuto da una base *aisia suffissata in -ia. Tale suffisso, nell’impiego lessicale, sembra formare sostantivi da basi per lo più riconoscibili come aggettivali (cfr. sopra ad etera). Se dunque a una damnatio si deve pensare, questa sarà da intendere come riferita ad uno dei rari personaggi femminili sepolti nella necropoli di Crocifisso del Tufo56 oppure alla tomba stessa (all’incirca « dell’esecrazione »). La forma esia dello specchio di Palestrina identifica in ogni caso con più probabilità un appellativo femminile che non una qualifica della scena rappresentata.
Conclusioni provvisorie
36Nel lessico etrusco, il numero di termini legati al sacro testimonia già per il VI secolo a.C. di un alto grado di specializzazione di questa nozione, in sfumature che non possiamo ancora ben cogliere. Sembra comunque di osservare che in età arcaica è sacer ciò che è *aisia, in quanto proprio del dio. Questo raro termine, confrontato con esia, troverebbe anche una valenza positiva in applicazione alla figura di Arianna, dal cui mito sono assenti aspetti di condanna o colpe di empietà. Se inoltre la forma aisias fosse da riferire alla tomba stessa, di cui è cancellato il nome del defunto, il senso di « esecrando » potrebbe essere applicato in etrusco non solo a persone, bensì anche a luoghi. Sicuramente la voce aisna in età ellenistica è ciò che è « per il » dio, vale a dire l’intero rito a lui dedicato.
37Ancora, si direbbe che sacni (insieme a saca, sacri nella tabula Capuana), almeno dal V secolo a.C., riguarda ciò che è sottoposto a consacrazione secondo il rito celebrato non solo pubblicamente, ma anche nel privato, a giudicare dalle rappresentazioni figurate57 : le testimonianze scritte più recenti lascerebbero anzi credere che nel secondo caso il rito non cessi di essere valido per essere officiato dal singolo individuo, purché sia caratterizzato da una procedura specifica.
38In etera, noto solo da attestazioni di età recente, si è cautamente proposto di individuare un termine legato all’ambito più espressamente funerario, in cui sembra di ritrovare quell’aspetto devozionale, ancora una volta non solo privato, ma anche pubblico (cfr. il loc. eter-ti nel LL o l’espressione zilaθ eterau), in cui per opposizione con quanto osservato di sacni, non sembra previsto lo svolgimento di un rito, almeno a giudicare dai contesti in cui etera è impiegato in modo assoluto e si presenta dunque come una qualifica o come uno stato particolare della sepoltura. Nel rito di stampo etrusco si direbbe dunque inesistente la contrapposizione tra forme di culto pubblico e privato58, tratto che è invece ben presente nell’ambito romano.
39Le ultime riflessioni riguardano la specializzazione del lessico sacro che, in relazione con la progressiva autonomia che il suo esercizio acquisisce già nel VI secolo a.C. tanto nell’edilizia sacra (si veda ad esempio la monumentalizzazione dell’area Portonaccio) quanto nelle testimonianze epigrafiche (le prime dediche sono già attestate nel VII-VI secolo a.C. dallo stesso santuario), farebbe pensare ad una differenziazione nella tutela politica del culto già in atto nella prima metà del VI secolo a.C.
Le figure preposte al sacro
40Volendo esaminare l’ultimo aspetto menzionato, occorre rivolgersi alle iscrizioni magistratuali di età recente59. Rispetto ad una forma aisna/eisna già considerata, esiste un corradicale, eisnevc, che compare nell’iscrizione magistratuale sul sarcofago di Tuscania, insieme a eprθnevc e a macstrevc (ET, AT 1.1), di III secolo a.C. :
ET, AT 1.1 : [------(-)]s. arnθ. larisal. clan. θanχvilusc. peślial. ma[runuχ paχa]θura [zil]c. tenθasa 2eisnevc. eprθnevc. macstrevc. ten[--. t]eznχvalc. tamera. zelarvenas. θui. zivas. avils. XXXVI. lupu
41L’iscrizione di Tuscania, malgrado la sua lacunosità, ricorda il defunto arnθ come magistrato che ha rivestito, oltre allo zilacato, anche il maronato paχaθura, relativo al collegio dei Bacchici, tipico culto di età ellenistica nell’Italia romana e grecizzata. La forma eisnevc, formata da *aisna/eisna e da una terminazione -vc deaspirata, confrontabile con la finale di marunuχ, con cui si forma l’astratto, rappresenta il nome di una magistratura relativa alle funzioni esercitate nel sacro. Come già ricordato, se la voce aisna/eisna rappresenta nel liber la « cerimonia » tout court, la forma eisnevc dovrà identificare il ruolo di una sorta di addetto alle operazioni cerimoniali come descritte nel calendario60, ad esempio consistenti nell’osservazione della corretta sequenza delle azioni da svolgere (l’ossessione per l’esattezza dell’ordine prescritto è evidente nei testi umbri).
42La voce macstrevc è da tempo chiarita per confronto con l’appellativo (ET, Vc 7.25) macstrna/mastarna della Tomba François, a sua volta ritenuto aperta allusione alla veste militare di Servio Tullio come magister populi, come si ricava dal confronto con la testimonianza di Varrone61.
Varro, ling., 5, 82 : Dictator, quod a consule dicebatur, cui dicto audientes omnes essent. Magister equitum, quod summa potestas huius in equites et accensos, ut est summa populi dictator, a quo is quoque magister populi appellatus. Reliqui, quod minores quam hi magistri, dicti magistratus, ut ab albo albatus.
43Tuttavia, l’ermeneusi del termine da magis e il confronto con le attestazioni latine del titolo di magister indirizzano verso una figura a capo di vari ambiti, ivi incluso quello sacro62. Si vedano ad esempio i uicomagistri, il cui ruolo cultuale in età repubblicana è quanto mai evidente dalle rappresentazioni iconografiche rispetto alle funzioni amministrative63.
44La stessa figura di Servio Tullio è stata ricondotta a quella di un magister dei compita, capo delle riunioni popolari a base territoriale64. Al di là della valutazione circa la fondatezza di tale ipotesi,65 la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso (D.H., 4, 14), in cui si riferisce dell’ordine del re di erigere in ogni quartiere luoghi per il culto dei lares e di compiervi sacrifici annuali, su cui si basa la tradizione che lo vuole fondatore dei Compitalia, suggerisce tuttavia di pensare ad un potere anche in ambito cultuale66. Se quest’ultimo è peraltro prerogativa dell’ordinamento monarchico, è nondimeno da rilevare che nella tradizione etrusca e latina si sia ingenerata l’assimilazione della figura di un re con la qualifica di magister.
45Se è opportuno quanto appena ricordato, la forma etrusca macstrevc in un testo di III secolo a.C., vista la concomitante menzione del maronato e di un determinato tipo di sacerdozio (eisnevc), si direbbe indiziare verso un tipo di competenza anche sacra : nel complesso, pur non mancando di essere ricordato l’esercizio dello zilacato, l’arnθ di Tuscania sembra indirizzato verso una carriera essenzialmente di tipo sacerdotale.
46Continuando a cercare a ritroso competenze sacre in mano a figure politiche dell’ordinamento etrusco, non vi è dubbio che il maronato rappresenti uno dei pubblici uffici più antichi, essendo attestato fin dalla prima metà del VI secolo a.C. sul cippo di Tragliatella (ET, Cr 8.2). Accanto alla forma marunuχ per indicare la magistratura, esiste ora l’attestazione di un genitivo marveθ-ul che si è suggerito di considerare con le attestazioni di maru e che può essere messo in relazione con la forma recenziore marut-l67. Si tratta rispettivamente dell’iscrizione sulla base votiva da Campo della Fiera (ET, Vs 3.12) e della dedica di Gravisca (ET, Vc 0.34), peraltro ancora di interpretazione incerta.
47Al di là dell’opportunità di avvicinare la forma arcaica *marveθ/*marut al recente maru, va osservato che al secondo quarto del VI secolo a.C. si data anche la prima attestazione del titolo di zilaθ sul cippo di Rubiera più recente (ET, Pa 1.2, 575-550 a.C.)68. E’ opinione comune che il termine zilaθ non possa aver mantenuto contenutisticamente la stessa valenza nel corso del tempo, e che a sua volta il maru nel VI secolo a.C. sia già asservito al controllo di uno zilaθ con funzioni più ampie69, ma il fatto che tanto uno zilaθ quanto una magistratura marunuχ siano attestati così in antico, può viceversa anche intendersi come testimonianza del fatto che già dal primo/secondo quarto del VI secolo a.C. esista una sorta di dualismo nell’esercizio delle cariche cum imperio e del culto pubblico70. E’ ben vero che nello stesso periodo a Roma si rileva una situazione ancora di unità di prerogative, espletate dall’unica figura del re71.
48Considerando inoltre l’aspetto etimologico, che tradizionalmente riserva al rex il legame con l’azione di tracciare una linea retta, e con la derivante idea di « rettitudine, diritto », estesa anche alla figura del meddís di ambito sabellico72, in Etruria è il maronato ad essere connesso con la tutela del confine come perimetro sacro fin dal suo primo comparire. Si consideri in tal senso l’espressione marunuχ.. hil θelenθ[ del già citato cippo di Tragliatella, confrontabile con la più tarda locuzione marnuχ hils nella tomba Golini I, di IV secolo a.C., in cui hil rappresenta una sorta di « recinto sacro »73.
49Volendo dar credito alle fonti storiografiche, l’anticipo istituzionale che si osserva in Etruria rispetto al mondo romano si direbbe inoltre ulteriormente riflesso nella vicenda di Porsenna, che certa letteratura ha collegato al titolo etrusco di purθ74. Questa voce, espressa anche come nome di magistratura nella forma eprθnev-c dell’elogio di Tuscania sopra ricordato, può confrontarsi con la forma verbale attestata dal nesso tamera φurθce : l’iscrizione ceretana, (ET, Cr 5.4) di IV-III secolo a.C., abitualmente interpretata come « fece in veste di purθ »75 ha invece più probabilmente il significato di « eresse la camera sepolcrale », analogamente alle espressioni śuθi ceriχunce. Il purθ avrebbe pertanto ricoperto anche in ambito etrusco un ruolo nell’edificazione, dunque avvicinandosi alle competenze dell’aedils76, che a sua volta nel mondo romano ha anche funzioni di scriba77. Quest’ultima figura ci riporta all’episodio di Porsenna, sovrano della città di Chiusi, intervenuto a sostegno di Tarquinio il Superbo all’avvento della repubblica, dunque cronologicamente alla fine del VI secolo a.C.78. Di seguito il racconto di Livio relativo all’incursione di Muzio Scevola nell’accampamento etrusco :
Vbi eo uenit, in confertissima turba prope regium tribunal constitit. Ibi cum stipendium militibus forte daretur, et scriba cum rege sedens pari fere ornatu multa ageret, eum milites uolgo adirent, timens sciscitari, uter Porsinna esset, ne ignorando regem semet ipse aperiret, quis esset, quo temere traxit fortuna facinus, scribam pro rege obtruncat79.
50Accanto al re compare anche un’altra figura di pari ornato (e dunque di pari dignità) che trae in inganno il romano. Si tratta appunto dello scriba, che registra la distribuzione della paga ai soldati, il quale, per vestire come il re, viene ucciso in sua vece. Nell’ottica di una ricostruzione condizionata dalla visione liviana dei trascorsi etrusco-romani, Porsenna, se etimologicamente connesso con il ricordo del titolo di purθ, potrebbe dunque rappresentare l’appellativo o nome parlante della più alta autorità della città-stato etrusca o, per identificazione con la figura che lo affianca, dello scriba con funzione di segretario. Se l’episodio fosse da riferire effettivamente alla tarda età monarchica, la figura del purθ – dictator e l’annesso sdoppiamento di funzioni di capo dell’esercito e capo della contabilità, dunque dell’amministrazione pubblica, lascerebbero presagire un ulteriore passo nei confronti della specializzazione delle cariche politiche, che si accompagna anche alla definizione del sacro in forme cultuali sempre più specifiche.
Notes de bas de page
1 Ganschinietz 1920, col. 1627. Cfr. sull’argomento il contributo di E. Tassi Scandone in questo volume e anche Souza 2004.
2 Almeno fino ai Severi, cfr. Souza, Peters-Custot, Romanacce 2012, p. 10.
3 Benveniste 1969, 2, p. 191. Come rilevato in altri interventi di questo volume, la questione è naturalmente più complessa. Un aspetto riguarda ad esempio il concetto di « impuro »: nella Völkerpsychologie di Wilhelm Wundt viene rimarcata l’indistinzione arcaica tra il concetto di sacro e quello di impuro nella forma di un « orrore sacro » (possibilità di uccidere l’homo sacer senza commettere omicidio), cfr. Agamben 1997.
4 La parola χi è attestata dal LL in formule ripetitive, verosimilmente ancora di preghiera, come specificazione di faśe(i). Da questa base è noto inoltre anche un derivato, χim, formato come *χi e da un suffisso ricostruibile per comparazione come °me > -m quando in fine di parola. Se la parola corrisponde, come altrove suggerito (Belfiore 2010, p. 73), alla connotazione generica di « sacro », il derivato potrebbe così identificare una sorta di sacellum.
5 Vista l’importanza del concetto di « puro » per la vittima offerta, questo potrebbe corrispondere alla valenza di zec, che qualifica fler, la vittima generica, o di zarve, che ne qualifica una specifica, zusle (Belfiore 2010, p. 94).
6 L’appellativo di sanχuneta è riferito a Selvans, normalmente ritenuto equivalente all’italico sancus, e avvicinato all’etimologia di sanctus. Cfr. Colonna 1966; Colonna 1985a, p. 111 ss.; Radke 1987, p. 116 ss.; De Simone 1989; Benz 1992, p. 205 n. 221. Cfr. tuttavia Untermann 2000, s.u. saçe, p. 646-647 per l’etimologia incerta e per l’eventuale identificazione con sanśie di sancire.
7 Cfr. Maras 2009, p. 84-86. Per l’impossibilità di confrontare cver con -χvil cfr. Belfiore 2014a, p. 74.
8 Cfr. quanto già osservato da Belfiore 2014a, p. 74 e 80.
9 Rix 1991; Belfiore, van Heems 2010, p. 116 ss.
10 Rix 1991.
11 Wylin 2000, p. 283.
12 Per questo testo seguo l’edizione presentata in Belfiore 2010.
13 Cfr. già Cortsen cit. in Belfiore 2010, p. 68-69.
14 Cfr. Rix 1991; Wylin 2000, p. 283; Rix 2002; Belfiore, van Heems 2010.
15 Cristofani 1995, p. 73. Per il testo della Tabula Capuana, seguo l’edizione di Cristofani 1995.
16 Cfr. Cristofani 1995, p. 73-74 n. 39 per la proposta più generica di intendere saca in funzione iussiva o anche dichiarativa e per l’interpretazione dei due nessi retti da scuvune e da saca come corrispondenti alla conclusione del rito.
17 Colonna 1988, p. 20.
18 Benelli 1998, p. 221 ss. n. 4.
19 Marzabotto, Populonia, etc. Cfr. Colonna 1988, p. 20; Hugot 2003, p. 134 ss.; la struttura urbana di Cosa, anche nel modello insediativo romano (cfr. il capitolium), etc.
20 Una simile interpretazione, già proposta in altra sede, permetterebbe di intendere le forme in -[š]a non solo come nominativi, ma anche come accusativi, cfr. Belfiore 2014a, p. 172-176.
21 Il dato naturalmente non ha valore probatorio: è possibile che nelle numerose lacune che contraddistinguono la conoscenza e la trasmissione dei testi etruschi, una forma -[š]n manchi solo accidentalmente. Tuttavia tale assenza sembra significativa in rapporto alle attestazioni del pronome personale mini, dei pronomi dimostrativi tn, cn o anche di hevn, enan, all’accusativo. Per la forma ceuśn della defixio di Monte Pitti (ET, Po 4.4), l’eventuale uscita -śn, se tale, corrisponde foneticamente a una resa -[s]n, da riferire, ancora in via del tutto ipotetica, al diverso pronome sa motivato come dimostrativo di lontananza (Belfiore 2014a, p. 172 ss.).
22 Rafanelli 2010.
23 In ambito etrusco possono essere di tipo privato ad esempio i culti misterici di un Dioniso infero o Fufluns paχies, già attestato a Vulci dal 460 a.C., cfr. Pizzirani 2010. La figura di unico officiante del rito potrebbe corrispondere al pater familias romano.
24 Rafanelli 2010, p. 46-47.
25 Belfiore 2014b.
26 Tamburini 1985; Stoponi 2003, p. 235 ss. per l’altare da S. Giovanni Evangelista.
27 In tal senso va ricordata la tradizionale associazione di altari all’interno delle tombe di età orientalizzante e arcaica (ad es. tombe Campana e delle Cinque Sedie a Cerveteri e tomba della Scimmia a Chiusi), o in diretta connessione con la tomba (terrazze per il culto sovrapposte alla camera funeraria nelle tombe rupestri), cfr. Colonna 1986, p. 420 e p. 481, fig. 278; p. 448.
28 Sulla radice *tuθ cfr. Massarelli 2008.
29 Agostiniani, Nicosia 2000, p. 96-98.
30 Cfr. Massarelli 2014, p. 47-49 e p. 65 per l’interpretazione di tuθiu come verbale e di cauθas come destinataria dell’azione.
31 Massarelli 2014, p. 81 ss. L’interpretazione della forma avilsχ richiede comunque una forzatura: in un caso sarebbe da interpretare come errata grafia per avils-c; nell’altro, per simmetria con il primo sintagma, occorrerebbe riproporre l’ipotesi di leggere avils L.
32 Belfiore 2010, p. 147.
33 Per la proposta, avanzata da Carlo De Simone, cfr. Massarelli 2014, p. 54. Per l’interpretazione della forma all’ablativo cfr. R. Massarelli, « Etr. tle- = lat. suscipere? », in corso di stampa.
34 Rocca 1996, p. 656 ss. Vedi anche, ora, Imagines Italicae, 1, p. 308-309 Paeligni/Sulmo 6.
35 Ibid. Ad un luogo non solo funerario è anche riferito l’aggettivo purus, attestato anche in riferimento all’abitazione privata, cfr. Souza, Peters-Custot, Romanacce 2012, p. 74 ss. Per l’ambito funerario si veda l’espressione locus.. purus et religione solutus esto del frammento Riccardi, attribuito all’età augustea e considerato pertinente a miruse relative allo stato romano, piuttosto che a terreni privati, cfr. RS, p. 489-491 n. 34.
36 Cfr. Benelli 2003.
37 Benelli 2003, p. 218.
38 Belfiore 2014a, p. 148 ss., p. 180.
39 Belfiore 2014a, p. 154-155. Sulla posizione « neutra » dell’aggettivo dopo il nome cfr. Agostiniani 1993, p. 32.
40 ]la[ris : hermni 2lart : cilni : vel 3acuri : marcni : 4[-----]a : aunt5[an]a : etera : lar6[is :] amφni : namu[l]t : vel : taφ-[---]. (Maggiani 1988, p. 177 ss. n. 3). Il testo è in gran parte lacunoso, ma la parola etera vi si legge senza difficoltà. I diversi nomi ricordati nell’iscrizione hanno indotto l’editore a ipotizzare un confronto con le iscrizioni latine menzionanti collegia, che possono essere restituite anche da contesti sacri, da santuari, e non necessariamente funerari (Maggiani 1988, p. 182). Sul termine etera l’autore rinuncia a dare un’interpretazione. Alla luce dell’apografo e della foto restituita per il testo è possibile avanzare una proposta di modifica di lettura per la riga 4, nella quale la restituzione di una forma di gentilizio aunt[an]a, pur attestata a Sarteano (CIE, 1495-1496), non è troppo convincente. Inoltre, quello che è stato registrato come divisorio tra la prima <a> e <aunt>, sembra riconoscibile come <i>. Lo stato di deterioramento della pietra non consente infine di stabilire se la puntuazione sia impiegata in modo regolare, per dividere una parola dall’altra (cfr. riga seguente, con una sorta di <s> tra etera e lar). Si potrebbe quindi provare a riconoscere nelle prime tre lettere visibili della riga 4 la terminazione -aia, quindi un-. L’interpretazione di etera come riferito ad un luogo nel contesto non è verificabile. Non è inoltre da escludere che il segno di interpunzione dopo etera non sia invece da intendere come alfabetico (nel qual caso eteras, che specificherebbe la serie di nomi precedentemente elencati).
41 Per l’interpretazione dell’iscrizione cfr. Belfiore 2014a, p. 154.
42 Belfiore 2014a, p. 70 ss. § 1.2.2, p. 180. Cfr. anche *rasnea, *svalia. Identico suffisso forma inoltre nomi femminili solitamente a partire da basi onomastiche maschili, cfr. ibid.
43 Cfr. Belfiore 2014b, p. 30-31.
44 AE, 2007, 354 piissimae ac uenerabili dominae, costantiniana, da Priverno; AE, 1930, 150 (= AE, 1938, + 13) ugualmente imperiale, da Tarracona; mater piissima, in CIL, V, 6192 da Milano; CIL, XIV, 4276, moglie di Tiberio Claudio Floro.
45 AE, 1908, 204, da Cerveteri: Felicula | sa[n]cta uix[i]t || Vilia T(iti) l(iberta) | [------]( ?) || Corn[e]l{r}i || Seu<i>ri Augustal[is ? --- ?]; AE, 1933, 79, da Chiusi: B(onae) m(emoriae) || Iuliae | sanctissim(a)e ex gene|re Mustiol(a)e sanctae | Asiniae Felicissim(a)e qu(a)e | uixit annis XXXVII Pompo|nius Felicissimus coniu|gi incomparabili deposi|ta XIII Kal(endas) Ianuarias d(ie) Solis; AE, 1976, 99, da Roma: D(is) M(anibus) | Veturiae Castae | T(itus) Claudius Potitus | sanctissim(a)e coni|ugi suae fecit || sola uiro tu sancta tuo dum uita manebat | credite mortales unica casta fuit; AE, 1980, 463 da Roselle: D(is) M(anibus) | Vibiae A(uli) fil(iae) | Romulae memo|riae eius sanc(tae) | q(uae) u(ixit) a(nnos) XVII m(enses) X | Vibius Romulus | et Vibia Priscilla | parentes filiae | [------]
46 Si vedano in particolare le iscrizione ET, Ta 1.115 e Vc 1.56, di 14 anni. Cfr. Maggiani 1998, p. 118 ss.
47 Cristofani 1999, s.u. sacerdote, per aisna/eisna ed eisnev.
48 Devoto 1931, p. 299; cfr. Belfiore 2010, p. 136 per altra bibliografia.
49 Belfiore 2014a, p. 99.
50 Bizzarri 1962, p. 150; Maggiani 2003, p. 373; Maras 2009, p. 71; Roncalli 2012, p. 185. Con questa accezione negativa del « divino », Daniele Federico Maras ha anche assimilato la voce aisece di una defixio di Volterra (ET, Vt 4.2), che rientrerebbe nell’ambito della « maledizione » (Maras 2009, p. 72 n. 2). Tale riconoscimento, nel riesame della lamina di piombo affrontata da R. Massarelli, non è stato però avvallato (Massarelli 2014, p. 185), a causa della natura palatale della sibilante di ai[š]ece.
51 Roncalli 2012.
52 Per lo specchio cfr. Sassatelli 1981, p. 27-30 n. 10. Per l’iscrizione cfr. Colonna 1983, p. 153 ss.
53 Colonna 1983, p. 154.
54 Colonna 1983, p. 157.
55 Cfr. Rigobianco 2013, p. 171 per un inquadramento delle funzioni di omografi suffissi -ia.
56 In base alle notizie fornite da Bizzarri 1962, p. 56 ss., il corredo della tomba 29 constava di un frammento di bucchero, di un vaso d’impasto gialliccio, di un anellino sottile di bronzo, e di una sfera di piombo con appiccagnolo in ferro, trovati poco oltre la soglia. Per l’ultimo oggetto è stata avanzata l’ipotesi che si trattasse del peso di una groma. Altre due anfore di bucchero (ma a giudicare dalla riproduzione, in Bizzari 1962, p. 59, fig. 23c, si tratta di oinochoai), presentavano inoltre « un foro non accidentale né di ripiego, ma addirittura “di fabbrica”, che dal fondo del vaso per un canaletto, adeguatamente protetto e nascosto nella cavità del piede, sbocca sulla faccia esterna del piede stesso ». Ancora nel corredo erano compresi, sulla panchina a sinistra dell’ingresso, uno skyphos a fondo nero, un’olpetta in lamina di bronzo, un gruppo di paterette e ciotole di bucchero. Sul fondo erano inoltre un aryballos protocorinzio, ancora una patera in bucchero e un gancetto in filo di bronzo con estremità arricciate all’esterno. Sulla base del corredo una delle ipotesi di Mario Bizzarri era che vi fosse la possibilità di attribuire la tomba, vista anche l’iscrizione aisias, ad un sacerdote. Cfr. Bizzarri 1962, p. 113-115 per l’elenco dettagliato del materiale. Ibid. è segnalata inoltre la presenza di un pugnale frammentario.
57 Cfr. supra (8).
58 A questo corrisponde una netta prevalenza della dimensione privata, cfr. Haack 2015.
59 Il nome del sacerdote preposto al rito di Zagabria non è stato ancora individuato (non è cepen e neanche sacniša) e neanche sembra da attendere, dal momento che oltre alle preghiere sono previste prescrizioni che comportano una serie di ordini diretti all’esecutore delle cerimonie stesse o, diversamente, delle forme impersonali del verbo. Gli ultimi studi hanno anche evidenziato che con ogni probabilità il termine tradizionalmente riconosciuto per identificare il sacerdote, cepen, è ben lontano dall’avere questo valore (Adiego 2006).
60 Per l’interpretazione come sacrificulus o rex sacrorum con funzioni sacerdotali cfr. già Maggiani 1998, p. 114.
61 Le molteplici tradizioni sorte in ambito latino ed etrusco intorno alla figura di Servio Tullio, sono state ampiamente discusse da Thomsen 1980; cfr. anche Marastoni 2009, p. 1-10. Per l’identificazione con il macstrna etrusco, basata sul discorso dell’imperatore Claudio a Lione (CIL, XIII, 1668, I 17 ss.), cfr. Thomsen 1980, p. 67-103.
62 Ernout, Meillet 1959, s.u. magis, derivato magister, -trī: il termine appartiene in primo luogo alla lingua del diritto e della religione (m. Arvalium, m. sacrorum, etc.), e sarebbe in seguito passato a connotare la figura del « maestro, capo » in ogni ambito della magistratura anche civile, marina, militare, scolastica, vita privata, etc.
63 Cfr. ThesCRA, 5, 2005, 2a. Kultpersonal, p. 111, b. magistri uicorum.
64 Carandini 1997, p. 384-385.
65 Thomsen 1980, p. 251.
66 E’ inoltre interessante notare che, in base alle testimonianze di Suet., Aug., 30 e D.C., 55, 8, 6-7, i magistri uici erano scelti tra la plebe (secondo modalità sconosciute, e rimanevano in carica per un anno): sebbene anche queste testimonianze siano tarde, non si può fare a meno di mettere in relazione l’origine umile di simili magistrati con il nome di Servio e la sua qualifica di magister attribuitagli dall’imperatore Claudio nelle tavole di Lione. A Servio Tullio è anche attribuita l’istituzione del culto plebeo di Diana sull’Aventino, cfr. Fest., p. 467 L.; Stat., Silv., 3, 1, 58; Plut., Quaest. Rom., 100.
67 Belfiore 2014a, p. 108-109.
68 Bermond Montanari 1988. Cfr. anche Amann 2004, p. 212 n. 88 con bibliografia. La stessa P. Amann conclude per un’evoluzione del significato del termine zilaθ come Hauptmann dall’età orientalizzante fino all’età recente, rispetto al cambiamento di denominazione (praetor > consul) cui si assiste a Roma.
69 Cfr. Amann 2004; Colonna 2012, p. 207-208.
70 Per conclusioni analoghe cfr. Aigner Foresti 2004, p. 220, la quale ricorda che dal VI secolo a.C. è documentata una differenziazione delle cariche politiche e dunque la signoria di un solo individuo è scomparsa. Cfr. anche la differenziazione di cariche a partire dal VI secolo a.C. tra le città dell’Italia centrale, Letta 1979a, p. 40 ss. Lo zilacato figura anche nelle lamine di Pyrgi di inizio V secolo a.C. per qualificare la figura di Thefarie Velianas, che nel testo fenicio è ricordato come re. E’ naturalmente possibile che uno zilaθ di V non avesse un potere assoluto, ma ormai semi-assoluto. Di questa idea Luciana Aigner Foresti, che sottolinea come la carica di Thefarie Velianas fosse limitata nel tempo (tre anni) e specifica (zilacal seleitala = praetura maxima, secondo A. Maggiani). La funzione di dedicare inoltre un lugo sacro dimostra inoltre la sua funzione in ambito religioso (Aigner Foresti 2004, p. 221). Ciò non impedisce che agli occhi dei contemporanei questa figura dovesse tradursi come la massima dignità della città stato etrusca. Né è impossibile che il processo di differenziazione di competenze nella gestione della ciuitas etrusca si sia verificato in tempi diversi da un centro all’altro e che in particolare uno dei centri prossimi anche culturalmente a Roma abbia conosciuto un fenomeno di attardamento.
71 Si pensi alla figura di Servio Tullio, associato al culto di Fortuna mediante ierogamia (cfr. il ciottolo con sors se cedues perdere nolo. ni ceduas Fortuna Seruios perit, di cui è stata fornita una traduzione da Margherita Guarducci « se (mi) obbedirai non ti voglio rovinare. Se non mi obbedirai ricorda che per opera della Fortuna Servio va (andò) in rovina », cfr. Coarelli 1988, p. 302). Questi si presenta come una figura che riassume in sé entrambe le valenze, di capo della vita politico-militare e sacra, come rispecchiato dalla qualifica di magister/macstrna, cfr. Coarelli 1988.
72 Cfr. il greco orégo, orégnumi, cfr. anche il derivato órguia, come « stendere in linea retta », « portarsi avanti nella direzione di una linea retta ». Di conseguenza rectus sarebbe « dritto alla maniera della linea che si traccia », « diritto » come norma, regola. L’espressione stessa regere fines è letteralmente legata al « tracciare in linea retta le frontiere ». In base all’esplicazione dell’etimologia di rex di Benveniste 1969, 2, p. 9-15, questi rappresenterebbe in origine una figura molto più religiosa che politica. Cfr. anche LIV2, p. 498 s.u. *regh. Una sorte analoga è quella che spetta ai meddices oschi, ovvero comandanti supremi, ma a partire da un originario *medo-dik-s, qui ius dicit, « Recht zeigen » (Untermann 2000, p. 458). Tale figura avrebbe dunque ricoperto una funzione di giudice. Nella trasformazione politica della società osca le compagnie di ventura presiedute dal meddix si modificano ugualmente e operano nel campo dell’evergetismo: il meddix diviene una sorta di dirigente di associazione privata, equivalente al magister. I meddiks menereviius = magistri mineruales sono i dirigenti di una confraternita; lo conferma il senatus consultus de bacchanalibus, che vieta di l’esistenza di meddices uomini e donne: magister neque uir neque mulier quisquam eset (Campanile 1996).
73 Cfr. Colonna 2007, p. 101 ss.
74 L’etrusco purθ, confrontato con il greco prytanis, sarebbe a sua volta all’origine del latino praetor, di dubbia etimologia (cfr. Ernout, Meillet 1959, s.u. *prae-itor, « colui che marcia in testa », scr. purah-etàr). Sul tema si avrà modo di tornare più approfonditamente in uno studio apposito.
75 Cristofani 1967, p. 616; Maggiani 1998, p. 115 per l’iscrizione della tomba dell’Orco I, purθ ziiace ucntm hecce « decretò come p. e lui stesso fece fare ».
76 Cfr. in questo senso anche Aigner Foresti 2004, p. 226 per la figura dell’aedilis iure dicundo documentata nel municipium Cerveteri che, anomala nell’ordinamento romano, troverebbe una giustificazione nel mantenimento di competenze di origine etrusca.
77 Cfr. Liv., 9, 46, 1.
78 Strab., Geog., 5, 2, 2.
79 Liv., 2, 12, 6-8.
Auteur
Leopold-Franzens – Universität Innsbruck – belfiorev@yahoo.de
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