Prefazione
p. XI-XVIII
Texte intégral
1L’importanza del libro di Julien Schoevaert si può riassumere in poche parole. L’autore, ancora molto giovane, è il primo ad affrontare nel loro insieme tutte le tematiche riguardanti le botteghe della colonia romana di Ostia, e lo fa con un’opera monumentale nella quale tutte le fonti (archeologiche, letterarie, epigrafiche, figurative) sono prese in esame mediante una metodologia fondata sull’incrocio e sull’integrazione dei dati. Sul valore di un simile lavoro per gli studi ostiensi – considerato anche il particolare carattere dell’insediamento alla foce del Tevere – tornerò brevemente alla fine.
2Aderendo al gentile invito di scrivere una premessa al volume (ed è stato, per me, un gradito dovere) ho scelto una forma di presentazione mista, a metà fra la descrizione sommaria dei contenuti delle varie parti del libro e un embrione di valutazione critica: il che fa somigliare il testo che segue ad una recensione, ma in tal caso si tratterebbe – come il lettore si accorgerà facilmente – di una recensione estremamente positiva. Naturalmente vi sono dei passaggi di in cui gli accenti o le ipotesi su singoli aspetti fanno emergere qualche differenza fra le idee dell’autore e le mie, ma si tratta di aspetti assolutamente marginali. Inevitabilmente, in queste situazioni, si finisce sempre per mettere in evidenza i punti sui quali la discussione è aperta e sembra necessario approfondire ancora l’analisi, dando per scontato che su tutto il resto si è d’accordo: ed è esattamente questo il nostro caso.
3Entrando in medias res, l’Introduzione al volume contiene anche una breve storia degli studi sul tema delle botteghe, nella civiltà romana in generale (e non solo). Per Ostia, già qui viene riaffermato il valore fondativo che riveste tuttora il libretto di Giancarla Girri (1956) sui negozi ostiensi, che l’autrice trasse dalla propria tesi di laurea svolta sotto la guida di Giovanni Becatti. Naturalmente sono innumerevoli gli elementi in più oggi disponibili, grazie alle scoperte e agli studi successivi, che l’autore cita in modo puntuale (e non solo per Ostia, ma anche – ad esempio – per Pompei).
4La sezione che segue è definita Prologo e si articola in diversi capitoli (la numerazione di questi ultimi è unitaria per l’intero volume). Il Capitolo 1 contiene un’analisi estremamente dettagliata e molto importante – e, per quello che ne so, anche del tutto nuova – della sfera terminologica. Grazie ad un larghissimo impiego delle fonti (con una particolare attenzione a quelle giuridiche), l’autore si chiede se realmente il termine latino taberna si possa far corrispondere tout court al vocabolo moderno «bottega», e la sua conclusione è negativa: a buon diritto, mi sembra di poter dire, senza che vi sia la necessità di ripercorre tutte le ragioni che Schoevaert elenca. Coerentemente, in tutto il volume egli utilizzerà poi il vocabolo boutique al posto di taberna, che è invece comune nella letteratura antichistica (a Ostia e altrove).
5Il Capitolo 2 è dedicato alla definizione archeologica della bottega ostiense. Ritornano, ma più nel dettaglio, elementi di storia degli studi e di confronto con la realtà pompeiana e con quella romana. Per l’identificazione degli spazi commerciali che formano l’oggetto del libro viene in primo piano la questione delle soglie marmoree scanalate, create per poter chiudere il vano inserendovi delle tavole lignee scorrevoli. Al tema viene riservata un’ampiezza di documentazione e di interpretazione anch’essa inedita, e che trovo del tutto giustificata (perfino nelle sue ripetizioni: e dico questo perché sull’argomento si tornerà – aggiungendo altri dati – anche nel Capitolo 5). Giustificata, dal momento che si tratta di un elemento davvero centrale non solo per identificare correttamente le botteghe e per distinguerle dagli ambienti di altro genere, ma anche per comprenderne il funzionamento. Impossibile entrare nel dettaglio della problematica e dei suoi risvolti tipologici, ma sono significative – sul piano, ancora una volta, della storia dell’archeologia – le differenze che Schoevaert rileva nello sviluppo delle ricerche su tali aspetti, ponendo a confronto la situazione di Ostia con quella di Pompei.
6In sintesi, negli studi sulla città campana il dibattito archeologico sul tema «soglie scanalate» era presente già nell’800, a differenza di ciò che accadde a Ostia, dove si dovette attendere un articolo di J. Carcopino del 1910 – incentrato sul c. d. «Portico di Pio IX» – perché il problema venisse almeno posto, anche se non pienamente risolto. L’ulteriore corso delle ricerche si incaricherà di farlo, e ciò fino alla sistemazione che alla questione darà la Girri: ma l’apporto di questa studiosa cade nell’oblio dopo il 1956, e anzi, secondo un autore dell’importanza di J. Packer (il suo libro sulle insulae ostiensi è del 1971), l’elemento delle soglie dev’essere considerato solo uno dei criteri per identificare le botteghe. Per non dire che nella letteratura ancora successiva – anche nei miei scritti, lo confesso – il problema è stato praticamente ignorato.
7Schoevaert ne desume che la posizione di Packer è stata – esplicitamente o implicitamente – condivisa dalla generalità degli studiosi. E di fatto un motivo c’è, perché le soglie scanalate sono spesso assenti dai vani di rivendita disseminati nella colonia: tanto che l’autore fa notare come, paradossalmente, le ipotesi della Girri a tale proposito abbiano avuto maggior corso al di fuori degli studi strettamente ostiensi, ad esempio nella bibliografia francese, ma anche in quella pompeiana ed ercolanese. E tuttavia, N. Monteix (2010) è ora arrivato ad una conclusione analoga a quella di Packer, e cioè che la presenza di questa tipologia di ingressi non è l’unico parametro per individuare – in sede archeologica – una bottega o un atelier.
8Tutta la discussione è ben riassunta da Schoevaert, che ne tira le somme in modo, direi, equilibrato: il criterio basato sulla morfologia delle soglie, per lui, è tuttora quello più sicuro per l’identificazione dei negozi dell’antica Ostia, e tuttavia occorre verificarne puntualmente la validità – caso per caso – sulla base dei dati archeologici. Da questa parte del lavoro è poi possibile desumere un’altra riflessione generale, che riguarda il libretto di Giancarla Girri: a lungo «dimenticato», magari anche – è un mio parere – per il carattere piuttosto schematico della trattazione, viene ora «riscoperto», dunque, da Schoevaert stesso, al quale però si può muovere la critica di sopravvalutarne forse eccessivamente l’eredità. Ma i concetti di «dimenticanza» e di «riscoperta» vanno qui intesi solo in senso metaforico, perché abbiamo visto come le proposte della Girri abbiano continuato, in realtà, ad essere accolte in contesti diversi da quello di origine.
9Il Capitolo III del volume tratta dei criteri archeologici di datazione, quindi di tecniche costruttive e di dati stratigrafici (pochi, purtroppo: ma ad Ostia questa è una difficoltà ben nota, che affonda le sue radici nelle modalità con le quali gran parte della città è stata indagata, soprattutto fra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso). Molto buono è poi il Capitolo 4, per il quale si deve riconoscere a Schoevaert il merito di aver esposto in modo esaustivo – non condensandola in poche righe, come si tende talvolta a fare – l’importanza di un’immersione negli archivi cartacei (i Giornali di Scavo) e in quelli fotografici e grafici della Soprintendenza: e questo vale tanto più per Ostia, date le circostanze spesso «non scientifiche» con le quali vennero realizzati i grandi sterri della metà del Novecento (l’ho appena ricordato), e data, quindi, la necessità di tener conto di ogni minima informazione d’archivio disponibile. Semmai ci si potrebbe chiedere il motivo della collocazione del capitolo in esame in un punto in cui il lettore si è ormai abbastanza addentrato nella tematica del libro. Per sua natura, il paragrafo in questione avrebbe forse meglio figurato nelle primissime posizioni, poiché – ad esempio – in una situazione come quella ostiense la conoscenza delle fonti archivistiche influisce direttamente sulla nostra capacità di riconoscere e di classificare correttamente le botteghe, quindi sull’aspetto della loro «definizione archeologica» (Capitolo 2).
10In ogni caso, con la sezione dedicata al lavoro d’archivio termina il Prologo. La Prima Parte (fisionomia e dinamica delle botteghe di Ostia) si apre col Capitolo V. Dalla soglia, sulla quale eravamo (e della quale si riparla qui a lungo), si entra ora nella bottega e se ne descrivono le diverse tipologie d’interno, non limitandosi, naturalmente, al solo vano principale, aperto alla frequentazione pubblica, ma includendo nell’analisi anche gli annessi, gli étages (i motivi per non chiamarli «mezzanini», come si fa di solito, sono esposti a p. 67), i retrobottega, i passaggi fra un negozio e l’altro e le connessioni fra negozi e abitazioni.
11Ma a parte le dimore vere e proprie, nelle botteghe stesse si viveva? È questa una tematica molto discussa nella letteratura specialistica e l’autore ovviamente l’affronta, mettendo in campo le fonti giuridiche e le (scarse) tracce archeologiche, per concludere che la cosa è probabile, ma non certa: mostrando qui una cautela forse eccessiva, poiché – a mio avviso – che gran parte dei tabernarii vivessero con le loro famiglie nei locali di rivendita è sicuro (non sto ad elencare le ragioni per dirlo, ragioni che, del resto, si basano sulla stessa documentazione esposta da Schoevaert). E d’altronde, l’autore stesso – in un cenno a p. 77 sg. – ricorda che la bottega è tradizionalmente considerata come l’alloggio romano del tipo più modesto, appena un gradino sopra gli ergastula o i tuguria, ma pur sempre un alloggio. «Taberna» non equivale di per sé a «bottega», d’accordo, ma è comunque significativo che il primo termine significasse in origine semplicemente «casa», la casa dei Romani dei primi secoli (e già a p. 12 Schoevaert ne aveva parlato come di una «habitation pour pauvres»).
12Si tratta allora, semmai, di valutare quale porzione della popolazione – nella Roma e nella Ostia giunte ormai nella fase del loro pieno sviluppo – fosse coinvolta in questa modalità dell’abitare, in termini percentuali e in termini assoluti. Ma è noto che ogni calcolo di questo genere è destinato a scontrarsi contro ostacoli insormontabili e, in definitiva, a rivelarsi inaffidabile. Nel nostro caso, se la somma complessiva delle botteghe archeologicamente documentate a Ostia è, per Schoevaert, di 1263 unità (quindi, molte di più di quelle calcolate dalla Girri), e se anche decidiamo di prendere questa valutazione – pur con tutti i suoi limiti di soggettività – come un «dato di fatto» di partenza, le vere difficoltà cominciano subito dopo. Come essere certi, infatti, che ogni negozio – secondo le stime dell’autore – fosse abitato da una media di quattro persone, e che il numero di 5000 individui al quale si arriva per questa via corrispondesse ad una percentuale oscillante fra il 10 e il 20 % di tutti i residenti in città? Una lunga storia bibliografica ci ha insegnato che, in realtà, non solo noi non siamo in grado di stabilire quante persone abitassero in media in un’insula ostiense standard, ma – ancora più «a monte» – non sappiamo quante fossero davvero le insulae (e tutto ciò, si badi bene, anche limitandoci alla sola parte scavata della colonia). Ora, questa quasi totale incertezza riguardo alla demografia dei grandi complessi di residenza intensiva – le insulae – mina alla radice ogni tentativo di calcolare il numero totale degli abitanti (ripeto, della porzione di città nota archeologicamente), e quindi di definire quale percentuale di costoro vivesse nelle botteghe. Giustamente, quindi, lo stesso Schoevaert conclude il paragrafo parlando dei suoi computi come di stime artificiali. E tuttavia – è giusto ribadirlo – quella somma di 1263 negozi che ho citato poco sopra è comunque un notevole risultato che va a suo merito, e che rappresenterà, d’ora in poi, un imprescindibile punto di partenza per ogni ulteriore studio sull’argomento.
13Per inciso, l’autore – rinviando con un breve cenno in nota (p. 81 n. 15) ad uno scritto di Dubouloz del 2011 – evita generalmente di utilizzare il vocabolo insula, preferendo parlare di «immobili collettivi». In attesa di approfondire la questione, nel presente testo ho continuato convenzionalmente a servirmi del termine insula, che tuttora si trova largamente impiegato nella letteratura archeologica corrente.
14Del Capitolo VI, dedicato alle botteghe dal punto di vista della storia edilizia della colonia, vorrei riservare una particolare attenzione alle posizioni dell’autore riguardo al periodo tardoantico, dicendo subito che le trovo in gran parte condivisibili: e ciò fin dalla periodizzazione da lui adottata, con l’individuazione di un decisivo momento di svolta da porre attorno alla metà del III sec. d. C. (p. 82). Dopo questa data si continuano a verificare a Ostia, nel settore che ci riguarda, fenomeni interessanti, e fra questi va sicuramente annoverata la serie di ben 21 botteghe create ex novo davanti al Portico del Nettuno, sul Decumano massimo: un insieme edilizio finora scarsamente preso in considerazione, sul quale l’autore tornerà in un altro contesto (p. 223-225, v. infra) trattandone in modo esaustivo e ammirevole, tanto più che le fonti in merito non offrono certo particolari appigli stratigrafici. Si arriva comunque ad un periodo di vita esteso dalla metà del III alla fine del IV secolo (al più tardi) per questo singolare complesso, la cui natura resta problematica.
15Tuttavia, al di là di simili eventi circoscritti, le botteghe costruite dopo il 250 circa sono – sempre secondo le valutazioni di Schoevaert – solo il 3 % del corpus da lui messo insieme. E’ questo un dato il cui significato storico non ha bisogno di commenti, e del resto appare pertinente, a tale proposito, la notazione dell’autore secondo cui la brusca diminuzione (l’assenza?) delle insulae di abitazione collettiva costruite ex novo nel corso della tarda antichità ostiense portò logicamente con sé la caduta verticale del numero di nuove botteghe: sappiamo infatti che le due tipologie edilizie erano strettamente connesse. Allo stesso ordine di problemi (ma su un altro terreno) rinvia la stima della percentuale di negozi inseriti nelle domus ostiensi, non solo nel tardoantico, ma in generale: solo il 3 %. Nella realtà sociale della colonia, dunque, il legame fra i ceti più agiati (che occupavano le domus) e il piccolo commercio si presenta particolarmente fragile, mentre ben diversamente vanno le cose se guardiamo all’inserimento delle botteghe nelle altre tipologie edilizie dominanti: oltre alle insulae, le sedi di corporazioni, i magazzini, le terme, i complessi multifunzionali.
16Ugualmente interessanti alcuni aspetti delle conclusioni di questo VI capitolo. Se poniamo a confronto Ostia e le città «vesuviane» dal punto di vista della densità degli spazi dedicati al piccolo commercio arriviamo, con l’autore, al risultato (tralascio i passaggi intermedi) di una concentrazione di 20,9 botteghe per ettaro a Pompei, di 27,1 per ettaro a Ostia. Il nostro insediamento si presenta dunque come una città più decisamente «mercantile», ed è un esito che ci si poteva largamente attendere: e tuttavia quella di Schoevaert è una quantificazione utile, anche se lo studioso pone l’accento sul fattore cronologico, poiché i siti campani furono distrutti forse prima di poter raggiungere la propria piena fioritura commerciale. Qui la cautela dell’autore è opportuna: si tratta infatti di un aspetto riguardo al quale – per definizione – non potremo mai raggiungere alcuna certezza. D’altra parte, la natura portuale di Ostia e la sua collocazione allo sbocco del Tevere nel mare, il suo legame sempre strettissimo con l’approvvigionamento di Roma, il suo sviluppo accresciuto anziché frenato – nel II secolo – dalla creazione del porto traianeo a Nord della foce, sono tutti elementi per pensare che la concentrazione di botteghe che vi si riscontra, maggiore a paragone di Pompei o di Ercolano, non sia certo dovuta solo a cause cronologiche Quanto invece al confronto fra Ostia e Roma dal nostro punto di vista, i cenni che Schoevaert riserva alla questione (p. 99-102) andrebbero forse maggiormente sviluppati, data la rilevanza della cosa, e a questo scopo andrebbe analizzata più a fondo l’evidenza straordinaria – ma di non facile interpretazione – che ci fornisce la Forma Urbis marmorea.
17La tarda antichità ostiense è evidentemente un tema a cui l’autore è particolarmente interessato, perché – dopo le osservazioni che abbiamo già incontrato – egli vi ritorna nel Capitolo 7. Vengono ora esaminati, quanto all’evidenza fornita dalle botteghe, i restauri, i rialzamenti delle soglie, le tamponature e le nuove aperture. Tuttavia non sono d’accordo con l’affermazione (p. 106) che non vi sarebbe ora un cambiamento nei rapporti fra le botteghe e le domus signorili: in realtà un’analisi di dettaglio – quale si può trovare in alcuni miei contributi del passato – dimostra invece che tali rapporti, già molto circoscritti (v. supra), diminuirono ulteriormente fin quasi a scomparire nel corso degli ultimi secoli di vita della città. In ogni caso, il fenomeno proprio del tardoantico ostiense è quello che, con espressione suggestiva, Schoevaert chiama «chiudere bottega», in seguito al puro e semplice abbandono dei vani di rivendita o alla materiale distruzione degli edifici nei quali erano inseriti.
18Tuttavia le cause di tali distruzioni possono essere state molte, e fra di esse ho seri dubbi che si possano annoverare i terremoti, anzi una vera e propria serie di sismi: una teoria che è divenuta quasi un luogo comune negli studi ostiensi (soprattutto di recente: cfr. gli scritti di A. Gering, ma non solo) e che Schoevaert riprende senza discuterla, mentre non esiste alcuna prova concreta in merito. Eventi naturali di tal genere possono aver costituito, tutt’al più, una marginale concausa. Anche su questo, così come sulla natura non sismica di Ostia, rinvio ai miei interventi recenti e alla bibliografia specialistica che vi è citata.
19Le cause della crisi dell’insediamento a partire dal 250 vanno piuttosto cercate, a mio avviso, sul piano dei processi economico-sociali e anche delle strategie politiche messe via via in atto dal «centro del potere», con il quale Ostia ebbe sempre rapporti di dipendenza diretta. Le ipotesi che vanno in tale direzione, in effetti, sono menzionate da Schoevaert (p. 113 sg.), che non sembra contestarle: ma allora sembra contraddittoria non solo la sua accettazione delle interpretazioni «sismiche» (v. supra), ma anche il fatto che gli risultino oscure le cause della decadenza, come dice subito prima (p. 112). Tuttavia, sviluppare appieno questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
20Sono invece utili e significativi, come lo sono in tutto il volume, i calcoli statistici sul declino delle botteghe (il 18 % degli abbandoni datati con certezza si verifica entro la fine del III secolo, il 60 % nella prima metà del IV, il 21 % nella seconda metà dello stesso secolo), e appaiono condivisibili le osservazioni con cui l’autore conclude questa sezione del volume, mettendo l’accento sul diverso ruolo della città tardoantica (che ora ospita insediamenti residenziali di pregio) e sulla sua configurazione «bipolare». Sono poi molto d’accordo con la sua individuazione di una «seconda crisi» di Ostia nel V secolo (dopo la «prima crisi» di metà III secolo e dopo i fenomeni di ripresa che convolgono la città nel IV, sia pure in un quadro mutato). Ed è per il V secolo che si può legittimamente parlare, come fa Schoevaert, anche di fine delle botteghe ostiensi.
21Per non dovervi tornare più sopra, mi sembra opportuno inserire qui un cenno al fatto che sulla tarda antichità ostiense l’autore tornerà una terza volta, in tutt’altra parte del libro (p. 183-186). Procedendo in questo modo egli corre certamente il rischio di cadere in alcune ripetizioni, ma d’altronde non si può non lodare l’attenzione che lo studioso – come ho già detto – sceglie di riservare ad un periodo della storia della città che forse, in passato, è stato eccessivamente trascurato. Nel merito, il titolo del paragrafo in questione ( «verso una ricomposizione dell’economia di Ostia in epoca tarda», espressione usata anche nelle conclusioni generali del volume), è accattivante: ma tale ricomposizione vi fu davvero? Qui lo studioso ricorda di nuovo le differenti teorie formulate in proposito, mette meglio a fuoco il nuovo ruolo di Portus, spiega i motivi della nostra scarsa conoscenza archeologica del settore del porto fluviale di Ostia e parla anche dei commerci ceramici di età tarda: e sono solo alcuni dei fattori che, con il consueto scrupolo, vengono da lui presi in esame. Nelle conclusioni del paragrafo troviamo riepilogate, in modo sostanzialmente equilibrato, le luci e le ombre che caratterizzano l’ultimo periodo della vicenda urbana di Ostia (così come, nelle conclusioni generali, si affaccerà l’immagine di una Roma e di una Ostia che nel tardo impero si trovano «in aritmia»: ma è davvero così, se l’aristocrazia senatoria del IV-V secolo continua a frequentare la città portuale, sia pure in forme nuove e per finalità nuove?).
22Come che sia, riprendiamo il filo del discorso che stavamo seguendo. Eravamo arrivati alla fine del Capitolo VII, con il quale si conclude anche la prima parte del libro. La seconda è dedicata alle botteghe «negli ingranaggi (rouages) dell’economia di Ostia». Il Capitolo 8 si occupa dei criteri per l’identificazione delle diverse attività che si svolgevano nelle botteghe, e di conseguenza vengono ora maggiormente in primo piano le fonti epigrafiche e quelle iconografiche, che purtroppo – nell’insieme – per gli ambiti della rivendita non sono molto abbondanti, né sono sempre facilmente riferibili ad un edificio preciso. Ma non è il caso di diffondersi sui tanti mestieri praticati in una città attiva e produttiva – non solo mercantile – come Ostia, e sugli spazi fisici riferibili alle varie occupazioni (negozi di alimentari, mescite e luoghi di ristoro, fulloniche, panetterie, vetrerie, ecc.): sappiamo ormai, infatti, come Schoevaert sia in grado di collezionare su ognuno di questi argomenti una documentazione non solo esaustiva, ma anche intelligentemente interpretata.
23L’evidenza raccolta, anzitutto, è molto minuziosa: la descrizione tipologica e funzionale dei banconi presenti nelle mescite o popinae, e nei locali assimilabili, occupa tre pagine (p. 123 e 125-126); più avanti, la classificazione dei bacini in muratura attestati nei vani di incerta attribuzione funzionale ne occuperà otto (p. 137-144). Quanto invece agli aspetti interpretativi delle realtà produttive ostiensi, vale la pena di soffermarsi – per i peculiari e rilevanti problemi storici che pongono – su due settori: quello tessile e quello della panificazione. Con essi, però, siamo entrati nel Capitolo IX, dedicato ai rapporti fra storia delle botteghe e storia economica. La distinzione fra questa sezione e quella precedente, che non mi sembra giustificata per tutte le attività trattate nel Capitolo IX, lo è forse proprio nel caso dei due settori citati, dato il loro notevole peso economico. Esso doveva decisamente travalicare l’aspetto della rivendita al minuto, e quindi – per inciso – per le fulloniche e per i panifici ostiensi possiamo parlare solo in senso lato di «botteghe»: si tratta in realtà di grossi ateliers manifatturieri, dei quali le botteghe vere e proprie dovevano costituire, semmai, solo degli annessi di secondaria importanza.
24Lo comprendiamo meglio entrando nel vivo e leggendo, tanto per cominciare, il titolo del paragrafo 9.1.1 (p. 163): «produrre per Roma o per Ostia?». Schoevaert individua così il nocciolo di quella significativa problematica storica alla quale alludevo poco sopra, e per le fulloniche – utilizzando i risultati e le interpretazioni contenute nei saggi di C. De Ruyt e di M. Flohr – avanza l’ipotesi che almeno una parte della produzione di stoffe dei maggiori impianti ostiensi prendesse la via di Roma. Questo quadro interpretativo è, fra l’altro, ciò che sembra maggiormente differenziare l’ «industria» tessile di Ostia da quella, ben documentata, di Pompei (con Roma, sono questi i tre centri che l’autore pone alla base della sua argomentazione). Certamente nessuno pensa più che le maggiori fulloniche ostiensi – su tutta la questione l’autore tornerà a lungo anche alle p. 251-253 – fossero semplici lavanderie di quartiere, e hanno le loro ragioni gli studiosi su citati quando ritengono che solo una quota dei manufatti che uscivano da questi ateliers fosse destinata al mercato locale. Schoevaert osserva inoltre, ed è una notazione importante, che in questi grandi impianti – distinti da quelli di piccola taglia, installati in botteghe – non doveva esservi contatto diretto con la clientela, e formula l’ipotesi che, quindi, la distribuzione in città dei loro prodotti avvenisse mediante il decentramento dei tessuti in laboratori specializzati di merciai e sarti.
25Va anche detto però che la recente scoperta, nel suburbio di Roma, di una grandiosa fullonica dotata di ben 97 stalli (per ora posso citare solo la notizia che ne dà M. Flohr in The world of the fullo, Oxford 2013, p. 164 sg.) suscita qualche dubbio sull’insieme dell’interpretazione. Infatti, alla luce di simili dati sembra curioso che la capitale – la quale si presenta ai nostri occhi sempre più come un grande centro manifatturiero – avesse bisogno dell’apporto delle fulloniche ostiensi per il proprio approvvigionamento di stoffe. Sarebbe bene, quindi, prendere in considerazione anche l’idea di un commercio marittimo di parte dei tessuti che uscivano dalle «industrie» di Ostia, e a questo proposito, nel testo di Schoevaert, sembra anche piuttosto trascurato l’aspetto del riciclaggio dei vestiti usati: esso doveva invece costituire una delle principali lavorazioni che si svolgevano in questi ateliers.
26Anche il titolo del paragrafo 9.1.1.2, che riguarda i grandi panifici, ci orienta subito verso la stessa problematica: «pane per Roma e Ostia». Qui l’autore si può basare sulle ricerche di J.T. Bakker, e anche qui uno degli elementi di interesse è la notazione di quanto sia esigua la presenza di botteghe di rivendita al minuto in tali impianti (il più noto è il c. d. Molino del Silvano, o «panificio dei Molini»). Anche tralasciando la problematica relativa alle fonti che ci parlano, per la tarda antichità, di un panis Ostiensis venduto a Roma (la questione è molto controversa e ci porterebbe troppo lontano), per l’epoca precedente – cioè per la media età imperiale, ma soprattutto per il periodo severiano – Schoevaert ripercorre l’argomentazione di Bakker, che ipotizza una connessione fra i principali panifici della colonia e le provvidenze annonarie. E tuttavia, la questione delle eventuali distribuzioni gratuite di pane agli Ostiensi (ma dobbiamo anche chiederci: a quali categorie di residenti, eventualmente?) rimane aperta: anche perché, secondo Bakker, il numero di macine da grano finora attestate negli impianti della colonia sarebbe sottodimensionato rispetto alle esigenze cittadine, il che porta Schoevaert a escludere, a maggior ragione, la possibilità che Ostia rifornisse Roma da questo punto di vista.
27Manca lo spazio per dare conto in modo diffuso della trattazione – come sempre dettagliatissima – che l’autore riserva sia agli altri settori della produzione (di lucerne, stoppa, laterizi, matrici per dolci…), sia ai luoghi di mercato. In ambedue i casi si tratta di realtà non sempre identificabili sul terreno. Solo per inciso si può osservare che al problema del macellum (o meglio dei macella) di Ostia si sarebbe potuto dedicare un approfondimento forse maggiore di quello che si trova alle p. 171-174. Non sono citati, ad esempio, i risultati della ricerca di V. Kockel e S. Ortisi (2000), che hanno messo in dubbio la funzione di macellum del singolare edificio Reg. IV, V, 2, mentre è giusta la prudenza con cui viene accolta la proposta di A. Gering e L. Lavan – ma ormai si tratta di interpretazioni edite, non solo di «travaux en cours» – di identificare il c.d. Foro della Statua Eroica, nella sua fase tardoantica, con il mercato delle carni restaurato agli inizi del V secolo, come ci dice un’iscrizione. Così come è giusta, riguardo al rapporto fra la rete delle botteghe ostiensi e il grande commercio transmarino, la critica all’ipotesi di M. Heizelmann (2010) secondo cui – dopo la costruzione del porto di Traiano – la colonia non avrebbe più giocato un ruolo significativo nel settore annonario e nella dinamica delle importazioni dirette a Roma: l’epigrafia e l’archeologia (anche quella della «cultura materiale») ci dicono il contrario. E per concludere l’esame dei densi paragrafi che Schoevaert dedica ai grandi centri del commercio a Ostia, la cruciale questione della natura del Piazzale delle Corporazioni viene opportunamente lasciata aperta: vengono comunque ricordate le principali interpretazioni riguardo alle ben note stationes (certamente non luoghi per l’esposizione di merci, ma – secondo un’ipotesi molto accreditata – spazi «pubblicitari» dati in concessione ai collegia, se non, forse, sedi per contrattazioni).
28Nel Capitolo 10 dedicato alla «gente delle botteghe», sono da notare soprattutto due elementi. Il primo riguarda gli organismi associativi: solo pochi corpora o collegia «intersecano» la problematica relativa alle botteghe, e inoltre – più in generale – il legame fra il mondo dei negozianti e i fenomeni associativi ostiensi (molto estesi, con ben sappiamo) si riduce ad un filo sottile: sono pochi i tabernarii noti che assurgono alle magistrature dei collegi, e in definitiva, anche per questa via, i bottegai si confermano come un settore socialmente «debole» all’interno della comunità ostiense.
29Il secondo elemento centrale del capitolo è l’esame che l’autore riserva alla necropoli dell’Isola Sacra, e alle fonti epigrafiche e figurative che permettono di risalire all’identità professionale dei defunti. Certo, sarebbe stato bene mettere meglio in luce il fatto che il sepolcreto dipende non dalla città di Ostia, bensì dall’insediamento urbano di Portus (tuttora poco noto archeologicamente): e tuttavia è innegabile che – in mancanza di un’evidenza strettamente ostiense di pari ampiezza – le informazioni che ci fornisce la necropoli rappresentino, per il nostro argomento, una preziosa somma di indizi. In tal senso l’autore utilizza fra l’altro i notissimi rilievi di «arte plebea» con scene di mestiere, e lo fa con la consueta ampiezza e precisione, redigendone anche una tipologia: ma nella pur ricca bibliografia mi sembra mancare l’importante articolo di Ozcàriz Gil (2008) sulle due tabelle fittili con scene di rivendita di vino e olio.
30La terza parte del volume è dedicata alla strada, «territorio delle botteghe». Nel Capitolo 11, e in particolare nel paragrafo riservato al rapporto fra portici e locali di rivendita, sono utili – come in tutto il libro – i dati statistici: essi permettono di stabilire che l’83 % dei portici ostiensi su strada ospitano botteghe, e, viceversa, che il 23 % di queste ultime si situano al riparo di porticati. Quanto al fenomeno tardo (successivo alla metà del III secolo) dell’usurpazione di strade e di altri spazi pubblici da parte di negozi, Schoevaert censisce questi esempi, ne delinea una tipologia e ne trae spunto per un’altra indagine di tipo statistico: il 72 % dei casi di occupazione tarda del suolo pubblico riguarda proprio le rivendite, soprattutto di alimentari. Tuttavia, già sappiamo che il particolare caso delle 21 botteghe sul marciapiede del Portico del Nettuno non può essere annoverato fra le manifestazioni di irregolare invasione di uno spazio stradale, come del resto l’autore spiega: si tratta invece, a modo suo, di un vero e proprio «progetto» edilizio.
31Le motivazioni di questo e di tanti altri casi di espansione fisica delle botteghe fra III e IV secolo restano da indagare. Schoevaert cita le fonti in merito, soprattutto quelle giuridiche, ed è certo che una delle cause vada cercata nell’indebolimento delle autorità preposte al controllo: ma come ricostruire i motivi socio-economici di simili fenomeni? Non sono certo che alla base vi siano processi di arricchimento dei proprietari dei negozi, in particolare di quelli attivi nello smercio degli alimentari (p. 231): o quanto meno, la cosa andrebbe meglio spiegata nel contesto della Ostia del periodo. E lo stesso si può dire per l’intrigante fenomeno – notato dall’autore – dei gruppi di botteghe che, in epoca tarda, sembrano unirsi per formare più ampie imprese commerciali.
32Siamo comunque nel campo dell’inserimento delle tabernae nel quadro urbanistico della colonia, e in tal senso la problematica affrontata nel Capitolo 12 è strettamente legata a quella della sezione precedente. Qui, molto in sintesi, gli elementi salienti sono la notazione dell’assenza di botteghe dal Foro – un’anomalia nell’Italia romana, come fa rilevare Schoevaert – e i casi di concentrazioni di negozi all’interno di cortili e di insiemi edilizi chiusi (viene giustamente rigettata l’ipotesi che il Caseggiato del Larario sia un macellum). Quanto poi alle viae tectae commerciali, come quella degli Aurighi, non trovo affatto improprio il richiamo «comparativistico» dell’autore ai passages e alle impasses della Parigi del XIX secolo, prese da Walter Benjamin come spunto per alcune sue celebri analisi.
33Le diverse modalità del rapporto fra le botteghe e le terme sono un altro dei molti fenomeni esaminati nel capitolo. Fra questi, però, non sono sicuro che dallo studio delle concentrazioni di rivendite di generi alimentari (un problema cui è dedicata una trattazione ampia: p. 245-249) sia possibile trarre le conclusioni, pur interessanti, che Schoevaert ne desume. E’ comunque giusto (p. 253 far rilevare l’assenza, a Ostia, di quartieri «specializzati» per mestieri e per prodotti, come avviene invece altrove.
34Il Capitolo XIII tratta di «strategie di seduzione», titolo affascinante per una sezione nella quale si parla non solo delle forme di pubblicità con cui i bottegai promuovevano le proprie merci, ma anche degli aspetti di abbellimento e di decorazione dei locali. Qui vengono opportunamente citate le Luxustabernen di Gering (2004), anche se sarà necessario continuare a indagare sui motivi per cui, in epoca tarda, queste «strategie di seduzione» – in un limitato numero di botteghe – si spostano dall’esterno all’interno (con l’allestimento di mosaici e di sectilia pavimentali), e su quali siano le connessioni fra tali fenomeni e quelli, contemporanei, della creazione delle domus di pregio e dell’abbellimento di ben precisi settori urbani mediante portici, ninfei, piazze colonnate, ecc.
35Le Annexes del libro di Schoevaert sono di qualità assolutamente pari al livello dell’intero lavoro, quindi di qualità elevatissima. Un allegato contiene le abbreviazioni bibliografiche; in un altro l’autore ha catalogato tutte le botteghe archeologicamente attestate, regione per regione (curiosamente sembra però mancare una numerazione progressiva generale), riproducendo la pianta di ciascuna e schedandone la superficie, le fasi costruttive (se ve ne fu più d’una) e la datazione – o almeno la cronologia relativa – delle fasi stesse, la bibliografia, la presenza e la morfologia delle soglie, ecc. Tale grande censimento occupa da solo ben 403 pagine ed è seguito dal catalogo dei rilievi di mestiere.
36Un’altra sezione è dedicata al corredo illustrativo. A prescindere dalle tante fotografie e dai rilievi grafici di dettaglio, dalle ricostruzioni assonometriche, ecc., il vero vanto del volume sono – da questo punto di vista – le numerosissime e splendide planimetrie tematiche a colori, che documentano visivamente e a colpo d’occhio (seguendo il testo, ma come nessun testo riuscirebbe a fare) ogni aspetto della presenza delle botteghe a Ostia: scegliendo a caso, la distribuzione dei tipi di soglia, la topografia dei negozi per cronologia di costruzione… e ho citato solo alcuni dei primi esempi. Strettamente legate alle tavole tematiche sono le tabelle, che ci dicono il resto, fornendoci i dati statistici in merito a ciascuno dei fenomeni presi in esame.
37In conclusione, quello di Schoevaert è un lavoro dal quale sarà impossibile prescindere, da questo momento in poi, per qualsiasi ricerca che si prefigga di prendere in considerazione Ostia nel suo insieme, perché (dato il peso che la realtà del commercio al minuto rivestì per secoli nella vita dell’appendice portuale di Roma) capire le botteghe, nella loro morfologia, nelle loro funzioni, nel loro sviluppo, nel loro declino, significa – in due parole – capire Ostia.
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