Le vedute di Villa Adriana
p. 55-104
Texte intégral
La letteratura e gli autori
1Nel 1827 Nibby ha modo di riprendere la già discussa frase di Bartoli, aggiungendovi, però un’indicazione suppletiva, «Frattanto rinvenutasi la pianta di Ligorio indicata dal Del Re, il card. Francesco Barberini la fece comparare colle rovine esistenti da Arcucci [sic!] architetto »1, attinente il rinvenimento della pianta di Ligorio. Questa particolare versione, nella quale il primo incarico conferito dal cardinale Barberini è associato al ritrovamento della pianta di Ligorio, può essere posta a confronto con una ulteriore notizia inerente una particolarissima veduta di Villa Adriana.
2Sebbene mai studiata con attenzione, tale veduta è citata da molti, a partire da Lanciani:
A c. 38 del cod. Barb. XLIX, 35, si trova un «Disegno della famosa Villa di Adriano Imperatore nel suolo Tiburtino tratta dalla pittura di Giulio Calderone nel Palazzo degli Ecc.™ SS. Cesi in Tivoli, da me Gismondo Stracha Tiburtino l’anno 1657». Non vale gran cosa2.
3Tale veduta (fig. 17), inizialmente definita «eccezionale» da MacDonald e Pinto3, che ne attribuiscono la realizzazione, in copia, a «Gismondo Stacha», indicando che l’originale «adornava un tempo la parete di un palazzo di Tivoli» e che una successiva stampa è eseguita da «Domenico Palmucci alla fine del settecento» (fig. 18). In seguito i due autori rinnegano il precedente giudizio positivo affermando che «È praticamente impossibile identificare i principali elementi della villa» e simili valutazioni si leggono nella letteratura, a partire da Crema che, benché con riferimento alla sola veduta di Palmucci, scrive di una «pianta prospettica con restauri fantasiosi »4 per poi passare a Salza Prina, che giudica entrambe le vedute
completamente assurde e tali da rendere assolutamente impossibile identificare in loro anche la più piccola similitudine. Tale fu una vista a volo d’uccello dipinta da Giulio Calderone sulla parete di un palazzo di Tivoli. L’affresco, oggi distrutto, venne riprodotto nel 1657 in un disegno di Gismondo Stacha e molto più tardi alla fine del 1700 da Domenico Palmucci: esso rappresenta un’improbabile tondeggiante roccaforte circondata da mura e costellata da edifici anch’essi rigorosamente chiusi in cinte di mura »5.
4Che, pertanto, la veduta dipinta da Giulio Calderone, o Calderoni, sia stata in seguito riprodotta almeno due volte sembra, per ora, un’ipotesi consolidata, tanto che Tabarrini, inserendo nel suo testo la riproduzione della veduta settecentesca (tratta da Gusman), in didascalia specifica che si tratta di «Domenico Palmucci. Copia dell’affresco di villa Adriana realizzato da Giulio Calderone nel palazzo di Bartolomeo Cesi in Tivoli (incisione, fine del XVIII secolo)» e nel testo indica che
Il Lanciani riferisce che nel salone del palazzo era affrescata la veduta generale di Villa Adriana. L’originale, andato perduto – una veduta fantastica a volo d’uccello eseguita dallo stesso artista, Giulio Calderone, che tra il 1609 e il 1612, per incarico di Alessandro d’Este, aveva dipinto nel giardino della villa estense la maggior parte delle fontane con fregi decorativi, fogliami, cotte d’armi e scene di caccia – è conosciuto da due copie più tarde6.
5White, non senza richiamare Tabarrini, precisa che entrambe le copie derivano da «un originale andato perduto e cioè l’affresco eseguito all’inizio del Seicento dal pittore Giulio Calderone nel salone al piano nobile della villa costruita da Bartolomeo Cesi (1567-1631) a Tivoli»; in particolare, inoltre, specifica che la seconda copia, definita quale una stampa eseguita nel 1790, è redatta quando, «Nel 1788 l’allora proprietario della villa – Federico Cesi duca di Acquasparta e di Rignano – intraprende la ristrutturazione dell’edificio, ordinando l’esecuzione di nuovi affreschi: l’architetto chiamato a seguire i lavori è Palmucci che tramanda la memoria dell’affresco seicentesco raffigurandolo nella stampa »7.
6Per meglio affrontare l’analisi di quanto riferito dalla letteratura, però, occorre capire chi sono i tre autori della veduta e, a tal proposito, partendo a ritroso, è possibile attestare che Domenico Palmucci sia stato un «architetto di media notorietà [...] documentato a Roma dal 1797 »8 alla prima metà del secolo successivo, le cui attività comprendono anche il rilievo architettonico9 e numerosissime perizie10. Il suo nome compare, ancora, tra i «virtuosi architetti del Pantheon »11 negli anni compresi tra il 1820 e il 1840 e, nelle minime notizie biografiche riportate dalla letteratura storica, appare citato quale «Palmucci Cav. Domenico, Architetto di varie distinte famiglie e Luoghi Pii. Sua Pianta della Villa Adriana »12. Nei suoi disegni conservati si trova la definizione autografa di «Architetto Romano» e la medesima dicitura è apposta nella breve descrizione che compare nel cartiglio della «Veduta della Villa di Adriano in Tivoli», dedicata «Alla Santità di Papa Pio VI», mentre, sempre nel cartiglio, al piede del margine sinistro del disegno, si legge «Domenico Palmucci Disegnò »13.
7La stampa, di dimensioni pari a 97.8 × 61cm, ancor oggi presente nel mercato antiquario14, inizialmente pubblicata da Gusman con un brevissimo e non certo elogiativo commento, «A Pie VI, un architecte romain, Domenico Palmucci, dèdia une vue à vol d’oiseau de la villa restaurèe d’une façon trop fantaisiste »15, era precedentemente stata oggetto di discussione da parte di de Sainte Croix, con termini pienamente volti al riconoscimento della paternità ligoriana del disegno originale: «Ligorius mit au jour une description des ruines du palais d’Hadrien, accompagnée d’un plan très-détaillé. Voyez la vue de la Villa Adriani, publiée par D. Palmucci, architecte Romain, et dédiée au pape Pie VI, dont M. Favris Desnoyers a donné une bonne explication. Mag. enc. 2.’ an. t. IV, p. 366 »16.
8L’autore, pertanto, riferisce quanto aveva già scritto Desnoyers nel 1796 che si deve intendere quale primo commentatore della veduta, se non un amico o, quanto meno, un conoscente dello stesso architetto, dato che, dopo una iniziale presentazione di Palmucci pittore e incisore a Roma, ha modo di fornire alcune indicazioni che, per la peculiare specificità, potrebbero essergli state trasmesse dallo stesso Palmucci. Afferma, infatti, Desnoyers che
Pierre Ligorius, célèbre architecte, publia une description de la Villa Adriani, qu’il accompagna d’un plan très-déttaillé; il les dédia au cardinal de Ferrara (Hippolyte d’Est). C’est sur-tout d’après ce plan, calqué lui-même sur plus ancien dessins, que Dominique Palmucci a travaillé à sa gravure […] La gravure dont il s’agit ici n’est pas un plan ordinaire. Elle représente les édifices eux-même dans leur entier; on a placé au bas de l’estampe des numéros qui correspondent à chacun édifices ou des monuments qui y sont tracés.
9Desnoyers, che, come accennato, scrive in anni assai prossimi a quello – ignoto, benché approssimabile al 1790 – durante il quale Palmucci pubblica e diffonde la sua incisione, prosegue con la spiegazione degli edifici illustrati nel disegno, condotta di pari passo con quanto riportato nella legenda della stampa, ma, in definitiva, quel che risalta in funzione del tema in oggetto, è l’affermazione secondo cui Palmucci, lui stesso, ha calcato disegni più antichi. Tale affermazione, evidentemente, non è rapportabile con quanto indicato dalla letteratura più recente; se, infatti, Palmucci avesse copiato la pittura di Calderoni in nessun caso sarebbe stato possibile definire tale operazione quale copia a calco dato che tale lavoro risulta pressoché impossibile per una pittura murale17 ; occorre inoltre sottolineare che Desnoyers indica che l’incisione è stata redatta a partire non da una peinture, bensì da dessins, ossia da almeno due disegni.
10Nella stampa di Palmucci emerge la presenza di un cartiglio al piede del foglio (quasi completamente omesso da Gusman) nel quale la dedica occupa la parte centrale, mentre la legenda (tab. 5) è divisa in due colonne disposte ai due margini laterali e, nel margine a sinistra, tra la veduta e la prima colonna della legenda, Palmucci si referenzia quale unico autore, la qual cosa è supportata dall’assenza di qualsiasi indicazione in merito all’incisore e all’intagliatore. Sotto lo stemma della dedica, tra le due colonne della legenda, si legge un testo su cinque righe:
L’Imperadore Adriano versatissimo nelle belle Arti e nelle Scienze s’indusse ad erigere nel territorio tiburtino, giudicato per esso il più salubre, la più famosa Villa non mai veduta ne’ tempi posteriori, nè intesa nei passati. In essa sorgeva quanto di più erudito, magnifico e brillante spazio fosse delle più culte parti, e più celebri della Terra vedendovisi la memoria al vivo espressa di queste delizie, arti, cognizioni e scienze nelli più culti tempi nell’Egitto fossero e nella Grecia, ed in questa principalmente, l’Areopago, l’Accademia, il Pecile, il Liceo, il Pritaneo luoghi tutti nelle scienze ed arti addetti nella celebratissima Atene. Le Tempe inoltre di Tessaglia, il Canopo d’Egitto, luoghi di delizie abbondanti, di lietissime feste, e finalmente i Campi Elisi celebri per i Poeti, e Filosofi per la tranquilità e il riposo dopo la vita de mortali. Onde quasi al riflesso di sì luminoso spettacolo si ergeva il magnifico Imperial Palazzo nella più avvenente Architettura, ed in esso la rara Biblioteca, qual Indice voluminoso delle vaste idee di Adriano per il compimento di sì rinomato edifizio, di cui si espone in questo Disegno un breve, ed erudito compendio, alli Sig.ri Intelligenti ed amatori delle belle Arti e delle Scienze per le quali vièpiù illustre si rende l’epoca, e distintamente in tutti coloro che aspirano a somiglianti cognizioni.
11Come è possibile notare, dunque, nulla appare in merito a quanto indicato da Desnoyers – da cui si potrebbe confermare il francese abbia ottenuto le informazioni direttamente da Palmucci – e nulla è accennato circa Ligorio, Calderoni e Stracha; inoltre, dall’insieme costituito dal testo e dalla legenda e dalla corrispondenza di quest’ultima con le localizzazioni indicate numericamente nella veduta, è possibile ammettere che Palmucci abbia avuto una conoscenza molto sommaria della Villa, intesa sia nell’accezione di luogo archeologico, sia con riferimento alla trattatistica storica.
12Diversamente da Palmucci, Gismondo Stracha indica chiaramente l’origine della sua veduta, apponendovi, a sinistra in alto nel foglio, la dicitura già riportata da Lanciani, benché con una minima differenza consistente nella trascrizione del nome del pittore autore della prima veduta, «Disegno della Famosa Villa di Adriano Imperatore nel suolo Tiburtino tratta dalla pittura di Giulio Callderone nel Pallazzo degli Ill.mi Sig.ri Cesi in Tivoli da me Gismondo Stracha Tiburtino l’anno 1657 »18 (fig. 19).
13Con particolare riferimento a colui che redige il disegno sembra doveroso testimoniare che il nome corretto, come appare nell’intestazione appena citata e in altri documenti autografi, è Gismondo, Sigismundus, forse anche con un secondo nome, Giovanni, comunque Stracha e non Stacha o Straccha come talora appare nella letteratura; nome che, sempre nelle firme, è quasi sempre seguito dall’attribuzione dell’origine geografica, «tiburtino» (fig. 20).
14Le uniche informazioni certe da cui desumere il periodo professionale e l’ambito delle attività condotte da Stracha derivano dai pochissimi documenti di sua produzione, elencabili in una serie di mappe, prevalentemente a carattere catastale, per lo più conservate nell’archivio di Tivoli19, spesso di provenienza da altri archivi minori, quali quello della Confraternita dell’Annunziata20 o quello della Confraternita di San Giovanni Evangelista21, comunque tutti datati tra il 1653 e il 166522. Sono, inoltre, conservati alcuni disegni di decorazioni architettoniche23 redatti a inchiostro e acquarello, in alcuni dei quali compare la dicitura manoscritta Sigismundus Stracha invent24, tracciata con grafia particolarmente simile a quella presente sulla veduta di Villa Adriana, e due prospetti de l’Ecclesia et Hospitale Sanctae Annuntiatae di Tivoli, eseguiti in qualità di misuratore.
15Da altri documenti, per lo più relativi a ricevute di pagamento, è possibile dedurre che Stracha abbia lavorato, sempre a Tivoli, anche in qualità di pittore, o decoratore, per committenti della nobiltà romana che possedevano residenze nella città o nei dintorni, come nel caso del cardinale Spada che, nell’ottobre del 1649, gli corrisponde il compenso per «per lavori di pittura da me fatti e da farsi nel palazzo di S.E. in Tivoli »25 ; palazzo, questo, fatto costruire dal cardinale Bartolomeo Cesi e nel quale si trovava la parete parzialmente dipinta con la veduta di Villa Adriana eseguita da Giulio Calderoni.
16Ben più scarse sono le indicazioni inerenti Giulio Calderoni, il pittore al quale Stracha attribuisce l’opera prima, dipinta «nel Palazzo degli Ecc.™ SS. Cesi in Tivoli», dalla quale deriva il suo disegno. Il suo nome, infatti, appare solo in Stracha e in alcuni documenti riportati da Seni26, pertinenti il carteggio di una controversia per il pagamento di lavori di pittura eseguiti da Calderoni a villa d’Este a partire dal 1609; carteggio che inizia con una lettera scritta nel 1612 nella quale «Giulio Calderoni Pittore espone con ogni humiltà alla Santità Vostra come sono passa tre anni che per ordine de Angelo Raselli m.ro di casa del Card.e d’Este fece molti lavori di pittura nel giardino di Tivoli »27.
17Al leggere l’intero fascicolo, innanzi tutto, emerge che l’unica data certa del lavoro di Calderoni a villa d’Este è il 1609, dato che la controversia ha proprio per oggetto la durata dei lavori, che il pittore afferma pari a tre anni, dal 1609 al 1612, mentre l’amministratore Raselli indica solo pari a tre mesi, tutti entro lo stesso 160928. Il carteggio prosegue con l’elenco dei lavori eseguiti da Calderoni nella villa estense tiburtina29, dai quali si evince che non si tratta della «maggior parte delle fontane», come riportato di recente dalla letteratura, bensì di alcuni lavori di ornato nel giardino (pitture di balaustre, pilastrini e grotteschi, «con qualche figura e paesaggio»), ai quali si affianca una veduta, «La Roma fatta tutta di graffitto et pictura», purtroppo oggi scomparsa, e un solo lavoro nel palazzo30, «Item nella stanza delli specchi ci ha depinto la fontana fatta con pietre mischie, con sette vani fatti de mostri marini, et sopra al’arco una civiola che gira con un fistone di fiori intorno al’arco davanti».
18Dallo stesso inventario, alle voci da 27 a 30, si desume, inoltre, che Calderoni ha qualche capacità nell’esecuzione di semplici disegni di architettura:
Item li desegni della Cerchiata, fatta di legname, il disegno delle spalliere della scala, dove è la catena che haveva da essere di legname. Item le piante del ermo una come sta, et l’altra come si haveva da fare et altri schizzi, et il disegno di doi cerchiate delle doi fontane che stanno nell’entrar della porta del giardino. Item detto messer Giulio ha servito per far restaurare la detta Erma dalli muratori, et stuccatori, facendoli il desegno come dovevano lavorare. Item ponit etc. come il sudetto messer Giulio ha fatto et fatto fare a sue spese, et a tutta roba sua tutte le sopradette pitture, graffiti, et disegni in detto giardino di ordine et commissione di esso sig. Angelo Roselli a d.° il che fu et è vera etc.
19Le minime informazioni biografiche desumibili in merito a Giulio Calderoni potrebbero indurre a ritenere che il pittore non abbia avuto origini tiburtine, dato che quando ottiene il lavoro a villa d’Este «non ha dove ricoverarsi», sebbene sia pensabile che risiede già da qualche anno a Tivoli in quanto nel dicembre del 1609 deve completare alcuni lavori eseguiti «altrove et nello stesso giardino» . Dalle fonti letterarie è possibile accertare l’esistenza di un Giulio Calderoni, pittore «del tutto ignoto», attivo a Piacenza nell’anno 164731, e di un Matteo Calderoni, «uno dei molti scultori, che sul declinare del diciassettesimo secolo lavorarono intorno alle statue che ornano la facciata della chiesa dei Gesuiti di Venezia, le quali fanno testimonianza del decadimento estremo cui era in quella età ridotta la scultura in Venezia »32. Tali indicazioni, assolutamente scarne, rendono pressoché impossibile stabilire qualsiasi relazione tra i Calderoni settentrionali e il Calderoni della veduta tiburtina, benché, in funzione dell’analisi delle date, sia possibile formulare l’ipotesi secondo la quale quest’ultimo, d’origine piacentina, possa essere tornato nella sua città natale negli ultimi anni della sua vita. Se così fosse, sarebbe anche possibile pensare che il mediocre scultore Matteo Calderoni possa essere stato un suo consanguineo, figlio o nipote e ciò potrebbe essere validato, però, solo immaginando che Giulio, nel 1609, sia stato perlomeno più che trentenne, ossia che abbia avuto il tempo di acquisire esperienze in ambito pittorico e conoscenze tali da dirigere squadre di muratori e stuccatori. Secondo tale ipotesi si dovrebbe ritenere, quindi, che sia nato non dopo il 1580 in maniera che nel 1647 abbia avuto, mediamente, settant’anni33.
20In ogni caso, noto che dai documenti è posta in luce la mediocrità artistica di Calderoni, occorre scandagliare più a fondo al fine di individuare le ragioni che gli permettono di dipingere due vedute, una di Roma nel giardino di villa d’Este e l’altra di Villa Adriana nel palazzo Cesi, dato che l’esecuzione di simili lavori, come già visto, dipendeva sempre dal possesso di dati a carattere topografico e antiquario, ossia era generalmente di pertinenza di personaggi dotati di una preparazione in campo artistico e scientifico ben più elevata di quanto riscontrabile in Calderoni.
21A tal proposito si dimostra interessante l’informazione in merito alla veduta di Roma, «fatta tutta di grafitto et pictura», trasmessa da Lassels,
Here a perfect representation of old Rome in a perspective: where you see the Capitol, the Pantheon, the chief triumphal archs, the Circos, Theaters, Obelisques, Mausoleas, & even Tyber it self34,
22dalla quale si deduce che il lavoro eseguito nel giardino di villa d’Este era una veduta a volo d’uccello della città antica «ricostruita», la qual cosa rimanda proprio alla tipologia delle piante ligoriane di Roma; si deve, pertanto, iniziare a pensare che il pittore l’abbia realizzata copiando una delle numerose vedute della città riprodotte a stampa, tre delle quali erano state redatte proprio da Pirro Ligorio.
23Nel quadro appena tracciato, però, manca ancora un indicatore specifico e pertinente la data dell’esecuzione della veduta pittorica di Villa Adriana. Anche in questo caso le notizie sono esigue e discordanti; come già indicato, la letteratura più recente è concorde nell’affermare che si tratta di un affresco e che tale opera si trovava «nel salone al piano nobile della villa costruita da Bartolomeo Cesi», oppure «nel salone del palazzo»; nella generalità, però, coloro che ne scrivono fanno riferimento ai brevissimi cenni di Lanciani del 1903, talora associati a quanto riportato da Seni35 in merito alle attività delle famiglia Cesi a Tivoli e, altre volte, ai contenuti dei lavori di Gabrieli e di Pacifici nei quali si tratta delle proprietà tiburtine della stessa casata, con particolare richiamo al palazzo urbano36.
24Per quel che concerne la tipologia è lo stesso Stracha che conferma che si trattava di una pittura murale e non di un affresco; altresì, in merito alle informazioni trasmesse da Gabrieli37, occorre ammettere che sono da considerarsi ininfluenti dato che, per sua stessa ammissione, derivano da Lanciani, «nella sua Guida di Villa Adriana riferisce, senza citazione di fonte, che nel salone vi fosse, oggi non più reperibile, la veduta generale di quella villa»; il medesimo autore, inoltre, informa di diverse proprietà tiburtine dei Cesi, tra le quali il palazzo, «fornito di un ragguardevole giardino [...] che deve tenersi ben distinto dalla villa Cesi verso l’Aquoria [...] Apparteneva ai Cesi quasi sicuramente anche la prossima villa Santacroce, che è oggi di fronte al Giardino Garibaldi, attigua al Riformatorio. In alcune fasce affrescate di essa (unico residuo d’una larga decorazione che rivestiva tutte le pareti interne delle sale, con motivi di animali, di carte geografiche, di paesaggi, anche d’iscrizioni, che andò di recente distrutta), e precisamente agli angoli, il Pacifici ha ritrovato lo stemma dei Cesi »38 (fig. 21).
25Benché, quindi, entrambe le proprietà tiburtine abbiano avuto sale dipinte, Pacifici puntualizza che «la villa, poi Santacroce, [...] si considerava come unita con l’altra [il palazzo] di recente costruita, dalla quale, del resto, non la separavano che le mura urbane »39 e prosegue indicando che «il Cardinale Bartolomeo Cesi, governatore di Tivoli dal 1597 al 1604 [...] nei primi anni di dimora a Tivoli nella villa prospicente l’attuale giardino pubblico, villa che appartenne alla sua famiglia, e che passò poi al Cardinale Marcello Santacroce [...] Il Cesi fece subito l’acquisto di alcune modeste case entro la città presso la porta di S. Croce, nome secolare di una contrada cittadina, e vi costrusse il palazzo, che doveva esser compiuto nel 1610 »40. Di seguito si legge, inoltre, che il palazzo, dopo aver subito interventi di ampliamento condotti dal cardinale Spada,
un secolo dopo, intorno al 1788 veniva restaurato dal duca Federico Cesi, ed allora indubbiamente veniva affrescata con finti arazzi la sala d’ingresso del piano nobile dove apparivano fino a poca fa tranquilli paesaggi di sapore veneziano [...] Sulla metà dell’ottocento la sala maggiore del palazzo subì nuove trasformazioni sia nel soffitto che fu ribassato, sia nei vari particolari decorativi. Ai vecchi affreschi furono sostituite pesanti figure allegoriche (l’Industria, il Commercio ed altre) e così venne a sparire la grande veduta di Villa Adriana che decorava la parete maggiore41
26il che smentirebbe quanto affermato da White.
27Tutto ciò pone in luce con esattezza solo quanto testimoniato da Stracha, ossia che Calderoni dipinge la veduta di Villa Adriana su una parete di palazzo Cesi, ove per tale può essere considerato l’insieme costituito dai due corpi di fabbrica riuniti dal cardinale; oltre ciò, tenendo fede a quanto scrive Pacifici che, però, non cita le fonti, si potrebbe aggiungere che la pittura murale era di notevoli dimensioni e che ornava «la parete maggiore» della «sala maggiore». Sarebbe quindi possibile attestare che dopo il 1788, Palmucci, chiamato a sovrintendere ai lavori di restauro del palazzo, esegue una copia della veduta prima dell’obliterazione della stessa, senza peraltro essere a conoscenza della precedente, copiata da Stracha più di un secolo prima, mentre resta ancora da chiarire il periodo durante il quale Calderoni dipinge la veduta.
28Colui che fa costruire il palazzo a Tivoli è il potente cardinale Bartolomeo Cesi, zio paterno del linceo Federico, citato da de Novaes quale «Bartolomeo Cesi, nobile Romano de’ Duchi di Rignano, ed Acquasparta, fatto d’anni 19 nel 1586, Protonotario Apostolico, passato a Cherico di Camera, e poi nel 1590 a Tesoriere, quindi nell’età di 29 anni creato Cardinale Diacono di S. Maria in Portico, donde passò a Prete di S. Lorenzo in Lucina, morto pieno di meriti, e di virtù, non senza sospetto di veleno, in Tivoli, dove da cinque mesi prima era Vescovo, nel 1622 d’anni 55 »42. Che il cardinale Cesi non solo abbia amato soggiornare a Tivoli ma che ne abbia fatto di necessità virtù, è documentato anche da Battaglini43, che chiarisce l’aspetto politico del soggiorno: «il Cardinale Bartolomeo Cesi: nato in Roma da Angelo, e Beatrice Gaetani, Baroni Romani, e fatto Cardinale da Clemente Ottavo […] che del medesimo hebbe somma stima […] da Paolo Quinto, sotto il cui Dominio si convenne viver come esule, se non per rigor di Giustizia, per rigor di Cautela, convenendosi star fuori di Roma, la state à Tivoli, ed il Verno a Nettuno. Anzi impetrata finalmente la transazione della Chiesa di Consa, che godea, à quella di Tivoli, vi morì lo stesso primo anno, impedito per l’avanti dal moto per infermità ne’ piedi» .
29Giustiniani44 informa che Cesi riveste la carica di governatore di Tivoli per quattro anni non consecutivi (1597-1600 e 1604) e, ancora, afferma che, nel 1622, «come vecchio, e mal sano, s’avvicinava alla sua patria, & ad alcuni castelli di casa sua, con godere la sua vagha villa» tiburtina nella quale era uso passare molto tempo intrattenendo molti «Musici, Comici […] letterati di varie nationi» . Lo stesso autore, inoltre, avvisa che il Cardinale Cesi, nel 1596, è incaricato dal papa Clemente VIII, assieme ad altri 19 prelati di «investigare il modo, che si doveva tenere per la ricuperatione dello Stato» dei beni posseduti dagli Estensi «essendo devoluto lo Stato di Ferrara alla Sede apostolica, per la morte seguita d’Alfonso Secondo Estense, ultimo Duca, nell’anno 1597 à 28 d’ottobre, con essersi intruso in esso Don Cesare da Este, herede testamentario di lui»; attività, quest’ultima, che il cardinale Cesi proseguirà45 anche nel corso dell’anno successivo, nella sua veste di Tesoriere Generale della Camera Apostolica46.
30Di seguito, Giustiniani ripropone l’origine dei dissapori tra i cardinali Cesi e d’Este, quando scrive che il primo, all’apprendere che il 25 maggio 1605 papa Paolo V aveva conferito il Governo di Tivoli al secondo, fu tanto contrariato che «cominciò tra loro [Cesi e d’Este] e durò sempre una segreta nemicitia» . Certo è, però, che come afferma Radiciotti47, il cardinale Cesi «Sui primi del seicento emulò in Tivoli i cardinali d’Este nell’amore per l’arte musicale e nella protezione data ai musicisti [...] Questo luogo, dove l’illustre prelato soleva passar l’estate e l’autunno anche dopo ch’ebbe lasciato l’ufficio di governatore, per molti anni divenne per opera sua il convegno dei più celebrati musicisti ed attori di Roma. Alla morte del cardinal Cesi, avvenuta qui nell’ottobre del 1621, pochi mesi dopo ch’egli era stato inviato a regger la diocesi tiburtina, la sua villa fu dai parenti venduta al cardinal Bernardino Spada di Brisighella, amantissimo delle lettere e poeta egli stesso».
31In merito al palazzo tiburtino del cardinale Cesi, Pierattini48 indica che
altro centro di potere culturale si era intanto affermato, quello che faceva capo ai Cesi nel loro palazzo presso la Porta S. Croce, a due passi da villa d’Este; costruito come residenza del cardinale Bartolomeo Cesi, vescovo di Tivoli […] dopo la sua morte era stato concesso al cardinale Bernardino Spada, che vi abitò sino al 1661, circondandosi di uno stuolo di dotti e sapienti personaggi venuti da ogni parte d’Italia e d’Europa, ed emulando i fasti della villa d’Este, con cui peraltro manteneva rapporti di buon vicinato.
32Benché la data riportata da Pierattini potrebbe far intendere che il palazzo Cesi fu costruito nel 1621, ciò è smentito da Sebastiani49, che facendo riferimento a Tommaso Neri50, riporta a tale data la costruzione della «graziosa villetta» in prossimità del Ponte dell’Acquoria, e da Pacifici che, come prima visto, ne attesta il completamento nel 1610. Su tali basi, pertanto, si deve ritenere che il cardinale Cesi abbia iniziato la costruzione del palazzo urbano a Tivoli negli anni immediatamente successivi alla sua nomina a governatore della città (1597) e che lo abbia terminato prima del 1610.
33Si può pensare, quindi, che Calderoni abbia dipinto la veduta della Villa Adriana agli esordi del Seicento; noto, infatti, che nel 1609 è senza lavoro, è immaginabile che abbia terminato l’incarico svolto per i Cesi prima di quella data e che in seguito, «non sapendo in quel tempo come fare a vivere né dove ricoverarsi», si sia rivolto all’amministratore del cardinale Alessandro d’Este, pregandolo di «volergli dare da lavorare».
34Una seconda ipotesi potrebbe essere sviluppata al considerare che il pittore, come si legge negli atti della controversia tra Calderoni e la casa d’Este, dopo che gli fu contestata la qualità dei lavori eseguiti, «promise di rifarle, non appena ultimati alcuni lavori altrove» . In questo caso, quindi, se tra i lavori da ultimare vi fosse stata la pittura di palazzo Cesi, si potrebbe ammettere che Calderoni abbia iniziato la veduta qualche anno prima del 1609 per poi interrompere il lavoro e, conseguentemente, perdere il patrocinio del Cesi. In seguito, trascorso un lasso di tempo sufficiente a ridurlo all’indigenza, e dopo aver ottenuto e svolto il lavoro a villa d’Este, potrebbero essersi determinate le condizioni per riprendere, e terminare, la pittura di palazzo Cesi. Ipotesi, quest’ultima che, però, non convince pienamente quando analizzata in relazione all’informazione trasmessa da Pacifici in merito al fastoso ricevimento offerto a palazzo Cesi, «in onore della principessa di Venosa» nel 161051, dato che in quell’anno, ovviamente, doveva essere stato completato ogni possibile lavoro, specialmente nel salone principale.
35Per meglio esaminare la questione occorre tornare alle vicende della villa estense e, in particolare, a quanto accade tra la fine del periodo durante il quale, non essendovi cardinali nella famiglia d’Este, la proprietà è nelle mani del decano del Sacro Collegio, e l’inizio del periodo della gestione dei beni da parte del cardinale Alessandro d’Este. Seguendo le ricerche di Seni si può evidenziare che, dal 1598 al 1607,
Quando Alessandro d’Este fu creato cardinale [...] Egli pure, come i cardinali Farnese e Gesualdo, dichiarati proprietari prò tempore della villa in Tivoli, non si curò gran fatto di abitarvi, lasciandola in pieno godimento agli altri colleghi, e, quel che è peggio, in balìa dei loro dipendenti; e quindi ne trascurò la manutenzione, lesinando le spese necessarie52.
36È il periodo, quindi, nel quale
mancando sempre l’occhio vigile e interessato di chi sapesse difendere quel portento di arte e di gusto dalle incurie e dalle continuo sottrazioni d’improvvisati collezionisti, cui pungeva il desiderio di asportare, come gradito ricordo, qualcosa, fosse pure una scheggia di marmo o una pietruzza di mosaico. Mancò l’autorità necessaria a infrenare tale cupidigia e a correggere le licenze del servidorame prelatizio, avido di vendere, o generoso in regalar fiori, piante ed arbusti, ognuno dei quali rappresentava un valore53.
37Questa situazione cambia radicalmente dal 1607, quando il cardinale Alessandro d’Este (già da due anni governatore di Tivoli), nominato Decano del Sacro Collegio, riesce a riacquisire le proprietà della famiglia e inizia a programmare gli interventi di restauro della villa tiburtina, come testimoniato dalle ricevute di pagamento prevalentemente prodotte per l’acquisto dei materiali occorrenti54. Pertanto, gli anni durante i quali Calderoni potrebbe aver lavorato a palazzo Cesi coincidono con la fine del periodo in cui la villa estense è oggetto di spoliazioni e, conseguentemente, di scarsa attenzione da parte degli amministratori, specialmente nei confronti dei beni di minore pregio, quali potrebbero essere stati i documenti cartacei pertinenti le attività culturali promosse da Ippolito II, conservati da un ventennio nella villa. Si tratta, quindi, proprio dello stesso periodo durante il quale Del Re attesta lo smarrimento, da parte dei «Ministri» degli eredi del cardinale Ippolito II, della pianta della Villa Adriana disegnata da Ligorio. Si potrebbe pensare, dunque, che Calderoni a villa d’Este abbia visto, magari trafugato o acquistato, sia una delle vedute di Roma di Ligorio, sia l’originale della veduta di Villa Adriana; elaborati che in seguito potrebbe aver adottato quale traccia per dipingere rispettivamente la veduta nel giardino di villa d’Este e la veduta al palazzo Cesi.
38Se già la letteratura stima di ben poco conto le prime due vedute di Roma, per le quali Ligorio aveva comunque avuto a disposizione esempi precedenti, il loro parallelo con la veduta di Villa Adriana, impostata in assenza della fondamentale base cartografica, permette di giustificare appieno i motivi per cui sono sempre stati sollevati dubbi sull’esistenza di una ligoriana pianta della Villa imperiale tiburtina, benché più volte lo stesso autore ne avesse dichiarato l’esecuzione; di conseguenza ciò permette anche di chiarire le ragioni per le quali la letteratura non ha mai, neppure lontanamente, ipotizzato che la veduta di Calderoni possa essere stata eseguita a partire dalla «pianta» della Villa redatta da Ligorio. Ciò non significa ovviamente che le uniche vedute oggi esistenti possano essere direttamente rapportabili all’originale ligoriano. I passaggi da un disegno a una pittura murale e, da questa, a un nuovo disegno non sono mai esenti da variazioni; in particolare, tra l’altro, occorre riflettere sui molti e possibili adeguamenti, anche in termini formali, posti in essere da Calderoni per rendere fruibile la veduta, trasposta da disegno cartaceo a pittura murale, e le possibili sviste, nonché gli ineludibili scomputi attribuibili a Stracha all’atto di copiare la grande opera su un foglio di dimensioni ridotte55 e i medesimi pertinenti le attività eseguite da Palmucci.
39In ogni caso, le tracce evidenziate permettono di fare luce sulla possibile identità degli «heredi d’alcuni pittori» che, più di vent’anni dopo, venderanno numerosi disegni ligoriani al rigattiere Raimondi.
Gli heredi d’alcuni pittori
40Quanto finora analizzato consente di controllare con maggiore attenzione e, di conseguenza, di giustificare la sequenza degli eventi occorsi a partire dall’inizio del 1567, ossia dall’anno in cui Ligorio, tornando a lavorare a villa d’Este, dedica uno dei due anni precedenti il suo trasferimento a Ferrara al completamento della veduta, «pianta», di Villa Adriana, probabilmente per soddisfare anche una pregressa richiesta del cardinale Ippolito II.
41Sebbene sia nota la frenetica attività dell’architetto, l’esiguo arco di tempo utilizzato per la redazione dell’elaborato56, la mancanza di un’edizione a stampa e la sua quasi subitanea scomparsa sono condizioni che inducono a ritenere che la veduta sia stata redatta solo fino allo stato di disegno preparatorio. Una volta partito Ligorio da Tivoli, tale disegno, certamente non eccellente, quanto meno in termini di riconoscibilità del soggetto, potrebbe essere stato archiviato dal cardinale Ippolito, a partire dalla cui morte (1572), come già visto, corrisponde un grave periodo di spoliazioni della villa estense.
42Conseguentemente, pertanto, la memoria di Ligorio quale autore di quella strana veduta di villa Adriana potrebbe essere divenuta via via sempre più labile tanto che, già nel 1607, Del Re non solo arriverà a dubitare della reale esistenza di una «pianta» di Villa Adriana stilata dall’architetto, ma affermerà anche che, in quegli anni, gli unici disegni «di essa Villa [Adriana] con quattro anticaglie di muri intagliate, le quali non ritraggono al vero, ne la minima parte delle mille, e mille di detto luogo, ma sono stati fatti, & intitolati così da i disegnatori, & incavatori per cavar denari dalle borse, con discreditamento del luogo».
43Al ricordare che, all’incirca nel 1609, Calderoni ha già dipinto la sua veduta di Villa Adriana, si potrebbe pensare che lo stesso pittore, venuto in possesso del disegno originale di Ligorio, oltre ad utilizzarlo per eseguire la veduta a palazzo Cesi, ne abbia realizzato anche una riproduzione cartacea da destinare alle stampe al fine di, come indica Del Re, «cavar denari dalle borse»; ovvero che sia stato lo stesso Ligorio a preparare due bozze della veduta57, simili ma non uguali, con le differenze imposte dagli aggiornamenti delle conoscenze derivate dai nuovi scavi e che Calderoni sia riuscito ad impossessarsi di entrambe, copiandone una a palazzo Cesi e l’altra riducendola a stampa per la vendita.
44Richiamando, inoltre, la lettera nella quale d’Agliè traccia un sunto della vicenda della commercializzazione dei disegni ligoriani, si può concretamente ipotizzare che nel 1630, «gli heredi» di Calderoni58 abbiano inizialmente venduto i disegni ligoriani, tra cui l’originale della veduta (o il primo disegno, nel caso in cui Ligorio abbia eseguito due bozze), al rigattiere Raimondi e che poi abbiano venduto la riproduzione cartacea eseguita da Calderoni (o il secondo disegno ligoriano) al cardinale Barberini che, a sua volta, incarica subito Arrigucci di eseguirne una verifica.
45Successivamente, nel 1633, dopo aver inviato Ménestrier in Francia, lo stesso Cardinale riesce a entrare in possesso della veduta originale e di altri disegni (tra i quali, con buona certezza, quelli già citati, uno dei quali copiati da Contini), ossia di tutti, o di parte, dei disegni ligoriani venduti, a gennaio dello stesso anno, da Raimondi al «Monsù D’Autreville» .
46Quanto per ora ricostruito in merito alle vicende occorse alla «pianta» della Villa imperiale tiburtina redatta da Pirro Ligorio pone in risalto, in ogni caso, la scarsa qualità del disegno originale e, di conseguenza, delle sue copie; condizione questa che, tra l’altro, trova riscontri e conferme nel modus operandi del cardinale Barberini. Questi, infatti, non solo dimostra perplessità nell’attribuzione a Ligorio del disegno acquistato nel 1630, come sotteso nell’incarico di verifica conferito ad Arrigucci, ma persevera in tale atteggiamento anche dopo il 1633, come desumibile dal nuovo incarico conferito a Contini.
47Che entrambi gli incarichi abbiano avuto per oggetto la verifica una «pianta» attribuita a Ligorio è ammissibile sia in base a quanto finora esposto, sia in considerazione della testimonianza di Contini del 1634 nella quale l’architetto sottolinea di aver rappresentato l’antiqua faciem della villa imperiale tiburtina, ossia adottando una forma verbale che, come visto, implica l’esecuzione di una veduta a volo d’uccello e non di una pianta propriamente detta.
48A ciò, inoltre, deve essere aggiunta una successiva considerazione che ha per oggetto la stima del tempo occorso ad Arrigucci e, in seguito, a Contini per l’assolvimento dei rispettivi incarichi. Come si è già avuto modo di vedere, infatti, Ligorio, che conosce perfettamente la Villa e che ha certamente redatto rilievi di alcune aree e edifici al suo interno, indica di averne disegnato la «pianta» nel corso di un solo e faticoso anno. Altresì, del lavoro di verifica eseguito da Arrigucci le notizie, assai scarse, suggeriscono solo che ottiene l’incarico nel 1630 e che lo porta a termine facendo eseguire una stampa di assai poca qualità, «sporca cosa»; al ricordare che tre anni dopo il medesimo incarico viene conferito a Contini, si deve ritenere che Arrigucci completi l’intero lavoro, compresa l’insoddisfacente stampa, nell’arco poco più di due anni. Altresì, con riferimento al primo incarico conferito a Contini, si ricorda che l’insieme delle informazioni spinge a ritenere che l’architetto abbia completato il lavoro in un anno, mentre nel volume contenente la sua pianta ortogonale, stampato nel 1668, scrive di avere eseguito il rilievo, redatto la pianta con la legenda e fatto preparare le incisioni in due anni. Da tutto ciò deriva, come in precedenza discusso per Ligorio, che per un cultore della Villa, tale quale è Contini nel corso del secondo mandato (1666), l’arco temporale contenuto in un anno è adeguato per l’esecuzione di un disegno preparatorio; ovvero è sufficiente per condurre le verifiche di un elaborato già predisposto, come nel caso di un novizio, quale è Arrigucci e quale è Contini nel corso del primo incarico. Ciò, peraltro, trova completa conferma nelle ricevute di pagamento da parte del cardinale Barberini, emesse a favore di Contini e dell’incisore Parasacchi per i 52 giorni trascorsi a Villa Adriana, tra il 1635 e il 1636, al fine di addurre ulteriori verifiche alla veduta prima della sua prevista, ma evidentemente non eseguita, edizione tipografica.
49A tal proposito, inoltre, si sottolinea come il mancato esito di tale operazione costituisca una ulteriore conferma in merito ai dubbi del cardinale Barberini circa la paternità ligoriana dei disegni che ha recuperato. Dubbi, questi, che debbono aver non poco inciso sulla sorte degli elaborati originali che, a tutt’oggi, risultano scomparsi e sulle cui tracce occorre investigare con maggiore attenzione al fine di ottenere successive conferme rispetto a quanto puntualizzato da Deseine: «Pirrhus Ligorius leva le plan de la Villa Adrìani au Siécle passé. Le Cardinal François Barberin le fit rectifier par François Contini »59.
Tab. 6 – I maggiori avvenimenti citati, elencati in ordine cronologico
Anno | Sulla pianta ligorana e sulle vedute di Villa Adriana | Altro |
1599 -1604 | Bartolomeo Cesi è Governatore di Tivoli | |
25 maggio 1605 7 giugno 1608 | Alessandro d’Este è governatore di Tivoli | |
1605 ÷ 1609 | Giulio Calderoni dipinge la veduta a palazzo Cesi | |
1607 | Del Re testimonia la scomparsa della pianta ligoriana | Alessandro d’Este inizia lavori nella villa estense |
1609 (tre mesi) o fino a 1612 | Giulio Calderoni lavora a villa d’Este | |
1610 | Completamento del Palazzo Cesi e della pittura. | Palazzo Cesi a Tivoli è completato e ospita un ricevimento |
1649 | Gismondo Stracha esegue lavori di pittura per il card. Spada | |
1657 | Gismondo Stracha disegna la veduta, copiata dalla pittura di Calderoni | |
1788 | Palmucci sovrintende ai restauri a palazzo Cesi | |
1790 ÷ | Palmucci stampa la sua veduta | |
1796 | Desnoyers scrive che la veduta di Palmucci è stata calcata da un disegno più antico, eseguito da Pirro Ligorio |
Paralleli e differenze tra le vedute di Calderoni/Stracha e di Palmucci
50La possibilità che le due vedute a volo d’uccello di Villa Adriana oggi esistenti derivino da un solo originale, ossia che entrambe siano copia della veduta di Calderoni dipinta a palazzo Cesi di Tivoli, a sua volta derivata dalla «pianta» di Ligorio, ovvero che siano copie di due diversi originali, non può prescindere dallo sviluppo di verifiche mirate al riscontro di quanto deducibile attraverso analisi grafiche, a carattere metodologico, verificando le tipologie delle rappresentazioni, a carattere iconografico, condotte eseguendo confronti con esempi simili di acclarata paternità ligoriana, e infine, a carattere archeologico/tipologico, ponendo in relazione quanto rappresentato nei due elaborati, quanto trasmesso da Ligorio in merito alla sua conoscenza della Villa e, ancora, quanto corrisponde alla situazione attualmente visibile in sito.
51Dalla veduta di Stracha emergono tre informazioni prioritarie delle quali la prima ha per oggetto quanto scritto dallo stesso autore in merito al suo disegno, ossia che si tratta della copia della veduta dipinta a palazzo Cesi. L’omissione di qualsiasi riferimento a Ligorio sottolinea esclusivamente quanto anni prima aveva già riscontrato Del Re a proposito della scomparsa dei disegni ligoriani associata alla presenza di disegni di così poca qualità da dare solo «discreditamento» al luogo. La seconda informazione è, altresì, deducibile dall’osservazione dell’elaborato da cui deriva, senza ombra di dubbio, che si tratta di un disegno eseguito dal vero e, quindi, inizialmente tracciato a matita e solo in seguito ripassato a penna sullo stesso foglio, con le ombre e alcuni segni acquarellati. L’esecuzione a mano libera, confermata dall’assenza di fori da compasso, dal riscontro di numerose correzioni, oltreché dall’evidenza di linee di supporto alle parti scritte, tracciate anch’esse mano libera, ossia senza l’uso di riga60, indica chiaramente che si tratta di una copia dal vero e non di una copia a ricalco; il che, nel confermare l’ammissione autografa di Stracha, suggerisce che, solo qualche decennio dopo l’esecuzione della pittura murale, l’originale grafico usato da Calderoni per impostare la pittura (sia stato quello di Ligorio o un qualsiasi cartone disegnato dal pittore) non è più disponibile (fig. 22, 23). La terza informazione ha per oggetto le lettere alfabetiche maiuscole, dalla A alla M, che, scritte nel disegno, sottendono una legenda, peraltro assolutamente mancante.
52L’intero foglio, di dimensioni pari a 26 × 53cm, con una piegatura verticale di 11cm a sinistra, lungo i bordi non presenta indicatori di taglio e ciò, associato a un sommario riscontro calligrafico basato sul raffronto tra le scritte di Stracha e le lettere della legenda, dimostra che quest’ultima è frutto di azioni successive (fig. 24); pertanto, se mai esistita, si deve ritenere che tale legenda sia stata comunque scritta su un foglio separato da quello del disegno61. Noto, inoltre, che la veduta di Stracha faceva parte della collezione Barberini, occorre ritenere che le lettere maiuscole siano state inserite nel disegno a partire dalla seconda metà del Seicento e non più tardi dell’ultimo ventennio del Settecento, da qualche studioso interessato all’argomento e tra costoro deve essere escluso Palmucci dato che, come visto, questi opera a cavallo tra gli ultimi anni del Settecento e i primi dell’Ottocento.
53Come già indicato, diversamente dalla veduta di Stracha, la veduta di Palmucci contiene una legenda che, a detta di Desnoyers, permette di visitare la Villa seguendo un percorso illustrativo, i cui richiami «on a placé au base de l’estampe des numeros qui corrispondent à chacun des édifices ou des monuments qui y sont tracés »62. Al seguire tale legenda in parallelo con la pianta attuale della Villa, però, si riscontra immediatamente la mancanza di qualsiasi corrispondenza tra la sequenza numerica, le pertinenti descrizioni in legenda e i luoghi che, tra i citati, sono riconoscibili; se, inoltre, a tutto ciò si associa l’andamento del percorso, assai intricato e pieno di andirivieni, si deve ammettere che Palmucci abbia avuto notevoli problemi di interpretazione nell’associare ciò che stava copiando a quanto presente nella Villa e che, comunque abbia avuto una conoscenza superficiale del sito archeologico, fatta esclusione per quanto esistente nella cd «valle di Tempe e, in particolare, per quegli elementi che, come la «Grotta con gallerie e impianti idraulici», sono, tutt’oggi, sconosciuti o ignorati pressoché da tutta la letteratura sviluppata con riferimento a Villa Adriana (fig. 25).
54Maggiori analogie si rilevano, invece, tra quanto deducibile dai testi di Ligorio e la sequenza alfabetica apposta sulla veduta di Stracha ma ciò non stupisce in considerazione di quanto discusso in precedenza in merito alla stessa legenda, che potrebbe essere stata scritta successivamente da qualche studioso ben addentro agli studi ligoriani e a quelli pertinenti la Villa (tab. 7; fig. 26).
Tab. 7 – Comparazione tra le sequenze descrittive dei testi di Ligorio e la sequenza alfabetica apposta sul disegno di Stracha.
Sequenza testi Ligorio | Sequenza lettere alfabetiche in Stracha |
Pecile – Terme Eliocamino e Cento Camerelle | A – Teatro Marittimo |
Sala Filosofi | B – Teatro Greco |
Teatro Marittimo | C – Area parcheggio |
Sequenza testi Ligorio | Sequenza lettere alfabetiche in Stracha |
Biblioteca | D – Temp/Ippodromo? |
Casino Fede | E – Edificio a Ovest del Teatro Greco |
Teatro Greco | F – Piazza d’Oro |
Palestra | G – Area Palestra |
Ippodromo – Tempe | H – Palestra |
Piazza d’Oro | I – Area Palestra |
Pecile Edificio con Tre Esedre | L – Area Terme, Edificio con Tre Esedre e Canopo |
Terme e Terme con Eliocamino | M – Liceo |
Edificio con Tre Esedre | |
Palazzo d’Inverno | |
Canopo – Tempio di Nettuno | |
Serapeo | |
Canopo | |
Heero di Cadmio | |
Accademia | |
Teatro Accademia | |
Liceo | |
Pritaneo – S. Stefano | |
Inferno | |
Elisi – Torre di Saturno | |
Tempe |
55Sulla base di quanto osservato, pertanto, inizia a concretizzarsi la possibilità che la veduta di Palmucci non sia la copia della veduta di Calderoni/Stracha, come è possibile affermare già attraverso un iniziale confronto visivo eseguito tra le due vedute quando, scalate in maniera di mantenere la similitudine dimensionale tra gli edifici che appaiono in primo piano, evidenziano notevoli differenze in termini longitudinali, indotte dalla riduzione delle aree interstiziali (Palmucci), ovvero da un dilatamento delle stesse (Stracha) (fig. 27). Se ciò offre la prima conferma che la veduta di Palmucci non sia la copia dal vero della pittura di Calderoni, respinge anche la possibilità, indicata da Desnoyers, che il «più antico disegno ricalcato» da Palmucci possa essere stato il cartone redatto da Calderoni o, comunque, la stessa matrice dalla quale Calderoni dipinge la sua veduta.
56Tali differenze, che dipendono esclusivamente da questioni metodologiche pertinenti il disegno prospettico, ossia dalle posizioni conferite dal disegnatore agli elementi principali di una prospettiva (piano quadro, altezza dell’osservatore dal piano geometrale e distanza di questi dal piano quadro), sono ulteriormente verificabili analizzando entrambe le vedute secondo i principi della prospettiva centrale a quadro verticale; indagine, questa, che è stata condotta con riferimento al Teatro Greco, uno dei pochissimi edifici che, nelle vedute, è pienamente riconoscibile per forma e per localizzazione.
57I tentativi sono stati sviluppati sia nell’ammissione che, all’atto del disegno prospettico, la forma attribuita alla cavea sia stata circolare, ovvero adottando la forma ovale e le dimensioni trasmesse da Contini (250 × 190 palmi); in entrambi i casi si nota che il punto di vista della veduta di Stracha è sempre posizionato, a parità di altezza dal suolo, a una distanza principale minore rispetto a quello della veduta di Palmucci, dando origine a una vista molto meno in scorcio63 (fig. 28)
58Nel proseguire le analisi comparative tra le due vedute nulla emerge dal confronto del trattamento grafico delle superfici degli edifici e dei piani di calpestio, e ciò è ovvio dato che si tratta di condizioni che, se da una parte sono indipendenti dalla redazione metodologica di un elaborato grafico (anche, ma non solo, di tipo prospettico), dall’altra derivano direttamente dalla tecnica posta in essere (disegno al tratto per Stracha, incisione per Palmucci), dagli stilemi propri del disegnatore e, infine, dal pertinente ‘gusto’ dell’epoca di esecuzione; nel caso specifico, peraltro, occorre ricordare che le due vedute oggi esistenti vengono redatte a una distanza pari a poco più di un secolo e, inoltre, poco meno di mezzo secolo intercorre tra la la stesura della pittura di Calderoni e la copia di Stracha e, infine, un arco temporale simile separa l’ultimo anno di residenza a Tivoli di Ligorio dal presunto anno nel quale Calderoni opera a Palazzo Cesi.
59Già con riferimento alla grafia di Ligorio la questione si presenta assai complessa dato che non esistono i disegni preparatori delle sue piante di Roma, benché un parallelo può essere sviluppato ponendo in confronto la grafia adottata nelle sue due piante archeologiche (la «piccola» del 1553 e la «grande» del 1561; f. 29) e un successivo raffronto può essere intrapreso con riferimento alla «Danza di Salomè», un dipinto murale a lui attribuito, eseguito nella metà del Cinquecento64, nell’Oratorio dell’Arciconfraternita di S. Giovanni Decollato65, e del quale, fortunatamente, esiste anche un bozzetto preparatorio conservato presso il British Museum.
60Con particolare riferimento al contesto architettonico che costituisce lo sfondo di tale opera, che Venturi66 considera «greve e straricco», affermando che Ligorio lo avrebbe dipinto solo allo scopo di ottenere «effetti scenografici», mentre Hess lo interpreta quale un omaggio di Ligorio a Bramante, dato che introduce «parecchie delle sue architetture nell’affresco »67, si tratta di un edificio con esedra che richiama molto da vicino quelle tipologie antiche68 che l’architetto non manca di disegnare nelle sue piante archeologiche di Roma e che diffusamente appaiono, sebbene disegnate in maniera assai sommaria, anche nelle vedute di Villa Adriana e, in particolare, nella veduta di Calderoni/Stracha.
61Tale tipologia, con una o più esedre, che Bramante (uno dei pochi suoi predecessori che, assieme a Raffaello, Ligorio dimostra di stimare) ben conosce sia negli esempi romani, sia in quelli di Villa Adriana, da lui accuratamente studiata, «Misurò cioche era a tiboli & alla villa Adriana »69, è adottata proprio nel progetto del Belvedere Vaticano; edificio che, tra il 1560 e il 1565, viene completato da Ligorio con l’aggiunta di un piano superiore70. All’osservare il bozzetto della Danza di Salomè, sembra che Ligorio citi pienamente l’architettura bramantesca del Belvedere, mentre la pittura, eseguita successivamente, è più propriamente indirizzata a mostrare il suo completamento della medesima opera che, tra l’altro, contiene richiami all’Edificio con Tre Esedre, ovvero al cd Tempio di Apollo di Villa Adriana71.
62Al di là delle questioni più propriamente architettoniche, il confronto tra le due rappresentazioni ligoriane del medesimo soggetto sottolinea come sia particolarmente difficile condurre paralleli tra i bozzetti e le stesure definitive; a partire da tali considerazioni, pertanto, le differenze del trattamento grafico, ma non quelle metodologiche, riscontate tra le vedute di Palmucci e di Stracha possono essere pienamente giustificate, così come potrebbero condotte valutazioni simili se si disponesse della pianta originale di Ligorio, certamente eseguita al tratto, magari con qualche linea acquerellata, a sua volta differente dalla tecnica pittorica adottata da Calderoni.
63A questo punto, avendo già escluso la possibilità che Palmucci abbia copiato la pittura di palazzo Cesi, occorre anche escludere la possibilità che abbia speso tempo e lavoro per redigere un elaborato ex novo, impostato su basi metodologiche completamente diverse dall’originale, sebbene mantenendone, genericamente, la configurazione complessiva. Altresì inizia a farsi più concreta la probabilità che Palmucci, nel corso del suo mandato a palazzo Cesi, sia riuscito a ottenere un disegno, probabilmente custodito nell’archivio padronale, elaborato da Calderoni ma non adottato quale cartone per la pittura; ossia che l’architetto settecentesco abbia avuto a disposizione, per eseguire la sua copia a ricalco, quanto meno uno dei disegni redatti da Calderoni per produrre stampe, «cavar denaro dalle borse» . A tal proposito è possibile ottenere interessanti spunti di riflessione dall’analisi di una peculiare e unica differenza tra le due vedute, pertinente l’area della Palestra, che in nulla dipende dagli stilemi del disegnatore o dal gusto dell’epoca.
64Nella veduta di Stracha tale area è contrassegnata dall’adozione di una specifica iconografia, tendente a suggerire la presenza di un terreno molto smosso, quasi fosse ancora sottoposto ad azioni di scavo, con la presenza di ruderi appena affioranti, tanto da poterli interpretare quali sgrottamenti (fig. 30).
65Nella veduta di Palmucci il terreno della medesima area presenta un andamento lineare e compatto, i ruderi sono definiti da forme architettoniche riconoscibili ed elencabili in due vani voltati, anteposti a una piccola torretta, entro e attorno i quali sono disposte alcune sagome di statue. Di queste, la prima da sinistra sembra una figura mitologica o un animale terrestre con coda pisciforme, la seconda, togata, è stante su un basamento cilindrico, e le ultime due sono figure maschili con spiccati abbigliamenti egizi; inoltre, poco distante, a Sud, al limite di un’area trattata graficamente in maniera di alludere a un’ordinata coltivazione, è ben visibile la sagoma di un cavallo alato rampante (fig. 31).
66Ciò indica, senza dubbio, che le due vedute hanno origine da due disegni redatti in due tempi diversi e ciascuno contraddistinto dalle condizioni nelle quali si presentava l’area; in particolare, dunque, se nella veduta di Stracha gli indicatori grafici adottati sottendono intense attività di scavo ancora in corso, oppure da poco concluse, tanto che il terreno non è ancora ricompattato, nella veduta di Palmucci il terreno ha un andamento all’incirca lineare, quale può essere quello di un’area non coltivata, ma neppure interessata da scavi e, nell’insieme, la zona è tendenzialmente illustrata in maniera di evocare il rinvenimento di numerosi reperti scultorei.
67Al fare riferimento alla storia degli scavi nella Villa si deduce che l’area in questione è stata prevalentemente oggetto di ricerche nel corso degli anni durante i quali Ligorio è attivo nel territorio tiburtino, come peraltro documentato anche da Contini nel testo di accompagnamento alla sua pianta, e durante il periodo nel quale il proprietario è il conte Giuseppe Fede, ossia all’incirca a partire dal 1724 e fino al 177672 ; ulteriori scavi, parzialmente documentati, vengono eseguiti durante il secolo e mezzo intercorrente tra tali campagne e nel corso dei circa 30 anni che separano il termine della proprietà Fede dagli anni di Palmucci.
68La documentazione di Ligorio inerente gli scavi d’Este rende noto il rinvenimento di statue «egizie», ma solo «la testa colossale dela Dea Iside, o’ vero Inache con quel gran Bubo che haveva appiedi [...] era posta su un pilastro, che davante era piano e didietro tondo; molto alto nel mezzo d’Apsida che faceva fonte »73 è citata per esser stata trovata nella Palestra, mentre una «Inachis o vero Venere egittia» è rinvenuta nell’area di Piazza d’Oro74 e un’altra simile è dissotterrata nel Serapeo75 o, per meglio dire, «va’ destra et à sinistra dell’Absida, ò pure un grande Hemyciclo, erano due altri luoghi, con le immagini di Venere, delle quali due ne sono portate à Roma: nel giardino di monte cavallo, con altre figure, ch’erano delle Nymphe dell’oceano, dove era Inache, o’ vero Venere Aegyptia».
69Tra le opere trovate dal conte Fede76 (delle quali le più documentate sono quelle per lo più rinvenute proprio nelle aree del Teatro Greco, della Palestra e del Casino Fede), non appaiono soggetti con iconografie simili, o rapportabili, a quelle delle figure disegnate da Palmucci. Altresì Volpi riporta di rinvenimenti di statue egizie o con «molti caratteri Egizzj», avvenuti nel 1736, ma li localizza, per lo più, nell’area del Canopo, ossia «molto lontano »77 dall’area in analisi, mentre nel corso degli scavi eseguiti al Pantanello78, emergono numerosi pezzi egizi o egittizzanti, ma si tratta di soggetti poco somiglianti a quelli presenti nella veduta e rinvenuti in un’area, quella del Pantanello, che benché vicina, non è confondibile con il sito disegnato da Palmucci.
70Nell’area della Palestra, nell’attuale livello terra di un casale eretto dal conte Fede su strutture antiche, attualmente utilizzato quale abitazione, sono ancora visibili due ambienti con ampi resti di decorazioni a stucco, uno egittizzante, con figure e paesaggi policromi entro cornici a stucco e l’altro bicromo con figure mitologiche bianche su sfondo scuro79. Nella medesima area, inoltre, sono da poco emerse ulteriori sculture, tra le quali una di Horus che potrebbe essere posta in relazione con il «Bubo uccello» indicato da Ligorio80, mentre il disegno una figura maschile stante, improntata alla tradizione egizia e particolarmente simile a una di quelle disegnate da Palmucci, è stato di recente ipotizzato che raffiguri un pezzo rinvenuto a Villa Adriana81, probabilmente proprio dall’area prossima alla Palestra.
71Altre figure tratte dalla tradizione mitologica appaiono in periodi prossimi, se non negli stessi anni nei quali opera Palmucci, in disegni che i rispettivi autori indicano d’aver copiato da Villa Adriana, come pe Ponce che attribuisce l’origine di alcuni suoi elaborati alle volte a stucco site in prossimità della «naumachie [Teatro Greco? – Teatro Marittimo?], Après avoir traversé une petite cour, ornée del colonnade & de portiques, on trouve encore un autre édifice dont [...] son des arabesques que nous donnons au public »82 ; nel caso specifico, però, occorre rilevare che Ponce non è mai stato in Italia, che, come afferma la letteratura, le sue incisioni sono copiate da altri disegni, spesso poco attendibili83 nonché altrettanto scarsamente egittizzanti, e che si tratta di disegni di decorazioni di volte, tutt’al più di fregi, come quello trasmesso da Bartoli (fig. 34), ma non di sculture a tutto tondo come quelle rappresentate da Palmucci (fig. 33). A tal proposito non si può omettere che nella legenda della pianta di Francesco Piranesi, sempre alla voce pertinente la «Naumachia», riferita al Teatro Greco, si legge del ritrovamento di «Fregj di Marmo scolpiti, con corse di Animali, e Mostri Marini guidati dà Genj», ossia di soggetti che potrebbero parzialmente richiamare alcuni di quelli disegnati da Palmucci.
72Al ricordare la realistica ipotesi di una superficiale conoscenza della Villa da parte di Palmucci sembra assai improbabile che l’architetto abbia visto e tanto apprezzato gli stucchi del casale della Palestra e ulteriori decorazioni presenti in altre strutture prossime, al punto di rappresentali nella veduta; l’unica soluzione, pertanto, potrebbe pervenire da studi più approfonditi sulla storia degli scavi della Villa, ovvero dalla notizia inerente il ritrovamento di vari pezzi denotati da caratteristiche che potrebbero richiamare il disegno di Palmucci. Tale ritrovamento, noto attraverso lo scritto di Sebastiani, ha per oggetto «il cavallo marino, Osiride, Orus, l’uccello Ibis, ed altri geroglifici: e nel 1788 da un lavoratore di terra un mosaico a basso-rilievo, rappresentante un’Iside in campo rosso di lacca di lavoro sorprendente, ed una quantità di frammenti di smalti antichi, non messi in opera, conosciuti dagli artisti sotto il nome di pizze di mosaico (n. 8). Tanto le pizze quanto la Iside furono acquistate da un tal Alamanno Ceccarini capotruppa de’ Cavalleggeri del papa »84, e, sebbene Sebastiani indichi che il ritrovamento è avvenuto nell’area del Canopo, al leggere la descrizione dettagliata della Iside85, redatta ben 40 anni prima rispetto allo scritto di Sebastiani, l’informazione potrebbe essere posta in discussione, dato che si afferma che i rinvenimenti sono stati genericamente condotti «ne’ vasti recinti di Villa Adriana» e che mai appare nominato il Canopo (fig. 32).
73Diversa e più semplice si presenta l’interpretazione della figura del cavallo alato; in questo caso, infatti, è realistico pensare che Palmucci abbia mal interpretato un periodo di Winckelmann nel quale la frase illustrativa dei capitelli del foro di Nerva termina con il periodo «da’ i quattro angoli de’ quali usciva un Pegaso» cui fa immediatamente seguito il successivo periodo che inizia con «Il conte Fede nel suo Casino a Villa Adriana possiede due capitelli con delfini »86. Sembra, dunque, evidente che Palmucci abbia unito i due periodi, illustrando un «Pegaso» uscente da uno degli angoli del casino Fede.
74Alla luce di quanto osservato, in definitiva, le uniche spiegazioni per ora ammissibili dell’inserimento di tali soggetti nella veduta possono essere indicate nella volontà di aggiornare il disegno con nuovi reperti, o in una scelta esclusivamente utilitaristica, condotta da Palmucci al fine di «riempire», con soggetti «alla moda »87, uno spazio che non presentava elementi monumentali «ricostruiti», bensì solo porzioni di resti strutturali inseriti in un terreno marginale e neppure coltivato. Stabile e inconfutabile, invece, resta l’informazione che perviene proprio dalla differente conformazione del terreno, dalla quale si ottiene una successiva validazione all’ipotesi secondo cui le vedute derivano da due differenti originali, stilati in due diversi periodi, dei quali uno aggiornato con la situazione esistente al termine degli scavi nell’area. Tutto ciò corrisponderebbe a quanto accennato in precedenza rispetto alla possibilità che Ligorio abbia eseguito due diverse «piante» della Villa, ognuna al termine di ciascuno dei suoi intervalli di attività nel territorio tiburtino; ovvero validerebbe la possibilità che Calderoni possa aver trasposto pittoricamente l’unica «pianta» ligoriana, stilata durante il primo periodo di attività dell’architetto a Tivoli, e che, in seguito, abbia redatto una seconda veduta, simile ma non uguale alla precedente, in quanto aggiornata con le variazioni indotte all’aspetto dei luoghi in seguito alla conclusione degli scavi, disegnando una prospettiva molto più in scorcio, tale quale si conviene per una diffusione a stampa. Se questo è, infatti, lo scopo attribuito da Del Re (che, giova ricordare, scrive negli stessi anni durante i quali Calderoni è operativo a Tivoli) agli autori dei disegni della Villa Adriana, «fatti, & intitolati così da i disegnatori, & incavatori per cavar denari dalle borse, con discreditamento del luogo», potrebbe essere stata la medesima intenzione ad animare Calderoni, rammentando che in quel periodo è nell’affannosa ricerca di denaro, e, molto più tardi, a spingere Palmucci a progettare la stampa della veduta, noto che in quegli anni la visita alla Villa imperiale tiburtina è tra le attività di maggiore richiamo anche, e non solo, per i cultori dell’antico88.
75Secondo tale lettura è realistico pensare che la pittura di Calderoni, pervenuta mediante la copia di Stracha, possa essere l’unica derivata dalla «pianta» di Ligorio e, a tal proposito, sono citabili i risultati di due successive analisi condotte, della quali la prima ha per oggetto la verifica delle proporzioni delle due vedute in relazione alle dimensioni complessive alla Villa attribuite dall’architetto napoletano in tutti i suoi scritti. Per Ligorio, infatti, l’intera estensione del sito è pari a «tremila passi, o poco più o meno» di lunghezza, con una larghezza che «varia ma la piu larga parte è quanto varrebbe la settima parte della lunghezza »89 (fig. 35); facendo riferimento a quanto già indicato in relazione alle tecniche vedutistiche e, in particolare, all’adozione della pianta (comunque ortogonale, anche se costituita dall’assemblaggio delle piante di singoli edifici, mantenuta in vera forma e dimensione, con alcuni degli edifici ruotati al fine di disegnarne gli elevati secondo il migliore punto di vista), e applicando le dimensioni ligoriane alle due vedute, si ottiene piena soddisfazione nella veduta di Calderoni-Stracha ma non, ovviamente, in quella di Palmucci, dipendentemente dalle già descritte alterazioni presenti in quest’ultimo elaborato.
76Con specifico richiamo alle tecniche vedutistiche, inoltre, la successiva analisi ha per oggetto il genere iconografico, ossia il tipo di vista che, deciso a priori dal disegnatore, dipende dalla scelta della posizione dell’osservatore. Per la determinazione del punto di vista delle vedute di Villa Adriana possono essere considerati l’asse longitudinale del complesso dell’Edificio con Tre Esedre, per il quale si deve ritenere che il punto di osservazione sia stato a Nord, e l’asse trasversale del Teatro Greco, all’incirca parallelo alla linea di spiccato del prospetto frontale di Roccabruna, da cui risulta che l’osservatore immaginario si trova nel settore Sud-Est. Da entrambi i punti si distingue a occhio nudo parte della Villa ed entrambi i punti sono facilmente posizionabili nel territorio: quello a Nord corrisponde alla copertura del Sepolcro dei Plauzi90 e quello a Sud-Est potrebbe essere individuato in una parte del pendio, lungo la via di Pomata, dal quale è possibile apprezzare visivamente gran parte della Villa (fig. 36).
77La possibilità che la veduta originale sia stata composta attraverso verifiche ottenute da due diversi punti di osservazione diretta, sebbene privilegiando quello a Nord, è confermato dalle notevoli alterazioni posizionali degli edifici e delle aree e, a sua volta, verifica quanto ipotizzato rispetto alla stesura del disegno, eseguita assemblando le singole piante ma senza una base cartografica. Soddisfa, altresì, la corrispondenza tipologica della veduta di Calderoni/Stracha con le piante di Roma di Ligorio, in particolare nella scelta di raffigurare, quanto più possibile, l’assetto morfologico interno della Villa, ponendo l’osservatore a una distanza assai ridotta dal piano quadro.
78Quanto per ora emerge dai risultati delle indagini affrontate, pertanto, se da una parte ancora non conferma pienamente la possibile paternità ligoriana dell’originale adottato da Calderoni per la sua pittura, dall’altra esclude che la veduta di Palmucci possa essere considerata l’ultima copia dal vero della veduta di Calderoni, mentre potrebbe essere ipotizzata quale copia di un secondo originale ligoriano, ovvero, più verosimilmente, quale copia di un disegno che Calderoni esegue, adottando una vista molto più in scorcio rispetto a quella della pittura, per ottenerne incisioni da stampa; a tal ragione, quindi, l’attenzione sarà prevalentemente dedicata alle verifiche della veduta di Stracha, ossia del disegno che che potrebbe più propriamente derivare dalla «pianta» ligoriana.
Verifiche tipologiche e iconografiche tra gli esempi ligoriani, la veduta di Stracha e Villa Adriana
79L’ipotesi della derivazione della veduta di Calderoni/Stracha dall’originale ligoriano impone successive verifiche, a partire dall’analisi delle tipologie architettoniche, ossia dal raffronto di quanto rapportabile alle conoscenze della Villa imperiale di Ligorio, cui fa seguito l’analisi iconografica che, mirata «immagini, le storie e le allegorie anziché i motivi, presuppone naturalmente molto di più che la semplice familiarità con gli oggetti e gli eventi che si acquista attraverso l’esperienza pratica: presuppone una familiarità con temi specifici o concetti trasmessi dalle fonti letterarie [...] è di incalcolabile aiuto per fissare date, stabilire provenienze, eventualmente assicurare l’autenticità delle opere e naturalmente fornisce la base necessaria per ogni interpretazione successiva »91.
80Benché quest’ultima analisi non sia semplice in quanto viziata da raffronti eseguibili solo attraverso la veduta di Stracha, la rappresentazione dei complessi ricostruiti dimostra inequivocabilmente che l’autore della veduta originale possedeva una notevole conoscenza della Villa e un profondo interesse per le tecniche strutturali poste in opera; elementi, questi che, se da una parte ricalcano propriamente gli interessi e la personalità culturale di Ligorio, dall’altra, come già osservato, non emergono dallo scarno curriculum di Calderoni e non appartengono a Stracha, nell’ammissione che quest’ultimo abbia apportato qualche suo personale contributo nell’eseguire la copia.
81È comunque possibile stabilire pochi ma interessanti paralleli con la pianta archeologica «grande» di Ligorio, più ricca di dettagli rispetto alla «piccola», e, a tal proposito, risalta una sorta di similitudine nella rappresentazione del verde, associata alla cura nella rappresentazione delle facciate degli edifici, esaltata nel disegno delle costruzioni a pianta circolare o, comunque, centrale (fig. 37, 38).
82Un interessante spunto perviene, altresì, dall’analisi tipologica e, in particolare, da alcune forme che, nella veduta di Stracha, sono adottate per le coperture di taluni edifici. Tra queste spicca una determinata tipologia che richiama quella che inizia a diffondersi a Roma, già all’inizio del Cinquecento, per la copertura dei lanternini o dei campanili, «quella parte delle cupole che è in cima, detta anche pergamena, cioè una specie di picciola cupola, o di picciola torre, aperta da ogni lato che si costruisce sulla cima di una grande cupola, e di una torre. La copertura della lanterna si fa a piramide o a cartoccio, e per questo si è detta alcuna volta pergamena della cupola »92, laddove Baldinucci spiega che «dicesi la pergamena della cupola, per la somiglianza, che ha con la pergamena, strumento delle donne, fatto per fermare il lino fa le loro rocche da filare »93 ; forma, questa, che nella Roma Cinquecentesca appare più volte, senz’altro in forme più complesse rispetto a quella «a pergamena», e che si ritrova anche nella copertura dei lanternini delle due cupole minori di S. Pietro94 (fig. 39, 40).
83Nella veduta di Villa Adriana, la presenza di tale copertura, che sarà adottata fino al Settecento con sempre maggiore successo, anche da architetti di chiara fama95, potrebbe essere anche attribuibile a Ligorio se, almeno in qualche caso, fosse richiamata all’interno del monumentale campionario di coperture da lui disegnate nella pianta di Roma, tra le quali appare, invece e solo sporadicamente, quella «a cartoccio» . In assenza di tale raffronto, si potrebbe attribuire la presenza di tali coperture a Stracha (o a Calderoni), giustificandola quale una licenza poetica, o una cattiva interpretazione del disegno originale.
84Diversa e più soddisfacente è, invece, la situazione che si ottiene al verificare le coperture a botte che, nella veduta di Stracha, delimitano superiormente edifici a imposta planimetrica rettangolare e che sono diffusamente riconoscibili nella pianta di Roma di Ligorio, così come sono riconoscibili anche le tipologie di edifici che, sempre a imposta rettangolare, sono tra loro costruiti in continuità e coperti con tetti contigui a doppia falda (fig. 41, 42).
85Ricca di esempi e di indicazioni positive si manifesta anche l’analisi delle corrispondenze tra lo stato delle conoscenze della Villa da parte di Ligorio, quanto era noto ai tempi di Contini e di Stracha e quanto è oggi documentato attraverso risultati di indagini attendibili. Uno dei casi per i quali la recente letteratura ha sviluppato un parallelo tra l’esistente e la veduta di Stracha è quello del già osservato Teatro Greco, per il quale è possibile avvalersi della documentazione, assai dettagliata e puntuale, prodotta da Hidalgo e dai membri del gruppo di indagine in relazione alle campagne di scavo ivi condotte a partire dal 2003. Con riferimento al tema in oggetto, in Hidalgo, Leon si legge che
El diseño de Stracha en lìnea generales y en la mayoria de los edificios abusa del convencionalismo y de la reconstrucción excesivamente idealizada, como consecuencia de lo qual es bien dificil reconocer a partir de lo dibujado las distintas construcciones y sectores del la Villa. A pesar de ello, en el caso del Teatro Greco, se observa con claridad cómo el autor ha reconocido a grandes rasgos el monumento y, con ello, incluso algunas de sus características más significativas: el edificio se rapresenta con una cavea ultresemicircular conectada directamente con el cuerpo escénico96.
86Hidalgo, inoltre, rende noto che nel corso delle indagini sviluppate nell’area a Nord delle strutture del complesso sono state rinvenute testimonianze murarie, sebbene al livello delle fondazioni, riferibili a un edificio di minime dimensioni, così come, nell’area a Sud-Ovest, documenta le tracce di piccoli padiglioni da giardino disposti nelle prossimità di una struttura di maggiori dimensioni e di diverso uso, probabilmente con porticato e corte interna – come verificabile dalla presenza di lacerti di pavimentazione in opus sectile e di imposte di basi di colonne tre loro allineate – prospicente un’area pavimentata con mosaico a tessere bianche e grandi. Nonostante le attente e dettagliate verifiche archeologiche, inoltre, entrambi gli autori indicano più volte, con estrema chiarezza, di aver rinvenuto traccia alcuna della struttura a pianta rettangolare che Contini inserisce nella sua pianta disegnandola in aderenza alle murature del Teatro Greco97 (fig. 43), e, pertanto, stupisce a tal proposito la continua, nonché recentissima, pubblicazione di «piante aggiornate» della Villa nelle quali continua a essere inserito questo immaginario elemento tratto dalla pianta di Contini.
87In effetti Contini, nella legenda della sua pianta del 1668, senza mai fare riferimento a Ligorio, disegna tale struttura definendola ippodromo e descrive il contiguo Teatro Greco quale «Luogo ovato fatto a forma di anfiteatro, pieno d’acqua stagnante [...] detto ora il Pantanello di Giuseppe Cappuccino». Contini, quindi, non attribuisce funzioni al complesso e men che mai lo individua quale «teatro», benché, nel sottolineare, anche graficamente, la presenza di acqua nello spazio interno alla cavea, induce a un sotteso riferimento alle «naumachie», diffusamente presenti nella ligoriana pianta «grande» di Roma e più volte richiamate e illustrate nella letteratura dell’epoca (fig. 44).
88Tra i primi studiosi moderni, se non il primo, che attribuiscono la funzione teatrale alla struttura è Nibby98, che indica chiaramente come la pianta di Contini99 abbia indotto Piranesi, e quanti altri l’abbiano adottata nel tempo, a riconoscervi una naumachia:
Ho notato poc’anzi che quest’Area è attinente al Teatro greco; nella indicazione della pianta ligoriana [di Kircher] è descritto questo edificio co’ termini seguenti: locus ovatus in formam amphiteatri constructus aquis stagnantibus plenus, spurcitiis plurimis et arundinibus copertus, jam stagnum Josephi Capucini vocatus. Toium hoc aedificium 250 palmis longum, 190 latum est; nella pianta vi si legge il nome apposto di Colymbethra, cioè natazione o piscina per nuotare. Il Piranesi trovando questo luogo nel medesimo stato, lo diede per una naumachia, non riflettendo punto alla ristrettezza del sito, che non permetteva darvisi battaglie navali. Gli scavi posteriormente eseguiti hanno fatto ben riconoscere la pianta e l’uso di questo edificio; esso à certamente un teatro, ravvisandosi pienamente la sua forma, le sostruzioni de’ gradini, e meglio ancora la scena: quindi le piante di Ligorio [Kircher] e Piranesi, sulle quali sono state fatte le altre, debbono in questa parte emendarsi, avvertendo però, che quella di Piranesi si allontana meno dal vero, onde reca sorpresa come non abbia indovinato l’uso di questa fabbrica. Nell’interno la pianta di questo teatro è regolarissima [...] e conserva ancora il piano di quello che i Greci dicevano Aoyειoυ, pulpitum i Latini, e che noi chiamiamo palcoscenico. Tal forma ci fa riconoscere in questo teatro un Teatro Greco, corrispondendo a ciò che ne insegna Vitruvio.
89Effettivamente, come annotato da Nibby, nella pianta di Francesco Piranesi al complesso è specificatamente attribuita la funzione di «Naumachia, o Stagno per esercitarsi sulle Navi di Mare; e per esibire i Mostri, e Pesci Marini», mentre, con riferimento all’adiacente struttura rettangolare, si legge che è un «Ippodromo, ovvero luogo, di addestrar Cavalli, posto nella parte più depressa delle Fabbriche esistenti; che appartiene al Conte Centini erede del Conte Fede».
90Eppure Ligorio è sempre ben chiaro nell’indicare che nell’area in questione si trova un teatro; nel Descrittione100, infatti, si legge che
si vede un gran Teatro, col suo pavimento lavorato di quadretti di diversi colori, di bianco, azurro, giallo, rosso, e verde, con quattro altri alloggiamenti con le Piazze, e Portici, fabricati non con Colonne, ma con pilastri, nella cui Piazza già facendovi cavare V.S. Ill. si viddero tra li Basamenti e Nicchi di Statue di numero quaranta, che vi erano, delli quali si trovarono solamente tre torsi bellissimi di tanto numero di esse Statue. I Pavimenti di questa Piazza, e Portici erano seligati di marmo Augustale segato a tavole quadrate a lato; a questa Piazza ne era un’altra molto più bella, fatta di Colonne con belle Statue, quali trovò M. Gio: Battista Bucciola di Tivoli.
91Nel Trattato101 le indicazioni sono ancor più circostanziate:
Tutte le statue, e Marmi, che vi erano sono state arse da quei, che distrussero la Villa; ma li sudetti alloggiamenti vicini ad esso Theatro erano non con Colonne di Marmo edificati, ma con pilastri dove erano due Piazze. Nell’una già facendosi cavare quattr’anni a dietro vi viddero tra li basamenti fatti di calce, e di pietra minuta formati del Marmo Augustale, i Nicchi che vi erano, che tenevano imagini in numero di 40, secondo dimestravano i suoi vestigij, delle quali statue, che vi erano, si trovano solamente bellissimi torsi delle ginocchia in uso di tanto numero di quale, che vi furono, le quali per esser cose Herculee, si può ben giudicare di tanto numero d’esse statue, che la Piazza fusse per un particolar Xisto, cioè dove si lottava al scoperto per dar piacere al Prencipe.
92Altresì, nel Libro102, Ligorio ha modo di affermare che
Ora, li sudetti alloggiamenti presso del Theatro restano da raccontare; che sono accostati a esso edificio, i quali erano fatti non con colonne di marmo, ma con pilastrate ove erano due piazze cinte di essi portici fatti a pilastri. Nell’una facendosi cavare quattordici anni sono, si videro molti basamenti fatti di cimento di fabrica fodrati del marmo Augustale: che sostenivano imagini di numero di quaranta…
93Se, pertanto, l’architetto napoletano indica che esistono «alloggiamenti… accostati a esso edificio [Teatro Greco]», non fa cenno della presenza di acqua nella cavea del Teatro, anzi ne descrive i pavimenti marmorei rinvenuti nel corso degli scavi, e men che mai allude alla presenza di una naumachia, ossia a uno di quegli edifici che, altresì, ben conosce e che tratta nel Delle antichità di Roma103 (fig. 44).
94Proprio con riferimento alla presenza dell’acqua, inoltre, il confronto tra le due vedute di Villa Adriana pone in luce una ulteriore nonché significativa differenza tra gli elaborati. Palmucci, infatti, disegna l’acqua come elemento certo e, proprio per essere sicuro della riconoscibilità della presenza idrica, dedica particolare attenzione alla rappresentazione del riflesso delle costruzioni nello specchio d’acqua; diversamente, nella veduta di Stracha è ben visibile il contorno netto attribuito alla linea che separa gli edifici dal suolo e che implica la presenza di terreno asciutto, come, d’altro canto, sottolineato dal trattamento grafico della superficie interna alla cavea, uguale a quello che, in altre aree, suggerisce l’ondulazione del terreno di campagna (fig. 45).
95Ricordando che Ligorio mai accenna alla presenza di acqua che, invece, è fermamente testimoniata da Contini, si deve ritenere che il disegno originale copiato da Calderoni è stato tracciato in un periodo precedente l’allagamento della cavea, ossia durante tempi prossimi, se non addirittura coincidenti, a quelli dell’attività ligoriana nella Villa. La presenza di acqua nel sito, che non poco ha inciso durante le campagne archeologiche condotte da Hidalgo, deve essere attribuita, infatti, all’innalzamento della falda idrica indotta dalle intense attività di scavo e della conseguente alterazione dell’orografia dei terreni e ostruzione delle antiche opere di drenaggio, cui il sito è stato oggetto nel corso del tempo. Sulla base di quanto desunto, pertanto, si deve ritenere che tali alterazioni debbono essere imputate alle ultime, intense, attività di scavo compiute per incarico di Ippolito II d’Este e, quindi, dopo la partenza di Ligorio per Ferrara.
96Un ulteriore elemento dal quale è possibile attestare sia l’epoca delle alterazioni del piano di campagna nell’area, sia la derivazione della veduta di Stracha dalla pianta di Ligorio, perviene dall’ippodromo che, come visto in precedenza, Contini disegna quale una struttura rettangolare, adiacente al Teatro Greco.
97Ligorio scrive che «accostati» al Teatro Greco vi sono solo degli «alloggiamenti», non un ippodromo, e che tali alloggiamenti sono anche «accostati» a luoghi «fatti non con colonne di marmo, ma con pilastrate ove erano due piazze cinte di essi portici fatti a pilastri», da cui si deve intendere che Ligorio indica l’insieme strutturale dislocato tra il Teatro Greco e la Palestra.
98La presenza di un «Hippodromo» nella Villa imperiale tiburtina è comunque attestata da Ligorio, ma non nel Descrittione in cui si legge solo di ritrovamenti marmorei riferibili a statue di cavalli e di resti strutturali ai quali non è attribuita funzione104. Solo a partire dal Trattato tali resti sono interpretati quali un ippodromo dislocato nella Valle di Tempe e, più precisamente, in prossimità della Palestra, «Accosto a questa Palestra era poi un Hippodromo, o circo di forma oblunga d’un stadio, cioè ottava parte di un miglio luogo deputato ai giuochi circensi »105, con la particolarità di avere «attorno un rivo, con suoi ponti »106. Si deduce pertanto che si tratta di un edificio di forma allungata, «oblungo», che è situato vicino alla Palestra ma più a Sud, in prossimità della «Piazza dell’oro, dall’Oriente», in posizione più centrale rispetto alla valle, «nel mezzo della Tempe »107, occupando anche una porzione di terreno in sponda destra del fosso, tanto da essere circondato da «un rivo, con i suoi ponti»; descrizioni, quelle ligoriane, che richiamano il sito, l’ubicazione e la forma e del terzo teatro della Villa, il cui inserimento nella pianta spetta a Contini e che solo dopo la pubblicazione della pianta di Francesco Piranesi assumerà il nome di «Teatro Romano» o «Latino». Edificio che Ligorio non cita mai nei suoi testi e, anzi, è sempre ben chiaro nell’affermare che nella Villa vi sono esclusivamente due teatri, dei quali il secondo è nell’area dell’Accademia che, tra l’altro, dice «fatto all’usanza greca».
99Come accennato, nella parte costruita oltre il fosso, già dal Descrittione, Ligorio avvisa del rinvenimento di frammenti marmorei di parti di cavalli, tra i quali «si trovò quello, che ha in Roma Mr. Marco Antonio Palosio, che cade col giogo al Collo »108, ricomposto nel «Gruppo di Marco Curzio» dopo il restauro settecentesco. L’informazione del ritrovamento del cavallo e del suo collocamento nella casa di Paloso permette di verificare il periodo degli scavi a fronte di quanto indica Aldovrandi109 : «In casa di M. Antonio Paloso presso la Dogana. Nel muro della loggia della corte si vede di mezzo rilievo, un bellissimo cavallo, che pare, che inciampando cada; è un lavoro meraviglioso e degno, ritrovato pochi dì à dietro in Tiburi» . Noto che Aldrovandi110 scrive e aggiorna il suo testo nel corso del suo soggiorno a Roma, tra il 1549 e il 1550, è possibile stabilire che il ritrovamento sia avvenuto nel corso del medesimo arco temporale, «ritrovato pochi dì à dietro», ossia nel primo anno (1549-1550) degli scavi eseguiti su richiesta del cardinale Ippolito II.
100Con riferimento a quanto Ligorio scrive nei suoi testi in merito alla tipologia dell’ippodromo è chiaro che ne deduce la forma e l’uso esclusivamente da «li fondamenti» e dato che la funzione di ippodromo non appare associata ai resti citati nel Descrittione, risulta che lo studio di tale edificio è stato approfondito dopo la stesura del primo testo, ossia nel corso della successiva campagna di scavo, durante la quale, tra l’altro, ha modo di riscontrare la presenza non più di «un fonte», come riportato nel Descrittione, bensì di un «rivo, con suoi ponti» .
101Nella legenda pertinente la Valle di Tempe111, Contini indica l’esistenza di un ippodromo visto da Ligorio, non senza sottendere perplessità in merito alla reale esistenza di una struttura simile in quel luogo, tanto che non la localizza nella pianta (fig. 46). È, pertanto, possibile pensare che Contini, accettando l’esistenza di un ippodromo, non sia stato convinto della localizzazione individuata in sito a partire dagli scritti di Ligorio e che, quindi, abbia inserito tale struttura nella posizione ritenuta più soddisfacente, ossia adiacente a quell’edificio da lui disegnato con i caratteri di una naumachia.
102Un ippodromo, quello continiano che, tra l’altro, presenta notevoli differenze a carattere dimensionale, proporzionale e formale con l’edificio descritto da Ligorio; se, infatti, per il primo è una struttura a base rettangolare, con le dimensioni dei lati non particolarmente dissimili e pari a 118.414 × 81.55m, per il secondo la forma è «oblunga», come del resto più volte riscontrabile in strutture simili, con dimensioni pari a 186 × 31m112.
103Come accennato, il tema degli ippodromi è studiato da Ligorio che ne scrive in un apposito trattato nel quale le illustrazioni pongono in risalto la forma allungata e composita, costituita da un rettangolo con un arco di circonferenza che sagoma uno dei due lati corti. Alle descrizioni contenute in tale trattato, pertinente gli edifici romani, «Erano adunque anticamente in Roma nove Circi, detti da Greci Hippodromi», fanno inoltre riscontro i sette ippodromi rappresentati nella pianta «grande» di Roma (fig. 47).
104Nella generalità, la letteratura antiquaria dell’epoca è concorde con Ligorio nel definire la tipologia degli ippodromi, con la parziale eccezione di quanto riportato nella riedizione illustrata, curata da Ferrucci nel 1588113, del Le Antichità di Roma di Andrea Fulvio114. Sebbene in tale opera, infatti, le singole illustrazioni di alcuni ippodromi romani siano aderenti alla tipologia tradizionalmente accettata, alla voce «Hipodromus», descrittiva della tipologia in termini generali, nonché accreditata a Ligorio, compare il disegno di un edificio a pianta rigorosamente rettangolare, con tutti i lati tra loro ortogonali e mutuamente paralleli (fig. 48). Se già l’edizione originale del testo di Fulvio era stata oggetto di notevole attenzione e divulgazione, la ristampa di Ferrucci non è da meno: particolarmente diffusa, tanto che a tutt’oggi ne esiste un considerevole numero di copie, è più volte ristampata nel Seicento115, anche con differenti titoli e da altri autori e curatori116, con minime aggiunte e correzioni ai testi ma sempre includendo l’immagine dell’ippodromo rettangolare nella parte dedicata alle definizioni tipologiche, affiancata all’immancabile richiamo a Pirro Ligorio e alla sua «Chorographia» di Roma (pianta «grande»).
105Su tali basi, pertanto, è fortemente realistico immaginare che Contini, per delineare la struttura da affiancare al Teatro Greco nella sua pianta del 1668, abbia consultato una delle edizioni per lui più attuali di tale opera e che, conseguentemente, abbia adottato l’erronea e generica immagine tipologica di un ippodromo. Se con ciò si giustifica l’adozione della forma attribuita all’edificio, rimangono pur sempre, però, da chiarire i motivi per i quali decide di inserire tale immaginaria struttura in quella specifica posizione.
106Sebbene, come già indicato, sia oramai acclarata l’inesistenza dell’edificio disegnato da Contini, l’intera area circostante il Teatro Greco è densa di resti, documentabili per lo più al livello delle fondazioni e solo in minima parte al livello delle pavimentazioni, tra i quali quelli indagati da Hidalgo e altri la cui presenza è indicata solo da testimonianze verbali e dai risultati di indagini condotte attraverso analisi di foto aeree117. Con riferimento ai risultati ottenuti da Hidalgo occorre ricordare, a Nord-Ovest del Teatro Greco, le fondazioni di un edificio o, per meglio dire, di due ambienti di dimensioni contenute e di una struttura che potrebbe essere interpretabile quale una scala, mentre a Ovest, in una porzione dell’area interessata dall’ippodromo disegnato da Contini, sono state rinvenute le imposte di fondazione di piccoli edifici, interpretati quali padiglioni o tempietti da giardino e un portico colonnato con pavimento di sectilia marmorea e di mosaico nello spazio esterno, antistante (fig. 49).
107Altresì, tra i risultati delle indagini indirette occorre indicare una struttura che potrebbe essere interpretata quale un edificio di forma oblunga e con un lato semicircolare, dislocata nell’area che, a Nord-Est del Teatro Greco, dal 2000 è stata adibita a parcheggio, le cui tracce, visibili in una foto aerea del 1961, sembrano essere esclusivamente pertinenti l’impianto delle fondazioni e il cui orientamento è, all’incirca, ortogonale rispetto a quello dell’ippodromo continiano (fig. 50).
108L’insieme dei dati consente di giustificare l’erronea interpretazione di un ippodromo da parte di Contini; tra l’altro, all’analizzare tali informazioni in parallelo con la veduta di Stracha, è possibile ottenere ulteriori spunti di riflessione.
109Nella veduta trasmessa dal topografo tiburtino, infatti, l’area nella quale Contini disegna il suo ippodromo è parzialmente occupata da un edificio a pianta rettangolare con due livelli di elevazione, una corte interna e due absidi disposte all’incirca in posizione mediana sui lati corti; un edificio, pertanto, che potrebbe richiamare quella tipologia generica degli ippodromi trasmessa dalla letteratura a partire dal lavoro di Ferrucci. Tale struttura presenta solo due elementi discordanti rispetto a quanto rappresentato da Contini, consistenti nella disposizione e nella presenza di una soluzione di continuità con il Teatro Greco, interpretabile quale una sorta di portico coperto con volta a botte (a doppia falda nelle veduta di Palmucci) (fig. 51).
110Sempre nella veduta di Stracha, inoltre, in prossimità dei lati minori dell’edificio, sono ben visibili due piccoli elementi, uno a pianta centrale e uno a pianta rettangolare, di tipologia corrispondente a quella delle costruzioni erette quali arredo di giardini, con posizioni che potrebbero collimare con quelle delle fondazioni di edifici simili rinvenute da Hidalgo. L’area a settentrione del Teatro Greco, nella veduta di Stracha, è occupata da una grande «piazza» (fig. 50, lettera Z) delimitata da una costruzione mistilinea, con un’esedra nel versante Nord. La posizione, l’orientamento e, nelle linee generali, la forma, sono elementi che potrebbero recare a identificare l’insieme rappresentato con i resti desumibili dalla foto aerea del 1961, ma non con l’ippodromo ligoriano in quanto, sebbene prossima alla Palestra, la «piazza» si trova al di fuori della Valle di Tempe.
111Della medesima veduta, però, proprio nell’area della Valle di Tempe, «accosto» alla Palestra, emerge un riferimento molto più aderente alla tipologia tradizionale degli ippodromi, definibile come uno spazio con un elemento circolare al centro, completamente recinto da strutture e tale che l’insieme planimetrico corrisponde pienamente alla definizione di «forma oblunga» .
112Disposto trasversalmente rispetto alla Valle di Tempe, il complesso, su tre lati, dei quali due rettilinei e tra loro paralleli e uno semicircolare, è costituito da murature ritmicamente sagomate con archi, mentre l’ultimo lato, opposto a quello semicircolare, ha i vertici costituiti da due costruzioni di maggiore elevazione. L’imposta a pianta centrale e la copertura a cupola di una delle due costruzioni non vanificano il riconoscimento della tipologia pertinente un ippodromo; tale interpretazione, tra l’altro, è ulteriormente ammessa dalla tipologia, spiccatamente a torretta, attribuita alla costruzione sul vertice opposto.
113Il complesso non è più riconoscibile nella veduta di Palmucci, nella quale si scorge solo la forma circolare centrale, da cui si comprova quanto in precedenza discusso in relazione all’ipotesi per la quale Palmucci non copia la pittura di Calderoni e neppure il cartone o il disegno adottato dal pittore tiburtino per dipingere la sua veduta a palazzo Cesi, bensì copia un disegno più aggiornato, comprensivo delle modifiche subite dai resti e dall’assetto del territorio (fig. 52).
114Noto che Contini dubita della localizzazione ligoriana dell’ippodromo, tanto da disegnare tale edificio affiancato al Teatro Greco, si deve ritenere che i resti delle fondazioni visti e interpretati da Ligorio sono completamente obliterati tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.
115Al ruotare la veduta di Stracha, facendo collimare il terrazzamento della Palestra con l’allineamento reale, è innanzi tutto possibile osservare che l’ippodromo ligoriano potrebbe essere localizzato in quella porzione della Valle di Tempe nella quale, a tutt’oggi, è presente un pozzo di acqua sorgiva, assai prossimo all’immaginario terzo teatro della Villa disegnato da Contini nella sua pianta del 1668 e che Francesco Piranesi riprende nella sua pianta migliorandone le informazioni con la chiara esplicitazione della presenza di corsi d’acqua minori, il maggiore dei quali indicato quale «fossatello» . In entrambe tali piante, inoltre, è ben visibile una struttura che attraversa il fosso di «Tempe» e attualmente, nella medesima area, sono documentabili numerosi resti murari antichi, dei quali almeno uno, assai prossimo al letto del fosso principale, disposto all’incirca ortogonalmente rispetto all’andamento del corso d’acqua (fig. 53, 54).
116Altresì, tenendo fede all’orientamento della cavea del continiano Teatro Latino, si può immaginare che l’ippodromo visto da Ligorio sia stato differentemente disposto, ossia che abbia avuto la parte semicircolare a Sud; al ricordare che, in assenza di un rilievo topografico, una delle tecniche per la realizzazione delle vedute o ritratti di città consisteva nell’assemblare le singole piante dei singoli edifici, talora ruotate al fine di disegnare un particolare edificio attribuendogli maggiore visibilità, e che la veduta di Villa Adriana sembra essere stata composta sulla base di due diversi e contrapposti punti di osservazione diretta, la rotazione attribuibile all’orientamento dell’ippodromo non costituisce motivo invalidante l’ipotesi formulata (fig. 55).
117Nel ribadire che nei testi di Ligorio nessun cenno appare in merito a un terzo teatro e che, anzi, l’architetto napoletano è ben chiaro nell’affermare la presenza di due soli edifici con funzione simile, dei quali uno nell’area dell’Accademia e uno in prossimità della Palestra, l’erronea interpretazione di Contini dovrebbe essere dipesa, con buona evidenza, dalla necessità di localizzare un secondo teatro, oltre quello dell’Accademia, dato che non riconosce come tale il Teatro Greco in dipendenza della presenza di acqua all’interno della cavea.
118Se, pertanto, a fronte di quanto desumibile, le strutture interpretate da Ligorio quale «Hippodromo», sono riconoscibili nella veduta di Stracha e vanno ricercate in sponda destra del fosso, prevalentemente oltre il confine demaniale, un successivo caso di notevole interesse perviene dall’analisi condotta in parallelo tra i testi di Ligorio e la veduta di Stracha con riferimento all’area nella quale si trovano i complessi delle Biblioteche e il Teatro Marittimo.
119L’architetto napoletano è tutt’altro che avaro di informazioni in merito alla Biblioteca Greca, descritta in tutti i lavori e sempre indicata come un edificio ragguardevole, con tre livelli di elevazione fuori terra,
si vede il grande, e bellissimo edificio rovinato, dove era la Biblioteca con tre ordini di Stanze, Corridori di fuori, dove si può considerare divisioni de’ libri secondo le sue materie [...] In questo luogo, come in tutti gli altri si vede, che v’erano Statue & altri belli ornamenti agiustati, e dipinti, & istuccati con vaghissime inventioni118,
120benché, inizialmente, si mantenga assai generico in merito alle altre strutture circostanti, «A canto della Biblioteca [Greca] sono appartamenti a guisa di Tempii, e di Exedre e diete, & alberghi piccioli, e grandi, con li suoi Portici e Fonti, & altri piani de’ Giardini »119.
121Nel Trattato le informazioni sono, all’incirca, le stesse del Descrittione anche se piccole e significative aggiunte suggeriscono l’avvenuto avanzamento degli scavi,
Dinanti la Piazza è un poco di vestibolo che conduce in certo angolo, dove sono tre diverse inventioni di scale, luna delle quali montava nelle parti più alti del grande e bellissimo edificio che è rovinato della Bibliotheca fatto con tre ordini di tre stanze l’uno di sopra dell’altro con corridori di fuori d’alcuni piccoli Alberghi, ove si può considerare la divisione dove potevano essere gl’Armarij di libri, secondo erano locati secondo le sue materie, o delle lingue o dell’arti, come della filosofia morale, o d’altra scienza. Questo luogo, come tutti gli altri se vede che haveva statue, et altri belli ornamenti dedicati con incrostationi di cose mirabili di Pietre tutto dipinto, ò stuccato di vaghissima inventione, nella cui Bibliotheca si montava per la sudetta scala, o per tre altri ordini di scalini, che erano avanti la sua principal’entrata, che è voltata, a Tramontana, quali havemo veduti cavandosi, che erano foderati di Marmo a canto della Bibliotheca son altri appartamenti e luoghi da studiare fatti a guisa di Tempij con le Cavee, o vero Absidi di mezzo cerchio con le sue Exedre e Diete, et alberghi piccoli e grandi con li suoi Portici e fonti, in una era una bellissima Imagine di Bacco, Apollo con l’effigie d’Antinoo à delitie d’Adriano, la quale havemo trovata rottissima, e dissipata in pezzoli, che i pezzi suoi mostravano molta delicatura, acciò che in essa si dimostrasse la bellezza d’Antinoo, quella del Sole e di Bacco mista insieme, perché Bacco haveva la Ghirlanda d’edera, d’Apollo la Cetra, e la grandezza, e la faccia d’Antinoo. Oltre questo verso Tramontana, al cui verso son rivoltati i Lumi tutti per lo più degl’Edifitij, comanco le Porte degl’Alberghi, che sono in q.a parte vicino, et accostate alla sopradetta Stoa, overo Poicile avanti al piano dove era la Bibliotheca è un gran spatio più basso in un altro piano, che gli giace sotto che si divide dal piano della Bibliotheca con un lungo Muro, che in una delle sue teste si parti da Levante, e va dall’altra verso ponenti, il quale mette in piano e sostiene il sito dell’Area della Bibliotheca. Questo muro dunque; è ornato di 25 Nicchi quattro piedi alto da terra. Luoghi di Statue, et divanti questo muro ci era un Portico coperto cirveniva attorno al Giardino che ea in mezzo del campo di tutto il piano. Nelli fianchi di questo luogo sono altri Poggi più bassi e varij con altre piazzette, altre loggie altre fontane e giardini, che a destra et a sinistra, a Levante, et a ponente vi estendevano120.
122Se, pertanto, attorno al 1556, Ligorio è in grado di descrivere, oltre il rinvenimento della statua di Bacco-Antinoo, anche il terrazzamento delle Biblioteche, è solo anni dopo che, nel Libro, potrà indicare, con profusione di dettagli, quell’edificio che più tardi sarà chiamato Biblioteca Latina:
Accanto alla Biblyotheca, a destra di essa uscendo dalla porta, erano altri appartamenti, et luoghi di studiare, et altre cose fatte a guisa di tempij, co’ le camere, o vero Abside’, di mezzo cerchio, co’ le sue Exedre su i lati del trono; con altre Diete anchore oltre ai detti, et altri alberghi piccioli et grandi, con li suoi portichi et fonti. In uno era una bellissima imagine di Bacco Apollo [...] colla effigie di Antinoo [...] Le stanze dove era questa imagine, tral’altre vi si montava pure dalla parte di tramontana, per una stanza quadrata, ch’era davante, con certi luoghi bizzarri attorno, con alcuni fonti; la quale anch’essa haveva tre gradini di forma circolari. Similmente ornata di cose di scoltura di bassi rilievo del marmo pario, secondo alcuni fragmenti scoperti quivi nelle rovine di esso luogo. Era tutta incrostata di smalti figurati di diversi colori et animali, il pavimento di uno certo smalto verde a dell’azzurro, fatti come un prato segato, ove mostravano i tronchi dell’herbe troncate et pareva che nelle tagliature avesse un certo bianco come fa quando comincia un herba segata a’ passare e far la cima del taglio seco: et quello ch’era mirabile che parevami i calami troncati col suo vuoto dentro: cosa veramente bellissima. Havevano l’altre stanze i lastrigati di quadrelli rossi romboidi colli profili di marmo bianchissimo, altri di marmo nero colli medesimi profili bianchi fatti a quadretti, altri di forma ottagona del marmo corinthi et del marmo giallo et biancho et rosso mischiati. Davante à questo appartamento: si vedevano diversi piani, come piazza di giardini, con circuitiari di edificij et molte piazze incluse in essi. et di forma ottagona, et quadrata, et sesquialtrese, et Duplare: con alcuni luoghi da fontane, i quali non se seriano potute considerare le sue particolarità se non vi fosse stato cavato, et visto sotto delle rovine i suoi annamenti; mentre vi hanno voluto piantare delle vigne. Oltre a questi verso Tramontana la più pure si distribuiscono i lumi e’ fenestre di essi luoghi, come sono la più parte rivolti i fronti et le porte dell’alberghi che sono in questa parte vicino121.
123Da quanto indica Ligorio, pertanto, si deduce che la «bellissima immagine di Bacco Apollo colla effigie di Antinoo» si trovava all’interno della Biblioteca Latina, «Haveva tre gradini di forma circolare», che tale edificio era lussosamente decorato, «tutta incrostata di smalti figurati di diversi colori et animali, il pavimento di uno certo smalto verde a dell’azzurro», e che l’asportazione di tutti i resti è avvenuta nel corso degli scavi cui fa riferimento.
124Alla luce delle testimonianze ligoriane, pertanto, occorre ammettere che il sito delle Biblioteche è stato oggetto di campagne di scavo d’Este già a partire dalla prima metà del Cinquecento e che la Biblioteca Latina viene riconosciuta solo nel corso delle attività condotte dopo la stesura del Trattato; con il supporto di Contini, inoltre, è possibile attestare la proprietà del sito a Ippolito II, dato che la medesima area in questione, nel Seicento è parzialmente di proprietà122 di «Gio: Arquiero, guardarobba del Palazzo d’Este» (fig. 56).
125Con riferimento all’indicazione nominale con cui ancora oggi sono noti gli edifici, l’analisi dei testi permette di fare maggiore chiarezza: se Ligorio scrive solo di una Biblioteca, la cui descrizione aderisce compiutamente a quella oggi nota come «Greca», dell’altro edificio (la cd Biblioteca Latina) indica che è composto da «altre cose fatte a guisa di tempij, co’ le camere, o vero Abside’, di mezzo cerchio, co’ le sue Exedre su i lati del trono». Successivamente Contini, nel descrivere quest’ultimo complesso, si attiene alla descrizione ligoriana, «Luogo fatto a guisa di Tempio, co sue Essedre, e Diete, le quali, secondo Ligorio erano luoghi da studiare »123, mentre è Francesco Piranesi che, nella legenda della sua pianta, indica le due strutture quali «Biblioteca Greca, e Latina, sito del Conte Centini» .
126Al tornare ai paralleli tra le informazioni trasmesse da Ligorio e quanto desumibile dalle due vedute, è possibile osservare che nella veduta di Palmucci non esistono elementi di riconoscibilità con le descrizioni ligoriane, mentre la questione si presenta ben più interessante nella veduta di Stracha, nella quale i complessi delle Biblioteche sono identificabili sia per similitudine formale, sia rispetto alla loro adiacenza a un’area, pressoché completamente recinta, di forma mistilinea e con molti tratti curvi (fig. 57, 59). Tra gli elementi che racchiudono tale area, tra l’altro, si distinguono tratti di doppi muri che, associati alla presenza di livello di calpestio posto a quota inferiore e di un edificio a base circolare, inducono al riconoscimento del complesso del Teatro Marittimo (fig. 60). Questo complesso, in effetti, è considerato di pertinenza dell’area delle Biblioteche da Ligorio e da Contini e, con particolare riferimento a Ligorio, è possibile stabilire che l’architetto matura le sue conoscenze in seguito a una sola campagna di scavo, i cui risultati appaiono nel Descrittione. In tale testo, infatti, si legge che124
A lato alla dieta [Sala dei Filosofi] è un altro luogho ornato di un Portico Ovato, nel mezzo della Piazza sua è un edificio Ottagono, che per ogni lato fa porte e nichi, & altri repositorii di Statue, dove di dentro, e di fuori erano molte Imagini dè Dei; e vi scaturivano Fonti; dentro per loro fregi erano intagliati Mostri Marini, tanto di forma humana, come d’ogni animale terrestre, e marino con code di Delphino, con Donne & Amori à cavallo, in altri ci erano intagliati carri tirati da diversi animali, & Augelli guidati da certi Cupidini alati, ò vogliamo dire Intelligenze, che fanno un giuoco Circense; alcuni dè carri hanno per suoi cavalli Struzzi, altri Arieti; Capre e Leoni, altri, Cavalli proprii, Tigri, e Colombe, quasi mostrando, che ogni spetie corre ad un fine terminato, ò alla Morte, ò alla Generatione. Queste cose, parte sono state portate à Roma nell’Horto del Cardinale Farnese, parte ridotte in Tivoli murate per le case, e parte sono in potere di V. S. Ill.ma.
127Nel Trattato125 il tema è discusso a fronte dei ricordi, analizzati, di Ligorio, come ben evidenziabile dalla citazione inerente l’ormai avvenuto trasporto dei pezzi a Roma, e l’intero complesso rimane costituito da un «edificio ottagono molto bizzarro», inserito in un «Portico di forma ovato». Nel Libro126 risalta la correzione apportata alla forma del portico, «ovato rotondo »127, mentre l’edificio viene indicato dubitativamente quale «Tempio, ò un altro luogo» e «chiamato oggidì la Rota», benché la forma della pianta rimanga egualmente ottagona; Ligorio, inoltre, puntualizza che tutti i rilievi scolpiti, il cui elenco iconografico è molto più cospicuo rispetto a quello riportato nel Trattato, «Erano dentro del Zophoro, cio, è cintura del freggio» e che i resti si trovano a Tivoli, a Roma e «nel giardino di Trastevere; altre ne sono state trasportate altrove dal Duca d’Alba [...]; altre ne sono state già condotte a Roma da altri che si dilettano di antichità» .
128A fronte di quanto desumile è possibile stabilire che, tra la stesura del Trattato e quella del Libro, il sito sia stato scavato anche da terzi, non particolarmente stimati da Ligorio, «altri che si dilettano di antichità »128, ossia che l’architetto abbia partecipato alla sola campagna di scavo condotta prima della stesura del Descrittione. Aggiungendo a tutto ciò la menzione al Duca d’Alba, che tra il 1556 e il 1557 adotta Tivoli quale base militare per le sue operazioni offensive contro Roma, acquartierato «presso Ponte Lucano »129, e che Ippolito II, tra il 1555 e il 1566, è forzatamente lontano da Tivoli, è possibile validare che la stesura del Trattato avviene attorno al 1556 e, al ricordare che il Trattato è scritto 4 anni dopo il Descrittione, si conferma che la prima opera sia stata redatta all’incirca nel 1552, così come è possibile attestare l’inizio della stesura del Libro a partire dal 1569.
129Tra l’altro, al ricordare che nel Libro si legge la descrizione architettonica del Teatro Marittimo, adottata a partire dal Descrittione, con le uniche varianti relative alla forma del portico, al nome, «Rota», e al più dettagliato elenco dei pezzi ritrovati, è pienamente confermabile che gli sterri dell’epoca non raggiungono la profondità necessaria a mostrare l’esistenza del canale che circonda l’isola130 e, conseguentemente, che non viene fatta luce sull’esistenza della stessa isola, da cui deriva che a Ligorio mancano le informazioni indispensabili per identificare l’originalissima tipologia del complesso, descritta a partire da Piranesi, il cui peculiare nome, Teatro Marittimo, a detta di Nibby, deriva dal «volgo »131. A tal ragione debbono essere pienamente rigettate tutte le ipotesi volte ad ammettere che Ligorio abbia riconosciuto nel complesso gli elementi di assonanza con l’Ornithon di Varrone, da lui studiato e interpretato graficamente132 (fig. 61, 62).
130Che Ligorio non si limiti a riportare esclusivamente le informazioni derivanti dagli scavi nei quali egli stesso è parte attiva, bensì tratti anche dati pertinenti scavi condotti da altri, sebbene in maniera molto più sommaria, è riscontrabile anche nel caso dell’Edificio con Tre Esedre, altra tipologia che, presente nella Villa, non è pienamente raffrontabile con costruzioni note all’epoca delle attività ligoriane133.
131L’area in cui risiede tale edificio, infatti, è descritta solo a partire dal Trattato, nel quale si legge la generica presenza di «tre piazze» in prossimità delle Terme con Eliocamino, «presso di detti bagni». Vicino a una di tali «piazze» si legge di un’area circondata da «fabriche con colonne di ordine Ionico, di marmo bianco, colli capitelli e spire ò vogliam dire basi del marmo negro», la cui descrizione è aderente alle decorazioni architettoniche del fronte del Palazzo d’Inverno prospiciente il Giardino-Stadio.
132Giova segnalare che la letteratura moderna attribuisce tali descrizioni all’attuale Piazza d’Oro; la lettura del Libro, però, impone una riflessione dato che il luogo del ritrovamento è descritto all’interno di un breve circuito che inizia dalla Palestra e che prosegue, nell’ordine, nella valle Tempe, con l’ «Hippodromo Olympico», per passare in «unaltra piazza, che modernamente si dice Piazza dell’Oro »134, e terminare nella «parte della Villa che si estende verso la Tramontana et all’oriente; accanto alla parte del portico Poicile [...] vi sono i bagni laconici [...] in una delle tre piazze ch’erano presso i detti bagni haveva attorno fabriche con colonne di ordine Ionico »135 ; è dunque attestabile che la «piazza» con le colonne bicrome sia il Giardino-Stadio, a fronte della posizione prossima a «detti bagni» . A tal proposito, nel Trattato, Ligorio indica che in tale luogo
Tra [m] olte figure, che v’erano, le quali son stati in parte trovati vi era una grand’imagine di Diana col cane accanto, et una d’Atlanta che haveva un Cervio per le corna con vesti svolanti, et succinto con un’altra imagine pure di Diana, overo una Agrotera con l’arco e le saeti in atto d’andar cacciando con un’altra figura della fortuna Virile136.
133Nel Libro le informazioni esposte sono pressoché simili, con minimi approfondimenti137, e comunque risalta sempre l’assenza delle descrizioni pertinenti la decorazione architettonica degli ambienti nei quali sono state ritrovate le sculture138, noto che le tracce ancor oggi presenti negli edifici dislocati nell’area del Giardino-Stadio rimandano a un programma ornamentale estremamente raffinato e lussuoso. Se a ciò si aggiunge la forma adottata per l’illustrazione delle sculture, limitata a una sorta di elenco di pezzi, si rafforza l’ipotesi secondo cui Ligorio stia riportando dati relativi a scavi dei quali è solo visitatore e, a tal proposito, l’ulteriore conferma perviene dal brano del Libro in cui si legge di un nuovo ritrovamento che vede protagonista la famiglia Carafa,
Vi erano un’altra della Tranquillità: molto consumata la quale ha la sinistra mano teniva una misura di grano sotto il braccio, colla destra teniva il timone, col piè destro piantato in terra et col sinistro appoggiato su una nave. Le qual cose tutte hebbe il signor Carlo cardinale Carafa, è donate a diversi principi139.
134Dall’insieme di quanto esposto risalta che negli anni durante i quali Ligorio frequenta la Villa, nell’area centrale sono state condotte almeno due campagne di scavo, delle quali la prima, ante 1556140, ha per oggetto il ritrovamento delle statue di «Diana col cane […] d’Atlanta che haveva un Cervio [...], di Diana [...] con l’arco e [...] della fortuna Virile», mentre l’altra, nel corso della quale è ritrovata la «Tranquillità», dovrebbe essere databile entro il 1561, ossia quando il cardinale Carlo Carafa è ancora nelle condizioni di poter donare «a diversi principi »141. In ogni caso, la frase conclusiva di Ligorio, «le qual cose le ebbe tutte [...] Carafa», permette di accertare che l’architetto stia trattando di scavi ai quali non ha assistito, probabilmente occorsi nel periodo dell’allontanamento forzato di Ippolito II da Tivoli.
135Le informazioni di seguito fornite da Ligorio in merito al cardinale Carafa, che «hebbe» e donò «a diversi principi» gli oggetti ritrovati, consente di associare una delle statue, quella «d’Atlanta che haveva un Cervio», alla cd Diana di Versailles142, nel 1556 donata da Paolo IV a Enrico II di Francia143.
136In definitiva, da quanto emerso con riferimento al tema in oggetto, quel che maggiormente risalta è che Ligorio non possiede un’accurata conoscenza di quell’area, da cui si potrebbero desumere le ragioni per le quali l’architettura dei complessi ivi residenti è assai poco distinguibile nella veduta di Stracha (fig. 63).
137Uno dei casi più particolari e affrontabili nel contesto della comparazione tra i testi ligoriani e la veduta della Villa è costituito da Roccabruna, edificio non riconoscibile nei testi di Ligorio ma del quale si conserva un suo schizzo planimetrico144. L’elaborato è tracciato a mano libera su un foglio di carta giallognola, tanto sottile da fare trasparire il disegno, anch’esso in minuta, eseguito sulla faccia retrostante e nel quale è rappresentato un edificio in elevato, ben individuabile nel retro prospetto di uno dei sepolcri Sereni, che compare passato in pulito all’interno del Libro145 (fig. 64, 65).
138Ligorio disegna, nel caso di Roccabruna, una vera e propria planimetria, ossia in vista ortogonale dall’alto, dell’area compresa tra l’edificio del Museo e le Sostruzioni dell’Accademia; nella parte angolare di queste ultime inserisce, correttamente, l’edificio di Roccabruna che, però, rappresenta in sezione orizzontale, con il piano sezionatore che taglia il dado di base. L’adozione di quanto oggi definibile quale «sezione mista» pone in risalto l’intenzione di Ligorio di evidenziare quante più informazioni possibili in un unico grafico; da cui deriva che, negli anni durante i quali redige il disegno, la parte più significativa dell’edificio è esclusivamente quella interna al dado di base (fig. 66).
139Un’analisi più dettagliata della pianta dell’edificio, inoltre, indica che Ligorio attribuisce eguaglianza alle tre aperture perimetrali del dado di base, ossia che non riscontra la differenza tra il vano della porta e quelli delle due finestre; inoltre non vede la nicchia a base semicircolare nel vano opposto a quello della porta, vede il corridoio laterale, ma solo per un tratto, non vede i due minuscoli vani interni e laterali al salone centrale e neppure l’insieme degli ambienti sostruttivi, mentre all’esterno indica con chiarezza le due grandi nicchie e i resti del colonnato disposto lungo i tre lati liberi dell’edificio. Sulla base di tali indicazioni, pertanto, è possibile stabilire che Ligorio visita il sito e disegna la planimetria solo in seguito all’avvenuta esecuzione di un parziale sterro del complesso (fig. 67).
140Dalla planimetria, inoltre, emergono altre informazioni delle quali le prime sono di ordine grafico e hanno per oggetto un sotteso allineamento strutturale, senza soluzione di continuità, tra le sostruzioni di Roccabruna e il complesso del Museo, è da rilevare, inoltre, la presenza di due linee parallele, sia tra loro, sia alle sostruzioni dell’Accademia, che hanno origine in prossimità della quinta campata delle sostruzioni di Roccabruna e che dividono l’area compresa tra tale edificio e il Museo in due diverse porzioni, delle quali quella prossima a Roccabruna è occupata dalla «vigna di. M Persio», mentre nell’altra si legge che si tratta di una «piazza più bassa» . Ligorio annota anche interpetazioni di ordine funzionale nell’area antistante il Museo, prospicente il Canopo, che riconosce quale «xysto »146 e nell’area tra il Museo e Roccabruna, che denota quale «piazza dela Villa di Hadriano»; altresì sono leggibili ulteriori due indicazioni numeriche delle quali una, in prossimità del versante Est dell’edificio di Roccabruna, informa che sono «piedi 1500» e tale misura, corrispondendo a poco più di 446m, deve essere riferita all’estensione delle Sostruzioni dell’Accademia, mentre la seconda, pari a 15 piedi in larghezza, si legge all’interno di uno degli ambienti del complesso del Museo147 (fig. 68).
141Come in precedenza indicato, nei testi di Ligorio non appare mai il nome «Roccabruna» o una descrizione dal quale sia possibile riconosce il complesso anche se il richiamo a una «vigna di Mr. Persio», presente solo nel Descrittione, suggerisce una sorta di assonanza con l’area dove si trova Roccabruna,
giace una Valle [Canopo] longhissima, assaipiù che non è la proportione di un Cerchio da far Giuochi Circensi che à destra & à sinistra ha varii Appartamenti [...] Soprastante al detto Canopo sono li spatii del luogo de la Accademia, la quale ha tante piazze, & Appartementi, che sono cose infinite à narrarle. Questo spatio (occupato all’ora dalle vigne di Mr. Persio, e da quelle di Mr. Simon Petrarca, e dall’altre di altri Cittadini) si spedisce con venti Piazze, che accrescono la comodità e gratia alle cose necessarie d’essa Accademia, senza li spatii grandi, che tenevano occupati li Boschi, e Giardini, che ivi erano compartiti, & à canto all’Atrio suo era un luogo di forma ovata, vario, e di Statue ornato148.
142Ligorio, pertanto, considera Roccabruna pertinente l’area dell’Accademia e, a tal ragione, talora la letteratura149 ha riconosciuto il complesso nel «Heroo di Cadmio, o di Academo», la cui descrizione compare con minime variazioni150 nel Trattato e nel Libro:
Così tornando all’altre sue parti {de la Villa} sopraposte al Canopo, dall’altra parte del fianco, che è a mezzo giorno, ove sono altri edificij, come e {dove} in capo ad un spatio in {d’uno} angolo si vede {i vestiggi di} un Tempio rotondo, che mette in {ri} piano un altro {Tempio} che gli era di sopra, che è rovinato, il quale era {uno Heroo} anco di forma circolare con i corridori attorno, il qual è {cui} appartamento dell’Accademia e doveva rappresentare lo Heroo di Cadmio da cui era nominata l’Academia la quale non era di minor spesa {che non era di minor spesa; }, e d’ornamento di statue, che erano l’altre parti {de la Villa: } di marmi intarsiati {intagliati}, e di Colonne, et di cose vaghe incrostati, come le sue rovine dimostrano {rappresentano}, et di sotto al sudetto Heroo dalla parte del campo {canopo} erano altri luoghi et altre fonti {fonti con altre logie}, che confinano col Pogio, dove sovrasta il piano degli {sovrastando gli} edificij dell’Academia, la quale ha tante piazze et appartamenti, che sono cose infinite a narrare {di tutte}, et ogni animo generoso atterrano, tanto poniamo impossibile ai nostri giorni potersi fare {fabricare} si superba, numerosa, et ornata fabrica {tanto è numerosa di ornatissime invenzioni}.
143Pertanto, «Lo Heroo di Academo», secondo le descrizioni di Ligorio, è un edificio disposto «in capo all’angolo» opposto rispetto a quello in cui è l’altro «tempio rotondo» dedicato a «Apoline, à Minerva, et alle Muse, come i luoghi dele statoe dimostrano» e in precedenza accennato quale «luogo di forma ovata, molto vario et di statoe ornato, e di camere et coperto come un degno ombracolo, che doveva esser’il corpo principale dove si radunavano gli Academici: et in un’ lato dell’Atrio, era un altro edificio rotondo, ma innanzi che si dice di questo ch’era il Tempio delle Muse dirremo dell’Academia, et à che imitatione tante cose vi furono drizzate, in si fatte fabriche della Villa »151.
144La descrizione del «Tempio rotondo, che mette in piano un altro Tempio che gli era di sopra, che è rovinato, il quale era uno Heroo anco di forma circolare», nell’invalidare la possibilità che si tratti di Roccabruna152, rimanda alla memoria uno dei disegni di Ligorio, oggi nella miscellanea Canonici della Bodleian Library153, che ovviamente non rappresenta Roccabruna154 ma nel quale è interessante notare come le proporzioni corrispondano pienamente a quelle dell’edificio adrianeo, così come corrisponde esattamente il numero delle colonne (16) della prima tholos superiore, tema di discussione affrontato da Ashby per il suo tentativo di identificazione, peraltro vano, del disegno: «Measured plan of a round temple with sixteen columns, not therefore tallying with either the round temple by the Tiber nor that at Tivoli, which have 20 and 18 respectively. Nor is the plan of the interior that of S. Pietro in Montorio. It is probably meant for the temple at Tivoli, as the late apse opposite the door is shown, and the decoration of the ceiling of the ambulatory is identical »155 (fig. 69).
145Tornando all’identificazione del «lo Heroo di Academo» con Roccabruna, occorre riflettere anche in merito alla localizzazione, «in capo ad uno spatio d’uno Angolo», che potrebbe ritenersi parzialmente coerente diversamente dalla posizione, nella «parte, più alta et nel mezzo dell’Academia»; altresì la dichiarazione secondo cui il complesso descritto si trova a «mezzo giorno» rispetto al Canopo156, troverebbe piena soddisfazione nella veduta di Stracha, laddove proprio sotto l’edificio che richiama la posizione e le linee generali di Roccabruna, si legge la scritta «Mezzogiorno» .
146Sommando l’insieme delle descrizioni, pertanto, rimane incerta l’identificazione di Roccabruna con «lo Heroo di Academo» e, se ciò conferma che la descrizione ligoriana di Roccabruna è demandata al solo disegno planimetrico, a latere indica che neppure le indagini svolte in quell’area sono di sua competenza, da cui si potrebbe dedurre che la planimetria faccia parte degli ultimi disegni tracciati da Ligorio proprio nell’anno della partenza per Ferrara e, di conseguenza, che gli sterri del complesso siano da attribuirsi al medesimo periodo.
147Sebbene poco dettagliata e in minuta, la planimetria permette di sviluppare qualche minima osservazione in merito all’area e al complesso, a partire da quella doppia linea che divide le due «piazze» e che Salza Prina ha identificato quale via sotterranea di comunicazione con l’Accademia.
148Benché le verifiche archeologiche condotte dalla Soprintendenza proprio nell’area dell’innesto tra la presunta via sotterranea e le sostruzioni a Nord-Est di Roccabruna abbiano dato esiti assolutamente negativi rispetto all’ipotesi di Salza Prina, parte della più recente letteratura ha perseverato ad accettarne la validità, senza, peraltro, osservare che nessuno riconosce e documenta tale ipotetica via sotterranea, a partire da Contini, che si limita a indicare l’esistenza di un semplice «portico coperto» comprensivo di una «scala che ascendeva al poggio più alto »157, per finire con Francesco Piranesi che indica la presenza di un «Ingresso dalla Cordonata nel Corridore, che gira a intorno al Poggio Z. Detto Corridore, che serve di sostruzione al Poggio A. il quale è un artefatto per render il sito dell’Accademia in piano continuato »158. Informazioni, queste, conformi a quanto oggi visibile nella parte più prossima al Serapeo, ossia ai deteriorati tratti paralleli di murature che delimitavano un percorso coperto e fuori terra.
149Altresì, con specifico riferimento a Roccabruna, e in particolare alla pianta del dado di base, parte della recente letteratura aderisce nel riconoscere il monumento in un disegno che Fra Giocondo copia da un precedente elaborato redatto da un maestro anonimo159 e, se così fosse, si tratterebbe dell’illustrazione del complesso come visibile all’incirca cinquanta anni prima di Ligorio (fig. 70). Il riconoscimento in età moderna spetta a Vasori160 che richiama Nibby e Lugli e non omette di affermare che «la pianta è molto rimaneggiata rispetto a come è realmente l’edificio», indicando anche che le nicchie sul prospetto esterno del dado di base non sono riportate «perché la loro area è occupata dalle nicchie interne» e che il disegno è completato da un «Particolare di tetto spiovente che probabilmente apparteneva al portico aggiunto antistante la ‘Roccabruna’, il quale era appunto ricoperto da un tetto ad un solo spiovente »161 (fig. 71). Allo scorrere la letteratura storica si nota che von Geymüller162, il primo a redigere un catalogo dei disegni di Fra Giocondo, non commenta il foglio mentre Ferri, subito dopo, scrive che si tratta del «Ricordo in pianta della Torre di Cimone. (Disegno 3934) Fra Giocondo »163, assumendo l’interpretazione espressa da Nibby164, in seguito dubitativamente adottata anche da Lanciani, «una fabbrica rettangola fatta, forse, ad imitazione della Torre di Timone vicina all’Accademia di Atene, dove menò vita solitaria il misantropo di questo nome. Oggi la chiamano Torre di Roccabruna. L’edifizio, scavato e liberato dalle aggiunte moderne nell’anno 1881, altro non era fuorchè una specola o belvedere, disegnato a maniera di faro. La base di forma quadrata ha il vano interno rotondo con quattro nicchioni semicircolari, tre quadrati, ed un vano di porta. La parte più alta era rotonda, ed ornata di bugne e cornici marmoree »165. Bartoli, che per la prima volta pubblica i disegni degli Uffizi, a proposito della serie di lucidi di Fra Giocondo nei quali si trova il disegno in questione, indica che «I disegni: arch. 3929-3935 costituiscono una serie di sette frammenti di fogli di carta gialla sottile e contengono lucidi di piante di edifici antichi. Il Ferri (in Geymuller, Cento dis. d. Fr. Gioc.) attribuisce i lucidi a Fra Giocondo, che li avrebbe tratti da disegni di altro maestro. Descrivo e riproduco soltanto i tre frammenti, che contengono monumenti antichi di Roma »166 e, ovviamente, non tratta del disegno in questione.
150All’accettare che il disegno rappresenti realmente Roccabruna si dovrebbe ritenere che gli scavi del complesso siano avvenuti tra il 1513 e il 1515, ossia nel biennio trascorso a Roma da Fra Giocondo, e l’anno, ignoto, benché ipotizzabile prossimo al 1568, durante il quale Ligorio redige la planimetria.
151L’identificazione del soggetto rappresentato, però, è tutt’altro soddisfacente; anche nell’ammissione che si tratti di un elaborato grafico molto rimaneggiato, la forma e le proporzioni non permettono di riconoscere l’edificio adrianeo. Una sostanziale prova a tal proposito perviene dal disegno dei minuscoli ambienti interni alla muratura nella quale si trova l’ingresso, uno dei quali contiene una scala a tre rampe (fig. 72). Assumendo le debite proporzioni, ossia scalando il disegno in maniera che il vano scala risulti almeno pari a complessivi 1.20m167, si dimostra chiaramente che il disegno rappresenta un edificio molto più grande di Roccabruna (fig. 73), di tipologia diffusamente riscontrabile, simile a quella che Giuliano da Sangallo rileva e disegna nelle terme di Baia168, o a quella rinvenuta nell’area del Terzo Palazzo di Erode a Gerico, pertinente un tempio isolato, dislocato su un’altura169.
152Non potendo pertanto fare riferimento a tale testimonianza, per valutare lo stato dell’edificio negli anni di Ligorio occorre tornare alle informazioni desumibili dalla sua planimetria e rapportarle alle fonti successive.
153Come già prima indicato l’architetto napoletano disegna Roccabruna illustrando l’ambiente centrale, interno al dado di base, e disponendo – attorno ai tre lati del perimetro esterno della quota inferiore – linee discontinue che delimitano un parziale colonnato, dalla cui presenza si ottiene l’indicazione dell’avvenuto scavo dell’area esterna fino al livello pavimentale e lungo solo tre lati del complesso (fig. 74).
154Diversamente da Ligorio, Contini rappresenta la vista dall’alto dell’edificio, definendo a tratteggio un impianto strutturale, posto sotto l’aggetto di coronamento del dado di base, che lungo il fronte principale corrisponde ai quattro mensoloni in travertino che sostenevano l’aggetto, mentre negli altri tre lati rimanda a un’immaginaria tessitura strutturale; mostra, inoltre, la scala che dal terrazzamento dell’Accademia permette di raggiungere il calpestio del secondo livello dell’edificio, indica i giri concentrici dei marmi modanati che costituivano lo zoccolo di tale livello, erroneamente disegna 21 colonne, anche se, nella legenda correttamente indica che ne sono 16, e rappresenta lo spazio interno conforme alla descrizione (fig. 75, 76):
Tempio per difuori di forma circolare, posto sopra l’altro descritto al nr. 23 della lettera I [K]. E questo era ornato di fuori di 16. colonne di marmo striate d’ordine Dorico, isolate di grossezza di pal. 3. e mezzo di diametro, sopra le quali era l’architrave, fregio, & cornice di marmo. La parte di dentro di questo Tempio era di figura ottagola con otto arconi ne lati larg. palmi 13. e mezzo, & il diametro del Tempio era di vano pal. 46, e mezzo. Il Tempio ora è spianato affatto, & in vece di esso vi e stata fabricata una Torre, co tre staze dal sopra d. Signor Bastiano Soliardo, padrone del luogo, che al presete si chiama Rocca Bruna.
155Contini, inoltre, descrive il livello inferiore al n. 23 della voce K, «Tempio sotto il poggio nell’angolo verso ponente al pari d. piano 21 il quale di fuori è quadro isolato per rre [sic] lati, longhi pal. 75 alti palmi 58, Nelli cui mezzi sono tre porte, che entrano nel Tempio, che dentro è di figura circolare, di diametro palmi 43. alto dall’emisferio fino al pavimento pal. 55 e questo è ornato di quattro nicchie, & in faccia la porta di mezzo vi è un sfondato con una nicchia nel fondo». Le dimensioni del salone interno al dado di base (altezza e diametro) discordano rispetto a quanto oggi misurabile, in particolare per quel che concerne l’altezza e ciò, quando associato all’affermazione secondo cui il salone è dotato di 3 porte, implica che Contini, come Ligorio, vede l’interno dell’edificio parzialmente interrato e che, quindi, deduce l’altezza dalla sala, «dall’emisferio fino al pavimento», applicando un rapporto proporzionale; l’assente descrizione del portico colonnato attorno all’edificio dimostra, inoltre, che nel Seicento l’area esterna era stata già rinterrata.
156Francesco Piranesi, nella legenda della sua pianta, descrive il complesso attribuendogli funzione di tempio dedicato a Minerva, vede solo pochissimi frammenti della parte superiore e disegna la pianta, completa, del dado di base indicando che esistono
Portici intorno del piano inferiore del Tempio ricavati da Fondamenti da Noi scoperti e da Modiglioni di Travertino esistenti sù Muri con porzione di Volta170.
157Da tale ammissione, quindi, si deve desumere che quando, assieme al padre, «da Noi scoperti», esegue lo sterro, comunque parziale del complesso, come dimostrabile dalla costante presenza di 3 porte nella pianta, non riscontra tracce dello scavo che, precedentemente eseguito, aveva permesso a Ligorio di disegnare il colonnato esterno al livello inferiore (fig. 77).
158La mancanza di qualsiasi descrizione di Roccabruna nei testi ligoriani, associata al frettoloso disegno nel quale compare parte del portico, conferma che Ligorio vede l’edificio subito dopo una attività di scavo, probabilmente condotta da altri, dato che oramai sembra molto chiaro che l’architetto, nei suoi testi, descrive principalmente le aree che vengono scavate per conto di Ippolito d’Este e, a latere, illustra scavi altrui solo quando i reperti rinvenuti corrispondono al suo interesse antiquario. L’omissione, nella planimetria ligoriana, di qualsiasi elemento indicativo delle elevazioni superiori, se da una parte permette di verificare quanto prima accennato, ossia che ai tempi di Ligorio la parte più interessante dell’edificio era la sala interna al dado di base, dall’altra suggerisce che l’architetto non ha avuto la possibilità di analizzare, o di vedere, i resti delle elevazioni superiori e che, quindi, non ha potuto interpretare correttamente la peculiare tipologia complessiva dell’edificio.
159Noto che Contini, nel 1668, disegna la prima elevazione superiore, non senza avvisare che il tutto «ora è spianato affatto, & in vece di esso vi e stata fabricata una Torre, co tre staze dal sopra d. Signor Bastiano Soliardo» e noto, ancora, che tale proprietario subentra al precedente almeno dal 1581171, si manifesta la possibilità che il rilievo e il testo illustrativo di Roccabruna siano parte del materiale che Contini produce nel corso del suo primo approccio con la Villa, ossia tra il 1633 e il 1636, e che, di conseguenza, Soliardo erige la torre/ casale non prima del 1633172. Di conseguenza si potrebbe ritenere che Contini abbia deciso di mostrare, nella sua pianta del 1668, l’unica parte dell’edificio nel frattempo completamente azzerata, al fine di preservarne la memoria. Al ricordare, inoltre, che nella planimetria di Ligorio l’attenzione è dedicata al livello inferiore, si deve ritenere che, negli anni in cui opera a Tivoli, la parte della tholos doveva essere ben poco visibile, da cui deriverebbe che un successivo sterro sia stato eseguito proprio nei primi anni della frequentazione di Contini nella Villa, probabilmente in occasione dei lavori per l’innalzamento della torre.
160L’attenzione ligoriana nei confronti del solo dado di base, inoltre, potrebbe costituire un ulteriore elemento mediante il quale validare l’ipotesi della derivazione della veduta di Calderoni/Stracha dall’originale di Ligorio. Nella veduta di Stracha, il complesso è rappresentato come un edificio a due elevazioni a imposta quadrangolare erette oltre il dado di base, ossia assai simile a una tipologia che Ligorio non manca di rappresentare diffusamente nella sua pianta «grande» di Roma laddove, alla grande profusione di edifici a più elevazioni, per lo più decrescenti, spesso di diversa geometria e dimensione, è di sovente accompagnata la spiegazione didascalica dalla quale si evince che si tratta di edifici sepolcrali173. Una tipologia che in seguito sarà riproposta, proprio per Roccabruna, da Canina, benché con una diversa destinazione d’uso, come leggibile nella descrizione174 (fig. 78),
si deve credere aver costituito una di quelle specie di nobili torri che venivano destinate dagli antichi a servire da specola o anche di cenacolo, come in simil modo se ne conobbero sussitere esempj nella parte orientale del palazzo imperiale sovrastante la valle di Tempe [...] la sua configurazione, nell’interno in circa rotonda e nell’esterno quadrata, per quanto sussiste in due piani e cinta da portici, si trova convenire precisamente a quanto poteva essere praticato nel modo più nobile per l’indicato doppio uso di specola e cenacolo. In seguito di tali osservazioni si è preso a rappresentare il monumento stesso secondo la vera sua destinazione nella intera decorazione, quale fu dedotta dalle reliquie superstiti.
161Certo è, però, che la più pertinente tipologia rapportabile a Roccabruna è quella apprezzabile nella copia di un disegno di Ciriaco di Ancona175, in cui è rappresentato il prospetto di un complesso a più elevazioni a imposta circolare erette su un basamento cubico, affiancato alla dicitura Romæ ad Tibur / Simulacrum molis Hadriany / que hodie castrum Sancti / angeli dtr176. Al considerare che la tipologia rappresentata nel disegno ben poco richiama la Mole adrianea, che non somiglia a nessuna raffigurazione del monumento eseguita in epoche prossime rispetto a quella di cui si tratta177, mentre presenta ampi riferimenti con l’immagine desumibile di Roccabruna in relazione alle proporzioni e all’assetto generale del dado di base nonché, prevalentemente, in merito ai resti delle elevazioni superiori (definibili in termini di fregi, modanature, porzioni di tamburi e di cupole) che, disseminati nell’immediato intorno dell’edificio tiburtino, indicano con chiarezza l’originaria presenza di più livelli di elevazione, a pianta circolare e decrescenti178, e all’analizzare con più attenzione sia la dicitura, che potrebbe essere interpretata quale «La rappresentazione della mole di Adriano, oggi detto Castel Sant’Angelo di Roma a Tivoli», sia il contenuto dei fogli successivi del codice, nei quali è riportato il testo della lapide tiburtina di Popilio Pedo, l’insieme dei dati potrebbe verificare l’ipotesi prospettata e, conseguentemente, il disegno potrebbe essere definito quale la prima rappresentazione della Roccabruna adrianea (fig. 78).
162Occorre dunque stabilire che, quanto meno, tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento Roccabruna perde quelle parti, o quei resti, che consentivano di riconoscerne e apprezzare la corretta tipologia; da cui deriva che l’approccio interpretativo di Ligorio, e di quanti dopo di lui, poteva essere sviluppato solo con riferimento alla tipologia più diffusa e comune pertinente un edificio sepolcrale, ossia quella a base quadrata e con elevazioni decrescenti, erette mantenendo la medesima forma planimetrica della base.
163Tra i raffronti possibili che possono essere presi in considerazione nel corso della vatuazione per comparazione tra la veduta di Stracha e le conoscenze di Ligorio, le maggiori perplessità potrebbero pervenire dal Teatro dell’Accademia, uno dei complessi della Villa che, come già accennato, Ligorio tratta con abbondanza di particolari, sempre indicando che è simile all’altro teatro, quello in prossimità della Palestra. Stante alle descrizioni ligoriane, pertanto, l’assenza nella veduta di Stracha di una struttura simile a quella del Teatro Greco inficerebbe tutte le ipotesi sin qui elaborate e verificate. A ben osservare la veduta, però, si vede chiaramente che, proprio nell’area meridionale della Villa, all’interno di una delle numerose «piazze», è disegnato un elemento assai particolare, di forma circolare con al centro una fontana con tanto di zampilli; elemento, quest’ultimo, ben apprezzabile, nonché più volte ripetuto, nella ligoriana pianta «grande» di Roma (fig. 79).
164All’eliminare dal disegno sia la fontana che gli zampilli, è palese la similitudine tipologica con il Teatro Greco, il che, associato alle implicazioni prospettiche per le quali gli oggetti rimpiccioliscono quanto più sono distanti dall’osservatore, non solo permette di riconoscere il distante Teatro dell’Accademia, ma suggerisce anche che l’inserimento di una fontana sia da addebitare pienamente a Calderoni o a Stracha (fig. 80). La posizione del Teatro dell’Accademia, inoltre, come visibile nella veduta di Stracha, è particolarmente aderente alle informazioni ligoriane, prossimo alle «ripe» che sono
sostenute dalla fabrica per mettere in piano le parti alte del colle con forza di muri grossissimi, con barbacani diritti perpendicolare, per dar più forza all’equationi, cose veramente servibili et indispensabili, à vedere tante spese fatte solamente per adequare il sito, sopra di cui, sono senza innumerabile spesa fatti i portichi et l’altre fabriche, di piaceri, imperoche poco oltre, dell’Accademia, in unaltro spazio grandissimo, è il luogo chiamato inferno, ove accanto si trova un altro vestigio di un gran Theatro, fatto all’usanza greca, ove si conferisce con una via sotterranea, dall’inferno al theatro istesso179.
165L’enfasi con la quale Ligorio illustra le Sostruzioni dell’Accademia corrisponde pienamente all’imponenza di tale opera, ancora oggi ben visibile, sebbene solo a tratti, sotto la strada carrabile d’accesso alla proprietà Bulgarini, ovvero dal versante opposto della vallata, così come è visibile quella eccezionale opera viaria in sotterraneo, «inferno», alla quale l’architetto attribuisce solo qualche sommaria descrizione, per lo più a carattere storico/mitologico (fig. 81-83).
166Quanto per ora analizzato e posto in luce, ovviamente estendibile a tutti i complessi descritti da Ligorio e riconoscibili nella veduta di Stracha, se da una parte conferma l’ipotesi che quest’ultima sia derivata dalla «pianta» ligoriana, dall’altra spinge a cercare più a fondo i motivi per cui il cardinale Barberini, all’incirca trent’anni dopo il ritrovamento dell’elaborato di Ligorio, richiede a Contini di rilevare e disegnare una nuova pianta della Villa imperiale tiburtina.
Le due grandi carte possedute dai Barberini
167Dai dati finora analizzati si potrebbe validare l’ipotesi che la pianta, o per meglio dire, la veduta, disegnata da Pirro Ligorio e conservata nella villa estense tiburtina, sia stata inizialmente trovata e usata dal pittore Calderoni che ne esegue due copie, una pittorica e una per stampa, e che, in seguito alla morte di Calderoni i Barberini acquistano la copia per stampa, spacciata per l’originale ligoriano, mentre il disegno capita nelle mani del rigattiere Raimondi, che successivamente lo venderà al «Monsù d’Autreville».
168Tra il 1630 e il 1633 il cardinale Francesco Barberini, che nel frattempo ha recuperato anche la veduta acquistata da D’Autreville, incarica prima Arrigucci e poi Contini di verificare i due elaborati, entrambi attribuiti a Ligorio. Si giustificano, quindi, le ragioni per cui, a partire dai primi mesi del 1633, nel palazzo Barberini sono custodite le due grandi «carte», comprensive di legenda, raffiguranti Villa Adriana. Di queste, certamente tra loro differenti – quanto meno dimensionalmente e proporzionalmente, dato che misurano rispettivamente 20 × 7 palmi e 24 × 8 palmi –, una viene donata e inviata in Inghilterra il 24 novembre del 1637, mentre dell’altra si ha traccia fino al 1669, ossia fino all’anno in cui Kircher, terminando la redazione del suo Latium, testimonia que & in hunc usque diem in gazophylacio Francisci Card.lis Barberini ad perpetuam rei memoria conservatur.
169Come già accennato, MacDonald e Pinto sono abbastanza certi che entrambe le carte, «di dimensioni simili», siano da intendere quali la pianta preparatoria di Contini, ossia quell’elaborato che, secondo gli studiosi, Contini avrebbe rilevato tra il 1633 e il 1634, che avrebbe revisionato fino al 1636 e che, infine, avrebbe stampato nel 1668. Un elaborato, pertanto, che Contini avrebbe disegnato su un supporto di dimensioni pari 20 × 7 palmi180 e che, poco dopo l’invio in Inghilterra, avrebbe ridisegnato su un supporto di dimensioni pari a 24 × 8 palmi.
170Prima di analizzare la questione in termini dimensionali, all’ammettere che l’ipotesi sia valida bisognerebbe conseguentemente ritenere che il cardinale Francesco consideri tanto preziosa la pianta preparatoria redatta da un ignoto architetto, da lui appena assunto nella minore veste di topografo, da inviarla come dono «in Inchilterra» e, in seguito, da conservarne la seconda stesura ad perpetuam rei memoria.
171Con specifico riferimento all’invio in Inghilterra si ritiene assai possibile che si tratti di una parte del munifico dono che, spedito a più riprese181 dal cardinale Francesco, ha origine dall’informazione ricevuta da Gregorio Panzani, corrispondente barberiniano presso la corte inglese, secondo cui i reali, e in particolare il re, sono particolarmente interessati alle curiosità, alle antichità e, in generale, all’arte. I fini politici all’origine di tale dono sono chiari: Carlo I d’Inghilterra aveva sposato la cattolica Enrichetta Maria, figlia di Maria Medici, e il cardinal nepote Francesco Barberini, «Cardinale Protettore dell’Inghilterra», adotta anche l’arte nel tentativo di riportare il re e l’intero Paese alla fede cattolica, «The statues go on prosperously, says Cardinal Barberini in a letter to Mazarine, ‘nor shall I hesitate to rob Rome of her most valuable ornaments, if in exchange we might be so happy as to have the King of England’s name among those princes who submit to the Apostolic See’ »182.
172Che la «carta» di 20 × 7palmi, abbia fatto parte degli oggetti compresi nel terzo invio è ammissibile già all’osservare la periodicità, all’incirca semestrale, che scandisce le spedizioni dei preziosissimi doni, anche se è proprio l’unicità delle opere elargite che costituisce la prova validante che la veduta sia una delle due attribuite a Ligorio e che, quindi, non si tratti della pianta dell’ignoto Contini. La mancanza di tale «carta» dall’elenco delle prime opere inviate e giunte a Londra nel 1636, tra l’altro, conferma le ipotesi in precedenza formulate in merito al possesso di due piante della Villa imperiale tiburtina da parte dei Barberini. In quell’anno entrambe le piante recuperate dal cardinale sono state verificate e la seconda, quella più propriamente attribuita a Ligorio, è stata ridisegnata da Contini ed è in corso di elaborazione per stampa.
173A partire dalla notizia dei doni e facendo riferimento tristissime vicissitudini della coppia reale, è possibile motivare anche la scomparsa di tale elaborato, a partire dalle indicazione pertinenti la regina, che trascorre gli ultimi anni della sua vita in Francia, presso Parigi, nello Château de Colombes (demolito nel 1846) nel quale «she had a fine art collection, including pieces from the British Royal Collection »183, benché sia strano immaginare che tra le opere che la regina fuggiasca porta con sé vi possa essere stata la pianta di Villa Adriana. Sembra, altresì, più realistico pensare che l’elaborato scompaia in seguito alla decapitazione di Carlo I e alla conseguente dispersione dei beni collezionati dal sovrano che, dopo essere stati parzialmente inventariati, vengono venduti dal Council of State, tra il 1649 e il 1652, come riporta D’Israeli184, talora a prezzi irrisori, anche a vari agenti stranieri.
174Se l’insieme di quanto desunto non bastasse a confutare la tesi secondo cui le grandi carte possedute dai Barberini siano da considerare quali la prima stesura della pianta continiana, una successiva prova perviene dallo stesso Contini che, come già indicato più volte, nella dedica della sua pianta stampata nel 1668, afferma d’aver portato a compimento l’incarico in due anni, strutturando molto bene la frase in maniera d’esser chiaro nell’indicare che si tratta di «due anni» prima della stampa, ossia del 1666.
175Successive conferme si ottengono analizzando le dimensioni della pianta stampata nel 1668 e rapportandole alle dimensioni indicate per le due grandi carte. L’elaborato definitivo continiano è suddiviso in 10 fogli doppi contenuti, assieme ai fogli della legenda, all’interno di un volume di forma rettangolare e di dimensioni pari a circa 50 × 40cm. Ogni tavola in cui è suddivisa la pianta è delimitata da una fincatura perimetrale e, nella generalità, le porzioni del registro superiore, nelle quali è rappresentata la parte Est della Villa, hanno un margine di rispetto superiore maggiore rispetto a quello inferiore, e viceversa per la parte occidentale (fig. 84, 85). Entro lo spazio contenuto tra la parte disegnata e la fincatura, inoltre, sono presenti codici numerici e alfabetici di guida per la lettura consecutiva delle tavole e, mediamente, ogni porzione della pianta occupa uno spazio grafico di 44.25 × 35.61cm, tale che la ricucitura complessiva di tutte le porzioni risulta essere all’incirca pari a 2.213 × 0.7034m e, pertanto, poco dissimile dalle dimensioni indicate da MacDonald e Pinto185.
176Per ottenere un adeguato confronto tra la pianta di Contini e gli elaborati conservati dal cardinale Barberini occorre stabilire la corretta dimensione del palmo romano dell’epoca che, come comunemente avviene per le questioni metrologiche, si dimostra di una certa complessità dato che la letteratura propone un ampio ventaglio di corrispondenze, a partire da 22.20cm, fino a 26.5cm. A tal proposito è stato adottato il valore più diffusamente accreditato e tale che a un palmo corrispondono 0.223422m186 da cui si ottiene, pertanto, che i due elaborati sono rispettivamente pari a 4.46844 × 1.54954m e a 5.362128 × 1.787378m, ossia, approssimando, 4.47 × 1.55m e 5.36 × 1.79m187.
177Dall’insieme dei dati d’archivio, da quanto trasmesso da Kircher e da quanto desunto dalle indagini emergono alcuni dati che impongono ulteriori riflessioni e, in particolare, si rende necessario analizzare la posizione delle legende all’interno degli elaborati, «col suo libretto dentro», la tecnica esecutiva, a penna e acquarello (simile a quella adottata da Stracha per copiare la veduta di Calderoni) e, infine, come e dove il cardinale custodisce la carta più grande, rimasta nel palazzo, «s’accoglie [...] su un legno tondo», a imperitura memoria nel gazophilacium del cardinale Francesco. A partire da quest’ultima informazione e, in particolare dal concetto sotteso nel «s’accoglie», appare ovvio che l’ambiente, gazophilacium, doveva essere di notevoli dimensioni, tali da consentire ai visitatori di apprezzare l’elaborato steso su un piano, «un legno tondo», ma non circolare188, bensì ovale, ossia di forma tale da permettere la fruizione più adatta del soggetto rettangolare inscritto e della contenuta legenda, «il libretto dentro» .
178Nella generalità, le «piante», ossia le vedute a volo d’uccello o ritratti di città sono per lo più organizzate entro forme rettangolari e tali rettangoli molto raramente sono tanto allungati quanto le «charte» barberiniane; inoltre, per lo più, le vedute contengono legende in prossimità del lato lungo, inferiore o superiore, a meno di alcuni casi, come le piante di Roma di Ligorio, nelle quali occupano porzioni non particolarmente rappresentative del soggetto, ossia spazi marginali. Con buona ovvietà, tali condizioni corrispondono alle «piante» stampate, mentre i raffronti sviluppati hanno per oggetto vedute disegnate, ossia disegni preparatori, nelle quali le parti delle legende, immaginate alla stregua di «appunti», potrebbero avere occupato qualsiasi posizione, modificabile nel corso della stesura definitiva.
179In ogni caso, disponendo la pianta di Contini (1668) all’interno di sagome rettangoli di dimensioni pari a quelle trasmesse dai documenti d’archivio e scalandola proporzionalmente rispetto alle dimensioni riportate nei documenti dell’archivio Barberini, si osserva che per la legenda, nel caso della carta di 20 × 7 palmi, resta uno spazio pari a 15cm di altezza per un’estensione di 4.47 m, mentre nel caso della carta di 24 × 8 palmi lo spazio rimanente è di soli 10 cm di altezza per 5.36 m di lunghezza (fig. 86). Tali dimensioni sono chiaramente minime e insufficienti per una corretta lettura dell’elaborato, come dimostrabile quando analizzate in parallelo alla veduta di Bologna di Bonfioli, uno dei pochissimi esempi di vedute tracciate entro rettangoli molto allungati, che è disposta su una tavola di dimensioni complessive pari a 2.105 × 0.555 m, ossia molto simili a quelle della pianta stampata da Contini, ma con la legenda che, scritta su più colonne nel margine inferiore, occupa uno spazio di 30 cm di altezza.
180Se ciò permette di escludere, ancora una volta, la possibilità che le due carte siano da interpretare quali la preparatoria di Contini, richiede anche la medesima verifica per le vedute di Stracha e di Palmucci, inserendole all’interno delle sagome rettangolari tracciate con le dimensioni desunte dai dati d’archivio. In entrambi i casi si osserva che, in assenza di una corrispondenza proporzionale, le vedute possono essere scalate solo mantenendo le dimensioni dei lati lunghi delle due sagome rettangolari, il che origina spazi laterali nei quali inserire le legende (fig. 87). Sebbene tale soluzione si presti a una buona fruibilità dell’insieme testo/disegno, al ricordare che l’analisi è condotta su copie di diversi originali, i risultati ottenuti non si ritengono di piena validità.
181Occorre, infine, rivolgere l’attenzione alla frase di Kircher, che frequenta i Barberini e il loro circolo, dalla quale si apprende che la pianta è custodita nel gazofilacio del cardinale Francesco. Tale termine, noto ai numismatici, ha origine dal latino tardo, ed è composto da un lemma di derivazione greca, γαζoψυλάχτoυ, e da due di origine persiana, φάζα, tesoro, e ψυλάχτoυ, custodia, cui corrisponde il significato di ambiente destinato alla custodia e alla conservazione dei tesori. Andando indietro nel tempo per meglio capire cosa intenda Kircher, se Moroni189 propone un’interpretazione assai simile a quella attuale, Monti190 dimostra la difficoltà di definire un lemma poco usato: «Galleria: Stanza da passeggiare, e dove si tengono le pitture, statue e altre cose di pregio. Lat. Gazophylacium, Pinacotheca, Museum. Osservazione [...] è il luogo dove si tengono riposti gli argenti, gli ori, le gemme, i denari, e tutto in somma che gl’Italiani intendono per Tesoro. Se un cotal luogo sia una stanza da passeggiare e da tenervi le statue é le pitture, altri sel vegga [...] Eppure parlandosi ivi di cose preziose che si conservano nel gazofilacio del Tempio, queste poche parole dovevano bastare a comprendere che il Gazofilacio non può essere una Stanza da passeggiare, ne Museo, ne Pinacoteca. Usiamo italianamente questa parola in vece di Galleria, e le auguriamo gli onori del vocabolario».
182Tenendo presente la passione antiquaria e collezionistica che anima il cardinale Francesco Barberini, occorre immaginare, quindi, che il luogo in cui è conservata la pianta di Villa Adriana sia un’ambiente dell’ala del palazzo di sua pertinenza, nel quale egli ricevere ospiti selezionati, conversando e mostrando le preziosità raccolte e ivi custodite. A tal proposito Bonanni191, scrivendo dell’esistenza di un Gazophilacium proximo Bibliothecæ Eminentissimi Cardinalis Francisci Barberini, innanzi tutto impone di escludere che tale ambiente sia il medesimo nel quale era ospitata la celebre biblioteca del cardinale; inoltre, al leggere la descrizione del palazzo proposta da Tezi, mai è nominato un gazofilacio, mentre appare il termine Tabularium domesticum192 – anche indicato quale archivium193 – la cui traduzione nel linguaggio dell’epoca risulta essere «guardaroba »194, ossia un ambiente nel quale sono conservate opere d’arte, monete antiche, arazzi e, in generale, ogni preziosità posseduta, la cui cura è affidata a un «mastro della guardaroba», ovviamente scelto tra gli impiegati più fedeli195.
183Questo ambiente è dislocato, secondo la descrizione di Tezi, al terzo piano del palazzo, prossimo alla Biblioteca e non lontano dalla scala. Come è stato possibile osservare nel corso di un apposito sopralluogo al palazzo196, al terzo piano dell’ala Sud – destinata al cardinale Francesco – la biblioteca è limitrofa a un piccolo e raffinato studiolo attraverso il quale è possibile utilizzare una scala di servizio per scendere al piano inferiore dove era la computisteria. Oltre tali ambienti, allo stesso livello, si trovano il disimpegno della borrominiana scala elicoidale, un minuscolo vano di servizio, un successivo disimpegno funzionale per l’accesso allo studiolo, alla biblioteca e a una rampa gradinata, rettilinea, che consente di raggiungere l’ultima elevazione del palazzo, nella quale, attualmente, si trovano gli ambienti dell’Istituto Italiano di Numismatica, noto che, in origine, in questa area era conservata la preziosa raccolta di monete antiche del cardinale Francesco. Tra tutti gli ambienti compresi in quest’ultimo livello solo uno, quello più marginale a Nord, ha subito minime modifiche197, mentre tutti gli altri sono stati oggetto di pesanti interventi nei primi decenni del secolo appena trascorso. Non è quindi possibile stabilire con esattezza se tutti, o solo alcuni, siano stati destinati a ospitare «la guardaroba», ossia il «gazofilacio» del cardinale Francesco, sebbene sia possibile ammettere che per ospitare le due grandi carte di Villa Adriana, ovvero solo la rimanente, vista da Kircher, l’unico ambiente adeguato è proprio quello sul fronte Nord che ha dimensioni ragguardevoli e comunque tali da consentire sia l’inserimento del «legno tondo», sia la più opportuna deambulazione attorno alla tavola, sia, infine, la migliore illuminazione dell’elaborato (fig. 88).
184I risultati di tali indagini, pertanto, spingono definitivamente a rigettare l’ipotesi per la quale la grande carta con la «pianta» di Villa Adriana esibita nel gazofilacio del cardinale Francesco possa essere stata la preparatoria di Contini; una pianta che, redatta da un architetto all’epoca noto solo per i rilievi condotti nei sotterranei di Roma, potrebbe aver avuto solo il pregio di costituire l’unica rappresentazione generale della Villa imperiale tiburtina. Pregio, questo, che non regge certamente il confronto con quanto avrebbe potuto costituire, in termini di preziosità e rarità, la tanto agognata pianta di Ligorio.
Notes de bas de page
1 Nibby 1827, p. 13 e Nibby 1837, 3, p. 658.
2 Lanciani 1902-1912 (1903, II), p. 113 e Lanciani 1906, p. 10 in cui si legge anche che «Sulla fine del secolo scorso l’architetto Domenico Palmucci dedicò a Pio VI una grande pianta prospettica, con gli edifici goffamente restaurati» . Il disegno di Stracha è conservato in BAV, Barb. Lat 4426, f. 38; cfr. Gabrieli 1929, p. 265, che peraltro riporta l’informazione di Lanciani; Hidalgo, León 2004, p. 176.
3 MacDonald, Pinto 1997, p. 251.
4 Crema 1959, p. 483.
5 Salza Prina Ricotti 2001, p. 59.
6 Tabarrini 2003, p. 112, 114, 122, n. 2.
7 White 2007, p. 281, 285, n. 3, 293.
8 Kahn Rossi, Franciolli 1999, p. 332, 334.
9 Più volte ricordato quale autore di una serie di otto disegni di rilevamento della chiesa di S. Andrea della Valle eseguiti nel 1795, conservati in BIASA, Coll. Lanciani, Roma XI, 38. III, 11.
10 Anche Verdi 2009, Repertorio degli allegati iconografici nei protocolli degli uffici 1, 2, 3 dell’Archivio dei trenta notai capitolini, p. 281, 383.
11 Notizie per l’anno MDCCCXXXIX dedicate all’Emo Principe il Signor Cardinale Anton Francesco Orioli, Roma, 12 giugno 1838, nella stamperia Cracas presso gli Ajani, p. 378 per l’anno 1839, e p. 395 per l’anno 1840.
12 Guattani 1806, p. 154.
13 Copie della stampa sono conservate a Roma, Bibl. Casanatense, inv. 20.A.I.25/1; Ist. Naz. Grafica, inv. CL2189/704, e presso la SBAL, Villa Adriana, Museo Didattico.
14 Ne esiste persino una riproduzione su cartolina postale, edita da De Dominicis, ca 1907-1915.
15 Gusman 1904, p. 28, fig. 55.
16 de Sainte Croix 1808, p. 446.
17 Come specificato da Scipione Maffei in una lettera scritta il 13 giugno 1726 a proposito della riproduzione di un papiro (lo stesso metodo era adottato per ottenere la copia a calco di un disegno), l’intero iter doveva essere eseguito a tavolino, «la copia, la qual si fa in tal forma: si bagna d’olio di sasso la carte sottile, rendendosi con ciò trasparente ed atta a ritener l’inchiostro. Posta sopra il Papiro, persona non inesperta del disegno dee andarvi sopra con la penna, e rappresentarne tutt’i tratti, come appunto sta nell’originale» . La lettera, indirizzata al conte Francesco de Aguirre, è in Cravenna 1775, XIII, p. 86; cfr. Pistis 2009, p. 95 p. 93-207 (p. 96).
18 BAV, Barb. Lat. 4426, f. 51.
19 Alcuni di tali documenti non si trovano più a Tivoli e, tra questi, le 21 tavole relative alle «Piante delli Beni della Venerabile Congreg [azio] ne de S [ignori] Gentilhomini della Nativita della Beatissima Vergine Maria sotto il Patrocino del Giesu in Tivoli Misurate e Delineate da Gismondo Stracha. 1661-1662»; cfr. P. L. Phillips Society, Newsletter, IV, 2, 2000, p. 21, «Acquisitions. Manuscript Maps and Atlases» .
20 BCT, fondo Archivio Confraternita dell’Annunziata, Gismondo Stracha, «Piante di tutti li Beni Privati e Responsivi della Venerabile Confraternita della SS. Annunziata di Tivoli», 1665, tra i quali si conservano i due prospetti del Ecclesia et Hospitale Sanctae Annuntiatae.
21 BCT, fondo Archivio dell’Ospedale di Giovanni Battista, «Libro di tutti li beni della Venerabile Confraternita di S. Giovanni Evangelista di Tivoli», 1653, misurati e disegnati da Stracha.
22 Tra i disegni conservati a Tivoli esiste anche una «Pianta della Massa di Roccabruna», (ACT, Sez. Preunitaria, SG12, Inv. Beni e Stati delle rendite) redatta all’inizio dell’Ottocento, come testimoniato dalle scritte che, tracciate tutt’attorno ai confini planimetrici della tenuta, indicano i nominativi dei proprietari limitrofi, tra i quali emerge quello del «Eccellentissimo Signor Duca D. Pio Braschi», che acquista i terreni a Villa Adriana nel 1803.
23 Conservati presso la BNE, Fondo reservado, Sala Goya, Bellas Artes.
24 Ibid., DIB 15/16/13, 1000418290; DIB 15/16/14, 1000418295; DIB 15/ 16/15, 1000418296; DIB 15/16/16, 100 0418297. A proposito di tali disegni non soddisfa la recente datazione di Rodríguez Ruiz 1991, p. 100, che li colloca tra il 1537-1543, mentre è corretta quella precedentemente indicata da Barcia 1906, p 609, che li pone nel XVII secolo.
25 ASR, FSV, 39, c. 277, «Adì 28 ottobre 1649. Io Gismondo Stracha ho ricevuti scudi dieci m.ta dal sig.r Marc’Antonio Terra Rossa Mastro di Casa del Em.mo sig.r Cardinal Spada, sono a bon conto de lavori di pittura da me fatti e da farsi, nel Palazzo di S.E. in Tivoli»; cfr. Tabarrini 2003, p. 126, n. 9.
26 Seni 1902, p. 254-260, «Archivio di Stato in Modena, Busta 70 ecc» .
27 Ibid., «Supplica del pittore Giulio Calderoni a Sua Santità e descrizione de’ lavori da lui eseguiti nella villa d’Este, pretendendo di essere sodisfatto» .
28 Ibid., p. 254, «[Calderoni] venne più volte al giardino e palazzo del sig. Cardinale d’Este, pregandomi a volergli dare da lavorare, non sapendo in quel tempo come fare a vivere né dove ricoverarsi. Et così dall’agente del Cardinale gli fu data una stanza et a dipingere pitture che dovea fare allo scoperto pel valore di scudi 175; e che invece di lavorare dal luglio al settembre si ridusse ai mesi d’ottobre, novembre et dicembre; di modo che la maggior parte delle pitture perì dai grandi freddi. Il C. promise di rifarle, non appena ultimati alcuni lavori altrove et nello stesso giardino; et in tutto operò per tre mesi, non già per tre anni, com’egli accampava».
29 Ibid., p. 255, 256. Seni antepone all’elenco dei lavori presente nel carteggio un elenco sintetico dal quale è possibile validare la tipologia e la quantità dell’opera di Calderoni: «NELLA STANZA DELLI SPECCHI, il dipinto di una fontana con pietre mischie con sette vani fatti de’ mostri marini. Nella piazza del fontanone, sedili con fogliami et arme; in quella dell’Organo, ugualmente, ed imprese in campo azzurro; ed a manca, gelosie finte et monti. NELLA SCALA DE’ DRAGHI, ancora dipinti a pietra e paesaggi e festoni; e cosi nella parte che va al piano del giardino dove sono le quattro staggioni. Inoltre, quattro draghi finti di color di bronzo [...] arpie, delfini et ranocchie colorite di porfido et serpentino che sono di rilievo. ALLA FONTANA DELLA CIVETTA, un pezzo d’aria con frasche; ed in quella DE’ CIGNI, pietre mische, con arma del Cardinale; e, del pari, nella FONTANA DELLA MADRE NATURA, i monti che sono di qua et di là; ed un’arma, come sopra, nella porta principale del giardino, con due figure grandi con fogliami e maschere, con pilastrelli et aquile, ecc. Rabeschi, con arma del cardinal d’Este, in alcuni sgabelli nella stanza DELLA FONTANA CHE SI CHIAMA DIANA; e sopra la loggia, quattro navi con doi tondi dove stanno le statue: non che certe armette in altri sgabelli a Roma. Tra la fontana poi dell’Organo e la casa di s. Pietro, lavori di graffitto, cioè la Roma fatta tutta di grafitto et pictura, simulacri et lettere et altri adornamenti a tempio.»
30 Ibid., p. 256, voce 6 dell’Inventario.
31 Fiori 1972, p. 177.
32 Ticozzi 1830, p. 249; cfr. Melani 1912, p. 513: «La mediocrità dell’opera scultorea di questo Calderoni è sottolineata anche da L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia sino al secolo di Napoleone per servire di continuazione alle opere di Winckelmann e di d’Agincourt, Venezia 1818, p. 106, n. 1» .
33 È comunque possibile ritenere, volendo mantenere una affinità tra omonimi, che il Giulio Calderoni di Piacenza sia un parente del pittore tiburtino.
34 Lassels 1670, p. 315.
35 Seni 1902, p. 34, 110, 115.
36 Gabrieli 1928, p. 263, 268; Pacifici 1928, p. 269, 295.
37 Gabrieli 1928, p. 265. In effetti Lanciani 1906, p. 10, afferma solo che «Altra pianta prospettica fu dipinta da Giulio Calderoni nel salone del palazzo Cesi in Tivoli. Non so se ancora esista».
38 Gabrieli 1928, p. 264 – 265; cfr. Lolli 1927, p. 69, «nel suo proprio Palazzo vicino alla Porta detta di S. Croce, e prima in altro Casino fuori della detta Porta, dove anch’oggi si vedono le sue Armi, e si legge il suo nome, appartenente ora all’Eccellentissima Casa S. Croce».
39 Pacifici 1928, p. 272.
40 Ibid., p. 270, 272.
41 Ibid., p. 274, 276.
42 de Novaes 1805, p. 32.
43 Battaglini 1701, p. 369.
44 Giustiniani 1665, p. 74.
45 Bolla In conferendis; cfr. de Novaes 1805, p. 156.
46 Giustiniani 1665, p. 115; cfr. Seni 1902, p. 113.
47 Radiciotti 1907, p. 16.
48 Pierattini 1987, p. 68.
49 Sebastiani 1828, p. 190, «Desume questo nome da una sorgente di acqua limpidissima, e fresca, ed estremamente leggiera, che sorge a grosse polle a distanza di un lancio di pietra dal ponte Cellio, chiamata Acquoria forse acqua aurea a cagione di sua salubrità, e leggerezza. Dice Kircher, che fu mente della Camera Apostolica, di condurla a Roma, ma livellandone la sorgente la trovò più bassa del piano di quella dominante», n. 3: «Negli orti contigui a questo Fonte, il card. Bartolomeo Cesi nel 1621 vi costruì per suo diporto una graziosa villetta, come si rileva dall’operetta di Tommaso Neri Tiburtino = De salubritate aqu. Tiburt. c. 9 fol. 35 = Indicium vero tutum bonitatis harum (aquarum), quarum est illas aestate frigidas, & hyeme vero calidas esse; id vero contingit huic aquae AQUORII, a qua bonitate motus, & ductus illustris Card. Caesarium villam suam amoenissimam, tametsi ratione loci exiguam, sed bonitate aquarum gratissimam et aedificavit atque ornavit; ubi suas felices quietes, ac dies calidos cum istis aquis temperabat, & aegritudinem cum sanitate commutabat saepius» .
50 De Tyburtini aeris Salubritate Commentarius, Roma 1622.
51 Pacifici 1928, p. 272. Non è chiaro chi sia la principessa di Venosa; potrebbe essere stata Isabella, figlia di Carlo Gesualdo di Venosa, musicista di «nobilissimo sangue», a sua volta figlio di Geronima Borromeo (figlia di Margherita de’ Medici e nipote di Pio IV Medici, nonché sorella del cardinale Carlo Borromeo). La madre di Isabella, «IV principessa di Venosa», è la sfortunata Maria d’Avalos d’Aquino d’Aragona, assassinata dal marito per adulterio nel 1590. Al considerare, però, che Isabella appare quale «moderna Principessa di Venosa» nell’anno 1669, cfr. P.A. Aragona, Nova Situatione dei pagamenti fiscali, Napoli, 1670, p. 203, si ritiene pù probabile che l’ospite del cardinale Cesi sia stata Eleonora d’Este, nipote del duca Alfonso II e seconda moglie (sposata nel 1595) del principe Carlo Gesualdo. In questo caso, noto l’incarico ricevuto dal cardinale Cesi nel 1598 per le questioni inerenti la devoluzione di Ferrara, i motivi della visita e del ricevimento potrebbero essere stati a carattere squisitamente politico.
52 Seni 1902, p. 117.
53 Ibid., p. 114.
54 Ibid., p. 118, n. 2. In particolare, dai documenti riportati da Seni, ASM, 1607-1608, sono presenti solo quattro ricevute, tutte pertinenti pagamenti per l’acquisto di materiali, una sola per l’esecuzione di disegni, «per il cavallo della Roma»; a partire dal 1609, invece, le ricevute sono più numerose e hanno per prevalente oggetto i pagamenti per lavori eseguiti (intaglio, stuccatura, pittura e architettura...).
55 Per ora non si vuole fare riferimento alla «copia» di Palmucci in quanto le differenze osservabili con il disegno di Stracha costituiscono l’oggetto di una analisi specifica che sarà affrontata in seguito.
56 Al considerare il caso della pianta di Roma di Bufalini che, realisticamente, potrebbe aver impegnato (per il rilievo, la trasposizione grafica – ossia disegno preparatorio – e l’incisione per stampa) l’autore per ca 7 anni e ricordando l’operato di Contini che, per verificare la veduta attraverso l’esecuzione di previ rilevamenti, scrive di aver impiegato un anno e che, in seguito, per eseguire l’intero lavoro, fino alla stampa, afferma di avere impiegato due anni, si deve ammettere che un anno sia sufficiente solo per redigere il disegno preparatorio della Villa. Ligorio, in effetti, stampa la sua seconda pianta di Roma solo un anno dopo l’edizione della prima, mentre sono 7 gli anni che separano la seconda dalla stampa della terza pianta, molto più grande e dettagliata delle precedenti.
57 Nel caso si voglia pensare che Ligorio sia stato l’autore di due diverse versioni, si dovrebbe immaginare una prima stesura impostata nei primi anni del periodo romano e una seconda, aggiornata, predisposta appena prima del trasferimento a Ferrara.
58 È possibile solo ipotizzare che nel 1609 Calderoni abbia avuto un’età non inferiore a 30 anni, tale da assumere, e perdere, lavori in autonomia; da cui si potrebbe ritenere che sia nato attorno al 1570 e, di conseguenza, che possa essere morto a un’età di circa 60 anni, appena prima del 1630.
59 Deseine 1713, p. 1098, n.30.
60 Nel foglio le uniche linee di costruzione, tracciate a matita e con andamento regolare, che sottende l’uso di una riga, sono quelle che supportano le scritte «LEVANTE» e «PONENTE»; un’ulteriore linea è sottoposta alla dicitura «TRAMONTANA», ma presenta un tracciato irregolare, nonché obliquo, rispetto ai caratteri.
61 Lo spoglio dei documenti nel codice Barb. Lat. 4426 e la verifica di quanto catalogato da Aromberg Lavin 1975, non ha dato esito a tal riguardo.
62 Desnoyers 1796, p. 368.
63 Già riscontato da León Alonso 2007, p. 60.
64 A partire da Keller 1976, p. 101-114, la datazione, prima accettata da Modigliani 1931, p. 184-188, è stata posposta al 1550; cfr. Volpi 1996, p. 10.
65 Ricordato in quasi tutta la letteratura pertinente la biografia di Ligorio, traendo, per lo più, spunto da Baglioni e da Vasari, con commenti ampiamente contraddittori che vanno dal «poco emendato in disegno e languido in colorito; la prospettiva e lo sfoggio de’ vestiti, quasi all’uso della scuola veneta, poteron dare qualche pregio al dipinto», espresso da Lanzi 1796, p. 436, al «pregevole per belle prospettive e per dovizia di abiti e di ornati, ma poco lodevole per conto del disegno e del colorito», proposto da Ticozzi 1818, p. 310.
66 Venturi 1932, IX, p. XXI.
67 Hess 1967, I, p. 146.
68 Come anche affermato da B. Palma 2007, p. 63.
69 Vasari 1550, p. 850. Vasari, all’incirca coetaneo di Ligorio, non inserisce l’architetto napoletano nel suo Le vite probabilmente a causa degli affronti, più volte testimoniati dalla letteratura, che quest’ultimo arreca all’oramai anziano Michelangelo. Vasari, inoltre, è certamente a conoscenza dell’interesse e delle attività svolte da Ligorio a Villa Adriana ma, anche in questo caso, non ne fa cenno mentre, oltre a ricordare gli studi che vi conduce Bramante, cita l’intensa attività condotta nel sito archeologico tiburtino dall’oscuro pittore Morto da Feltro (attualmente identificato quale Lorenzo Luzzo, collaboratore anche di Raffaello), che «Stette a Tivoli molti mesi nella villa Adriana, disegnando tutti i partimenti & grotte, che sono in quella sotto & sopra terra» .
70 Bertini 2013, p. 351, «Un disegno con una veduta dall’alto dal Palazzo Apostolico, oggi attribuito a Giovan Battista Naldini (ma per molto tempo a Giovanni Antonio Dosio), datato tra il 1558 e il 1561 (a conclusione del pontificato Carafa o all’inizio di quello Medici), mostra come a quel tempo dovesse presentarsi il cortile bramantesco. Ancora lontano dall’essere concluso, il Belvedere mostrava solamente l’ala est, mentre il Cortile della Pigna l’emiciclo centrale della facciata della Villa di Innocenzo VIII [...] Dopo la morte di Donato Bramante, nel 1514, il progetto del Belvedere subì un arresto, per poi essere ripreso con papa Paolo IV»; cfr. Ackerman 1954.
71 Cinque 2013a, p. 147, fig. 37.
72 Data della morte del conte Giuseppe Fede, come riportato in GU, 1776, III, n. 70, 24 agosto, p. 558. Per quel che concerne gli scavi e la collezione del conte Fede, cfr. Giubilei 1995, p. 81-148. È altresì probabile che l’interesse per la Villa abbia animato già il padre di Giuseppe Fede, il pistoiese Anton Maria Fede che Galluzzi 1781, p. 404, descrive con termini non certo lusinghieri: «Trattava colà i suoi interessi con carattere di agente un uomo il più destro ed insinuante, che, trapassato per la carriera dei più fini artifizi di quella Curia, era finalmente giunto al grado di ministro di un principe e di confidente di due Pontefici. Era questi Anton Maria Fede, nato sulla montagna di Pistoia, che, esercitando in Roma la professione di procuratore, aveva servito in qualche causa il cardinale De Medici, e da cui fu proposto al Granduca. Non mancava a costui l’ipocrisia, la sfrontatezza, l’intrigo e l’adulazione per meritarsi la confidenza di Cosimo e sapendo alternare opportunamente l’orgoglio a un’apparente modestia guadagnossi la stima e l’opinione della Prelatura, vile adulatore dei cardinali promoveva i loro interessi presso di esso, e si rendeva in tal guisa autorevole per conseguire delle grazie. Divenuto intimo d’Innocenzio XII e favorito di Clemente XI, rendendosi potente ed esigendo il rispetto universalmente, era divenuto l’oggetto della osservazione di tutti, che non riconoscendo in esso se non artifizio e falsità, desumevano dal di lui carattere la debolezza del principe che lo favoriva» . Il conte Giuseppe Fede, non solo è oggetto di almeno una pasquinata, ma anche del ripetuto scherno letterario di Gigli che in una commedia scritta nel 1713, ossia sei anni dopo la morte del conte Anton Maria Fede, più volte lo indica quale «conte di Culagna», sottendendo una recentissima, se non inesistente condizione sociale aristocratica, e indicando che, Gigli 1801, p. 77, «Spedizione V, anno 1713, Tivoli, 23 gennaio: Sempre più si dilata in questi contorni ed in questa città il signor conte Fede, con la compra di case e possessioni, non tralassando però ne’ suoi avanzamenti di far crescer la pietà in questo popolo. Ultimamente egli ha fatto acquisto dell’antico e venerabile edificio, dove si scorgono ancora le reliquie del tempio della Sibilla» .
73 Trattato, f. 54r; Libro f. 36v; cfr. Cacciotti 2010, p. 229-234; Cacciotti 2011, p. 77-111. Occorre segnalare che il «gran Bubo» potrebbe essere riconosciuto in un simile della statua del dio Horus recentemente ritrovata nell’area della Palestra, all’epoca scambiato per un gufo a fronte del becco adunco.
74 In questo caso occorrerebbe definire a quale delle due «Piazza d’Oro» fa riferimento Ligorio.
75 Libro f. 41r.
76 Visconti 1822, p. 107 e, in seguito, Winnefeld 1895, p. 162, riportano il ritrovamento del busto in bronzo di una Iside velata, mentre Penna 1836, IV, ricorda un vaso egittizzante con la testa di Iside come coperchio. Dalle liste dei reperti rinvenuti dopo la morte del conte Fede non si evincono opere egizie o egittizzanti; un elenco aggiornato è in Granieri 2008.
77 Volpi 1738, p. 186, «discoperte di freschissimo gli anni passati e questo presente: come un basso rilievo o anco tutto rilievo (tanto è spiccante e staccato dal campo o fondo) d’un Antinoo a mezzo busto e in profilo, in Marmo Pario candidissimo, e di eccellente lavoro, inserito nella raccolta di Antonio Borioni, spiegata dal Signor Abate Ridolfino Venuti [...] molte Isidi [...] una delle quali con faccia di donna e di vacca avanti e dietro, in pietra basalte [...] Una sfinge, che sostenta un candelabro formato da due Serpenti; un’Iside vitatta, o colle bende pel sagrificio» .
78 Lolli, ante 1724, Hamilton, 1769 – 1772, De Angelis, 1772-1786.
79 de Vos Raaijmakers et al. 2008, p. 235-242; de Vos Raaijmakers, Attoui 2010, p. 138-145.
80 Una simile si trova nei Giardini del Quirinale, cfr. Guerrini, Gasparri 1993, p. 151-153, Luschi, Aegyptica ligoriana: Iside e il «gran bubo» da Villa Adriana al giardino del Quirinale, in stampa in Prospettiva.
81 BAV, Ott. Lat. 3105, raccolta di Pier Leone Ghezzi dei «Disegni originali cavati dall’antico da Pietro Santi Bartoli e da altri celebri professori»; Capriotti Vittozzi 2006, p. 103-117, t. 1, «Disegno di un statua probabilmente raffigurante Imhotep e proveniente da Villa Adriana» .
82 Ponce 1838.
83 Joyce 1989, p. 183-201; cfr. Mathews 2005, p. 77 e p. 206, n. 10. Per lo studio iconografico delle tavole illustrate da Ponce, Lehmann 1945, p. 1-27.
84 Sebastiani 1828, p. 289, riportato integralmente da Lanciani 1906, p. 26.
85 Memorie per le belle arti, maggio 1788, Roma 1788, p. CI, CXII, «Musaico a Bassorilievo. Questo prezioso monumento fu ne’ primi dell’anno presente portato in Roma da un lavoratore di campagna, e dopo esser passato per altre mani, fu acquistato dal Sig. Alamanno Ceccarini Capotruppa de’ Cavalleggieri Pontifici, intendentissimo di medaglie, incisioni antiche, e simili; da lui, che bene il merito ne aggiugne, attualmente si possìede; ed egli fortunatamente, comprando pochi giorni dopo da un altro lavoratore una quantità di frammenti di smalti antichi non messi in opera, o, come dicono, di pizze da musaico, trovate coltivando la terra ne’ vasti recinti della Villa Adriana presso Tivoli» .
86 Winckelmann 1831, p. 191.
87 Se già gli esordi dell’interesse per l’arte egizia a Roma siano ricontrabili dai primi decenni del Settecento, è certamente a partire dalla seconda metà del secolo e, più che mai, con le opere di Winckelmann, che inizia la vera e propria moda del Neoclassicismo egittizzante, alla quale Palmucci non può essere sfuggito; altresì con riferimento ai ritrovamento di pezzi simili nella Villa, proprio negli anni dell’attività di Palmucci, si può fare riferimento a Pozzoli, Romani, Peracchi 1826, p. 70, quando affermano che «Convien dire che le figure fatte sul gusto egizio si siano rinvenute a centinaja in questa Villa di Adriano» .
88 La Villa, oltre a essere oggetto di numerose e frequenti visite, continua a essere sito di pesanti operazioni di scavo i cui eccezionali risultati richiamano un sempre più crescente numero di visitatori.
89 Descrittione, p. 7, D.E., Trattato f. 9r, Libro f. 30r.
90 Adottato anche dall’IGM quale punto trigonometrico, «n. 150092, Sepolcreto dei Plauti» .
91 Panofsky 1996, p. 36, 39.
92 Fanfani 1865, p. 812; cfr. Bossi 1821, II, p. 170.
93 Baldinucci 1681, p. 79; cfr. Aretino 1584, II, p. 156.
94 Fea 1819, p. 51-52, «sono di figura ottagona, decorate da colonne e pilastri corintj, e dell’altezza di piedi 136 dal ripiano: e riguardo al totale sono ben proporzionate colla maggiore, che s’innalza a piedi 285. In quella a sinistra verso il mezzo dì nel 1786 furono collocate le campane; che convenne togliere immediatamente, perchè non si sentivano quasi dalla piazza, e troppo rimbombavano nella chiesa» . Per i lavori vaticani, dall’ottobre 1564, Ligorio è affiancato da Jacopo Barozzi da Vignola; a entrambi è attribuito il disegno delle cupole minori.
95 Tra i quali non può essere omesso Giacomo della Porta con riferimento anche ai due campanili della chiesa della Trinità dei Monti, o di quelli di S. Maria in Aquiro e, ancora di quelli della scomparsa chiesa di S. Sinforosa a Tivoli. Più avanti nel tempo un caso significativo perviene da Borromini, con i due campanili gemelli del Pantheon che, prima della demolizione erano noti quali «orecchie d’asino» e la cui realizzazione era storicamente attribuita a Bernini; cfr. Thieme 1970, p. 73-88. Blunt 1979, p. 255 a p. 37 afferma che Borromini «almost certainly also knew Ligorio’s reconstructions of Hadrian’s villa» e, a p. 168, indica che «Once again it seem probable that Borromini was inspired by ancient example – or rather what he believes to be an ancient example – for one of the courts in Hadrian’s Villa was show in Pirro Ligorio’s reconstruction as an oval surrounded by a colonnade composed of coupled columns, through modern excavations have shown that in reality it was a Greek cross with partly curved members»; tali affermazioni, però, non supportate da fonti documentarie, non sono di aiuto all’indagine.
96 Hidalgo Prieto, León Alonso 2004, p. 176.
97 A proposito della quale Hidalgo, «La situacion del monumento y de su intorno al inicio del trabajo», in Leon, Hidalgo 2006, p. 78, afferma che «Es también aportacion del plano de Contini, la incorporacion, ya con una configuracion planimétrica muy precisa, del supuesto portico lateral, segun un modelo reproducido un siglo mas tarde por Piranesi con muy pocos cambios, y de una segunda terraza en la que se diseñan los edificios independientes, que quizas estén relacionados con alguno de los representados en la zona por Stacha, a los que antes aludimos» .
98 Nibby 1827, p. 18-19. L’attribuzione è ripresa da Penna 1831, p. 4.
99 Nibby richiama la pianta di Ligorio, mentre, in realtà e come dimostrato dalla legenda in latino, consulta la pianta pubblicata di Kircher che, sebbene derivata da quella di Contini, come si vedrà meglio in seguito, presenta alcune differenze con l’originale continiano.
100 p. 13, D, E.
101 ff. 13r-13v.
102 f. 36v.
103 Negri 1989, p. 29.
104 Descrittione, 29B, «Adriano fece alcuni Casamenti, dei quali havemo veduto nel scassare alcune vigne li fondamenti loro à nostri giorni; dove tra gl’altri vidi un luoco fabricato bellissimo, con un fonte, dove si trovorno fragmenti di piu Canali [Cavalli]» .
105 Trattato, f. 14r e, più avanti: ff. 14r-14v «In un altro cantone di questo circo [Hippodromo] contenuto dagl’altri Poggi sudeti il piano di questo luogo è un altro spatio d’una piazza, che modernamente si dice Piazza dell’oro, dall’Oriente» . Nel Libro l’ippodromo appare citato a partire dal f. 37r e il totale dei richiami al medesimo edificio, nello stesso testo, è pari a tre volte (anche ff. 55r e 58r) e non solo a due come indicato da Ten 2005, p. XIII.
106 Libro, f. 55r, «Et fra gli altri luoghi si è veduto il sito della Tempe verso levante, di uno Hippodromo, che havea attorno un rivo, con suoi ponti, dove si trovarono fragmenti di cavalli di marmo [...] e fra essi fragmenti cito quello che è intero, portato à Roma, è locato nel portico di M: Marco Antonio Palosi gentiluomo Romano, che mostra cadere col giuogo al collo» .
107 Libro, f. 58r, «Hippodromo nella Villa Hadriana, posto nel mezzo della Tempe» .
108 Descrittione, 29B; Trattato, f. 30v, «cavando sotto quel luogo si sono trovati [...] un Hipodromo [...] e i fragmenti di più cavalli» .
109 Aldrovrandi 1562, p. 183.
110 Baldacci et al., 1907 1907, «La vita d’Ulisse Aldrovandi comincando dalla sua natività sin’a l’età di 64 anni vivendo ancora», p. 26-27, «Nel principio del ‘48 n’andai a Padova, dove stetti venti mesi [...]. Poi ritornato a Bologna, andai a Roma dove stetti diciotto mesi, attendendo ancora nel studio di filosofia e medicina. In quel medesimo tempo, in giorni straordinari, per mio spasso volsi veder tutte l’antiquità di Roma, havendo verificato molte di quelle per scrittori antichi e moderni, e fattone alcune osservationi, le quali comunicai e donai a Lucio Fauno scrittor dell’antiquità di Roma. Nè contento di quello, scrissi un libro delle statue che si ritrovano in Roma e lo donai a Giordano Ziletto stampador publica in Roma, il qual poi lo stampò nel 1553, nel qual’anno m’ero dottorato havendo egli composto nel 1550. La qual’opera congiunsi con l’opera di Lucio Mauro, essendo in Roma quando morse Paulo III Farnese, e nella coronatione di Giulio III nell’anno del Jubileo»; cfr. Gallo 1992, p. 479; Daly Davis 2009, p. 1-163.
111 Contini 1668, XV, «Della valle, che circonda il colle dalla parte di Levante, notata con la lettera P. Ove per la sua amenità, essendo irrigata da un rivo d’acqua, e per la vaghezza delli edifitij della villa, che havevano le faccie volte à detta valle, finse Adriano (come vuole Ligorio) le Tempe […] 3. Luogo detto sotto de cedri, ove è la vigna di Epifanio Laurentij, nella quale nascono da più fonti acque, che scorrono nel sudetto rivo, che irriga la valle, nel qual sito, dice il Ligorio, nel cercar che faceva, haver ritrovato i fondamenti di un Hipodromo con molti fragmenti di Cavalli».
112 Le corrispondenze metriche sono state considerate sulla base di quanto riportato da Martini 1883, p. 593.
113 Ferrucci 1588.
114 Fulvio, nato a Palestrina e grande amico di Raffaello, è tra coloro cui si rivolge Ligorio nelle Paradosse (la cui prima pubblicazione, edita nel 1553, è inserita proprio nel trattato sui circhi), «nelle cento paradosse mie contra Pomponio Laeto, contra al Blondo et Palladio, et ad Andrea Fulvio, et ancora di Onuphrio Panvinio e contra a Bartholomeo Marliano e contra a Lucio Fauno e Lucio Mauro», AST, Antichità, XVI, f. 251; cfr. Weiss 1959, p. 1-44; Daly Davis 2008, p. 4; Rausa 2011, p. 199-218.
115 Come, pe, nel caso del Trattato nuovo di Felini, stampato più volte a partire dal 1600, o del Le antichità figurate dell’alma città di Roma, stampato da A. Fei, Roma 1643.
116 Dipendentemente dalle istanze ottenute da Girolamo Franzini, editore e illustratore, con botteghe a Roma e a Venezia; presso quest’ultima città pubblica la ristampa dell’opera di Fulvio, disegnandone le illustrazioni.
117 Le indagini, condotte da chi scrive, sono state eseguite a partire da uno scatto del 1961 (FN, AM, 1961, 150, 11bis, 5825, gentilmente resa disponibile dalla SBAL) e hanno permesso anche il rinvenimento del percorso servile dell’Edificio con Tre Esedre; cfr. Cinque, Lazzeri 2012, p. 164-165.
118 Descrittione, p. 13, A.
119 Ibid., p. 13, B.
120 Trattato, f. 12r.
121 Libro, ff. 33v, 34r. Con riferimento all’eccezionale decorazione pavimentale, si potrebbe trattare di intarsi di serpentino, noto il rinvenimento in Villa di molte varietà di tale porfido, oppure sempre di sectilia marmorea con, inframezzati, elementi di vetro a motivo millefiori, dei quali sono state rivenute minime porzioni nell’ambiente TE7 del corpo tripartito dell’Edificio con Tre Esedre.
122 Contini 1668, indica che il proprietario dell’area in cui si trovano le Biblioteche è «Girolamo Rampano», che la proprietà di Arquiero è circoscritta al Teatro Marittimo e a una parte dell’area a quote inferiori, mentre la Sala dei Filosofi è data in affitto a Mons. Bulgarini dal convento della Minerva di Roma; da Cascioli 1928, p. 426, si deve ritenere che si tratti di mons. Innocenzo Bulagrini.
123 Contini 1668, F, n. 16.
124 Descrittione, p. 12, E-F.
125 Trattato, ff. 11r, 11v: «Al lato della detta Dieta è un altro luogo che dalla Dieta e d’altrove ha l’entrate sue, ornato d’un Portico di forma ovato, nel mezzo della Piazza d’esso fu un edificio ottagono molto bizzarro, che per ogni lato faceva porti, e Nicchie da statue, et altri reposatorij o imagini, donde di dentro, e di fuori erano imagini di Dei, e vi scaturivano fonti di dentro, e di fuori, et erano così mirabili gl’Architravi, e fregi di Marmo, et i [spazio lasciato bianco] che erano sostenuti da colonne striati di Marmo giallo del Caristio erano dentro del taforo, cioè fregio un infinità di cose vaghe scolpite, perch nelli simboli si vedevano mostri Marini tanto di forma humana in parti, come d’ogni Animale Terrestre, e Marino con Code di Delfino, con Donne, et Amori a Cavallo, che sopra di molti ceti dimostravano cherzare. Oltre à questi erano altri fregi simili, con altri intagli di Carri tirati da diversi Animali, et Ucelli, destinati al giuoco de carri guidati dagli amori, o pure dall’intelligente delle cose, che son cupidini appellati, che tirano, e [f. 11v] forzano tutti al viaggio della propagatione, et la peso di questa natura tolleranti. Gli amori alati spronano gl’animali, altri guidano intelligentementi i Carri, tanto che dimostrano fare un corso circese, e tutti si sforzano d’arrivare alla sperata meta. Alcuni de carri hanno pe suoi Cavalli struzzi, altri Cicogne, altri Aquile, altri Cigni, altri Vacelli, altri hanno Arieti, altri Capre, Cervi, Leoni, Cavalli, Tigri, Stircoleonti, Tauri, Colombi, Passeri, Pardi, Lince, Gatti, e Cani, in maniera che ogn’animale ha la sua Carretta, quasi dimostrand, che ogni sua specie corre alla sua gloria, al suo Instituto in cui la natura l’inclina, ò pur corrono tutti a un certo fine determinato, o della propagatione, o di pericoli, o della fatiga, o della morte, esser sottoposti alla forza della generatione intutte le sue forze dimostrano d’andare avanti l’una specie all’altra per qualche voglia determinata dal tempo, o per la volontà infinita, come fa i pentieri di natura, la quale con il volere cresce la voglia, et inducesi ognuno al fine della sua naturalità. Le quali sculture, o intagli sono stati trasportati in varij luoghi, parte son stati ridotti a Tivoli, e stranamente murati per le facciate delle case di questo, e di quell’altro, altri sono ridotti in potere di VIma per condurle a Roma, altre ne son stati traportate altrove, altre nel giardino del Cardinal Farnese in Trastevere. Di più questo luogo era ornato di Molte Colonne e di Statue lavorato con grand’artificio con Pavimenti miracolosi»
126 Libro ff. 32v-33v.
127 Ten 2005, p. XVII, confonde il portico con l’edificio.
128 Nel 1555, tra aprile e maggio, Ippolito II d’Este cerca di farsi eleggere Papa, fortemente ostacolato dall’intera famiglia Carafa. In seguito all’elezione di Paolo IV Carafa, Ippolito II cade in disgrazia, è accusato di simonia ed è costretto a fuggire. Al ricordare che il cardinale Carafa, famigerato nipote del papa, firma la pace con il duca d’Alba nel 1557 e che, come si vedrà in seguito, nel medesimo periodo, possiede alcune statue rinvenute nell’area del Giardino-Stadio, occorre ammettere che sia il promotore degli scavi di quegli anni.
129 Anche Melchiorri 1856, p. 834.
130 Già parzialmente documentato, però, nel disegno di anonimo italiano del tardo XV sec., nel quale appare solo uno dei due archi di circonferenza incisi nel piano di fondo del canale e funzionali per lo scorrimento dei ponti girevoli; Egger 1903, p. 73, n. 301.
131 Nibby 1919, p. 129; tale denominazione tra l’altro, non compare in Contini e in Francesco Piranesi che, nella legenda, Pisianatteo, 10, indica che si tratta di un «Edificio circolare con Portico ornato di Fontane per delizia; ha nel mezzo dell’Arca una Fabbrica esternamente circolare, con quattro piccoli Ponti, che passavano sopra l’Euripo, o Canale di Acqua, che scorreva tra il Portico, e la Fabbrica di mezzo» .
132 La descrizione, con il disegno in pianta, è in AST, Libro XIII dell’antichità di Pyrrho Ligorio patrizio neapolitano, e cittadino romano, nel quale si tratta de’ luoghi famosi, come de’ monti, mari, fiumi, e delle città, e degli uomini più illustrii e di laude degni, ff. 228v-229r.
133 Neppure oggi sono noti esempi precedenti, fatta esclusione per il Triclinio del Palatino le cui esedre, però, sono archi di circonferenza; cfr. Cinque 2013a, p. 136-148.
134 Id., f. 37r; una definizione simile si trova anche nel Trattato, 14v «spatio d’una piazza, che modernamente si dice Piazza dell’oro, dall’Oriente» .
135 Libro, f. 37v.
136 Trattato, f. 15r.
137 Il generico «marmo negro» diventa «marmo negro Lunense»; è specificato che vi sono «L’Epistylij et le corone del medesimo marmo: ma il Zophoro di marmo bianco. li fodri di nicchi dove giacevano le grandi imagini del marmo Alamurro bianco et negro», alcune delle sculture sono meglio illustrate, «Fortuna Verile vestita di maravigliosi panni gonfiati dal vento par che mostrano moversi con somma diligentia finiti» .
138 Come, invece, corrisponde agli edifici che, oggetto di scavi da parte del cardinale d’Este, vedono direttamente coinvolto Ligorio.
139 Libro, f. 37v.
140 Dato che i ritrovamenti sono illustrati a partire dal Trattato.
141 Giova ricordare che 4 marzo 1561 i fratelli Giovanni e Carlo Carafa muoiono per strangolamento, in seguito alla condanna per omicidi, malversazioni, abusi vari, nonché per avere ingannato lo zio papa al fine di trascinarlo in guerra contro la Spagna; cfr. Prosperi 1976, 19, p. 473-476.
142 Già prospettato da Penna 1836, III, t. XIX; l’ipotesi, poi negata da Heydemann 1887, p. 10, è recentemente discussa da Granieri 2008, che fa confusione tra la «Atlanta con cervo» e la «Diana col cane accanto», indicando che la prima è descritta da Stuart Jones 1912, p. 44, n. 52, t. 6. In tale testo, però, è ben chiaro che la scultura conservata nei Musei Capitolini, è una «Artemis with a hound», ossia con un cane da caccia, e si recepisce la fonte dell’errore nel medesimo autore, laddove rimanda a de Clarac per l’iconografia, simile a quella della Diana di Versailles. In de Clarac 1826-1853, IV, Planches, Statue, n. 1202, si nota che la descrizione ha per oggetto la «Diana di Dresda» che è stante e affiancata da un cane e non da un cervo come quella di Versailles. Un’iconografia rapportabile è segnalata da Visconti 1819, III, p. 165-166, t. XXXIX, cui la letteratura fa riferimento per l’identificazione della «Diana con cane» descritta da Ligorio, anche se già Penna ne aveva dichiarato la scomparsa e l’assenza di disegni. Nella scheda d’inventario dei Musei Capitolini, tra l’altro, la statua di Artemide cacciatrice, anch’essa riconosciuta in quella descritta da Ligorio, proviene comunque dalla villa estense tiburtina, acquistata da Benedetto XIV nel Settecento.
143 de Mélida 1902, che riporta un manoscritto della seconda metà del Seicento in cui si legge che il dono fu inviato in relazione alle guerre di Napoli, «Viene á mi memoria siempre que veo esta medalla aquella estatua tan excelente y famosa que vì en Fontinoble, casa tan nombrada de los christianissimos reyes de Francia, en tiempo de Francisco segundo, que á Enrique su padre embiò Paulo quarto con su subrino Carlos Carrafa, quando se hurdian las guerras de Napoles» .
144 La presenza di tale disegno, f. 89r, redatto solo al livello di bozza e il cui soggetto non è mai richiamato direttamente nel testo, ha indotto un notevole dibattito nella letteratura, talora anche in merito alla possibilità che l’autore non sia stato Ligorio. Il disegno è eseguito su un ritaglio di carta con caratteristiche fisiche, dimensionali e cromatiche diverse da quelle dei fogli del codice e, assieme ad altri disegni simili, è stato inserito nelle pagine finali, scorporato rispetto alla logica complessiva del lavoro, in seguito alla rilegatura avvenuta nel 1644 di tutti i fogli sparsi facenti parte degli acquisti Savoia; cfr. Merlotti 2002, p. 673. L’analisi della netta corrispondenza tra la bozza di uno dei Sepolcri Sereni e il disegno in pulito presente nel Libro, però, spinge a ritenere che anche la planimetria sia opera di Ligorio o, quanto meno, di membri della sua bottega.
145 Si tratta, infatti, del sepolcro con Cavaliere e Cavallo che, inserito nel Libro, occupa, compresa una minima parte descrittiva, l’intero f. 62r.
146 Descrittione p. 13F, «luoghi da lottare [...] al scoperto & al coperto» .
147 Al piano terra, come dimostrato dalla presenza del’entercapedine lungo la muratura orientale.
148 Descrittione, p. 15A; 17A-B. Le venti piazze che sono nell’Accademia costituiscono un’informazione che Ligorio, evidentemente, ritiene assai rilevante, tanto che la ripropone anche nel Trattato, f. 19r, e nel Libro, f. 41v: «Ordunque questo spatio Academico, s’espedisce, con venti piazze, che accrescevano la commodita et la gratia alle parti necessarie di essa Academia» .
149 pe, Righi 2001, p. 474; Ten 2005, p. 64 e p. 184-185 per il commento.
150 Trattato, f. 18v; Libro, f. 41v; a fronte della spiccata similitudine tra i due testi, la descrizione riportata è tratta da entrambi, con le parti in corsivo esclusivamente pertinenti il Trattato mentre quelle presenti solo il Libro sono inserite tra parentesi graffe.
151 Libro f. 42r.
152 Con riferimento alla forma, all’ammettere che Ligorio faccia riferimento alla pianta della sala interna al dado di base, il riconoscimento risulta comunque insoddisfacente quando analizzato con le successive specifiche fornite, Libro ff. 42v-43r, «Principalmente in questa Academia, fatta alla imitatione di quella di Athene [...] quivi adunque inquesta parte, più alta et nel mezzo dell’Academia vi fu quel Tempio nominato di sopra di forma circolare d’eccellente muraglia fabricato, di sorte di muro reticulato, con molti altri membri, di opera di Matoni. Et per lo Heroo di Academo in capo del angolo sinistro del Gymnasio Academico, et particolarmente un altro Tempio rotondo, di opera reticolata, et marmorato cioè coperto di stucco, con artificiosi ligamenti, acciò che fusse non meno forte che di bellezza sufficiente ed indessolubilmente molto perpetuo il quale si vede che quantunque habbi patito del fuoco et delle tagliature dele violenze humane fattegl col ferro non di meno rimane impedi gran vestigio, questo è fama esser luogo dedicato ad Apoline, à Minerva, et alle Muse, come i luoghi dele statoe dimostrano. Ha due lati il Tempio, due vestibuli ornati, et haveva stanze a destra et à sinistra del Portico del suo Prostro, cioè dalla parte dell’entrata: secondo accendano i nicchi che ereno da porvi le imagini degli loro iddij et [?] Il suo Pronaon, cioè portico, a confine dell’Area che gli faceva Delubro, o luogo consecrato. Da un altro lato haveva un’Atrio en grande cinto di muri attorno di forma quadrata, et di fuori cinto di colonne di marmo bianco del Pario. Col Pavimento di musaico bianco dell’universale; ma in esso campo giunti varij fogliami et di fioretti sparso. Il portico dunque come si è detto, che cingeva le parti fuori dell’Atrio era lastricato di quadri di porfido et di ophices marmi dell’Aegypto et regione de la Thebaide: dall’altre parti opposite di questi portichi in due lati haveva stanze bellissime: et dalla parte didentro a’ torno, haveva una loggia, che accompagnava il suddetto Tempio di colonne del marmo caryshio gialle et rosso. Allato di esso Atrio, nell’uno dei lati nel mezzo dele pariete, era una delle quattro porte del Tempio diverse dall’altre tre. il Tempio dunque da ogni parte havea alcune case che accompagnascano: et era tutto dipinto et stuccato: et ornato di colonne sentivie di mezzo rehieno fatte invece di marmo di cimento et striate er marmorate di sopra di ordine ionico» .
153 Ligorio, Napoli, Ms XIII, B.10; pe. il f. 66v, nel quale Ligorio indica che il sepolcro «Della fameglia de’ Caecilii Metelli [...] di forma circolare sovraposta sovra una di forma quadrata» .
154 Si potrebbe più propriamente riconoscere nel tiburtino «Tempio della Tosse» .
155 Ashby 1919, p. 193, p. 171, t. X.
156 Nella realtà Roccabruna è a occidente del Canopo.
157 Contini 1668, XI, L 3.
158 Francesco Piranesi 1781, «Accademia», 6-7.
159 Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 3934.
160 Vasori 1981, p. 27-28; Lugli 1940, p. 257-271.
161 Ibid., p. 27, 28.
162 von Geymüller 1882.
163 Ferri 1885, p. 219.
164 Nibby1827, p. 51-52.
165 Lanciani 1906, p. 27; l’interpretazione era stata precedentemente accettata anche da Fiorelli 1881, p 138: «La così detta «Torre di Cimone» è stata interamente liberata dal fabbricato moderno che la deturpava. Questa specola, edificata a somiglianza di qualche faro, ha la base di forma quadrata ed il vano interno rotondo, con quattro nicchioni semicircolari, tre quadrati, ed un vano di porta. La parte superiore, quasi interamente distrutta, era cilindrica ed ornata di bugne e cornici marmoree. Tra i frammenti di architettura ritrovati nello scavo, vuolsi notare un tronco di colonna ed un capitello dorico intagliato con molta eleganza» .
166 Bartoli 1924, 6, p. 22.
167 Misura, questa, comunque assai ridotta, dato che ogni rampa sarebbe stata larga 50cm e che il gradino frapposto tra le rampe avrebbe avuto la pedata di 20cm.
168 Taccuino senese, f. 26v; un disegno molto simile, di Anonimo, si trova anche nella raccolta degli Uffizi, Arch.4370, cfr. Vasori 1981, p. 35-37.
169 Cfr. Cinque 2013, p. 109-110.
170 Francesco Piranesi 1781, «Accademia», 4 e 5.
171 Data di un documento che, conservato presso l’Archivio tiburtino, attesta la proprietà a tale famiglia; cfr. Maccarone, Vella 2006, p. 141-142, n. 2.
172 Ovviamente non si può escludere la possibilità che la costruzione sia precedente e, in tal caso, occorrerebbe pensare che Contini abbia copiato da un disegno antico, forse da uno di quelli, oggi perduti, di Pirro Ligorio, recuperati da Ménestrier.
173 La tipologia è evidenziabile anche da altri scritti ligoriani, come nel caso dei manoscritti di Oxford, Bodleian Library, ms. Canon. Ital. 138, Antichità di Roma, c. 33r, «È per la via Gabinia o Prenestina un tempio assai integro, il quale serviva alli antichi per due cose, l’una per tempio e l’altra per sepellire, perché ha due parti, quella di sopra per tempio e la parte di sotto per sepolcro. La pianta qui sotto dimostrata è de la parte di sopra, dico del tempio, il quale oggi è molti intero, eccetto che il portico è tutto ruinato, è stato dalli cristiani dipinto per servirsene per tempio di [?]. È tutto di dentro guastato delli suoi ornamenti che’l vestivano»; c. 137r, «In via Appia è ancor in piede il sepolcro de’ Metelli, oggidì detto volgarmente Capo di bove, è discosto da Roma circa due mila passi, tutto murato di marmo bianco quadrato di questa forma disegnata. Il quadro che è base della forma circolare è per ogni lato CVI palmi di canna. L’altre sue misure particulare sono in esso disegno»; cfr. Rausa 1997.
174 Canina 1856, V, p. 183-184; una forma simile sarà in seguito adottata anche da G. Gatteschi, cfr. Adembri, Cinque 2012, p. 34, fig. 3.
175 Lanciani 1902-1912, 1, p. 46, «1421. Ciriaco Pizzicolli d’Ancona visita per la prima volta i monumenti di Roma, e toglie i disegni di alcuni. Abbiamo intorno a ciò non solo la poetica testimonianza di Stefano Porcari, ap. Mehus, Kyriaci itiner., p. 15, ma anche alcuni schizzi originali nel volume barberiniano di Giuliano da Sangallo. Vedi Iahn in Bull. Inst. 1861, p. 180, e de Rossi, Piante, p. 95» .
176 Bartolomeo Fonzio, Oxford, Bodleyan Library, Codex Ashmolensis, MS. Lat. ms. d.85, f. 063r.
177 A meno di una che compare in una delle formelle bronzee, quella dedicata al martirio, che Filarete redige per la porta della basilica di San Pietro. In tal caso, sebbene la letteratura ripeta che si tratta di un disegno fantasioso, cfr. Rodocanachi 1909, p. 36, pl. 6 e Borgatti 1890, II, t. 1, Leoncini 1993, p. 54, la netta similitudine col disegno di Ciriaco di Ancona, già notata da Ashmole 1957, p. 38, di recente è stata ripresa da Leoncini 1993, p. 54-55, con il solo riferimento all’irrisolta questione della paternità del disegno originale, e da Cianfarini 2000, che riconosce pienamente la Mole adrianea nei tratti del disegno, «L’iconografia della Mole Adriana è, infatti, simile ad un disegno di Ciriaco d’Ancona ed a quello più tardo del Codice Marcanova di Felice Feliciano (f. 8)» adducendo, quali prove a verifica, l’ambientazione paesaggistica e il «particolare del portale architravato da cui si affaccia l’animula di Adriano». A tal proposito, però, si deve riscontrare che nel disegno trasmesso da Fonzio è assente qualsiasi ambientazione e che, dunque, il contesto urbano, fluviale e religioso (la crocifissione sarebbe avvenuta inter duas metas) potrebbe essere stato aggiunto da Filarete, nell’ammissione che questi abbia copiato il disegno di Ciriaco di Ancona, per contestualizzare il monumento rappresentato; inoltre, con riferimento alla similitudine con il disegno di Feliciano, Codice Marcanova, Bibl. Estense Universitaria, lat. 992 (alfa.L.5.15) f. 39r, occorre stabilire non è validabile in termini tipologici, la qual cosa potrebbe essere giustificabile al leggere Hülsen 1907b, p. 23 quando afferma che Feliciano desume, aggionandoli, i disegni da Ciriaco, mentre, a proposito del dettaglio del «portale architravato da cui si affaccia l’animula di Adriano», come già indicato da Cianfarini, n. 4, si tratta di un elemento assai diffuso nelle rappresentazioni di sepolcri.
178 Come peraltro riscontrato nel 1917 da Giuseppe Gatteschi, American Academy Rome, Collection Gatteschi, 113.
179 Libro, ff. 43v, 44r.
180 McDonald, Pinto, 1997, p. 260, n. 160, indicano che tale pianta, che nel 1637 sarà donata e inviata in Inghilterra, ha «dimensioni (4.46 m. × 1.56) circa il doppio di quelle della pianta stampata» .
181 Il primo convoglio giunge a Londra nel gennaio del 1636, il secondo è affidato allo scozzese George Conn, segretario del cardinale Francesco, che parte da Roma nel maggio del 1636 e arriva a Londra il 25 luglio. Seguono numerosi altri invii, compreso quello del 1639, con il quale giunge a Londra il ritratto marmoreo del re che il cardinale Barberini aveva fatto eseguire da Bernini; cfr. Meyer 1913, p. 13-26; Bagott Watson 1973, V, p. 304; J. Berington 1793, p. 250-251, «Cardinal Barberini [...] prepared a far richer present for her Britannic majesty than he had formerly sent. It consisted of several excellent pieces of painting of the best hands of the present and last century, being the works of Albani, Corregio, Veronese, Stella, Vinci, Andrew of Sarto, Julio Romano, Pietro de Cortona, and other artists of the first repute» . Cfr. Wittkower 1948, p. 50-51 e Wood 1992, p. 247.
182 D’Israeli 1835, p. 208. H. Haynes 1912, p. 110, «His nephew Francesco Barberini, the Cardinal Protector of England who shared with him the considerable, if misdirected, artistic taste of the family was equally alive to the opportunities of the hour, and he showed the King of England from time to time such attentions as were most acceptable to a monarch who was not only the patron of Rubens and Van Dyck, but was himself one of the best judges of art in Europe. Barberini allowed a large number of statues and pictures to be exported from Rome to England, while he sent over as gifts choice pictures painted by Leonardo and Correggio and other masters of the Renaissance, together with a Bacchus by the hand of the still living Guido Reni, ‘understanding that His Majesty was a great admirer of such curiosities’. Finally, he induced the haughty Bernini to sculpture the busts of the King of Englandand of his Queen, in which task the great sculptor is said to have read a tragic fate in the long, melancholy lines of the countenance of Charles Stuart» . Fahy 1973, V, p. 305, indica che il ritratto berniniano del re è tanto apprezzato che la regina, nel 1639, ossia due anni dopo averlo ricevuto, chiede al cardinal Francesco di intercedere di nuovo con Bernini al fine di convincerlo a ritrarre essa stessa; cfr. Salerno 1963, p. 5-12 e Griffey 2008, p. 142, che sottolinea come la richiesta della regina venga inoltrata al cardinale proprio nel novembre del 1637.
183 L’inventario della collezione della regina, i cui pezzi rimasti sono conservati in vari musei, non include informazioni inerenti tale disegno; cfr. Griffey, Hibbard 2011, p. 159-181.
184 D’Israeli 1835, p. 209.
185 MacDonald, Pinto 1997, p. 260, n. 161, indicano che la pianta definitiva di Contini è pari a circa 2.23 × 0.78cm.
186 Martini 1883, p. 596.
187 La carta di 20 × 7 palmi ha dimensioni più prossime al doppio di quella di Contini (4.46844 × 1.53954m/2 = 2.23 × 0.71m) mentre quella di palmi 24 × 8 è più grande (5.362128 × 1.78737m/2 = 2.68 × 0.89m).
188 Nel qual caso avrebbe avuto un diametro non inferiore a 5m e avrebbe ostacolato la fruizione visiva dell’elaborato rettangolare.
189 Moroni 1840 – 1861: 1843, XIX, p. 277-278; p. 293- 294; 1844, XVIII, p. 195-196; 1845, XLVIII, p. 213; 1846, LXIX, p. 130.
190 Monti 1819, p. 159, 160.
191 Bonanni 1709, p. 209.
192 Tezi 1649, p. 34, Proximum Bibliothecæ, Tabularium domesticum vides, ferreis valuis obseratum; mox Pinacothecam, depictis tabulis, amplissimo argenteo instrumento, signis, pretiosa veste, cæteraque, ingenti aulica sup pellectile, ad omnem Domus usum, & ornatum, refertam. Paucis deinde gradibus in Rationarij locum descendimus.
193 Come si legge nel Barberinarum ædium brevis descriptio, BAV, Barb. Lat. 2317, f. 10r, Proximum Bibliothecae, Guardaroba Archivum domesticum vides, mox Pinacothecam, caelato argento, tabulis, signis, pretiosa veste, caeteraque ingenti aulica supellectili, refertam.
194 Medici 1732, X, l. III, p. 66, «Terminò in somma tutto quanto aveva bisogno il Tempio, e quello, che aveva destinato a esso, David suo Padre, e pose il tutto nel tesoro, o guardaroba del Santuario, chiamato comunemente il Gazofilacio» .
195 Il maestro della guardaroba aveva uno dei ruoli più alti nella scala gerarchica del personale e gestiva i beni più preziosi della casa; cfr. Gozzano 2004, p. 155-161; Conticelli 2007. Nell’ambito della casa Barberini, nel 1664, il cardinale Francesco assume, con quella carica, Carlo Albani, padre del futuro pontefice Clemente XI, come testimoniato dalla lettera conservata presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Archivio Albani, 1-17-004.
196 Reso possibile dalla cortesia del Direttore della Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Dott. Anna Lo Bianco e della Dott. Giuliana Forti che si ringraziano.
197 La tamponatura di tutte le finestre sul lato Nord, la cui esistenza è testimoniata nella veduta di Alessandro Specchi.
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