Pirro Ligorio cartografo
p. 39-54
Texte intégral
Ritratti di Città
1La rappresentazione dell’antiqua faciem di Villa Adriana rimanda direttamente al tema dei ritratti di città e, in particolare, a quanto afferma De Seta:
L’invenzione della prospettiva nei primi decenni del Quattrocento consente un’illustrazione della città e delle sue architetture ispirata a criteri e metodi assolutamente nuovi. La città già da oltre un secolo era al centro degli interessi di pittori e disegnatori, ma è nella seconda metà del XV secolo che si incomincia a rappresentare l’organismo urbano nella sua interezza, privilegiando l’immagine tra le tante possibili che ne renda al meglio la magnificentia e la reale consistenza topografica1.
2Se, pertanto, il ritratto di una città è prevalentemente espresso mediante la prospettiva, ossia attraverso il metodo che permette diffusamente di trasmettere anche le informazioni pertinenti la profondità, esistono testimonianze dell’uso di ulteriori metodi di rappresentazione e, a tal proposito, la letteratura specifica ha oramai da tempo definito alcune categorie2, peraltro assai generiche, entro le quali trova posto anche la tipologia delle piante propriamente dette, ossia redatte secondo i principi della proiezione ortogonale; categoria, questa che, benché comprensiva di due riferimenti illustri quali la leonardesca pianta di Imola e la pianta di Pisa attribuita a Giuliano da Sangallo, «costituiva un sistema di rappresentazione del tutto desueto e poco praticato »3, per lo più adottato nelle questioni amministrative e, pertanto, assai poco apprezzato nel contesto della celebrazione iconografica.
3Le successive categorie, genericamente tutte rientranti nella più ampia e comune definizione di «vedute» o «piante prospettiche »4, comprendono le rappresentazioni pseudo tridimensionali e, quindi, sono dividibili rispetto alla posizione attribuita all’osservatore, a partire da quella indicata quale «profilo», di sovente utilizzata per rappresentare città portuali, nella quale il punto di vista è disposto a un’altezza pari a quella di un essere umano medio, da cui deriva una esplicitazione minima, se non nulla, della profondità degli spazi urbani, cui fanno seguito le rappresentazioni più pertinenti la tipologia «a volo d’uccello» e, come tali, eseguite disponendo l’osservatore in alto, in maniera di riprendere la maggior parte delle caratteristiche urbane. Queste ultime vedute sono a loro volta differenziate rispetto all’altezza attribuita all’osservatore e a seconda della maniera esecutiva adottata: in vista diretta, comunque supportata da alcuni strumenti di allineamento e di misura, con la stazione disposta su un rilievo più alto del soggetto da rappresentare, oppure dedotta da una pianta ortogonale, talora con porzioni alterate, fuori scala o ruotate, eseguita per lo più in vista assonometrica ma con numerose parti in prospettiva.
4Si tratta, quindi, di vedute che, non a caso, prendono spesso il nome di «vero ritratto della città», dato che, a detta di Schultz5, con esse «l’occhio dell’uomo prende il volo, scala il cielo e assume il punto di vista di un uccello. Non per mistiche contemplazioni, ma per restituire l’immagine della città», o che, come afferma De Seta, «connotano sempre il medesimo soggetto: l’immagine della città nella sua magnificentia, splendor, pulchritudo, magnitudo e simili aggettivazioni sono insistentemente ricorrenti nei titoli, nelle legende o nelle dediche che sono di corredo alle immagini »6.
5Come già indicato, tali categorie sono generiche e, facendo sempre riferimento a De Seta, è possibile affermare che
lo slittamento tra l’una e le altre categorie è frequente e le regole fissate vengono spesso trasgredite. Solo un’indagine analitica su ciascuna immagine urbana può svelare i meccanismi della sua costruzione [...] È evidente per altro che i tentativi di classificazione per tipologie costruttive dell’iconografia urbana possono entrare in crisi quando ci si trova dinanzi a strutture urbane disposte in siti morfologicamente complessi7.
6Tra gli elementi alla base per lo sviluppo di tali indagini, uno particolarmente significativo ha per oggetto lo scopo per il quale viene redatta la veduta, cui consegue il supporto fisico della raffigurazione (a stampa, o dipinta su tavola, tela o muratura), e il ruolo della veduta (soggetto unitario o inserita nello sfondo di un differente soggetto).
7Anche in questo caso la letteratura ha avuto modo di stabilire alcuni tipi consistenti nelle vedute mirate a sottolineare l’espressione del potere locale – come le vedute dipinte sulle murature dei palazzi sedi di governo, volte a dimostrare la dimensione e le caratteristiche qualitative dei territori dominati – o quelle redatte a scopo illustrativo – come per esempio le illustrazioni degli Itinerari, degli Atlanti, dei Mirabilia – o, ancora, indirizzate alla conoscenza di città o di siti, nelle quali la forte alterazione della realtà è espressa in funzione dell’insito, e non particolarmente sotteso, scopo mnemonico8, come indicato da Schedel nel volantino pubblicitario del Liber Chronicarum9, «Davvero, ti prometto, caro lettore, un gran piacere nel leggere questo libro, in quanto tu non avrai soltanto la sensazione di leggere delle storie, ma, attraverso le figure, ti sembrerà di averle proprio davanti ai tuoi occhi. Non vedrai solo i ritratti degli imperatori, dei papi, dei filosofi, dei poeti e di altri personaggi famosi, ciascuno nei suoi costumi del tempo, ma anche le vedute delle più famose città di tutto il mondo, con informazioni su come sono nate e hanno prosperato. Sicché, quando tu porrai mente a queste storie, ai fatti e alle notizie, li immaginerai come se fossero vivi e presenti davanti a te».
8Nel caso del territorio tiburtino è noto il «Ritratto dell’Antichissima città di Tivoli» che, stampato da Antonio Del Re nel 1622, costituisce uno degli esempi più tardi, se non obsoleti, di tale tradizionale forma di rappresentazione (fig. 4). Meno noti sono, invece, alcuni «ritratti» realizzati tra il Quattrocento e il Cinquecento, per lo più inseriti in guide di viaggio, nei quali Tivoli è rappresentata in maniera di evocare i resti di un antico splendore, giustificato dalle indicazioni letterarie di accompagnamento ai disegni, secondo le quali Adriano avrebbe edificato una Tyburtinam villam nunc Civitate10 (fig. 5).
9Sebbene già da Platina sia noto che la Villa11 e la città furono due diverse entità, Tyburtinam quoqe villa miro sumptu aedificavit quae quidem hodie tybur vetus appellatur12, la corretta cognizione sembra essere definitivamente acquisita solo un secolo dopo, quando Cardulo13, nella descrizione della Habitatio igitur Hadriani in agro Tiburti palatium14, subito dopo la descrizione tratta dall’HA, specifica che
Haec autem villa tam ampla, tam superba, tam regia, toc ac tantis operibus extornata, nunc temporum motu, vestustatis iniuria [...] prostrata & diruta ante oculus iacet. Ruinas si procul aspicias, urbem putes fuisse, non villam, unde aliquot iam ætatibus vulgo Tibur vetus appellant15.
10Che, però, la denominazione «Tivoli vecchio» rimanga ancora ben salda tra gli abitanti dell’intorno tiburtino è testimoniato da un atto notarile del 1585, trasmesso da Lanciani, in Territorio Civit. Tyburtine in locis prope villa Adrianam Tivoli vecchio vulgariter nuncupatis16.
11Forse proprio perché la dicitura è attestata quale toponimo locale, ovvero perché la sua adozione contribuisce a dare maggiore risalto ai resti, continua a essere adottata nel tempo dalla maggior parte di coloro che, a vario titolo, dedicano la loro attenzione alle sontuose rovine; inizialmente compare nella lista dei disegni, «Hedifitii in Tiboli vecchio», che Francesco di Giorgio dedica alla Villa nella metà del Quattrocento, ed è ripetuto anche nei singoli elaborati, come nel caso del «hedifitio Anticho in tiboli vecchio», che la letteratura spesso riconosce nel cd Teatro Marittimo17, del quale è anche indicato il «chortile in diamitro pie 108» .
12La medesima dicitura è adottata da Leonardo, «a Tivoli vecchio casa d’Adriano […] addì Laude deo 1500 20 marzo »18 ; si legge «Tigoli vechio» a fianco del disegno di un piede di cratere marmoreo oggi attribuito alla cerchia dei Sangallo19 (fig. 6) e, ancora, «Tigcholi vechio», appare in alcuni disegni della fine del XV sec., provenienti dalla collezione Stosch e conservati all’Albertina di Vienna20.
13La tradizionale confusione tra Tivoli e Tivoli vecchio si percepisce in una veduta di disegnatore anonimo, che Bertelli21 inserisce nella sua opera, pubblicata nel 1599 e dedicata all’illustrazione delle città italiane. In tale veduta Tivoli domina un contesto ambientale nel quale, su una altura a mezza costa, spicca la presenza di un altro agglomerato urbano recinto da mura e contenente un edificio a pianta circolare, case, torri e un campanile, nonché prossimo all’Aniene e a una sua cascatella (fig. 7).
14Dato che la città tiburtina è rappresentata da Ovest verso Est, che l’edificio a pianta circolare rimanda al Sepolcro dei Plauzi, dislocato nell’area alluvionale dell’Aniene, e noto, inoltre, che nessun abitato sorgeva in quell’ambito, l’unica possibile identificazione del secondo nucleo urbano corrisponde a quella di Villa Adriana, ossia di «Tivoli vecchio»: immaginaria città che, rispetto a Tivoli, si trova proprio in una posizione geografica conforme a quella della veduta.
15Nella veduta, inoltre, spicca la dicitura Mirabilis stupendiqß. in oppi /do Tiburtino Tiueronæ / flu: Lapsus. cascatam vulgo vocat Italus Re / presentatio, che non presenta evidenti riferimenti diretti con il soggetto rappresentato, a meno di una cascatella visibile in prossimità del limite inferiore delle mura urbane, tutt’altro che definibile quale «mirabile e stupenda».
16Una didascalia simile appare in una precedente veduta, Tiburtum vulgo Tivoli, pubblicata nel 1581 da Georg Braun22, nella quale, però, in una ben delineata finestra disposta al piede destro della veduta, è inserito un ingrandimento delle cascatelle dell’Aniene, posto in primo piano rispetto a un abitato che potrebbe essere interpretato quale la porzione di Tivoli prossima alle cascate se non fosse ben visibile, al suo interno, il solito edificio assai simile al Sepolcro dei Plauzi, che peraltro non può essere identificato con il cd Tempio della Sibilla. Sul lato opposto della finestra i due soliti «Telamoni» reggono una legenda nella quale Abrahamus Ortelius e Hoefnagle sono accreditati dello studio condotto nel corso della loro visita, il 1° Febbraio 1578 (fig. 8).
17I dati disponibili permettono di ipotizzare che, in origine, Hoefnagle abbia incluso nella sua veduta, come normale, una finestra nella quale raffigurare un soggetto non visibile dal punto di vista della veduta generale e, avendo posto tale finestra proprio nella porzione territoriale in cui si trova il Sepolcro dei Plauzi, abbia arbitrariamente inserito tale monumento nello sfondo della cascata. In seguito, il disegnatore di Bertelli, nell’aggiornare la veduta, potrebbe aver interpretato l’abitato di sfondo alla cascata quale «Tivoli vecchio», sulla base della sua posizione rispetto a Tivoli e, di conseguenza, avrebbe eliminato il perimetro della finestra. L’accertata assenza di nuclei abitati nei più immediati dintorni, tra quelli pertinenti la veduta, come peraltro dimostrato dagli elaborati cartografici redatti in anni prossimi (fig. 9, 10) spinge a ritenere che il secondo nucleo urbano rappresentato sia «Tivoli vecchio»: ossia Villa Adriana, interpretata quale città. Al considerare, inoltre, che la base di partenza per una veduta di questo tipo è l’osservazione diretta, a fronte dell’analisi di quanto inserito nel campo visivo, si può considerare che il disegnatore abbia fatto stazione su uno dei monumenti in prossimità di Ponte Lucano, se non proprio sul Sepolcro dei Plauzi (che a tal ragione, arbitrariamente, sarebbe stato inserito nell’immaginario abitato), in maniera di poter osservare, e raffigurare, sia Tivoli, sia Villa Adriana (fig. 11).
18I dubbi dimostrati dal delineatore della veduta pubblicata da Bertelli sono presto sostituiti da certezze nella tavola pubblicata da Schott23, laddove all’immaginario abitato sono affiancati due giardini imponenti, uno dei quali è caratterizzato dalla presenza di un pergolato assai simile a quello che appare nel Mosaico del Nilo a Palestrina, la cui esistenza inizia a essere divulgata proprio negli anni nei quali Schott stampa il suo lavoro24 (fig. 12). La sottesa indicazione della presenza di antichità, elegantemente risolta attraverso l’inserimento dei giardini, affiancata all’esplicita descrizione proposta nell’Itinerario,
Viste queste cose [Tivoli] anderai verso Roma e tirandoti un poco fuor di strada verso man sinistra darai un’occhiata a Helia Tiburtina, che fù Villa d’Hadriano Imperatore posta sopra un monticello; la qual’al presente pare una gran città rovinata, rendono stupore i vestigij di sì grandi edificij, e non lasciano facilmente credere, che sij stata una villa25,
19e alla certezza che la veduta deriva da quella di Bertelli26, costituiscono le ragioni che spingono a ritenere che lo stesso Bertelli, probabilmente con il supporto di Andreas Schott, umanista e profondo conoscitore della cultura antica, nell’ammettere l’esistenza della Villa adrianea, abbia deciso di far apportare ulteriori modifiche al disegno, mediante l’inserimento dei giardini, al fine di evocare la presenza di resti archeologici suggestivi almeno quanto quelli raffigurati nel mosaico di Palestrina (fig. 13).
20Che si tratti di una irrealistica veduta di Villa Adriana interpretata quale città è, di fatto, validabile dalla posizione rispetto a Tivoli, dalla distribuzione degli edifici, disposti su un pendio a quote crescenti verso Sud, e dalla presenza, proprio nell’area meridionale, del campanile di una chiesa. Tale campanile, infatti, potrebbe corrispondere all’idealizzazione dei resti degli edifici monastici, con l’annessa chiesa intitolata a S. Stefano, eretti nell’area su cui sorgeva la villa dei Vibii Vari, a lungo considerati parte di Villa Adriana27 (fig. 14).
21È comunque certo che nelle vedute successive, redatte a partire dalla metà del Seicento e derivanti da quelle citate, scompaiono sia l’abitato identificato quale «Tivoli vecchio», sia la didascalia e la finestra raffigurante le cascate, in favore del completamento del paesaggio e ciò attesta l’avvenuta obliterazione del toponimo «Tivoli vecchio» e il pieno riconoscimento della Villa imperiale tiburtina.
22Da quanto per ora analizzato si deve ritenere che nel corso degli anni durante i quali Ligorio si occupa di villa d’Este e di Villa Adriana, la letteratura continua a proporre la Villa imperiale tiburtina quale il sito della antica città di Tivoli. D’altro canto, benché Ligorio sia ben consapevole dell’errore, non manca di subire il fascino di quelle imponenti rovine, delle quali scrive che
Niuno e che la venghi a vedere, che non si stanzi et si perdi nella sua grandezza, et non e niuno che non si confonda in riguardarla: onde non mai sene possono vedere incontenente il suo fine, tanta maestà viene in essa rappresentata, la quale e assai maggiore che non l’havemo discritta, per cioche e molto poco il mio giuditio et. sapere et studio in arrivare a tanta, magnitudine; etsicome volentiera di quel che havemo potuto conoscere havemo narrato per dare notitia di essa del tutto, cosi anchora speramo da alcuni che volentiera accetti la nostra fatica, per conservarla nella memoria della grandezza del suo merito28.
23Tutto ciò, associato alla testimonianza di Contini, dalla quale emerge che la pianta ligoriana oggetto di revisione è una raffigurazione della Villa nell’aspetto ritenuto originale, antiqua faciem, palesa la possibilità che l’elaborato ligoriano non sia stato una pianta ortogonale bensì una veduta celebrativa, ossia un elaborato pienamente ricalcante il concetto di «Ritratto» di una città «trionfante».
Le esperienze cartografiche di Ligorio
24Nei primi anni della prigionia a S. Anna, Torquato Tasso ha modo di ricordare, con parole altamente elogiative, una delle attività che avevano visto impegnato Pirro Ligorio prima del trasferimento a Ferrara:
Ma se non ciascuna famiglia, o ciascun uomo per se’, ma la patria tutta da ritrarre avessi, o Signori Napolitani, quella Roma trionfante, che dal vostro Pirro Ligorio nelle carte è stata rinovata o sarebbe, da me proporla per Idea del mio disegno, il quale non in carte, o in tele, o in colori, ma in marmi, ed in metalli distenderei sì nobili, che quelli di Paro, o di Corinto vili verso di loro sarebbono giudicati29.
25In effetti Ligorio, tra il 1552 e il 1561, aveva fatto stampare da Michele e Francesco Tramezzino tre «piante» – vedute – di Roma, delle quali le prime due, edite rispettivamente nel 1552 e nel 1553, a detta di Hülsen30, sono «ben poca cosa [...] l’autore ha mirato specialmente a far conoscere al pubblico le sue nuove ipotesi sulla posizione e la denominazione di molti monumenti antichi», mentre l’ultima (oggi più diffusamente nota come «Pianta grande archeologica»), che riceve l’entusiastico encomio di Tasso, è particolarmente interessante e indicativa anche per lo studio trattato in questa sede.
26Nella generalità, le prime due piante ligoriane non si discostano particolarmente dalle vedute a volo d’uccello che avevano iniziato ad attestarsi tra i modelli celebrativi di Roma a partire dalla seconda metà del Quattrocento, periodo contrassegnato dal pontificato di papi che, agendo per il desiderio di una renovatio politica, tentano di operare in maniera di illustrare adeguatamente il passaggio dalla grandezza pagana a quella papale. In tutto ciò la produzione di charte della città è fervente e, come prima visto, nella generalità la loro redazione soggiace a diversi scopi dei quali il primo è quello che rientra nella ben più antica tradizione dei Mirabilia, il secondo è prevalentemente mirato a scelte da operare in campo urbanistico, il terzo ha per oggetto la rappresentazione dell’antico e il quarto comprende le immagini prodotte per illustrare testi letterari e/o geografici pervenuti dall’antico31.
27Progressivamente, rispetto a tali scopi, è abbandonata la rappresentazione idealizzata della città racchiusa in una forma circolare in favore di vedute che, col procedere del tempo, diverranno sempre più realistiche, anche per l’apporto alla scienza topografica offerto da Leon Battista Alberti mediante il suo Descriptio urbis Romæ.
28A partire dalla seconda metà del Cinquecento, come accennato, i generi iconografici di tali immagini, per le quali la produzione letteraria è immane, sono prevalentemente due, dei quali il primo è quello con il maggior numero di esempi e comprende, nella generalità, tutte le vedute a volo d’uccello, tra loro differenziate a seconda della posizione attribuita all’immaginario osservatore che, comunque, a meno di alcuni casi specifici, inizia a essere posizionato a Sud, tale che l’Est si trova a destra del fruitore della veduta. Nel secondo genere iconografico sono collocate le vedute con osservatore posto ad altezza all’incirca pari a quella della media umana che, prevalentemente adottate a scopo raffigurativo32, iniziano a essere sempre più rare e delle quali un esempio perviene dalla già trattata raccolta edita da Schedel nel Liber chronicarum. Pertinenti il terzo genere iconografico sono infine quegli elaborati nei quali l’osservatore è posto particolarmente in alto e relativamente vicino, tanto da mostrare non solo l’organizzazione urbanistica della città ma anche qualche particolarità dell’intorno; tali immagini sono molto numerose e perdurano nel tempo, ottenendo grande fortuna anche nelle successive riedizioni a stampa. Tra queste si inserisce la prima pianta di Roma elaborata da Pirro Ligorio e pubblicata nel 1552, ossia nel periodo durante il quale l’architetto svolge la più fervente attività nell’ambito tiburtino, cui fa immediatamente seguito la seconda, più impostata alla narrazione archeologica della città ed edita solo un anno dopo. Entrambe le piante avranno grande successo e saranno più volte ristampate mantenendo il titolo originale e il nome di Ligorio, ovvero copiate e parzialmente modificate, con differente intestazione, come nel caso del Civitates Orbis Terrarum, opera già trattata con riferimento alla veduta di Tivoli, nella quale la veduta ligoriana appare come Roma urbs toto orbe celeberrima e con l’aggiunta, nell’angolo inferiore a destra, di due guerrieri e una dama.
29Come accennato in precedenza, Hülsen, che non ha giudizi lusinghieri per entrambe le piante, come del resto per il loro autore, tiene a specificare la differenza tra gli elaborati, comunque tra loro dipendenti, indicando il primo quale «pianta moderna di Roma» mentre per il secondo, facendo anche riferimento a quanto riportato nell’angolo superiore a sinistra della pianta, gli attribuisce il nome di pianta archeologica: «Ligorio, la cui attività sul campo archeologico è meritamente infamata da innumerevoli falsificazioni, diede alla luce nel 1553 una pianta ricostruita dell’antica Roma, che doveva servire da compagna alla pianta della città moderna pubblicata nell’anno precedente »33. Sebbene Hülsen fornisca indicazioni specifiche e dettagliate rispetto a ogni pianta trattata, nulla è indicato in merito al processo progettuale adottato da Ligorio per la redazione di tali piante e, in particolare, solo Burns34 accenna al loro orientamento, «ruotato» rispetto alle altre vedute precedentemente redatte e tale rotazione costituisce un elemento analitico prioritario sia per le questioni strettamente pertinenti la redazione di vedute, sia in relazione alle capacità sviluppate da Ligorio nel contesto topografico.
30Se, infatti, le carte precedenti derivavano da operazioni di presa visiva diretta con stazioni generalmente poste su Monte Mario, e, pertanto, mostravano la città da Nord – Nord/Ovest verso Est – Sud/Est, nelle due piante di Ligorio Roma è rappresentata in vista da Ovest-Sud e ciò non stupisce, noto che proprio in quell’area si trova l’altura del Gianicolo che sarà adottata anche in seguito per la redazione di numerose piante e vedute.
31Tale orientamento si ritrova in almeno due casi di piante precedenti, delle quali la più rilevante è quella, edita nel 1551, redatta da Leonardo Bufalini; l’autore, della cui biografia poco si conosce, opera a Roma nel settore ingegneristico35 e redige la sua pianta di Roma forse sulla spinta propulsiva della pianta progettata per documentare le antichità di Roma a fini conservativi, lasciata incompiuta nel 1520 da Raffaello36, ma certamente motivato dal desiderio, peraltro insoddisfatto, di preparare un elaborato commerciabile in occasione dell’anno giubilare (1550).
32L’elaborato, oltre ad essere il primo di notevole dimensioni, tanto che viene stampato in più fogli37, costituisce anche il primo caso di una rappresentazione ortogonale della città, derivata da un rilievo tracciato «col metodo della bussola e del compasso», ossia eseguito secondo le più avanzate conoscenze scientifiche dell’epoca, benché non rigorosamente restituito, note le alterazioni posizionali di numerose aree, opportunamente ruotate in favore di un migliore apprezzamento visivo38.
33Probabilmente proprio a causa della prevalente ortogonalità la pianta non è apprezzata dal più vasto pubblico, tanto che già la prima edizione costituisce una assoluta rarità nel primo trentennio del Settecento, quando il gesuita fiorentino Lupi ha modo di scrivere di aver visto
una Grandissima carta, che mostra la pianta di Roma, tal quale ella era al tempo di Giulio III, con privilegio del quale trovasi impressa l’anno 1551, ed io come cosa rara la cito, non avendone altrove veduta, che in un corridore del Collegio Romano, lacera in parte e consunta dall’antichità, e mi ricordo che Papa Clemente XI, Uomo di buon gusto quanto chiunque dell’età sua, degnandosi di mandarla a chiedere, per farvi sopra nelle ore de’ suoi respiri qualche erudito trattenimento, appresso a sè la ritenne per qualche anno, finchè con diligenti ricerche altra meglio conservata non se ne trovò [...] L’autore di questa Carta, rappresentato in immagine appie’ d’essa, è Leonardo Bufalini del Friuli, di cui con lode grande si favella da chi questa stampa (che apparisce essere in legno), dopo esso morto, diede alla luce39.
34Le caratteristiche della pianta di Bufalini, l’orientamento, le precisazioni orografiche – talora distinguibili anche in merito agli stilemi grafici adottati – e il metodo di rappresentazione posto in essere, costituiscono le peculiarità parzialmente riscontrabili anche in una pianta, inserita nel Urbis Romæ Topographia, lavoro edito nel 1544, il cui autore, il patritius Mediolanensis Bartolomeo Marliani, proprio a tal proposito, ha modo di precisare:
Si hanc figuram, & Sequentes, secundum naturalem prospectum attollere voluissemus: cotigisset ut omnibus partibus montium, una excepta, occultatis, ædifica in suo situ locari non potuissent. Qua propter cum melius putaremus utilitati omnium esse consulendum, qua inani pictura quosdam oblectræ: figura ipsas planas posuimus: curavimus tamen latera montium secundum illorum altitudinem ita inumbrare, ut convalles ab ipsis facile distinguantur40.
35Differentemente da Bufalini, che disegna tutte le componenti della città in vista ortogonale dall’alto, Marliani disegna alcune parti in proiezione zenitale, ossia in prospetto (la cinta muraria e le colonne Antonina e Traiana); se, inoltre, Bufalini dedica notevole attenzione alla definizione del reticolo viario urbano e alla localizzazione geografica dei resti antichi, senza trascurare quelli ridotti a poche murature e cura nel dettaglio la rappresentazione dei monumenti più importanti e dei preminenti edifici moderni, Marliani rivolge l’interesse alla definizione orografica, limitandosi a rappresentare solo le principali strade d’accesso e alcuni dei più imponenti resti (Terme di Antonino, di Diocleziano e di Costantino, la Mole Adriana, il Pantheon, il Colosseo e minimi tratti di acquedotti), mentre la localizzazione delle altre, pochissime, parti antiche è deputata alle indicazioni trasmesse in forma scritta.
36Le ragioni delle strette affinità tra la pianta di Marliani e quella di Bufalini sono state ampiamente trattate dalla letteratura, ma non chiarite, a partire da Hülsen41 che, fervido ammiratore di Bufalini, propende per la derivazione della pianta di Marliani da quella del geometra friulano, mentre recentemente Mayer42 ha assunto assume la posizione inversa; alla stessa maniera, come già indicato, assai poco è stato discusso con riferimento all’esemplare dal quale Ligorio deriva le sue due prime piante di Roma; noto, infatti, che non manca di criticare Marliani, non senza essere ricambiato, in merito alle indicazioni a carattere antiquario da questi fornite nelle sue opere, potrebbe risultare azzardato immaginare che Ligorio abbia tratto la sua prima pianta a partire dalla base redatta proprio da colui che Hülsen indica quale «suo concorrente e nemico »43.
37Altresì è improbabile pensare che le prime due piante ligoriane abbiano origine da quella di Bufalini dato che, sebbene l’orientamento e l’assetto morfologico siano parzialmente simili, negli elaborati di Ligorio le approssimazioni e le alterazioni dimensionali e proporzionali attribuite alle emergenze costruite sono realmente notevoli rispetto a quanto disegnato dall’ingegnere friulano. Un’analisi svolta ponendo a confronto le quattro piante, però, produce qualche suggerimento. In particolare si nota che la seconda pianta ligoriana, la «piccola pianta archeologica» del 1553, ha dimensioni assai simili a quelle dell’elaborato di Marliani (Ligorio 25 × 33cm; Marliani 24×35cm), anche se il taglio dell’elaborato ligoriano è prevalentemente esteso verso Sud, mentre Marliani accentua l’attenzione all’area Nord della città.
38Al ricordare che negli stessi anni della redazione delle piante Ligorio è oberato da una notevole attività professionale e scientifica, si potrebbe escludere un suo attento studio cartografico, accurato al punto di poter porre in pratica i più moderni metodi, e di conseguenza non si può che ritenere abbia stilato le sue piante a partire da una o più basi cartografiche di altra mano. Ciò trova riscontro nel caso della terza pianta di Roma ligoriana, o pianta «grande», stampata subito dopo la prima riedizione della pianta di Bufalini44, suddivisa in 12 fogli45, per una dimensione totale di 1.26 × 1.49m. Questa nuova pianta, realizzata nel corso degli anni durante i quali Ligorio risiede prevalentemente a Roma, come afferma Hülsen,
è basata sulla pianta Bufaliniana per l’icnografia: le grandi linee del terreno, la posizione relativa dei singoli monumenti, sono rappresentate, grazie all’eccellente lavoro sul quale si fonda, con notevole correttezza, ed anche nel dettaglio si trovano non poche indicazioni che sorprendono per la loro giustezza. Ma accanto a queste sta un numero assai più grande d’invenzioni fantastiche, le quali vengono proposte con una certezza assoluta. Il Ligorio con questi metodi ha saputo imporsi ai suoi contemporanei ed ottenere un successo che ha durato più di due secoli: la sua grande pianta fu non soltanto riprodotta in molte copie rimpiccolite (le più recenti di esse vanno fino al principio del secolo XIX), ma ebbe anche un’influenza considerevole sulle altre grandi piante archeologiche46.
39In effetti, un’analisi più al dettaglio, rivolta a individuare le maggiori differenze riscontrabili tra i due elaborati, ligoriano e bufaliniano, non ultima la rotazione dell’orientamento, permette di ritenere che Ligorio abbia comunque fatto largo uso della pianta bufaliniana per la topografia e tale caratteristica costituisce un enorme valore aggiunto rispetto alle due altre rappresentazioni redatte in precedenza dall’architetto napoletano: benché non privo di molti e, talora, gravi errori di misurazione, il rilievo di Bufalini è di gran lunga il più corretto, dal punto di vista cartografico, di quanto disponibile all’epoca (fig. 15). Si giustificano, dunque, le differenze qualitative tra le prime due piante di Ligorio e l’ultima e, pariteticamente, non si può che attestare che, nell’affrontare il tema della «pianta» generale di Villa Adriana, di quel sito archeologico a lungo ritenuto quale il nucleo d’origine della città di Tivoli, Ligorio abbia fatto riferimento alle sue esperienze cartografiche, rappresentando il sito monumentale mediante una veduta a volo d’uccello.
40Si deve, inoltre, immaginare che, nota l’inesistenza di un precedente e accurato rilievo cartografico della Villa sul quale impostare la veduta, Ligorio abbia impiegato il procedimento già adottato per la stesura delle sue due prime piante di Roma, ossia che abbia operato a partire dalla composizione, opportunamente regolata in funzione della migliore fruizione ( «vista»), delle singole planimetrie da lui stesso tracciate nel corso dei suoi lavori di indagine in sito, nonché controllata e verificata mediante prese visive dirette e completata con gli elevati dei complessi ricostruiti.
41Sulla base di tali considerazioni emerge, pertanto, che la ligoriana «pianta» di Villa Adriana sia stato un elaborato non particolarmente soddisfacente, quanto meno rispetto alle tendenze che iniziavano a farsi strada a partire dall’inizio del Seicento, mirate all’esaltazione della riconoscibilità di un sito piuttosto che alla sua sola immaginifica esaltazione47.
Tab. 4 – I maggiori avvenimenti citati, elencati in ordine cronologico
Anno | Sulle vedute tiburtine e Tivoli vecchio | Su Villa Adriana |
1447 ÷ 1450 | Francesco di Giorgio Martini disegna parti della Villa | |
1448 – 1474 | Flavio Biondo identifica la Villa imperiale tiburtina | |
XIV-XV sec. | Cerchia dei Sangallo: disegno con la dicitura Tivoli vecchio | |
1483 | fra Giacomo Filippo Foresti da Bergamo pubblica il Supplementum | |
1485 | Bernardo Sacchi (Platina) pubblica l’Opus de Vitis | |
1493 | Hartmann Schedel pubblica il Liber Chronicarum | |
1500 | Leonardo è «a Tivoli vecchio a casa d’Adriano» | |
1547-1555 | S.W. Pighius scava a Villa Adriana | |
1550-1551 | Leandro Alberti pubblica il Descrittione | |
1555÷1578 | Brueghel disegna le cascate dell’Aniene | |
1581 | Georg Braun pubblica la veduta Tiburtum vulgo Tivoli senza «Tivoli vecchio» | |
1599 | Bertelli pubblica la veduta Tibur venusta la urbs vulgo Tivoli | |
1601 | Schott pubblica la veduta Tibur venusta la urbs vulgo Tivoli |
La «pianta» ligoriana di Villa Adriana
42Quanto per ora discusso, nell’attestare che la tanto cercata «pianta» ligoriana della Villa imperiale tiburtina è da intendersi quale una veduta a volo d’uccello, permette di giustificare le ragioni per le quali la ricerca di tale disegno, quanto meno dal Settecento a oggi, è risultata sempre vana. Per meglio validare quanto ipotizzato occorre, però, analizzare gli scritti ligoriani nei quali è trattato il tema di tale elaborato, a partire dal Descrittione, laddove si evince che il fine sotteso da Ligorio per la redazione della «pianta» è proprio quello della celebrazione della Villa imperiale tiburtina attraverso un disegno che dimostri la sua originaria magnificenza.
43La differenza tra lo scopo che Ligorio attribuisce alla redazione della pianta generale e quanto, invece, deve corrispondere ai singoli disegni dei complessi della Villa è espressa con termini tanto chiari ed espliciti da non lasciare adito a dubbi. Le «cose guaste», i singoli edifici e le loro parti nello stato in cui versano al momento dell’indagine, sono disegnati in pianta, ove per tale deve essere inteso il disegno ortogonale, attraverso il quale è possibile segnalare le dimensioni, i rapporti proporzionali, i paralleli tipologici. Disegni, questi, che sono utili allo studio, all’analisi mirata alla ricerca di nuovi linguaggi progettuali e che, come tali, vengono redatti allo scopo di essere divulgati, accompagnati da testi esplicativi, a beneficio di coloro che sono interessati all’architettura e all’antico; disegni, pertanto, simili a quelli che Ligorio prepara per il suo progetto enciclopedico delle antichità.
44Diversamente da tali disegni, la «pianta» generale della Villa, come le ligoriane piante di Roma, è un elaborato grafico redatto per mostrare l’insieme degli edifici «come loro fossero», da cui si percepisce che Ligorio intende una veduta ricostruita di Villa Adriana, rappresentata «al meglio che si potrà, col dimostrarle nella PIANTA».
45L’enfasi attribuita a tale lemma, meglio di ogni altra argomentazione, indica che con il termine «pianta» Ligorio allude a una veduta celebrativa della magnificentia del sito imperiale, tanto quanto spetta a una città, e questa interpretazione è confermata dallo stesso architetto quando scrive che
La villa d’Hadriano [...] è tanto stupenda, et di tanta grandezza, che molte città vorrebbon esser a quel paro, si come più largamente ragione, laove mostro la sua pianta48.
46Che Ligorio abbia quale scopo la redazione di un «ritratto» della Villa imperiale tiburtina, finalizzato alla trasmissione dell’antico splendore del sito, è più volte evidenziato nei suoi scritti, come nel caso del Trattato49, dove si legge che
tutto il sito si contiene tanto d’amplitudine, che chi ha giudizio d’architettura vera [deve] esser inform.to [...] secondo si conviene con più brevità di quanto si potrà descriveremo, racconteremo che qualità havessero le cose, che vi erano, e à che [f. 9v] fine d’orizzontare, e che bellezza potessero havere, et à che studio dedicate, nel vero loro son stati di tal perfezione ordinati, che non solo invidia fanno alli giudiziosi huomini, ma arrecan ardore, e desiderio di vederle intiere, anzi porgono dolor grande alla posterità, et ai presenti passione a nominarla, e massimamente considerarla dalla mie parole, non che vederla nominata per esser privo il Mondo di degna memoria.
47Il «desiderio di vederle intiere» è, dunque, lo scopo che Ligorio si è prefisso e che traspare ogniqualvolta ha modo di citare la «pianta» generale, come avviene nel Trattato50 : «si malamente ri [f. 14v] dotti dall’occasioni occorse, che troppo affanno sarebbe il voler dire di tutti onde è meglio a vederne la pianta, c’havemo fatta di tutta la Villa, che qui recitare di essa cosa alcuna»,
48Diverso è invece il fine per il quale Ligorio redige i disegni di singoli complessi della Villa; in quei casi occorre trasmettere informazioni dettagliate circa le specifiche architettoniche degli edifici che costituiscono tipicità meritevoli di maggiore attenzione tecnica. Secondo tale scopo, pertanto, i disegni sono vere e proprie planimetrie, quotate e annotate, come avviene per la descrizione delle specifiche tecnologiche del Liceo51, «Ora havendo sin qui detto dell’Hypocausti, restarebbe da raccontare anchora molte altre cose le quali erano appresso al Lyceio, et anchora ch’esse fussero state infinite, perla sua desolazione fatta, non se ne può dire àpieno et non se ne ritrahe cosa alcuna certa del tutto del suo ornamento, et dell’Antichità, onde secondo l’havemo vedute, con la forza della pianta dilli suoi fundamenti, si mostreranno alcuni particolari de suoi siti», o come indica in merito al Canopo, le cui caratteristiche «non con scrivere si possono illustrare, non è possibile di loro parlare a pieno, per le quali della forma: ma come si potranno à gloria del nostro Redemptore, li porremo in pianta »52. Ed è proprio in merito alle citazioni del Canopo che dalle frasi di Ligorio si ottiene la conferma del duplice significato attribuito al termine «pianta»; nel caso appena esposto Ligorio adotta il termine per indicare un disegno in fieri, una planimetria dettagliata e limitata alla sola area dell’eccezionale complesso, ritenuta necessaria per illustrare con maggiore puntualità quanto sommariamente illustrato nella «pianta» generale, già redatta, come si evince nella forma al passato adottata nello stesso testo: «Valle o fossa Canopica […] si come l’havemo formata nella pianta »53.
49Benché Ligorio, come d’altro canto i suoi contemporanei, si avvalga del medesimo lemma per indicare disegni redatti secondo differenti metodi di rappresentazione, ha modo sottolineare le diverse proprietà attribuite agli elaborati grafici nei brani nei quali illustra gli unici due «Teatri» della Villa. In particolare, nel Trattato, la questione è evincibile mediante la lettura comparata di due passi, dei quali nel primo, l’architetto è ben chiaro nell’affermare di aver stilato due diverse piante dello stato nel quale versavano i due teatri, «del quale habbiam fatto la pianta [Teatro dell’Accademia]; como anco di questo [Teatro Greco] »54, mentre nel secondo passo Ligorio demanda l’illustrazione del Teatro dell’Accademia alla ricostruzione del complesso rappresentata nella «pianta» generale, come sotteso anche dall’iniziale maiuscola del termine: «la forma sua come era si è posta nella Pianta »55.
50Il medesimo tema è affrontato anche nel Libro e, in questo caso, Ligorio si esprime senza lasciare adito a dubbi rispetto all’esistenza di disegni ortogonali che, pertinenti singoli complessi, sono redatti in pianta e in alzato: «Hordunque questo Theatro come era ne havemo fatta la pianta et il profilo della scena nella seguente pagina: acciò che si vede come era ornto et disposto »56. Entrambi i fogli successivi, però, sono per lo più lasciati in bianco, solo il 35v ha le prime due righe scritte, e ciò sottende che i disegni in pianta e in alzato esistevano, in attesa di essere passati in pulito. Si deve ritenere, pertanto, che se fossero stati inseriti, avrebbero avuto le medesime specifiche grafiche degli altri disegni simili contenuti nel Libro come, solo per citarne uno relativo a un monumento prossimo a Villa Adriana, quello del Sepolcro dei Plauzi a Ponte Lucano57, nel quale l’edificio è rappresentato in prospetto e sezione orizzontale (pianta) (fig. 16).
51Si concretizzano, quindi, le motivazioni alla base dell’insoddisfacente ricerca, tramandata nel tempo, della «pianta» ligoriana della Villa imperiale tiburtina: l’elaborato dell’architetto napoletano è da intendersi quale una veduta a volo d’uccello, ossia un disegno rapportabile alle due «piante» di Roma che lo stesso Ligorio aveva redatto e fatto stampare da Michele e Francesco Tramezzino nel 1552 e nel 1553. Piante, queste, che, come già discusso, Hülsen non manca di definire con una terminologia assai cruda, variabile tra «ben poca cosa» e «cosa ben povera per il disegno e per la grafica», ossia adottando locuzioni che richiamano molto da vicino quanto espresso dalla letteratura in merito alla pianta di Villa Adriana revisionata, per conto del cardinale Barberini, dall’architetto Arrigucci.
52Al ripercorrere tutto l’excursus storico per ora affrontato appaiono con chiarezza alcuni punti fermi a partire dall’assenza di una pianta generale redatta prima di Ligorio; è inoltre noto e documentato che Ligorio, a partire dal 1538, svolge indagini antiquarie nel territorio tiburtino58, che poco prima del 1550 il cardinale Ippolito II d’Este promuove scavi a Villa Adriana59 e che l’architetto napoletano, al tener fede a quanto trasmesso dai documenti dell’archivio estense, conduce tali scavi a partire dalla fine dello stesso anno.
53Si deve pertanto dedurre che Ligorio, nel 1550, oltre a scavare, studiare e annotare la Villa imperiale tiburtina, continua il lavoro di vedutista intrapreso a Roma che completa stampando, nei due anni successivi, le sue prime due «piante», o vedute, della città. Non è tra l’altro da trascurare che, nel 1555, in seguito all’accusa di simonia di Paolo IV contro il cardinale Ippolito II e al forzato allontanamento di quest’ultimo da Tivoli60, Ligorio interrompe le attività tiburtine per circa 11 anni, riprendendole alla fine del 1566, poco prima del definitivo trasferimento a Ferrara61 e che, proprio nel corso degli anni dell’intenso lavoro romano, riesce a portare a termine, stampandola nel 1561, la terza e ultima sua veduta di Roma, l’unica, come prima visto, a essere stata concepita partendo da una base cartografica62 e illustrativa del completo, e talora fantasioso, assetto antico della città.
54Tutte queste indicazioni si rendono particolarmente utili quando analizzate in relazione agli scritti nei quali Ligorio trasmette le sue informazioni in merito a Villa Adriana e, di conseguenza, alla «pianta» da lui tracciata. A tal proposito, la letteratura è concorde nell’indicare che il Descrittione, peraltro assai scarno e limitato in merito ai riferimenti antiquari rispetto agli altri due lavori, sia stato scritto nel corso del primo periodo trascorso da Ligorio a Tivoli, alle dipendenze del cardinale d’Este, ossia entro il 1555, mentre il Trattato, nel quale le numerose citazioni e i riferimenti antiquari che vi compaiono sono indicatori di uno studio più maturo e riflessivo, condotto sulla base di ulteriori informazioni acquisite mediante l’implementata conoscenza dell’architettura romana, è certamente successivo.
55Noto che Ligorio tra il 1550 e il 1553 è impegnato anche nell’elaborazione delle due prime «piante» di Roma, è inizialmente possibile pensare che la stesura iniziale del Trattato sia databile attorno al 1556, ossia all’incirca nel periodo del forzato termine degli scavi che, incaricati da Ippolito d’Este, «col suo stipendio »63, l’architetto conduce nell’area della Palestra e del Teatro Greco, nonché eseguiti «quattr’anni a dietro »64 rispetto a quando scrive il Trattato.
56Al leggere quanto Ligorio scrive nel Libro e, in particolare, quando indica che gli scavi nella Villa risalgono a «quattordici anni sono »65, nell’immaginare che i 14 anni facciano riferimento al termine della prima campagna di scavo, ossia al 1555, si otterrebbe che la stesura del Libro sia stata intrapresa tra il termine del periodo «romano »66 e l’inizio del periodo ferrarese, ossia all’incirca nel 1569.
57Tutto ciò, tra l’altro, quando associato alla certezza che il Libro fa parte del materiale che Ligorio possiede a Ferrara, che il manoscritto è indubitabilmente un lavoro in pulito ma non terminato67, frutto della trascrizione di originali eseguita a più mani, e che, infine, benché il tracciato narrativo segua una struttura simile a quella dei precedenti testi, la trattazione è estremamente più ricca, complessa e articolata – sia in merito alla quantità di dati archeologici, sia per i richiami antiquari – occorre ritenere che la stesura in pulito dell’opera debba essere pienamente riferita al periodo ferrarese.
58Ultima, ma non l’ultima, è l’informazione che perviene dai testi ora a Napoli, acquistati dal cardinale Farnese nel 1566, nei quali si dice della pianta della Villa come già eseguita, «laove mostro la sua pianta».
59A fronte di tali indicatori, pertanto, le informazioni trasmesse da Ligorio in merito alla «pianta» della Villa sono tutt’altro che contradditorie, come invece attestato dalla letteratura: se, infatti, nel Descrittione Ligorio suggerisce che la «pianta» è un disegno ricostruttivo dell’antica realtà costruita e che è un elaborato previsto, in divenire, ossia che non è stato ancora stilato, nel Trattato, nel codice napoletano e nel Libro Ligorio indica sempre la pianta generale come conclusa.
60Da tutto ciò è possibile pensare, innanzi tutto, che l’iniziale elaborazione della ligoriana «pianta» di Villa Adriana deve essere collocata a partire dal 1554, ossia solo un anno dopo la stampa della «piccola pianta archeologica» di Roma. Al ricordare che Kircher, nella nota da lui stesso rinvenuta nell’Archivio Tiburtino, legge che l’elaborato ha richiesto un intero anno di lavoro penoso, qui annuo pene spatio, si deve ritenere, però, che solo tra il 1566 e il 1569, (durante l’ultimo periodo tiburtino, quando porta a termine tutti i lavori intrapresi per il cardinale Ippolito II prima di partire per Ferrara), Ligorio abbia avuto a disposizione un «penoso anno» per il completamento, certamente assai difficoltoso e frettoloso, dell’elaborato, inserendovi anche gli aggiornamenti indotti dagli scavi susseguitesi dopo il 1555.
61Se a ciò si aggiunge che nel 1559 l’inquisizione, per volontà di Paolo IV Carafa, sequestra nella villa tiburtina estense un «libro di dissegni coperto», si potrebbe anche ritenere che i disegni contenuti in tale libro siano stati proprio quelli ligoriani, tracciati per l’esecuzione della pianta. In tal caso, quindi, si giustificherebbero le ragioni per le quali l’architetto riprende l’elaborazione della pianta solo nel corso del suo ultimo soggiorno tiburtino e, a latere, si potrebbero anche motivare le ragioni dell’assenza dei disegni nel Libro. In ogni caso tutto reca a ritenere che la veduta, già da tempo prevista e abbozzata, debba aver fatto parte delle opere che, commissionate dal cardinale Ippolito d’Este, Ligorio avrebbe dovuto completare prima della definitiva partenza per Ferrara; è assolutamente realistico, inoltre, pensare che, in considerazione del breve arco di tempo a disposizione e dell’esperienza condotta per la redazione delle prime due piante di Roma, la veduta sia stata redatta non già a partire da una pianta ortogonale e desunta da un rilevamento completo del sito, bensì dall’insieme «ricucito» a memoria delle singole piante di edifici tracciate durante gli anni del precedente, e continuativo, soggiorno tiburtino.
62Accettando, quindi, che la veduta sia stata redatta a partire da una sorta di puzzle di singole piante, consegue che l’operazione di assemblaggio sia stata fortemente, e negativamente, influenzata dalle caratteristiche proprie delle immagini mentali che Ligorio struttura durante le personali esperienze in sito; condizione, questa, che permetterebbe di giustificare appieno la letteratura quando definisce le descrizioni attualmente leggibili nei codici ligoriani quali un «apparente disordine espositivo »68. D’altro canto, già nelle vedute di Roma e, in generale, in molti disegni di Ligorio, come più volte sottolineato nella letteratura, si evince che l’architetto napoletano adotta con molta disinvoltura le sue immagini ideative trasponendole in forma grafica e, quindi, realizzando disegni spesso poco riconoscibili, talora tanto poco credibili da implicare una forte componente immaginativa. Quando, poi, come nel caso di Villa Adriana, la rappresentazione è condizionata dall’inserimento di una congerie di disegni di edifici che, ancora parzialmente in elevato, sono singolarmente riconoscibili solo sulla base delle specifiche tipologiche caratterizzanti, e di disegni di edifici totalmente derivanti dalle immagini retrocettive che Ligorio conforma nel tempo (a partire dalle informazioni dedotte nel corso degli scavi), e il tutto è inserito assecondando una disposizione spazio-planimetrica ottenuta dalla combinazione tra immagini ideative e retrocettive, si riesce a formulare un’idea complessiva della scarsa qualità della veduta, in particolare se esclusivamente osservata in funzione della riconoscibilità dei luoghi rappresentati. Per ottenere ulteriori verifiche in merito a tale «pianta», però, si rende necessario analizzare ulteriori informazioni, spesso trascurate dalla letteratura, pertinenti due vedute a volo d’uccello di Villa Adriana.
Notes de bas de page
1 De Seta 1998, p. 7.
2 La definizione delle categorie è stata inizialmente proposta da Skelton 1965, e in seguito rivista da Nuti 1994, p. 105-128 e Nuti 1996, p. 133-64 e, ancora, da De Seta, 1998, p. 15.
3 Folin 2010, p. 11.
4 De Rossi 1879 e Hülsen 1915.
5 Schulz 1990, p. 16.
6 De Seta 1996, p. 96.
7 De Seta 1998, p. 15.
8 L’arte della memoria classica costituisce una delle basi prioritarie che, a partire da medioevo, regola la strutturazione dei mappa mundi, proprio a fronte dell’affinità tra i loci menmonici, luoghi geografici e architettura; cfr. Perugini 1984 e Mangani 2012, p. 20. A tal proposito Schulz 1990, p. 56, riporta una brano tratto dall’Incipit del Totius orbis divisio di Fra Paolino Minorita, (ca. 1340), Sine mapa mundi ea, que dicuntur de filiis ac filiis filiorum Noe et que de IIII or monarchiis ceterisque regnis atque provinciis tam in divinis quam humanis scripturis, non tam difficile quam impossibile dixerim ymaginari aut mente posse concipere. Requiritur autem mapa duplex, picture ac scripture. Nec unum sine altero putes sufficere, quia pictura sine scriptura provincias seu regna confuse demonstrat, scriptura vero non tamen sufficienter sine adminiculo picture provinciarum confinia per varias partes celi sic determinat, ut quasi ad oculum conspici valeant.
9 Conservato nella copia dell’opera appartenuta allo stesso Schedel, attualmente nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, cfr. Mangani 2005, p. 20.
10 Foresti 1483, l, VIII, p. 158. Nelle edizioni successive e volgarizzate (pe, Foresti 1508), al fianco della vignetta raffigurante Tivoli è specificato che si tratta di «Tiboli over. Tivoli, nel paese de Latini, città degna in questi tempi fu edificata da Adriano Imperatore come scrive Helio Spartiano historico, con grandissima spesa, & fece d’una villa un castello & poi una degna città» . Il disegno apposto per illustrare la dicitura non ha corrispondenze con la forma e le caratteristiche della città tiburtina ma, nell’insieme degli edifici recinti da mura, risaltano numerose rovine, quasi a sottendere che si tratta di un sito archeologico abbandonato ( «Tivoli vecchio»). Dalle prime edizioni illustrate dell’opera si nota, inoltre, che la medesima raffigurazione spettante a Tivoli appare per denotare l’antica città di Troia, ossia un immaginario (all’epoca) sito archeologico. Informazioni pressoché simili sono in Schedel 1493 e, anche in questo caso Tivoli è definita Tiburtina latine regionis civitate que odie vetus tibur appellat e la vignetta che accompagna la descrizione è adottata anche per l’illustrazione di altre città antiche, talora dirute o scomparse, tra le quali Troia (f. 36) e Anglia (f. 288).
11 L’identificazione del sito archeologico con i resti della Villa imperiale voluta da Adriano era stata già acclarata da Biondo 1474, all’incirca un secolo prima degli anni delle attività ligoriane nell’area tiburtina.
12 Sacchi 1485, che scrive solo due anni dopo la prima pubblicazione dell’opera di Foresti; giova sottolineare che Ligorio conosce perfettamente Platina, tanto che lo scredita per alcuni errori che avrebbe commesso; cfr. Occhipinti 2007, p. LI; Vagheneim 2012, pp.173-176.
13 Cardulo 1588, p. 133. Si tratta di un testo assai diffuso tra gli studiosi della storia tiburtina, nonché della Villa imperiale, in quanto riporta l’episodio del martirio di S. Sinforosa e dei suoi figli, avvenuto in ambito tiburtino e attribuito a una personale decisione di Adriano.
14 Ibid., p. 133.
15 Ibid., p. 97, 98.
16 Lanciani 1902-1912 (1903, II), p. 118.
17 Torino, Bibl. Reale, Cod. Saluzziano 148, f. 88v; cfr. Maltese, Maltese Degrassi 1967.
18 Milano, Bibl. Ambr., Cod. Atl., f. 618v; cfr. Pedretti 1957, p. 40, n. 15. Con riferimento ai disegni di Leonardo a Villa Adriana, Cinque 2006, p. 146; Adembri, Cinque 2012, p. 35, n. 44.
19 Firenze, Uffizi, Arch. 1945. Già attribuito a Jacopo Tatti (Sansovino); cfr. Bartoli 1919, 4, t. CCCLVIII, fig. 628; 6, 1924, p. 112 per il commento. Per i disegni di Giuliano da Sangallo, Barb. Lat. 4424, cfr. Hülsen 1910 e von Fabriczy 1902. Nel caso del disegno con i sepolcri, l’autore indica con il toponimo «Tighcoli» sia il luogo in cui è palazzo vescovile di Tivoli, sul cui prospetto si trovavano i due cd Telamoni provenienti da Villa Adriana, sia la località, prossima alla Villa imperiale tiburtina, nella quale erano i tre sepolcri raffigurati in prospetto.
20 Egger 1903, pp. 73-77; p. 74 per il f. 301r e f. 305r, la pianta delle cd Piccole Terme nella quale è scritto «a tigoli vechio varco (?) d’adriano»; altri disegni hanno per oggetto la pianta della cd Biblioteca Greca, nella quale è scritto «A Tivoli vechio a chanto di quella trabacca granda»; cfr. Valori 1985, p. 59-60.
21 Bertelli, 1599, f. 94v: Tibur venusta la urbs vulgo Tivoli.
22 Braun 1572- 1578, III, t. 52; la raccolta è ideata sulla traccia del Teatrum Orbis Terrarum, opera con la quale Abraham Ortelius aveva divulgato una considerevole serie di mappe geografiche.
23 Il gesuita Franz Schott (o Scotus, o Scoto) pubblica nel 1600 il suo Itinerarium Italiæ al fine di fornire un’esaustiva guida ai pellegrini che si recano a Roma in occasione dell’Anno Santo. L’opera, come affermato dallo stesso Schott, deriva dall’unione di lavori precedentemente prodotti da più autori, tra i quali anche Leandro Alberti, ed è subito particolarmente apprezzata dal pubblico tanto che inizia immediatamente a essere riedita con periodica regolarità, fino al 1761, nelle tre traduzioni principali (italiano, francese ed inglese).
24 Il disegno del pergolato appare anche nella prima edizione romana, del 1650, stampata da Filippo De Rossi e contenente la mappa dell’Italia e le diciannove carte relative a varie città italiane.
25 Schott 1672, III, p. 644. Nota la derivazione dell’itinerario di Schott da quello di Alberti, all’epoca tra i più utilizzati quale guida di viaggio e traccia per la redazione di vedute, giova riportare anche la descrizione contenuta in tale testo, Alberti 1551, p. 122, «Scendendo da Tioli, sotto quello, però non molto discosto, appareno molte antichità di marmo, fra le quali un un Lione e un Cavallo [...] Quindi non molto lontano a man sinestra circa le radici d’un monte, se dimostrano grandi rovine della Villa Tiburtina» .
26 A partire dalla seconda edizione, Vicenza 1601, Schott intraprende una collaborazione con Bertelli che proseguirà nel tempo, tanto che in alcune edizioni più tarde, all’incirca edite dal 1642, viene espressamente esplicitata nel titolo dell’opera: Nuovo itinerario d’Italia di Andrea Scoto diviso in tre parti. Illustrato con le figure delle città e fortezze e d’altre singolarità degne di perpetua memoria da Fran.co Bertelli.
27 Indicati da Ligorio quali il Prisattaneo di Villa Adriana, tali resti appaiono in tutte le piante antiche della Villa e il loro riconoscimento quale nucleo indipendente dall’area imperiale si deve a Baddeley St Clair 1906, poi studiato e divulgato da Lanciani 1899.
28 Ligorio, Libro, f. 59r; una descrizione simile si legge anche nel Trattato, Barb. Lat. 4849, f. 8v «poeti ne dissero bene, non so cosa havessero detto della Villa Adriana vedendola, la quale vinceva tutti li sette miracoli del mondo delle fabriche, e quanti doppo quelli ne furon fatti, cosa da porgere spavento a tutte Le cose fatte per grandezza e per sontuosità, percioche d’ornamento, e di grandezza non ebbe mai pari alcuna» .
29 T. Tasso, A’ Seggi ed al Popolo Napolitano Torquato Tasso figliuolo di Bernardo Tasso e di Porzia Rossi, in Muratori 1739, p. 375, lettera 182. Si tratta di una delle suppliche che Tasso scrive dopo essere stato rinchiuso in carcere per aver inveito contro il duca Alfonso d’Este il giorno del matrimonio con Margherita Gonzaga.
30 Hülsen 1915, p. 30.
31 Si tratta di una generalizzazione molto schematica; per indicazioni più dettagliate cfr. Guidoni 1990; M. Fagiolo, 2012, p. 22, 61; Nuti 2012, p. 96-107.
32 La cui produzione nei secoli precedenti è descritta da De Rossi 1879.
33 Hülsen 1915, p. 30, 41, 43.
34 Burns 1988, p. 48.
35 Come si legge in alcuni documenti relativi alle fortificazioni di Borgo (pe. Die 12 aprilis 1548. Locatio pro magistro leonardo Ioannis Petri Bufalini de Udeno fabro lignario) trasmessi da Lanciani 1902-1912 (1903, II), p. 104-106. Per un quadro delle attività di Bufalini: Ehrle 1911, p. 19 e Hülsen 1915, p. 13.
36 Panvinio afferma che Bufalini avrebbe impiegato 20 anni per rilevare la città e disegnarne la pianta; il lavoro sarebbe iniziato, quindi, circa dieci anni dopo la morte di Raffaello; cfr. Ehrle 1911, p. 20. Il lavoro di Raffaello, intrapreso negli anni durante i quali l’artista è Commissario alle antichità, deriva dalla volontà di testimoniare il patrimonio archeologico che, negli stessi anni, è vittima di un progressivo annullamento per spoliazione e demolizione. L’opera, mai completata e i cui disegni, e lastre, andarono persi durante il sacco di Roma del 1527, doveva essere organizzata in più tavole, ciascuna redatta con riferimento a un periodo della Roma antica, fino ad arrivare alla rappresentazione di quanto «oggidì si vede», come traspare da quanto scrive lo stesso autore: «Essendomi adunque comandato da vostra Santità, che io ponga in disegno Roma antica, quanto conoscere si può, per quello che oggidì si vede, con gli edifici che di se dimostrano tali reliquie, che per vero argomento si possono infallibilmente ridurre nel termine proprio come stavano, facendo quelli membri che sono in tutto rumati ne si veggono punto corrispondenti a quelli che restano in piedi e si veggono […] e benché io abbia cavato da molti autori latini quello che intendo di dimostrare; però tra gli altri principalmente ho seguitato»; cfr. Visconti 1840, p. 19-20; Lanciani 1894b, p. 781-804; Venturi 1918, p. 57-65; Bartoli 1920; Giuliano 2000, p. 23-24.
37 Si tratta di una grande pianta stampata (nella prima riedizione del 1561) su 12 fogli (ciascuno di 49.5x35cm) e quattro strisce (ciascuna di 49.5x13.2cm), per un totale di 1.98x2.04m; la rappresentazione, ortogonale, privilegia le connotazioni orografiche e omette la consistenza edilizia del tessuto residenziale minore, tanto che è possibile individuare la ripartizione degli isolati urbani solo attraverso i tracciati viari. Le eccezioni sono costituite dalla presenza di ruderi e degli ingombri planimetrici degli edifici di maggiore rilievo. La parte didascalica è redatta sia in italiano che in latino. Dopo i dieci anni previsti dal privilegio della prima pubblicazione, oggi scomparsa, la pianta è stata oggetto di ristampa nel 1561 e di una riedizione, ridotta, a cura di Nolli, Urbis Romæ ichnographia a Leonardo Bufalino formis evulgata atque æri incisa a Joh. Baptista Nolli geometra et architecto sumi Pontificis Benedicti XIV recusa, Norimbergæ 1755; in età moderna è stata riproposta da Beltrani 1880, p. 36-40; Ehrle 1911; Bevilacqua 2012, p. 61, 94; per l’inquadramento storico della pianta bufalianana: Spagnesi 2002, p. 69-120.
38 Per la descrizione più accurata del metodo di rilevamento e degli errori di misurazione riscontrati nella pianta: Ceen 2012, p. 128-133; Maier 2012, p. 116-127.
39 Zaccaria 1785, Dissertazione I, CCXXVI, p. 104-105.
40 Marliani 1544, p. 2; l’opera è una riedizione, riveduta e corretta, del Antiquæ Romæ topographia libri septem, che lo stesso Marliani aveva pubblicato, senza illustrazioni, a Roma nel 1534.
41 Hülsen 1915, p. 30.
42 Maier 2005, p. 6.
43 Hülsen 1915, p. 30.
44 Edita nel 1560, allo scadere del privilegio, da Antonio Trevisi.
45 Hülsen 1915, specifica che sono «otto di 0.38 × 0.37 e quattro di 0.50 × 0.37» .
46 Ibidem, p. 32; anche Fagiolo 2012 e Bevilacqua 2012.
47 A tal proposito Lelio Bonfioli, «Ritratto overo profilo della città di Bologna dissegnato alla veduta fra mezo dì et occidente sotto la loggia de RR. monaci cassinensi alla Madonna del Monte fuori della porta di S. Mamolo», 1636, scrive chiaramente che lo scopo di una veduta è quello di esaltare la riconoscibilità del soggetto rappresentato: «Perchè fu sempre ò debolezza di consiglio ò temerarietà d’arroganza l’applicar l’animo all’impossibile Io hò procurato di sottrarmi alla nota di mal consigliato, e di temerario, mentre scorto dal parere dè più saggi pubblico questa mia fatica, Ritratto della Città di Bologna, in una di quelle maniere, che l’occhio può vedere. Il farlo in Pianta saria stato un dilettarmi nell’impossibile et un soddisfare all’immaginazione più che alla vista. Non cošistono ritratti delle Città nelle Piante loro à proposito a chi le volesse mirare, o altre simili fabricare, ma nel rapresentarle tali quali l’occhio da una determinata vista le può vedere. Ho faticato alla curiosita dell’occhio umano, che facilmente et appieno potrà appagarsi del riscontro, e risoluto di anteporre la realtà all’imaginatione nō hò negato il senso a attenermi à fintioni, anco probabili» .
48 Napoli, Bib. Naz., ms. XIII B7, f. 184; cfr. Vagenheim 2008, p. 79.
49 Trattato Dell’Antichità di Tivoli e della Villa Adriana fatto da Pirro Ligorio patrizio Napoletano Rom°: e dedicato All’Illmo e Revmo Cardle di Ferrara, BAV, Barb. Lat. 4849, ff. 9r-9v. Il medesimo testo appare, con minime modifiche, anche nel Vat. Lat. 5295, trascritto con una grafia meno accurata; in seguito si farà sempre riferimento al Barb. Lat. 4849, indicandolo solo quale Trattato.
50 Trattato, ff. 14r-14v; la medesima indicazione, «che havemo fatta di tutta la Villa», sempre a proposito di Piazza d’Oro, si ritrova nel Libro, o Vero Trattato dell’Antichità. XXII. di Pyrrho Ligorio, Patrizio Napolitano, et Cittadino Romano, nel quale si dichiarano alcune famose ville et particolarmente dell’antica città di Tibure et di alcuni monumenti», AST, Ja.II.7, v. XX, L. XXII, f. 37r. Successivamente lo si indicherà solo quale Libro.
51 Libro, f. 50r.
52 Ibid., f. 40r.
53 Ibid., f. 38r. Il termine «pianta», quando inteso esclusivamente nell’accezione di disegno planimetrico e ortogonale, ha indotto la letteratura a rilevare «incongruenze» nei due brani citati; cfr. Ten 2005, p. XV, «Da sottolineare inoltre come nel resoconto relativo al ‘Canopo’ la planimetria è ricordata una prima volta come esistente e una seconda in corso di realizzazione. Su queste incongruenze è verosimile pensare che, nonostante le buone intenzioni, Ligorio non sia effettivamente riuscito a portare a termine la documentazione grafica della Villa; va del resto tenuto presente che un lavoro condotto in quello che possiamo immaginare come un enorme cantiere fosse soggetto ad aggiornamenti continui legati, appunto, ai dati che progressivamente emergevano attraverso lo scavo» .
54 Trattato, f. 13r, «si vede un gran Teatro [Teatro Greco] con quattro altri alloggiamenti, con Portici a torno fabricati, ove è la possessione di Brucicola [sic] detti. Nel Teatro essendosi cavato, come sa VI Mma col suo stipendio haveo veduto li suoi podij della Cavea, donde sedevano gli spettatori, l’orchestra dove si saltava, la parte della stona [scena] dove si recitava il proscenio col pulpito et i luoghi delli Cori come erano nell’altro Teatro del quale habbiam fatto la pianta; como anco di questo»; come più volte correttamente riscontrato dalla letteratura, le due copie del Trattato conservate nella BAV, Barb. Lat 4849 e 5295, sono opere di trascrittori postumi che, tra l’altro, spesso copiano male, come nel caso del nome del proprietario dell’area, «Brucicola», che riappare quale «Bucciola» nel f. 13v e nel Vat. Lat. 5295.
55 Ibid., f. 22r.
56 Libro, f. 35r.
57 Ibid. f. 64v-65r.
58 Ibid., f. 67v, «Quantunque quest’acque [Albule] siano presso gli antichi state, in gran stima, sette cento e più anni sono né stato spesso affatto l’uso della sua medicina; eccetto che da pochi anni inqua, anzi pochi mesi, per mia cagione sono cominciate adoperare, havendo innscritto pubblicata la sua antica riputazione: ma solo se ne servono in certe forme di rogna, del che noi ne parlammo in Tivoli a M: Girardo Thedesco Medico di Tiburtini nell’anno della natività Del Redemptore et signor nostro mille cinquecento trentotto nel quale havevamo raccolto insieme l’antichità di Tivoli» .
59 Probabilmente sulla memoria di quanto rinvenuto nel corso degli scavi fatti eseguire dal nonno, il papa Borgia. Con riferimento alla data d’inizio degli scavi del cardinale Ippolito, Venturi 1890, p. 197, indica che «nella nota dei salariati del cardinale (1550) trovasi il nome di mastro Pietro antiquario, e quelli di operai impegati nelle cave (Registro sudd). Il cardinale già abitava a Roma, e il fratello, duca Ercole I gli chiedeva una statua d’Ercole trovata, insieme con una Venere senza capo e un’altra statua, negli scavi da lui fatti eseguire a Tivoli» .
60 Tutto dipende dalla volontà di Ippolito II di concorrere all’elezione al soglio pontificio; cfr. Pacifici 1920b, p. 165; Coffin 2003, p. 15.
61 Coffin 2003, p. 107, indica che la presa di servizio quale antiquario a Ferrara avviene il 1° dicembre 1568 anche se alcune note di pagamento emesse dal cardinale Ippolito nel febbraio, aprile e giugno del 1569 lasciano intendere che l’architetto abbia continuato a lavorare per il precedente committente almeno fino al giugno di quell’anno, come d’altro canto, si è già avuto modo di verificare.
62 Come già discusso, infatti, solo quest’ultima pianta dimostra la sensibilità «topografica» che Ligorio acquisisce nel corso del periodo «romano», riscontrata anche da Baglione 1642, p. 9, «Dilettossi di antichità, e ridusse in carte molte fabbriche vecchie di Roma, e altri luoghi del Mondo, e fu gran Topografo. Habbiamo la sua Roma in grande eccellentemente rappresentata» .
63 Trattato, f. 13r; Coffin 2003, p. 104, ascrive già al 1550 il rinvenimento di numerose statue.
64 Trattato, ff. 13r-13v.
65 Libro, f. 36v.
66 Benché le campagne di scavo svolte nell’area in questione per conto del cardinale d’Este siano state due, delle quali la seconda è attestata dai pagamenti avvenuti nell’ottobre e nel novembre del 1560, cfr. Coffin 2003, p. 104, Ligorio è ben chiaro nell’affermare che la campagna di scavo cui fa riferimento nel Trattato e nel Libro è la prima, durante la quale, come appare nel Descrittione, furono rivenuti «li Basamenti e Nicchi di Statue di numero quaranta» .
67 Come pienamente dimostrato dall’assenza di disegni richiamati nel testo; cfr., pe, il caso dei fogli 23v e 24r, pertinenti la descrizione della «Villa di Augusto», prevalentemente lasciati in bianco (sono scritte solo quattro righe su ciascuno), al fine di dare spazio alla sottostante e «presente pianta» .
68 Ten 2005, p. XIII. Giova solo accennare che queste caratteristiche, quando analizzate in base alla trattatistica scientifica di pertinenza, sono condizionate da un disordine tutt’altro che apparente in funzione della loro dipendenza dall’intima e personale elaborazione mentale degli stimoli visivi provenienti dal mondo fenomenico, e comprendono anche le immagini ideative (frutto della combinazione tra informazioni visive, che confluiscono nel personale repertorio mnemonico a lungo termine, e immagini indotte dall’immaginazione) e, infine, le immagini retrocettive (definibili quali immagini percettive memorizzate), cfr. Bianca, 2009; in particolare, cap. 1.5, «Tipi di immagini», p. 180, 193.
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