L’origine della questione Ligorio-Contini
p. 5-38
Texte intégral
Le testimonianze
1Come diffusamente ritenuto, il volume Adriani Caesaris immanem in Tiburtino villam…, comprensivo sia della pianta di Villa Adriana, sia della legenda della stessa (Dechiaratione Generale), dedicato da Contini al suo mecenate, il cardinale Francesco Barberini, fu a lungo tempo ascritto a Pirro Ligorio e tale erronea attribuzione, seguendo l’indagine condotta da Salza Prina1, avrebbe origine da Kircher che, nella seconda delle due parti del suo Latium dedicata alla Villa imperiale tiburtina, più volte richiama l’architetto napoletano2 attribuendogli la paternità dell’opera originale.
2Benché, come accennato, l’illustrazione delle vicende concernenti le rappresentazioni planimetriche della Villa abbia costituito un argomento frequentemente trattato nella pubblicistica anche attuale3, la tesi sviluppata da Salza Prina, tendente a dimostrare l’assoluta inesistenza di una pianta ligoriana, è stata uniformemente adottata con la sola, e recente, opposizione di Vagenheim4 che, attraverso una ulteriore lettura delle fonti, impone una seria riflessione.
3Al seguire il lavoro di Salza Prina si deduce che l’origine della controversia Ligorio-Contini dipende prevalentemente da quanto appare nel cartiglio della pianta della Villa Adriana pubblicata da Kircher, laddove il gesuita richiama Ligorio quale autore della pianta e Contini quale revisore e autore della descrizione:
Villæ celeberrimæ ab Adriano Caesare in Agro Tyburtino extructæ vera et exactissima Ichnographia ab Pyrrho Ligorio olim postea a Francisco Contini recognita et descripta jussu Eminentissimi Francisci Card. Barberini.
4Tale posizione, d’altro canto, era già stata a lungo adottata da quanti si erano occupati dell’argomento, validando l’asserzione di Kircher con alcune frasi che Ligorio scrive nei suoi trattati di tema tiburtino, nelle quali l’architetto dichiara la sua intenzione di voler redigere una pianta, come nel caso del Descrittione5,
Hora quel che restarebbe dà raccontare dell’altre cose guaste, che sono presso al Lyceo, sono infinite materie di Casamenti, i quali per la deformazione sua fatta da Christiani, non se ne ritrhae cosa certa del suo ornamento, mà come le Piante loro fossero, le disegnaremo al meglio, che si potrà, col dimostrarle nella PIANTA.
5ovvero l’avvenuta redazione di tal elaborato, come si legge nel Libro.
6Certo è che al leggere l’opera di Contini non appaiono riferimenti in merito a Pirro Ligorio, a meno di minime citazioni6 pertinenti indagini svolte dall’architetto napoletano in specifici luoghi della Villa.
7Nella dedica a Francesco Barberini7, inoltre, Contini afferma rigorosamente l’originalità del suo lavoro, sottolineando le enormi difficoltà incontrate con termini che sottendono qualche sorta di problema precedentemente occorso col suo committente:
Sono già due anni, che V.E. m’honorò commandarmi, ch’io facessi la Pianta della Villa Adriana: mi accinsi all’Opera, animato più dall’ardore di servirla, che atterrito dall’impresa molto malagevole. Mi conferij nel luogo: osservai quel sito esser un Colle circondato da valli di circuito di sei miglia, e viddi la maggior parte di quelle anticaglie si fattamente atterrate, e coperte dalle ruine, che non si scorgevano i loro fondamenti, anzi la più parte d’esse erano sopraffatte di macchie foltissime e spinose. Tali asprezze mi palesarono la difficoltà, che havrei trovato in ridurle in Penna. Non mi sgomentai nondimeno, tanto mi premeva l’accreditarmi l’appresso il mondo, col palesarmi d’haver servito à V.E. Cominciai a far cavar terra per trovar i fondamenti: feci recider gl’intoppi, che m’impedivano, e più volte calai in varij pozzi & aperture, che scopersi in quelli scoscesi, e per quelle vigne. Questa diligenza mi hà poi anco fatto scoprire alcune strade sotterranee, per le quali si và al coperto da un luogo all’altro di detta villa, come si vedono disegnate nella Pianta, che finalmente hò levata con quella esattezza, che hò potuto, rispetto al luogo reso horamai dal tempo per ogni parte manchevole. Gradisca V.E. anzi riceva per sua, essendo nata dal suo benignissimo cenno, il quale m’ha fatto superare in essa le difficoltà, che parevano insuperabili, degnandosi di riconoscere nella medesima la divota mia servitù che le professo.
8Benché, come leggibile, Contini in nessuna parte del testo richiami Ligorio e, anzi, si dichiari, sempre e pienamente, unico artefice dell’intero lavoro, Kircher, solo un anno dopo l’edizione a stampa della pianta continiana, afferma con fermezza la stesura di una precedente pianta eseguita da Ligorio e tale credo si trova espresso in più brani del Latium, a partire dal capitolo III, dedicato alla «Celeberrima Villa Hadriani Imperatoris in Agro Tiburtino» . In particolare, al capo I, si legge:
Fuerunt autem cumplures, qui tantæ frabricæ admirationes suspendi, ingentibus laboribus ejus descriptionem aggressi sunt; quos inter primus sanè locum obtinet Pyrrhus Ligorius Architectus & antiquarius, jussu Seren.mi Hippolyti Card.lis d’Este, Gubernatoris perpetui Tyburtini; qui eam ex ruderibus erutam graphicè sanè delineavit; quem potesteà secuti sunt Antonius Nicodemus, Antonius del Rè, Franciscus Martius, Antiquarii Tyburtini; quos ego sectus singulis annis eò Autumnalium seriarium tempore prosectus, unam ex tota fabrica partem examinandam suscepi: quo quid praestiterim, hic curiosi Lectoris oculis exponendum duxi,
9e al capo II, nel paragrafo Partem singularum descriptio, Kircher specifica chiaramente che le sue informazioni sono provate da un documento da lui stesso rinvenuto nell’archivio tiburtino:
Tametsi ego omni diligentia, cura & sollicitudine ad cognoscendam exactam hujus villæ distributione incubuerim, quia tamen tempus & otium desuit, quominus in tanta rerum varietate, quam non nisi vasti ruinarum ruderumque acervi exhibent, penitùs exploranda, meæ curiositati satisfacere possim, hinc quicquid in Archivis Tyburtinis reperit licuit, studiose evolvi, & inter cætera Pyrrhi Ligorii Architecti & Antiquarii celeberrimi, qui annuo pene spatio jussu Serenissimi Principis Hippolyti Card.lis d’Este Gubernatoris Tyburtini, non exiguis sumtibus, ad veram hujus villæ constitutionem singularumque partium distributionis notitiam, indefesso studio pergit, cujus & delineationem in mappa expressam, quantum rei obscuritas ipsi permisit, exhibuit cum singularum partium quàm fusissima explicatione; que & in hunc usque diem in gazophylacio Francisci Card.lis Barberini ad perpetuam rei memoria conservatur. Quamuis & Antonius Nicodemus, & Antonius del Rè, Antiquari Tyburtini, suam quoque operam non sine emolumento contulerint.
10Forte delle sue conoscenze, pertanto, Kircher ha modo riaffermare la sua opinione alla fine del paragrafo III, De reliquis partitionibus Villæ, que sunt Infernus, Campi Elysii, Prytaneum, quando scrive:
Jam vero nihil aliud superest, nisi ut post singularum partium expositionem totius Villæ ab Adriano in tyburtino agro incomparabili magnificentia exstructæ ichnographiam hic appositam luculentius contemplemur. Hanc Eminent.mus Franciscus S.R.E. Card.lis Barberinus, multorum Literatorum deprecatione impulsus, primus novo ausu in Reip. Lit argumentum ornamentum partim ex Pyrrhi Ligorii Architecti delineatione, olim jussu Card.lis Hippolyti Estensis peracta, compilatam partim opera & studio Francisci Contini viri rerum antiquarium peritissimi denuò ad includem reductam nova dimensione emendatam omnibusque numeris tandem absolutam aeri incidit curavit, ta exacta cura & diligentia, ut ad ejus perfectionem nihil amplius accedere posse videatur; quanm & huic praesenti Latii operi inferi jussit.
11Riassumendo le informazioni trasmesse da Kircher, come ha modo di sottolineare anche Vagenheim8, lo studioso gesuita dichiara d’aver lui stesso letto un documento conservato in Archivis Tyburtinis, nel quale è ben indicato che Pirro Ligorio, per ordine di Ippolito d’Este e nel corso di un solo e faticosissimo anno, qui annuo pene spatio, redige una pianta della Villa, delineationem in mappa expressam, accompagnata da un commentario molto dettagliato, e che tale pianta si trova tra le rarità gelosamente custodite, perpetuam rei memoria conservatur, nel palazzo romano del cardinale Francesco Barberini. Quest’ultimo, sempre al seguire Kircher, a fronte delle pressanti richieste rivoltegli dagli eruditi dell’epoca, realizza il desiderio del cardinale Ippolito II d’Este facendo incidere il disegno di Ligorio non prima di aver incaricato l’eccellente Francesco Contini, viri rerum antiquarium peritissimi, di completare, correggere e ridurre le dimensioni dell’elaborato, denuò ad includem reductam nova dimensione emendatam, al fine di redigere una pianta esatta, perfectionem nihil amplius accedere posse videatur.
12Kircher, quindi, non solo è assai deciso delle informazioni in suo possesso, ma è anche particolarmente elogiativo nei confronti di Contini, che revisiona la precedente pianta con exacta cura & diligentia e ne redige una nuova di assolutamente accurata.
13Con riferimento ai primi tre autori che Kircher cita per averne attinto bibliograficamente – Marco Antonio Nicodemi, Antonio Del Re e Francesco Marzi –, a fronte delle minime notizie biografiche, è possibile stabilire solo che il primo è stato professore di medicina a Roma e che la sua opera, Tiburis Urbis Historia, come indica Viola9, «fu data alla luce nell’Anno 1585, e per una rimarchevole singolarità, esiste di questa produzione solo un Esemplare nella Biblioteca della Sapienza di Roma» .
14Nicodemi, però, si limita a riportare i noti richiami di Sparziano compresi nell’Historia Augusta10, la qual cosa potrebbe indicare, come del resto confermabile attraverso la lettura dell’intera opera, che l’autore non sia interessato alle questioni architettoniche; ovvero che, nella metà del XVI secolo, i lavori di Pirro Ligorio pertinenti la Villa imperiale Tiburtina non siano più consultabili o, addirittura, noti11.
15La medesima trascrizione del testo dell’HA, accompagnata da pochi commenti in merito alle rovine, la cui esposizione dettagliata è rimandata a «come dimostrò Pirro Ligorio celebre Architetto nella Descrittione», appare nell’opera del canonico Francesco Marzi12 che, edita postuma nel 1665 a cura del fratello Carlo, contiene anche una prefazione elogiativa redatta a firma di Kircher.
16Altresì, per il lavoro di Antonio Del Re, nella cui bibliografia è ovviamente richiamato il manoscritto di Nicodemi, innanzi tutto Seni13 informa che, all’inizio del XX sec,
Il manoscritto che si conserva nella Biblioteca Comunale di Tivoli, non è l’originale, che si crede fosse portato a Roma dal Cardinale Barberini, quando fu Governatore di Tivoli, e donato in seguito all’Ambrosiana. La copia fedelissima di nitido carattere, è dovuta al dottor Raffaele Del Re, discendente dall’autorevole scrittore. Sono millecentoquarantaquattro pagine, non compreso un esatto indice alfabetico. Nel 1883 ne fu cominciata la pubblicazione a stampa, ma fu subito interrotta, perchè l’edizione riusciva informe e scorretta. Dell’originale lavoro, nel 1611 in Roma, da Giacomo Mascardi, ad istanza di dotti amici, fu pubblicato il solo capitolo V, ch’è diviso in due parti. Nella prima si descrivono Le meraviglie del palazzo et giardino della serenissima Famiglia D’Este et loro fontane, statue et dichiaratione delle Historie o favole di esse. Nella seconda si pone un ristretto degli edifizi della superba Villa d’Adriano Imperatore, raccolto nella descrizione lasciata scritta a penna da Pirro Ligorio ed ha il titolo «Delle Ville della città di Tivoli e suo territorio, loro nomi antichi e moderni» .
17Nel solo capitolo pubblicato Del Re14 si dimostra dubbioso in merito alla reale esistenza di una pianta della Villa Adriana redatta da Ligorio:
Molti sono stati vaghi di trovare qualche Descrittione, ò disegno di questa Villa, & non se n’è trovata altra, ch’una Descrittione di Pirro Ligorio huomo più antiquario che buon historico, & erudito, in poter di alcuni heredi d’un Cortegiano della fel.me d’Hippolito d’Este, detto di Ferrara, Governatore perpetuo di Tivoli fatta da detto Pirro, & indirizzata a detto Cardinale. Accennò in detta Descrittione il Ligorio volerne far disegno a detto Cardinale Hippolito, ma non si è trovato, sono stati fatti a stampa alcuni disegni di essa Villa con quattro anticaglie di muri intagliate, le quali non ritraggono al vero, ne la minima parte delle mille, e mille di detto luogo, ma sono stati fatti, & intitolati così da i disegnatori, & incavatori per cavar denari dalle borse, con discreditamento del luogo. Dal detto Pirro Ligorio dunque noi raccorreremo la Descrittione di essa Villa, e il suo stato antico. Ma detto Pirro si diffonde molto in proporre le cose, che in detti luoghi di Liceo, Academia, Pritaneo, Picile, Tempe, & Inferi, stavano rappresentate, le quali sono cose, che veramente dovevano stare ne gli luoghi originali sudetti, ch’Adriano ivi fece descrivere, & verosimilmente potevano essere in questi della Villa d’Adriano ritratte, ma che necessariamente vi fossero rappresentate: noi prenderemo da lui solamente i luoghi, mesure, e stato antico delle fabriche, e lasceremo le cose verisimilmente ivi dipinte, e rappresentate, se bene ancor hoggi vi si veggono alcune poche pitture, & opere di stucco […] Et soggiunge Pirro Ligorio nel fine dell’opera sua, che le cose, le quali resterebbero da descriversi, e raccontarsi da lui, erano cos’ì guaste appresso al LICEO d’infinite materie di casamenti, delle quali per la desolazione loro non si raccoglie cosa certa, ne meno dell’ornamento di esse, & offeriva al Cardinale Hippolito suo Signore raccorre in disegno le piante di esse in meglio, che si fosse potuto, il qual disegno si crede esser fatto, & in poter de gli Heredi di detto Cardinale, ò smarrito da’ Ministri. Et questo è quanto hò potuto cavar di questa Villa dalla Descrittione di Ligorio di sua mano stessa (come si crede) appresso noi esistere, & hà lasciato di dire del PRITANEO, di TEMPE, e de gl’INFERI, posti da Sparziano in questa Villa. Ma si trovano altre due copie manuscritte, ma non di mano di esso Ligorio, ò aggiunta di altri […] Nell’aggiunta di dette due copie manuscritte esistenti in mano di altri, ò sia di Pirro Ligorio, ò d’altro aggiuntatore, come io credo, perche non si trova descritta la mesura, ne altro, come nel resto fece Ligorio15.
18Come è possibile leggere, quindi, Del Re sembra stimare il lavoro di Ligorio in particolare per quanto concerne la descrizione dimensionale delle opere, sebbene la lettura complessiva del testo, dalla quale si riscontra peraltro una puntuale conoscenza dell’intero corpus letterario ligoriano attinente il territorio tiburtino16, permetta di ravvisare un continuo atteggiamento critico nei confronti dell’architetto napoletano per il quale più volte appaiono giudizi consoni a quelli che, prodotti dai letterati dell’epoca, avevano indotto Ligorio a rispondere con «Le paradosse »17.
19Del Re18 prosegue avvisando che i documenti da lui adottati per la descrizione della Villa (sia il testo di Ligorio, che «appresso noi esiste», sia quelli degli «aggiuntatori»), sono riportati «in fine dell’opera, al cap. 12»; purtroppo, però, noto che dell’intera opera sono stati conservati solo i capitoli I, II, IV e V19, non è possibile sapere quali siano stati i testi consultati oltre al Descrittione anche se è immaginabile che si tratti del Trattato – le cui copie conservate, come noto, sono controversamente attribuite a Ligorio – nonché di altri di scritti ligoriani redatti per confluire nell’enciclopedico progetto delle «Antichità d’Italia», come, in effetti, ritiene anche Havercampus20.
20Al riassumere quanto per ora deducibile in merito alla possibilità che Pirro Ligorio abbia redatto una pianta della Villa imperiale tiburtina, si devono annoverare i testi dello stesso architetto napoletano, il documento d’archivio citato da Kircher e le notizie trasmesse da Del Re e, in particolare, quelle in merito all’assenza di una pianta, «ma non si è trovato», al disegno della pianta, che «si crede esser fatto» e che è «in poter de gli Heredi di detto Cardinale, ò smarrito da’ Ministri», all’esistenza di altri disegni e stampe per i quali, però, dubita della piena paternità ligoriana, visto che «sono stati fatti […] per cavar denari dalle borse», e, infine, al manoscritto di Ligorio (Descrittione), da cui attinge a piene mani, dato che «appresso noi esistere», che è «in poter di alcuni heredi d’un Cortegiano della fel.me d’Hippolito d’Este» .
21Per meglio vagliare l’attendibilità di tali informazioni occorre migliorare, per quanto possibile, la conoscenza dell’autore tiburtino, a partire dalla data di inizio della stesura della sua opera, deducibile dalla Dedica del V capitolo (completato l’8 aprile 1611) rivolta al cardinale Alessandro d’Este, laddove l’autore afferma d’aver intrapreso il lavoro nel 1607, ossia 25 anni dopo la morte del cardinale Ippolito II; nella medesima dedica, inoltre, si legge che presso la corte tiburtina di Ippolito II si riunivano i membri dell’Accademia degli Agevoli della quale egli, «giovanetto», faceva parte e che la sua opera tratta delle «cose state per molte centinaia d’anni nelle tenebre dell’oblio; & venute a notizia nostra per opera della Congregazione de dotti nutriti da quei primi due Cardinali, vengano a notizia di tutto il mondo per via di stampa» .
22Per ottenere ulteriori indicazioni biografiche di Del Re occorre fare riferimento a Zappi20 (1580), laddove si legge che il padre di Antonio, «Gio. Pietro», era un commerciante originario di Bergamo e che lo stesso Antonio inizialmente segue la medesima attività, nonostante assai sia istruito, «litteratissimo, veramente gentile […] tien anchi mano alle facoltà di suo padre con suoi fratelli in le mercanzie et viveno honoratamente da gentilommini» . Tali informazioni, inoltre, possono essere integrate da alcuni atti dell’Archivio Notarile di Tivoli, redatti tra gli anni 1576 – 1590, dai quali si conferma quanto lo stesso Del Re specifica nella Dedica rispetto all’esercizio dell’attività notarile e, ancora, quanto si legge nell’opera di Giustiniani21 in merito al cardinale Domenico Tosco22, laddove Del Re è richiamato quale «secondo historico della sua patria» che «rimase mortificato, per haver parlato con qualche vehemenza poco accomodata alla dignità del Cardinale» .
23Al considerare che l’Accademia degli Agevoli, come anche confermato da Bulgarini23, è istituita da Francesco Bandini Piccolomini nel 1571, sotto la protezione del cardinale Ippolito II, e che la sua piena attività culturale dura un solo anno, dato che si conclude alla morte del Cardinale d’Este (quando Del Re è «giovanetto»), per poi riprendere negli anni durante i quali nella villa risiede il nipote di Ippolito II, il cardinale Luigi d’Este, anche per gli sforzi di Francesco Marzi24, è difficile immaginare che Del Re possa aver ricevuto le informazioni direttamente da Pirro Ligorio, noto che l’architetto napoletano si trasferisce a Ferrara alla fine di giugno del 156825, ancorché mantenga relazioni di lavoro con il territorio tiburtino fino al 1571, come riscontrabile dalle ricevute di pagamento degli stipendi per attività eseguite a Tivoli e a Roma26 e dalle ricevute di pagamento emesse per conto di Alessandro VII27.
24Esiste, peraltro, la testimonianza di un viaggio di Ligorio a Roma, nel 1572, al seguito del duca d’Este, per partecipare al funerale del cardinale Ippolito II, morto quattro giorni prima della partenza dei cortigiani da Ferrara28. Benché nell’occasione Ligorio, solo o in compagnia, possa essersi recato nella villa estense tiburtina, si ritiene assai improbabile che abbia trasmesso informazioni su Villa Adriana a Del Re, dato che questi è «giovanetto» .
25Esclusa, quindi, la possibilità che le copie del Descrittione e degli altri scritti di Ligorio attinenti il territorio tiburtino attentamente consultati da Del Re possano essergli pervenute direttamente dall’autore, occorre immaginare che gli «heredi d’un Cortegiano della fel.me d’Hippolito d’Este» che posseggono la raccolta siano personaggi di cultura, magari membri dell’Accademia degli Agevoli, tiburtini – o che si trovano a Tivoli negli anni successivi al 1572 – e che, mettendo i manoscritti a disposizione degli eruditi locali, permettono la diffusione delle copie.
26A tal proposito Seni29, nell’informare che di Ligorio non si trovano né la descrizione, né i disegni della villa tiburtina estense, sottolinea che a Roma esistono più riproduzioni delle descrizioni ligoriane della Villa imperiale adrianea, fornendone una lista; successivamente, Cascioli30, riprendendo tale lista, vi aggiunge erroneamente il Dechiaratione di Contini, la cui attribuzione a Ligorio contribuirà, nel tempo, a incrementare i fraintendimenti.
27Come affermato da Seni con riferimento ai disegni di progetto della villa d’Este, nel corso del tempo si riscontra una sorta di uniformità in merito alla sorte degli elaborati grafici e dei testi che, di vario tema, Ligorio afferma d’aver redatto ma che, però, nessuno ha mai visto, come anche ammesso nel 1747 da Maffei, in una lettera indirizzata a Muratori:
I Mss. di Ligorio da voi citati quali sono? Chi li ha veduti? Dove si trovano? Perché il Mondo non ha mai conosciuto altri scritti di Ligorio che i 35 Tomi dell’Archivio di Stato di Torino, e la copia d’alcuni di essi ch’era nella libreria Latina del Card. Ottoboni e ch’ora non so dove sieno31.
28Nel caso del materiale che Ligorio prepara per la Villa Adriana, però, è lo stesso Del Re che informa d’aver attinto le informazioni direttamente dall’originale, «appresso noi esistere», proveniente dagli eredi di un «Cortigiano» di Ippolito II, mentre riguardo alla pianta, che «si crede esser fatto», Del Re adotta una forma verbale più vaga, suggerendo che, sempre nel caso sia esistita, sia stata smarrita da qualche amministratore dei beni lasciati in eredità dal Cardinale, «ò smarrito da’ Ministri», mentre sessant’anni dopo Kircher ne afferma l’esistenza a palazzo Barberini.
29Nella trascrizione dell’elenco dei volumi della biblioteca estense che, posseduti a Tivoli dal cardinale Ippolito II, vengono sequestrati dal «Inquisitore della Minerva nel tempo di Papa Paulo Quarto, 1559 »32 compare anche «uno libro di dissegni coperto» che potrebbe soddisfare le ragioni per cui Del Re informa della scomparsa della pianta della Villa adrianea di Ligorio. Benché non siano ben chiari i motivi per i quali l’inquisitore reputi eretici anche i libri di architettura (nella lista si trova anche un libro di «Sebastiano architetto in folio in francese»)33, l’analisi delle date, comparata con quanto trasmesso da Kircher a proposito del documento da lui trovato nell’archivio tiburtino e con l’informazione contenuta nella lettera che nel 1551 il cardinale Bernardino Maffei indirizza al cardinale du Bellay34, si potrebbe anche immaginare che il libro sequestrato, «di dissegni coperto», sia di Ligorio. Dopo il 1551, Ligorio, infatti, avendo già scavato «tutta la villa» e continuando a svolgere indagini, «tuttavia seguita »35, potrebbe aver impiegato uno dei quattro anni che precedono la confisca da parte dell’inquisitore per stilare la pianta e organizzarla all’interno di un libro contenente altri disegni della Villa Adriana. In questo caso, però, noto che i libri sequestrati vengono portati a Roma per essere bruciati, non potrebbe essere soddisfatta l’affermazione che Kircher produce nel 1671 in merito al possesso della pianta da parte del cardinale Barberini, a meno di immaginare che nell’ultimo anno trascorso a Tivoli, Ligorio abbia frettolosamente rieseguito una pianta in sostituzione di quella contenuta nel libro mandato al rogo.
30Nell’ammissione della veridicità delle affermazioni del gesuita, l’indagine deve essere mirata al riscontro di chi siano stati gli «Heredi di detto Cardinale» e alle vicende trascorse dalla villa estense tiburtina che permettono di smarrire l’elaborato e, poi, alla famiglia Barberini di assumerlo in loro possesso. Nel documento testamentario di Ippolito II conservato nell’Archivio Ducale Segreto36 si legge che «Il cardinale Ippolito II d’Este istituisce suoi eredi universali Alfonso d’Este duca di Ferrara ed il cardinale Luigi [d’Este]; a costui poi lascia in prolegato i suoi beni di Tivoli e di Montecavallo, e mancando il Medesimo, al cardinale più prossimo della famiglia, prò tempore col patto, che qualora non vi fossero cardinali della Casa d’Este, detti beni passino al cardinal Decano del sacro Collegio»; la documentazione prosegue con una lunga lista di cortigiani ai quali sono lasciate somme di denaro. Nulla è specificato a proposito del lascito di libri o di disegni, così come nulla dello stesso genere è citato negli elenchi dei beni del Cardinale custoditi nell’Archivio Modenese e nell’Archivio di Stato di Roma tra quelli, per ora, pubblicati37.
31Barotti riassume in poche parole la questione dei primi passaggi di proprietà della villa estense:
Morto lui, ella [la villa tiburtina] venne in potere del Cardinal Luigi d’Este suo Nipote, indi del Cardinal Alessandro [d’Este], il quale però dovette sostenere una lite col Cardinal Decano, il quale pretendeva, che in vigore d’un testamento dovesse al Decano del Sacro Collegio ricadere. Esso Cardinal Alessandro la riabbellì facendovi rimettere le cose, che n’erano già state levate38.
32La successione così riassunta, però, presenta notevoli lacune nella sequenza, in particolar modo con riferimento a coloro che, subentrando in qualità di Decani del Sacro Collegio, ottengono, benché indirettamente, il possesso della villa estense per un lungo periodo.
33In effetti, la corretta trasposizione in termini temporali, sebbene sempre ridotta in funzione del tema in oggetto, indica che l’erede a cui viene lasciata la villa estense tiburtina è il cardinale Luigi d’Este figlio di Ercole II, nipote del cardinale Ippolito II, alla cui morte, nel 1586, mancando cardinali della famiglia, passa ai Decani del Sacro Collegio. Di questi il primo è il cardinale Alessandro Farnese il giovane, noto collezionista di opere ligoriane, che muore il 2 marzo del 1589, e il secondo è il cardinale Alfonso Gesualdo da Napoli; entrambi, a detta di Seni39, «poco o nulla si curarono» della villa d’Este,
non vi andarono mai, o vi fecero breve dimora. In compenso però fu presa, quasi d’assalto da altri cardinali […] i quali, a loro volta, invitarono cortigiani e parassiti a godere una delizia […]. E fra tanta gente che ivi convenne, mancò sempre l’occhio vigile e interessato di chi sapesse difendere quel portento di arte e di gusto dalle incurie e dalle continue sottrazioni d’improvvisati collezionisti, cui pungeva il desiderio di asportare, come gradito ricordo, qualcosa, fosse pure una scheggia di marmo o una pietruzza di mosaico. Mancò l’autorità necessaria a infrenare tale cupidigia e a correggere le licenze del servidorame prelatizio, avido di vendere.
34Nel 1607 il Decano del Sacro Collegio è il cardinale Alessandro d’Este, nato a Ferrara nel 1568, che aveva coperto la carica di Governatore della città dal 25 maggio del 160540, senza peraltro riuscire a salvaguardare la villa tiburtina dall’incuria dovuta all’allora Decano, Tommaso Galli, che la lasciò «in pieno godimento agli altri colleghi, e, quel che è peggio, in balia dei loro dipendenti »41.
35Alessandro d’Este, una volta divenuto Decano, inizialmente intraprende le azioni politiche mirate a riportare la villa alla sua famiglia e, se comincia a «rimediare i guasti già troppo palesi »42, solo nel 1621, come testimonia un Breve pontificio del 18 giugno, e non senza grandi sforzi, riesce nell’intento di assicurarne la proprietà per trasmissione ereditaria «in perpetuo ai componenti laici della casa Estense »43.
36Nel corso degli anni in cui il cardinale Alessandro d’Este recupera la proprietà, come già accennato, la villa ritorna a essere sede di attività culturali, anche con la riapertura dell’Accademia degli Agevoli, ospitando eruditi sia tiburtini, quali Del Re e Marzi, sia provenienti da ogni parte d’Italia, tra i quali è doveroso citare l’umanista padovano Antonio Quarenghi, istitutore di Alessandro d’Este e padre di Giacomo, l’architetto che, nel 1769, lascia la sua firma nel Criptoportico dell’Edificio con Peschiera di Villa Adriana e che, nel 1777, pubblica alcune stampe raffiguranti edifici della Villa imperiale.
37Nel 1624, alla morte del cardinale Alessandro d’Este, la villa tiburtina estense viene ereditata dal Duca di Modena, Cesare I d’Este, che può mantenerne il possesso (benché, per timore di perderla di nuovo, faccia inviare a Modena molti oggetti di valore) nonostante le enormi pressioni esercitate dal cardinale Francesco Barberini, nello stesso anno nominato Governatore di Tivoli, «che s’affannò presso lo zio pontefice per far ripristinare la famosa clausola del testamento d’Ippolito II »44.
38Sebbene tali pressioni non riescano a produrre l’effetto desiderato, in qualche maniera il cardinale Barberini riuscirà a far entrare la sua famiglia nella proprietà estense dato che, nel 1654, sua nipote Lucrezia Barberini sposerà Francesco I d’Este, proprietario della villa e già marito, in prime e seconde nozze, delle due sorelle Farnese (Maria e Vittoria).
39Le succinte note bibliografiche trasmesse da Giustiniani45 in merito a «Francesco Barberino, Cardinale nel 1624 à 9 di maggio è stato dichiarato Governatore di Tivoli per trè anni da Papa Urbano VIII suo zio paterno», permettono di delineare un preliminare e sommario ritratto del cardinal nipote, elevato alla porpora solo un anno prima della nomina a governatore. Si legge, infatti, che egli non fu solo abile in politica ma ebbe un grande interesse per tutte le arti tanto che, nel corso del Pontificato
del zio, e nella venuta in Roma della Regina di Svezia, nelle memorie sepolcrali erette in diversi luoghi à Girolamo Aleandro il giovine, à Bernardo Gugliemi, à Malatesta Albani, & à Luca Olstenio, come nel disegno della Villa Hadriana in Tivoli, ed in altre considerabili spese hà fatto spiccare la sua magnificenza. Hà tenuto nella sua corte, con varia fortuna, molti letterati, trà i quali ho conosciuto io Girolamo Preti, Bolognese, Panfilo Persico […] Giacomo Bocchardo Parigino, il Cavalier Cassiano del Pozzo di Torino, il Conte Federico Ubaldino Urbinate, Luca Olstenio Amburgese […] Hà radunata una copiosissima libraria di libri stampati, e manoscritti in ogni scienza, in ogni professione, & in ogni arte liberale, così antichi, come moderni, non meno di varie lingue, che di diverse nationi, chè risuscita la più celebre d’Europa, dopo la Vaticana, e’ sollievo di virtuosi46.
40Sempre Giustiniani47 ha modo di ripetere che Francesco Barberini possiede, tra vari scritti d’argomento tiburtino, anche quello di Del Re che, tra l’altro, ha letto e studiato, dato che:
hà condonato qualche errore ad Antonio Del Rè Tiburtino per mettere in sicuro l’historia originale della sua patria, in ordine alla stampa, è me l’hà con ogn’humanità esibita, per valermene nel Tivoli ragguardevole, che hò per le mani, non meno, che l’altre scritture spettanti à Tivoli, che si trovano nella sua celebre Biblioteca.
41Oltre a Francesco, di nuovo governatore per tre anni a partire dal 15 maggio del 162748, i Barberini intervengono a Tivoli anche con il cardinale Antonio, fratello minore di Francesco, «essendo egli terzo figliuolo di don Carlo Barberino, e di D. Costanza Magalotti nobili Fiorentini, […] e quegli fratello di Papa Urbano VIII »49 ; famiglia, quella dei Barberini della quale Gigli50 riporta le numerose pasquinate che l’avevano riguardata, nonché un aneddoto non particolarmente elogiativo:
Urbano VIII soleva lagnarsi di aver quattro parenti, che a nulla valevano. Uno era santo, e non facea miracoli, ed era il Cardinal Francesco Barberini: uno era frate, e non avea pazienza; ed era il Cardinal Antonio [seniore, fratello del papa], detto di s. Onofrio: uno era oratore, e non sapea parlare; ed era il Cardinal Antonio Juniore: ed uno era generale, e non sapea metter mano alla spada; ed era d. Taddeo principe di Palestrina51.
42Antonio Barberini, «juniore», nel 1632 s’interpone al fratello nella carica di governatore di Tivoli per due anni, ossia fino al 1634, quando «Francesco Barberino Cardinale hà ripigliato il Governo di Tivoli »52. Non meno del fratello, Antonio Barberini è un abile politico, un appassionato sostenitore di arte e cultura e ha una cospicua corte al seguito, della quale fa parte lo stesso Giustiniani, nonché l’abruzzese Giulio Raimondo Mazzarino, «Hebbero principio nella di lui Corte le grandezze di Giulio Mazarini, suo prelato domestico, e suo Vicelegato d’Avignone, indi Cardinale, Primo Ministro del riverito Lodovico XIV. Rè di Francia »53, che sarà successivamente coinvolto, suo malgrado, nella ricerca dei disegno ligoriani.
43Per quanto ora deducibile, quindi, è possibile ritenere che la pianta ligoriana, sempre nel caso sia esistita, possa essere rimasta a Tivoli anche dopo il 1572, e che in seguito sia stata asportata da un qualsiasi individuo, a causa di una disattenta amministrazione dei beni della villa estense tiburtina.
La ricerca dei disegni ligoriani di Villa Adriana
44Ulteriori indizi in relazione alla probabile esistenza di una pianta di Villa Adriana tracciata da Ligorio pervengono associando successive informazioni, a partire da una nota molto più tarda, trasmessa da Lanciani a proposito dei disegni della Villa imperiale tiburtina conservati in Inghilterra. Scrive, infatti, Lanciani che
Nel codice Windsor, intitolato “Antichità diverse” VII. 36, la pianta autografa è accompagnata da questa nota: “Pianta d’una parte della villa d’Hadriano a Tivoli, vista e cavata da Pirro Ligorio la quale è stata da uno schizzo del suddetto tirata da Francesco Contini. I disegni di detta villa furono portati in Francia da Monsu di Autreville che gli haveva compri da un rigattiere ferrarese”54.
45Sebbene da tale nota, che Lanciani riporta abbreviata, risalta che si tratta della una copia di un disegno di Ligorio eseguita da Contini, la letteratura, senza peraltro fare riferimento a quanto precedentemente indicato da Del Re, genericamente assume l’informazione attinente il venditore, «un rigattiere ferrarese», per ammettere che i disegni della Villa adrianea siano stati portati da Ligorio a Ferrara e che, in quella città, siano stati dispersi in seguito alla morte dell’architetto napoletano55.
46Nulla di specifico viene detto in merito al ruolo di Contini e quanto, in quegli anni, egli conosca Villa Adriana; nessuno, inoltre, ha modo di riflettere che, nel primo trentennio del Seicento, i Barberini posseggono almeno un disegno ligoriano della Villa imperiale tiburtina, quello raffigurante la pianta della cd Accademia, che viene copiato in pulito da Contini, e che, probabilmente, in seguito alle prime fasi della dispersione del patrimonio barberiniano, assieme alla copia, finisce nella raccolta di Cassiano dal Pozzo. Tra tutti, solo Salza Prina, nell’associare il possesso di tale disegno alla nota di Contini inerente il restante corpus, portato «in Francia da Monsu di Autreville», svolge minime indagini in tal senso.
47In effetti, al considerare che dei disegni ligoriani della Villa imperiale, quello della cd Accademia si trova a Roma negli anni compresi tra il 1630 e il 1670, vale a dire nel corso degli anni durante i quali Contini inizia a lavorare, più o meno a tempo pieno, per i Barberini, occorre attribuire alla nota una sorta di sottesa spiegazione del perché è solo quel disegno a essere stato copiato in pulito; partendo da tale base e con il supporto di un ulteriore documento è, infatti, possibile iniziare a capire se la vendita dei disegni ligoriani sia realmente avvenuta a Ferrara o se, invero, è avvenuta a Roma, e consequenzialmente è possibile individuare, con le debite approssimazioni, gli anni in cui avvengono le transizioni, al «rigattiere» prima e al «Monsu di Autreville» poi, per terminare con la definizione, pur sempre approssimativa, dell’anno durante il quale Contini copia il disegno.
48Per meglio capire quanto deducibile dalla nota occorre, però, prendere le mosse dalla lettura integrale del testo originale:
Pianta d’una parte della Villa d’Hadriano a Tivoli, vista e levata da Pyrrho Ligorio Antiquario insigne, che di essa fece Discorso, che si vede Manoscritto. La quale è stata da uno Schizzo del sudetto tirata nella forma che si vede da Francesco Contini Romano – I disegni di detta Villa furono portati in Francia da Monsù di Autreville che gli haveva comprì da un Rigattiere Ferrarese & questa Parte si crede quella, ò vicino à quella dove di presente ha la Vigna Monsig.r Bulgarini Segretario della Congregazione dell’Acque56.
49Nell’ammissione che l’autore della nota sia stato lo stesso Contini, cosa per altro pienamente accettabile anche dal confronto calligrafico con il manoscritto del Dechiaratione, nel testo si legge chiaramente che il disegno è una pianta propriamente detta, ossia una rappresentazione in vista ortogonale, attribuita a Ligorio e tracciata in seguito a un’operazione di rilevamento, «vista e levata», riferibile alla condizione nella quale versavano i complessi al momento delle attività ligoriane nella Villa imperiale tiburtina e lasciata al livello di eidotipo, «Schizzo», da cui consegue l’affermazione del ruolo assunto da Contini quale copiatore in pulito, «tirata nella forma che si vede», quasi reverenziale nei confronti dell’illustre predecessore.
50Dopo aver definito che si tratta della copia di un originale ligoriano, Contini, nell’attribuire a Ligorio un’esposizione scritta dell’intera Villa, «Pyrrho Ligorio Antiquario insigne che di essa fece Discorso, che si vede Manoscritto», dimostra di conoscere solo uno dei manoscritti ligoriani relativi al tema57 e, infine, indica con chiarezza l’esistenza di altri disegni della Villa Adriana, sempre tracciati da Ligorio, ma «portati in Francia da Monsù di Autreville» . Dalla medesima nota, inoltre, emergono alcune indicazioni di particolare interesse, delle quali la prima, notevolmente chiara, sottolinea che, sempre all’epoca della copia del disegno, Contini ha una cognizione limitata della Villa, tanto da non riuscire a localizzare con precisione il soggetto rappresentato, «si crede quella o vicino a quella»; la seconda suggerisce che Contini conosce l’acquirente francese, o che questi sia noto a Roma, come riscontrabile dall’adozione della sola indicazione nominale, «Monsù di Autreville »58, e, infine, la terza permette esclusivamente di datare la copia negli anni durante i quali è oramai consolidato il possesso di una porzione di Villa Adriana da parte di Monsignor Bulgarini, «di presente ha la vigna» .
51Per meglio analizzare la questione si rende opportuna un’indagine pertinente i personaggi appena citati, per i quali, come per gran parte di coloro che hanno un ruolo in questa storia, le notizie biografiche sono poche se non, addirittura, tanto scarse da risultare insoddisfacenti, come nel caso del «Monsù d’Autreville» . In effetti, in seguito a una pressoché sterile ricerca mirata alla definizione dell’identità dell’acquirente francese, è emerso che l’unico personaggio all’incirca corrispondente potrebbe essere stato un tale «D’Autreville», autore di un Etat général des affaires de France pubblicato a Parigi nel 1617 in un esiguo numero di copie, tanto che de Los Rios59 lo definisce «Petit Ouvrage singulier & curieux, dont les exemplaires se trouvent que très-difficilement», mentre Le Long60 indica che
Auteur de ce Livre, dit dans la Préface, qu’il l’a mis en lumière pour y inférer la véritè de pluseurs choses, qui se reconnoissent, fausses, controuvées & mal assurées dans les Histoires précédentes. Il finit cet Ouvrage en Janvier 1617: son nom [D’Autreville] est à la fin de son Epître dédicatoire.
52Si può inoltre supporre, per affinità di tema e di data di pubblicazione, che il testo sia del medesimo autore del più diffuso Inventaire général des affaires de France, pubblicato sempre Parigi nel 1620, il cui voluto anonimato è sottolineato mediante il suo inserimento nel Bibliotheca anonymorum et pseudonimorum61.
53Anche per il «Monsignor Bulgarini» le notizie sono assai scarse, a partire dal nome di battesimo, non riportato da uno dei suoi più illustri discendenti, Francesco Bulgarini, che lo nomina solo quale «Monsignor» accreditandogli il ritrovamento – nell’area dell’Accademia – di due «finissimi candelabri di marmo bianco [...] che donò al Cardinal Barberini», affermando che «dal 1621 appartiene tal parte dell’accademia »62 alla sua famiglia; notizia che in seguito verrà testualmente ripresa e diffusa da Moroni63, poi riportata da Salza Prina64 e da quanti altri si sono occupati della Villa imperiale tiburtina senza, peraltro, accertare l’esistenza, nello stesso periodo, di due monsignori Bulgarini, Bulgarino e Giovanni Giacomo.
54Da Cascioli65 si legge che il Bulgarini in questione è Giov. Giacomo, monsignore «ascritto tra i protonotarii apostolici ed ebbe la carica di segretario della Congregazione del Buon Governo dal 1621» e che, in seguito, fu pro-segretario dei Brevi. In un atto dell’Archivio di Stato Vaticano è riportato che nell’ottobre del 1609 il «notario della Reverenda Camera, Giovanni Giacomo Bulgarini», ratifica l’acquisto di alcune statue66 ; mentre Lolli Micheletti67 afferma che «Monsignor Giacomo Bulgarini fu Luogotenente dell’A.C., Segretario della Sagra Congregazione del Buon Governo e Pro-Segretario de’ Brevi» . Tabacchi, però, scrive che «Dopo la defenestrazione del Santarelli, fu chiamato alla segreteria del Buon Governo Giovanni Giacomo Bulgarini, che rimase in carica solo due anni, dal 1618 al 1620. Il Bulgarini, originario di S. Giusto nella Marca, figura a lungo come notaio della Camera Apostolica. La sua presenza al Buon Governo fu episodica, perché dopo appena due anni lasciò la carica di segretario, optando per l’ufficio venale di prefetto delle minute dei brevi. In seguito fu referendario di Segnatura, agente della Marca e governatore di Città della Pieve (1626) »68. Eppure Leti indica che il monsignor Bulgarini è nativo di Siena e che, proprio a causa della sua origine, è chiamato a Roma dal suo conterraneo, il pontefice Alessandro VII69.
55Che esista una grande confusione tra Giovanni Giacomo Bulgarini e Bulgarino Bulgarini, uno toscano e l’altro marchigiano, entrambi deputati a rivestire alte cariche pontificie, talora i medesimi incarichi, è indicato da Bellori quando ha modo di specificare che «Monsignor Bulgarino Bulgarini, Luogotenente dell’Auditore della Camera. Studio universale di ottimi libri, così di iurisprudentia come di varie lettere e dottrine »70.
56A fronte dell’analisi di quanto trasmesso dalla letteratura è possibile attestare che colui che acquista una parte di Villa Adriana è il Monsignor Giovanni Giacomo Bulgarini che, originario di Siena, che fa «colorire» lo sposalizio della Vergine nella chiesa della Santissima Annunziata di Tivoli71, che, almeno dal 1619, è Segretario della Sacra Congregazione delle Acque, istituita da Sisto V nel 1587, come appare sia nella nota di Contini, sia in un documento stilato in quell’anno e conservato nell’archivio famiglia Niccolini di Camugliano72, e infine che, tra il 1655 e il 1656, è Governatore di Rieti.
57Da quanto per ora desunto le uniche informazioni di qualche utilità hanno per oggetto la possibilità che la vendita dei disegni ligoriani sia avvenuta dopo il 1620, nell’ammissione che il «Monsù di Autreville» sia l’anonimo autore del Inventaire général des affaires de France, fino a quell’anno rimasto a Parigi a curare la pubblicazione della sua ultima opera, e che Contini abbia copiato il disegno almeno qualche anno dopo il 1621, ossia in seguito alla raggiunta e piena attestazione della proprietà dell’area della cd Accademia di Villa Adriana da parte del monsignor Bulgarini.
58Per ottenere qualche suggerimento più esaustivo occorre ritornare alla nota scritta da Contini e analizzare con maggiore attenzione la costruzione sintattica del periodo «I disegni di detta Villa furono portati in Francia da Monsù di Autreville che gli havea comprì da un rigattiere ferrarese et questa parte si crede quella o vicino a quella dove di presente ha la vigna Monsignor Bulgarini», ricordando che, quando lo scrive, Contini ha nelle mani perlomeno uno dei disegni ligoriani della Villa.
59Da tale analisi emergono tre diverse interpretazioni di cui la prima suggerisce che il disegno copiato sia stato estraneo all’acquisto da parte del francese; in tal caso, quindi, Contini si sarebbe limitato a trasmettere la notizia della vendita del rimanente corpus. La seconda interpretazione indica che solo quel disegno è stato separato dagli altri prima dell’alienazione al francese, mentre la terza induce a ritenere che, dopo essere stato portato in Francia, il disegno – ma forse anche altri elaborati simili – sia stato recuperato e riportato a Roma, dando così a Contini la possibilità di copiarlo.
60In qualsiasi caso, tutto sottende che le azioni siano avvenute a Roma e non a Ferrara, nonostante l’aggettivazione «ferrarese» attribuita al rigattiere che intraprende la prima transizione. In effetti, la definitiva conferma che la città chiave sia Roma, come del resto già segnalato da Vagenheim, si ottiene da una lettera inviata dall’ambasciatore della Casa Savoia, Lodovico San Martino d’Agliè, al cardinale Francesco Barberini nella quale è chiaramente scritto che il rigattiere, di origine ferrarese, esercita la sua attività a Roma, città nella quale avviene sia l’acquisto di circa 5000 disegni, sia la successiva vendita di molti elaborati al tale D’Autreville:
Nell’estratto del privilegio della Repubblica a detto Tramezzino si fa mentione delle seguenti carte e disegni del medesimo Ligorio: carte overo disegni di Roma antica, di Roma moderna, del Circo Massimo, del Circo Flaminio, dell’Italia e del Castro Pretorio, disegnati dal Messer Pirro Ligorio pittor napoletano; una quantità grande di disegni del medesimo Pirro Ligorio al n. [umero] di cinquemila in circa et tra li quali erano moltissime cose cavate dall’antico, et altre fatte a immitation dell’antico tanto di favole e d’historie e cose d’architettura. Furono il 1632 di gennaio vendute in Roma da Giorgio Raimondi ferrarese rigattiere di quadri ne’ coronati a un francese detto Monsù d’Autreville che gli portò a Parigi, havendo fatto il mercato con havergli in bizzarro dato quadri moderni valutati cinquanta s. [cudi], se bene gl’ebbe in conto di cento et disse d’haver comprò i suddetti disegni dagl’heredi d’alcuni pittori e questo fine hebbero fatiche tanto segnal. [at] e dal suddetto. Messer Pietro Stefanoni antiquario in Roma dice di haver conosciuto la moglie del sudetto e che haveva due cassoni, uno di libri, che sono l’opere contenute negli indici retroscritti, che ora sono in mano del Duca di Savoia e l’altro di disegni, una gran parte de’ quali capitano male nelle mani del sudetto Raimondi, che parte ne vende alla sfilata o alla spezzata come diciamo, e parte andorno, come s’è detto, in mano del sudetto francesce. Monsù Claudio Ménestrier Borgognone, can. [oni] co di Prisanzone e antiquario insigne, si mosse da Roma il mese di magio, anno detto, con mira di retrovar i suddetti disegni e recuperarli e procurar in occasione di detto viaggio di riportar a Roma quel di buone che trovasse di cosa a proposito per studio dell’Antichità o di storia nazionale73.
61I rapporti intercorrenti tra i Savoia e i Barberini, poco discussi dalla letteratura, diversamente rispetto a quelli tra i Savoia e altre famiglie romane74, permettono di percepire anche i comuni interessi per i disegni di Ligorio. L’ambasciatore Lodovico San Martino d’Aglié, marchese di San Damiano, poeta e gentiluomo di fiducia del duca Carlo Emanuele I di Savoia, nel corso del suo mandato diplomatico, tra il 1627 e il 1637, oltre a dare grande impulso all’Accademia dei Desiosi assieme al cardinale Maurizio di Savoia75, della quale sono entrambi membri76, stringe grande amicizia con la famiglia Barberini e, in particolare con il cardinale Maffeo, tanto che, in occasione dell’elezione al soglio pontificio di quest’ultimo, in una lettera inviata al Duca di Savoia da Vibò, Segretario del Conclave, e sottoscritta dal principe cardinale Maurizio, si legge l’esultanza per l’avvenuta l’elezione e il medesimo atteggiamento è ben chiaro in un’altra lettera, inviata nella stessa occasione, da d’Agliè a Carlo Emanuele I77.
62Se già esistevano specifici e comuni interessi politici tra le due famiglie, non di meno i Savoia, attraverso Lodovico d’Agliè (fortemente aiutato dal Cavalier d’Arpino), seguivano molto da vicino gli acquisti delle opere d’arte dei Barberini, a fronte della specifica volontà del Duca di costituire una imponente «libraria», affiancata a una buona collezione di opere d’arte78, nella quale un posto particolarmente rilevante era dedicato ai volumi di Ligorio acquistati nel 1615 e, da subito, difesi dalle brame di coloro che, come Richelieu, ne desideravano il possesso. Giova annotare, a tal proposito, che l’ispiratore della bramosia del potente cardinale francese nei confronti dell’opera ligoriana è Cassiano dal Pozzo79, già segretario del cardinale Francesco Barberini, e che in seguito alla morte di Richelieu l’attenzione della corte francese nei confronti dei disegni ligoriani è ereditata dal cardinale Mazzarino, già cortigiano del cardinale Antonio Barberini, che, evidentemente, è assai disturbato dalla questione, al punto di affermare «ed ho già a quest’ora maledetto il Ligorio e chi ha trovata l’inventione »80.
63Il comune interesse dei Savoia e dei Barberini in merito ai disegni e, in generale, ai codici ligoriani, è testimoniato da uno scambio epistolare intercorso dal 1631 al 1632 tra Vittorio Amedeo I e d’Agliè, condotto e mirato a finalizzare il «dono» di uno dei codici al cardinale Antonio Barberini in cambio di opere d’arte81, tra le quali almeno una del Cavalier d’Arpino; intento che ha buon fine, come indica una successiva lettera del 31 dicembre 1633 scritta dal Nunzio Pontificio a Torino al Segretario di Stato, «Stimo c’hora sia tempo opportuno di ringratiar S.A. del libro di Pirro Ligorio »82. All’interno delle attività svolte sulla base di tale interesse deve, pertanto, essere collocata la lettera inviata da d’Agliè al cardinale Francesco Barberini e, facendo riferimento al generale tono che il mittente adotta nella scrittura, ai richiami che produce in merito al privilegio ottenuto da Michele Tramezzino per la stampa dei disegni di Ligorio e alla citazione del viaggio che intraprende Ménestrier, si ottiene la conferma che l’ambasciatore e il cardinale Barberini sono, entrambi, particolarmente attivi nella ricerca dei disegni ligoriani.
64A proposito di Claude Ménestrier83 (da non confondersi col più celebre pronipote Claude-François, nato a Lione nel 1631) si tratta di un ecclesiastico, cortigiano della casa Barberini dal 1623 e, a partire dal 1630, dipendente del solo cardinale Francesco84 per il quale, come afferma du Crest85, svolge numerose ricerche, anche a carattere antiquario86. Tra tali ricerche una è di particolare interesse per il tema in oggetto e si tratta del viaggio intrapreso da Ménestrier anche allo scopo di rintracciare opere d’arte di interesse per il cardinale nipote, come confermato nella lettera di d’Agliè, «Monsù Claudio Ménestrier Borgognone, can. [oni] co di Prisanzone e antiquario insigne, si mosse da Roma il mese di magio, anno detto [1632], con mira di retrovar i suddetti disegni e recuperarli e procurar in occasione di detto viaggio di riportar a Roma quel di buone che trovasse» .
65In alcuni documenti Barberini si trova l’indiretta testimonianza della sua assenza da Roma proprio tra il mese di giugno del 1632 al mese di febbraio del 1633, periodo nel quale il nome di Ménestrier non appare nel registro dei pagamenti della famiglia87, e l’approfondimento delle questioni attinenti tale viaggio potrebbe consentire di verificare se la missione inerente il recupero dei disegni ligoriani, compresi quelli della Villa imperiale tiburtina, sia andata, o meno, a buon fine.
66Dalle lettere inviate da Nicolas-Claude Fabri de Peiresc a Ménestrier e a Dupuy, si ha il pieno riscontro della partenza da Roma di Ménestrier nel maggio 1632, diretto in Francia su incarico del cardinale Barberini allo scopo di raccogliere oggetti antichi e opere d’arte. A tal proposito, come al solito, le informazioni sono discordanti sia in merito alla data del rientro, sia in relazione allo scopo del viaggio e all’itinerario seguito. Weiss88, tra i primi a documentare il viaggio, afferma che
il retournait à Rome en 1632, rapportant un grand nombre de monuments et de tableaux précieux, le vaisseau fuit assailli, à quelche distance de Marseille, d’une tempête très-violente: le patron déclara, que pour sauver le bâ timent d’un naufrage presque inévitable, il fallait jeter à la mer tous les objectes appartenant aux passagers. Ménestrier ne put sauver de toutes ses richesses qu’on petit tableau représentant la Sainte-Vierge; et à son arrivée à Rome, il envoya ce tableau à Besançon pour y être placè dans une église.
67Tale informazione, però, risulta in parte erronea; il naufragio avviene, come ben testimoniato nelle lettere che de Peiresc invia a Ménestrier, nel corso del viaggio di andata e gli oggetti persi in mare sono parte del materiale che Ménestrier stava portando a de Peiresc. Quest’ultimo, infatti, ha più volte modo di ricordare l’evento, come nel caso di una lettera inviata a Cassiano dal Pozzo il 13 giugno dello stesso anno:
Illustrissimo Signore e Padrone mio colendissimo. Ricevei l’amorevolissima sua lettera delli 4 di Giugno per mano del Signore Claudio Menestrier che per buona sorte l’haveva seco, quando smontò dalla galera vicino a Bregançon. Et se ben sonno restate in mare tutte le stampe e dissegni che Vostra Signoria Illustrissima s’era compiacciuta mandarmene io non le ne rimango manco obbligato che se fossero tutte arrivate a buon ricapito, lodando Iddio sommamente, che la persona di detto Signore Menestrier si sia trovata fuori della galera quando andò in mare, perciò che senz’altro egli vi si sarebbe affogato comme parecchi altri, non sapendo natare, gia ch’egli non usciva quasi mai dalla camera del comandante sotto coperta89.
68Che, quindi, il naufragio sia avvenuto nel corso dell’andata, e non durante il ritorno, è abbastanza chiaro e la certezza si trova in una successiva lettera di de Peiresc, scritta all’incirca un mese dopo, nella quale Cassiano dal Pozzo viene informato del ritrovamento di parte del bagaglio90.
69Dall’insieme delle lettere di de Peiresc e dal resoconto degli avvenimenti riportato in un piccolo fascicolo, nel quale si narra della storia del dipinto miracolosamente salvato dal naufragio e in seguito donato da Ménestrier al capitolo della cattedrale di Besançon91 presso il quale doveva consolidare l’appena ricevuta nomina di canonico, è possibile stabilire che Ménestrier risiede a Marsiglia almeno fino a luglio, in attesa del recupero di parte del suo bagaglio, che successivamente si reca a Parigi, e che, infine, torna a Besançon92 per ottemperare agli uffici della sua nuova carica.
70Il viaggio nella capitale francese, probabile residenza del «Monsù di Autreville», quindi, potrebbe essere stato intrapreso nel tentativo «retrovar i suddetti disegni e recuperarli», in conformità con l’affermazione di d’Agliè. Noto che Ménestrier è a Roma all’inizio del 1633, come testimoniato da alcune lettere inviategli da de Peiresc, e immaginando che la ricerca dei disegni ligoriani abbia dato esiti quantomeno parzialmente positivi rispetto alle attese del cardinale Francesco Barberini, non si può fare a meno di pensare che la redazione della copia in pulito del disegno della cd Accademia sia successiva a quella data.
71Con riferimento all’altro nome, «Messer Pietro Stefanoni», che compare nella lettera di d’Agliè, si trovano alcune iniziali notizie trasmesse da Lanciani93 che lo indica quale «speziale -antiquario Stefanoni, la cui bottega occupava il canto del Corso in sulla svolta di s. Macuto, cioè il sito del «caffè del Veneziano», di più recente e famosa memoria. […] Questo Pietro deve essere o figliuolo o erede del Biagio Stefanoni, la cui bottega aveva servito per tanti anni di luogo di convegno ai collezionisti dell’ultimo quarto del cinquecento».
72Di recente, però, il ritrovamento di altri documenti ha consentito di accertare che lo Stefanoni della lettera è di origine vicentina, nato nel 1557 probabilmente a Valstagna (ai piedi del Monte Grappa)94, e che, almeno dal 1590, esercita attività di editore e antiquario a Roma, «città in cui opererà per tutta la vita mantenendo fitti rapporti di scambio con artisti ed eruditi italiani e stranieri »95. In particolare, tra gli eruditi stranieri, da più documenti emerge il legame con de Peiresc (come già visto, a sua volta grande amico di Ménestrier), che ha modo di citare Stefanoni in numerose lettere scritte tra il primo e il quarto decennio del Seicento, mentre, con riferimento agli eruditi italiani, è noto che Cassiano dal Pozzo aveva acquistato da Stefanoni numerose copie di disegni dall’antico96 e ben ne conosceva le pubblicazioni, come lo stesso dal Pozzo ha modo di affermare con riferimento a «… un sistro io ne ho tre figure esattissime una puntuale secondo la descrizione di Plutarco cavata da un Sistro vero e reale, che haveva un gentiluomo Francese amator d’antichità detto Monsu giolito, un’altro c’haveva il Stefanoni dal quale e stato venduto al Cav.re Gualdi »97.
73Che Pietro Stefanoni viva a Roma ed eserciti la sua professione prevalentemente nella stessa città è anche testimoniato nella biografia di de Peiresc, laddove a proposito del viaggio dello studioso a Roma nel 1600, si legge che ha modo di conoscere l’antiquario98 e di intraprendere con lui una durevole amicizia99 ; a tale informazione, inoltre, occorre associare quanto riporta Dati in merito agli intellettuali di maggiore spicco nella città papalina, «professori di sacra erudizione», tra i quali è compreso anche Stefanoni100 e, infine, la testimonianza di de Sepi a proposito di Kircher che, appena giunto a Roma, fa
tesoro dei pochi anni di esperienza di cinque famosissimi e celeberrimi musei della città: quello del cavalier Gualdo, di Angelomo, di Menendro, di Stefanone, di Giovanni Battista Romano dell’Ordine Agostiniano. Infatti di queste raccolte preziose, che i loro proprietari avevano costituito sia per la frequentazione degli stranieri e delle persone colte sia per la gloria della città eterna con tanta cura, sollecitudine e non senza tanta spesa, ben presto, quand’essi scomparvero rapiti dal comune destino di morte, gli eredi legittimi, senza darsi alcun pensiero delle antichità e delle cose rarissime, di cui erano stati dotati, ne vendettero all’asta nei luoghi pubblici l’enorme tesoro, più avidi di denaro e di quattrini e ora con questa, ora con quella, a seconda del capriccio dei compratori101.
74Il commento di de Sepi a proposito della dispersione delle raccolte costituisce un indizio dal quale intraprendere l’analisi della seconda parte della lettera di d’Agliè, a partire dal periodo in cui l’ambasciatore indica che Stefanoni ha conosciuto «la moglie del sudetto e che haveva due cassoni, uno di libri, che sono l’opere contenute negli indici retroscritti, che ora sono in mano del Duca di Savoia e l’altro di disegni, una gran parte de’ quali capitano male nelle mani del sudetto Raimondi».
75La «moglie del sudetto» dovrebbe essere Barbara Ligorio, probabilmente seconda, certamente ultima moglie dell’architetto, romana ma trasferita al seguito del marito a Ferrara, come ben leggibile in una lettera scritta quando, vedova e in completa indigenza, chiede aiuto per il sostentamento al Granduca di Toscana dall’ambasciatore fiorentino a Ferrara, Orazio Urbani102 ; una richiesta simile si trova, scritta sempre dalla medesima «Barbara gia moglie di m [esser] Pirro Ligori »103, in una supplica non datata e inviata ad Alfonso II d’Este al fine di «monacare una sua fig.lia» . Da Tasso, inoltre, si legge che Barbara era la «bella madre »104 dell’ultimo figlio dell’architetto, Cesare Ligorio, ricordato più volte nella letteratura anche in merito alla testimonianza fornita dal certificato di battesimo conservato nell’archivio della cattedrale di Ferrara, «a Aprile 1579. Cesare Gabriele fiollo del sig. Pirro Ligorio »105 (fig. 1).
76Luigi Napoleone Cittadella106, a proposito di quest’ultimo figlio e con riferimento alla differenza di età che questi ha con l’altro figlio di Ligorio, Achille107, ha modo di scrivere che
Nel 1579 [Ligorio] fece battezzare un figlio a S. Maria in Vado, di nome Cesare Gabriele, per cui si deve supporre che all’epoca di sua morte avvenuta nel 1583 cioè quattro anni dopo, non fosse tanto vecchio! Eppure sino dal 1569 egli assisteva un figlio ad una stipulazione di mandato, che nel figlio stesso lascia supporre almeno l’età di 20 anni! (Rogito di Nicolò Ballotta del 4 agosto) – Mandatum mag. et clarissimi D. Equitis Priorati Montini a M.° Achille Ligorio. – Egli avea comprato un censo dal romano Orazio figlio del capitano Mazio Muti, assentato sopra un casale nel territorio di Roma; e fa perciò mandato al cav. Montini per farne le esigenze Constitutus mag. Dominus Achilles Ligorius principalis ecc. Sponte, cum consensu, praesentia, et voluntate Magnifici Domini Pirri Ligorii ejus praesentis ecc.
77Se nella già citata lettera di Urbani si legge che Ligorio lascia «molti figli», tale informazione, confermata dalla letteratura mediante il riscontri con documenti d’archivio, rimane sempre frammentaria e circoscritta all’identità solo di alcuni, tra i quali Achille che, come visto, è all’incirca ventenne nel 1569, Ercole che nel 1630 si trova inizialmente a Roma su richiesta della sorella Lucrezia, per poi risiedere a Napoli, e Cesare Gabriele, nato nel 1579; mentre è ancora ignoto il grado di parentela del celebre architetto con Ersilia Ligorio, monaca benedettina a Ferrara nel 1580, con Rosa e Chiara, «sorelle Ligori», firmatarie di una petizione indirizzata al duca Alfonso e con Paolo Ligorio, sepolto nel 1583 nella chiesa di S. Anna a Ferrara, che potrebbero essere stati figli, ovvero nipoti, come tutto lascerebbe supporre, quanto meno in relazione a Paolo108.
78Al tornare alla lettera di d’Agliè si nota, comunque, che la parte inerente l’incontro occorso tra Stefanoni e la moglie di Ligorio ha il carattere di una informazione aneddotica, posta a corollario, e che, come tale, quindi, fa riferimento a un evento avvenuto prima dell’alienazione dei due «cassoni» di libri e di disegni ligoriani, probabilmente riferibile al periodo appena successivo alla morte dell’architetto. In effetti, noto che Stefanoni nel 1590, all’età di circa 33 anni, si trasferisce a Roma e che il suo paese natale si trova poco più a Nord di Ferrara, è immaginabile che l’incontro sia avvenuto tra il 1583 e il 1590 nella città estense se non, probabilmente, proprio nel corso del trasferimento dell’antiquario a Roma.
79Per meglio capire, quindi, l’iter del contenuto dei due «cassoni» prima del 1632, ossia precedentemente alla vendita dei disegni al «Monsù di Autreville», occorre fare riferimento alla letteratura che, non senza contraddizioni, rende conto delle transizioni commerciali dell’eredità ligoriana a partire dalla opinabile affermazione che si tratta dell’iter occorso all’intero lascito, ossia comprendente anche la cospicua parte acquistata dai Savoia. Vayra109, indica che passa inizialmente nelle mani delle famiglie ferraresi «Gardelli e Crispi», talora indicati quali «Gardellini e Crispi »110 o, ancora, «Cardellini e Crispi »111, mentre Salza Prina112 riporta che le carte furono vendute «ai Gardelli Crespi» sottendendo una sola famiglia e, più di recente, Schreurs113 riprende l’iniziale informazione di Vayra, «Gardelli e Crispi» .
80Nel Catalogo dei Manoscritti della Collezione Antonelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, si trova un solo documento in cui appare uno dei due controversi nomi nella persona di «Francesco Gardelini »114, mentre numerosi sono i carteggi inerenti la famiglia Crispi, tra i quali una lettera del 1628 del cardinale Magalotti115 al cardinale Barberini, nella quale sono discussi «soggetti ferraresi» contenuti nella «raccolta Crispi».
81È pertanto chiaro che si tratta di due famiglie distinte, che ottengono i disegni ligoriani in due periodi differenti e successivi, come d’altro canto confermabile attenendosi alla fonte più prossima agli eventi, sia in termini temporali che geografici, quale è lo scritto di Cesare Cittadella116. Questi, infatti, avvisa che
Pirro Ligorio […] specialmente si esercitava con somma intelligenza nel trattare, e nel raccogliere di cose antiche, per cui tra noi assai celebre: di questi antichi pezzi dalla sua studiosa diligenza accumulati se ne conservano anche al tempo mio (come detto mi venne) in Casa de’ suoi creduti pronipoti, già nostri cittadini abbattuti dalla fortuna […] Diversi scritti in ordine all’Architettura con bellissimi disegni da me veduti erano in mano di quelli suoi presunti pronipoti, che passarono in quelle de’ Sig. Gardellini, e da questi furono donati al Sig. conte Achille Crispi raccoglitore di siffatte cose, ed in specialità di libri, morto l’anno scorso riformatore della nostra Pontificia Università.
82La questione, quindi, è abbastanza chiara: nella seconda metà del Settecento a Cittadella viene detto che «in Casa de’ suoi [di Ligorio] creduti pronipoti», si conservano «cose antiche» appartenute all’architetto, mentre i documenti manoscritti, già appartenuti ai medesimi «creduti pronipoti», che non abitano più a Ferrara, «già nostri cittadini», a causa delle difficoltà economiche, «abbattuti dalla fortuna», passano prima nelle mani dei «Sig. Gardellini» e poi in quelle del «Sig. conte Achille Crispi» . La notizia del passaggio dai Gardellini al conte Crispi, tra l’altro, deve essere considerata attendibile dato che Cittadella descrive accadimenti avvenuti in anni assai prossimi a quelli della stesura della sua opera dato che la riforma dell’Università di Ferrara avviene nel 1771. Al fare riferimento, inoltre, alla parte nella quale afferma di avere visto alcuni scritti contenenti disegni architettonici, «bellissimi disegni da me veduti», si deve ritenere siano riferibili alla parte pervenuta al conte Crispi che, di solo di nove anni maggiore dello storico (nato nel 1723) e con interessi culturali che spaziavano dalla poesia, alla narriva, alla storiografia e alla musica117, potrebbe aver condiviso con Cittadella alcuni comuni interessi. Certo è che alcune fonti storiche ferraresi, ancora all’inizio dell’Ottocento, al riportare che «si può nominare qualche originale manoscritto del Ligorio, rimasto per buona sorte in Ferrara, ed in particolare uno presso Giuseppe Boschini »118, indicano che, nel corso delle differenti acquisizioni, una minima parte dell’eredità ligoriana sia rimasta nella città estense.
83Se per ora sembra indiscutibile che il passaggio del materiale al conte Crispi sia avvenuto nella metà del Settecento, per l’epoca dell’acquisizione da parte dei Gardellini si può solo fare riferimento a Cittadella quando afferma che sono i «presunti pronipoti» a vendere loro quel che resta dell’eredità.
84Nell’ammissione che i figli di Ligorio residenti a Ferrara nella prima decade del Seicento siano quelli, «molti», avuti dalla moglie Barbara e noto che l’ultimo di questi, Cesare Gabriele, nato nel 1579, in quel periodo è più che trentenne, appare evidente che nel medesimo periodo possano aver risieduto a Ferrara numerosi nipoti e pronipoti dell’architetto, molti dei quali in età tale da poter condurre la trattativa.
85Occorre rammentare, però, che dei figli maschi di Ligorio l’unico del quale si conserva l’atto di battesimo a Ferrara è proprio Cesare Gabriele, che di un altro figlio, Ercole, è testimoniato il trasferimento a Napoli nel 1630, quando, si può supporre, sia almeno cinquantenne, mentre Achille, presumibilmente il primo figlio, nato attorno al 1549, probabilmente risedeva a Roma, come sembrerebbe attestabile dal citato atto di acquisto di una proprietà, benché Coffin119 ipotizzi il suo trasferimento a Ferrara, al seguito del padre. Si potrebbe dunque immaginare nel 1615 a Ferrara vi siano alcuni nipoti di Ligorio, tra i quali certamente i giovani figli di Cesare Gabriele.
86Al ricordare, però, che Cittadella fa riferimento a «presunti pronipoti», non si può che immaginare che la transizione avvenga molti anni dopo, tale che sia oramai «presunta» la parentela del celebre architetto con i venditori, non più abitanti a Ferrara; la qual cosa, tra l’altro, è verificabile nella assenza della vendita ai Gardellini nella lettera che d’Agliè scrive narrando fatti per lo più accaduti appena prima del 1632.
87Si potrebbe, pertanto, iniziare a tracciare la diacronia dell’eredità ligoriana sulla base delle informazioni di d’Agliè e sulla certezza che vendita dei libri ai Savoia è avvenuta a Ferrara nel 1615.
88Dato che, come riporta d’Agliè, Stefanoni aveva «conosciuto la moglie del sudetto e che haveva due cassoni, uno di libri, che sono l’opere contenute negli indici retroscritti, che ora sono in mano del Duca di Savoia e l’altro di disegni», si deve stabilire che l’incontro tra l’antiquario e Barbara Ligorio sia avvenuto prima del 1615, ossia prima che la casa Ducale torinese rilevi l’intera documentazione allora disponibile a Ferrara, senza tralasciare neppure i disegni appena abbozzati e i fogli sparsi, noto che il contenuto dei codici Torinesi comprende tale genere di materiale; da ciò deriva pertanto che il «cassone… di disegni, una gran parte de’ quali capitano male nelle mani del sudetto Raimondi» all’epoca dell’acquisto non sia stato accessibile ai Savoia.
89Si prospetta, dunque, la possibilità che Barbara Ligorio sia morta dopo l’incontro con Stefanoni e comunque prima del 1615 e che i due «cassoni» siano stati ripartiti tra almeno due eredi (Achille ed Ercole?), dei quali uno vende tutta la sua porzione ai Savoia mentre l’altro, che già non risiede a Ferrara o che si allontanerà presto dalla città, a sua volta trasmette il lascito ai suoi eredi, «presunti pronipoti… già nostri cittadini». Costoro, dunque, potrebbero essersi divisi il restante materiale, costituito da libri120 e da disegni, dei quali «una gran parte» finisce nelle mani di Raimondi, mentre il resto è venduto anche ai Gardellini.
90L’ultimo protagonista che resta da individuare, quindi, è Giorgio Raimondi, che nel testo dell’ambasciatore sabaudo appare quale rigattiere, evidentemente atteso anche al commercio di disegni e di dipinti, «havendo fatto il mercato con havergli in bizzarro dato quadri moderni», originario di Ferrara ma con bottega a Roma «ne’ coronati »121.
91Una previa indagine condotta sulla base del cognome, intrapresa negli archivi dell’area ferrarese, ha indicato solo l’esistenza di una famiglia di orefici, di origine cremonese, residenti a Ferrara tra il 1502 e il 1540122 ; la medesima indagine condotta in ambito romano ha posto in luce solo minimi cenni, alcuni dei quali trasmessi da Lanciani123 in merito a «un misuratore della Rev. Camera», di nome Mercurio Raimondi, che opera a Roma nella seconda metà del Cinquecento e, negli stessi anni, si trova un Raimondi notaio, il cui nome compare in molti atti del cardinale Farnese, mentre altri Raimondi sono diffusamente riportati nei saggi contenuti nel secondo volume curato da Debenedetti in relazione alla presenza di artisti e artigiani a Roma, ma nel Settecento124.
92Per meglio inquadrare il Raimondi rigattiere che acquista il materiale ligoriano restano da analizzare le valenze socio-economiche pertinenti i rigattieri nel Seicento romano. A tal proposito Travaglini125 informa che i primi statuti della Corporazione dei Rigattieri, che ha in san Bernardino il protettore, risalgono al 1609, sebbene la costituzione, e la conseguente redazione degli statuti originari, possa essere fatta risalire ai primi del Cinquecento126. Le mansioni spettanti ai patentati sono di vario tipo, a partire da quella di «misuratore», anche se, per lo più, rivendono «vestimenti e masserizie usate. Ricevono anche pegni, che poi depongono al Monte di Pietà, e da esso sono dipendenti »127. A tali attività, inoltre, occorre aggiungere quella, certamente non secondaria e già focalizzata da Haskell128, pertinente il commercio di dipinti, siano essi moderni, ovvero opere considerate rarità, come anche attestato in un breve di Urbano VIII del 1633129.
93Associando a tali indicazioni il brano della lettera di d’Agliè si deve ritenere, pertanto, che la compravendita dei disegni ligoriani sia da annoverare tra le attività proprie di un rigattiere, quale era Raimondi, e che questi, dopo aver acquisito la «gran parte dei disegni» di Ligorio provenienti dal lascito della moglie dell’architetto, ne abbia recuperati altri, offerti in vendita, o forse in pegno, «dagl’heredi d’alcuni pittori» .
94Dato che sia la lettera, sia le informazioni acquisite, spingono a ritenere che l’intera attività commerciale di Raimondi avviene a Roma, si potrebbe ritenere che i medesimi eredi abbiano venduto parte dei disegni a Raimondi e parte ad «alcuni pittori» residenti nella medesima città. Occorre, quindi, rivolgere l’attenzione a questi ultimi e tentare di capire come possano essere pervenuti in possesso di disegni di Ligorio e quando possano aver alienato i loro averi, considerando che si tratta di anni durante i quali i disegni ligoriani sono assai ambiti dai maggiorenti dell’intera Europa.
95Al ricordare che lo stesso Ligorio vende suoi disegni e libri a Roma prima del trasferimento a Ferrara130, si potrebbe immaginare che parte di tale materiale sia capitato in mano ad «alcuni pittori»; ipotesi questa che, però, sembra essere rigettabile visto che la maggior parte dei documenti è acquistata dal cardinale Alessandro Farnese. Altresì, è possibile immaginare che uno o più pittori siano riusciti a impossessarsi di un certo numero di disegni ligoriani e che, in seguito, i loro «heredi» li abbiano venduti, o ceduti, a Raimondi. Si potrebbe pensare, quindi, che si tratti di documenti originariamente posseduti dal cardinale Ippolito II d’Este e custoditi in una delle sue dimore, ossia nel palazzo di Monte Giordano, insistente proprio nell’area nella quale si sarebbe trovata la bottega di Raimondi, o nella villa estense tiburtina che, costruita da Ligorio, potrebbe essere stata la naturale sede in cui collezionare un archivio di disegni e che, come visto, per anni era stata oggetto di furti e spoliazioni.
96Prima di procedere con la ricerca inerente l’identità dei «pittori» e le occasioni che avrebbero permesso loro di entrare in possesso di disegni ligoriani, occorre prendere in considerazione numerosi e ulteriori dati, a partire da quel che concerne i cardinali Barberini e Contini, tra i principali attori delle vicende che occorrono proprio negli stessi anni.
I Barberini, Contini e la pianta ligoriana
97Nell’archivio Barberini si trovano due documenti che attestano il possesso, certamente tra il 1637 e il 1649, di almeno una pianta della Villa imperiale tiburtina; del 1637, infatti, è un documento131 che recita
Donato e mandata in Inchilterra. / Una Carta grande log. p.mi 20 larga p.mi 7 con il desegno della villa Adriana con il suo libretto dentro» .
98Il successivo132, del 1649, avvisa che a palazzo Barberini, si trova
Una Carta con la villa Adriana fatta con Penna et acquarella longa palmi venti quattro in circa, alta palmi otto e s’accoglie con un legno tondo col suo libretto delle descrittioni.
99Per MacDonald e Pinto entrambi i documenti fanno riferimento «con ogni probabilità» alla «pianta generale originale di Contini sulla quale si basò la stampa del 1668 »133, dato che «altre fonti documentali degli archivi Barberini confermano che Contini lavorava alla villa almeno dal 1634: tra quella data e il 1636 sono registrati infatti numerosi pagamenti in suo favore relativi all’indagine; gli ultimi specificano che Contini e l’incisore Domenico Parasacchi trascorsero 52 giorni alla villa tra il mese di giugno del 1635 e il marzo 1636 »134. A ciò occorre aggiungere le indicazioni fornite da Kircher nel suo Latium a proposito della pianta di Ligorio conservata a palazzo Barberini135, quanto trasmesso da Giustiniani136 che, nel 1665, afferma che il cardinale Francesco Barberini ha già fatto realizzare il «disegno della Villa Hadriana in Tivoli», e due testimonianze autografe di Contini. Di queste, la prima è scritta su una muratura di un corridoio seminterrato nell’area Nord-Ovest del cd Palazzo, quasi completamente scomparsa già dal 1973137, ma frequentemente testimoniata dalla letteratura138 a partire da Sebastiani che riferisce si tratta di una
scritta in lapis nero, e dice così: Urbani VIII. Pont. Opt. Max. Anno XI. / Hadriani • Imp. Villae / Toto • orbe • celeberrima / Antiquam • faciem / Ex • ruderibus / Vix • adirne • spartim • extantibus / Francisco • Card. Barberino • Jubente / Summo • labore • atque • industria / Rapraesentavit Franc. Continus Romanus / Anno • Salutis 1634139 (fig. 2).
100La seconda testimonianza autografa di Contini, certamente molto più tarda, appare nella Dedica del suo volume, stampato nel 1668 e contenente la pianta, laddove si legge «Sono già due anni, che V.E. m’honorò commandarmi, ch’io facessi la Pianta della Villa Adriana».
101Le date che si ottengono dall’insieme delle informazioni, come al solito, inducono serie perplessità: la scritta del 1634 avvisa che è stata già rappresentata, da Contini e con summo labore, la Villa imperiale nella sua antiqua faciem, le note trasmesse da Kircher e da Giustiniani tra il 1665 e il 1671 indicano che una pianta esiste ed è esposta a palazzo Barberini, ma Contini, nel 1668, nello scrivere che l’incarico gli è stato conferito «due anni» prima, rimanda al 1666 l’inizio del lavoro.
102Certo è che, come vogliono coloro che hanno discusso dell’argomento, l’architetto avrebbe terminato il lavoro sul campo nel 1634 per poi verificarlo fino al 1636 e che, in seguito, lo avrebbe conservato per ben 32 anni, pubblicandolo, chissà perché, nel 1668.
103Seguendo sempre la letteratura e immaginando che i due anni di lavoro affermati nel 1668 da Contini facciano riferimento alla prima esperienza sul campo, si dovrebbe ritenere che il cardinale Francesco Barberini gli conferisca l’incarico nel 1632, ossia proprio nello stesso anno durante il quale accadono numerosi avvenimenti finora discussi, a partire da gennaio, quando lo sprovveduto Raimondi cede gran parte dei disegni di Ligorio all’anonimo francese D’Autreville in cambio di quadri moderni, per passare a maggio, quando il cardinale Francesco acquista il manoscritto di Del Re140, poi a giugno, quando lo stesso cardinale invia Ménestrier in Francia per tentare il recupero dei disegni, e infine, all’incirca negli stessi mesi, quando il cardinale Antonio Barberini si interpone al fratello nella carica di Governatore di Tivoli141.
104Innanzi tutto, stante all’ultima informazione, la discussa affermazione di Lanciani secondo cui sarebbe stato Antonio Barberini, e non Francesco, ad affidare l’incarico a Contini, potrebbe non essere giudicata pienamente erronea in funzione dell’alternanza dei due fratelli Barberini nella carica di governatore della città tiburtina a cavallo tra il 1632 e il 1634. Afferma infatti Lanciani che
Di tutte le fabbriche scoperte e degli avanzi esistenti sopra terra il Ligorio tolse una grande pianta, la quale, paragonata alle goffe produzioni di altri architetti contemporanei, è altamente mirabile. Rimasta inedita sino al 1634, il card. Antonio Barberini ne fece fare riscontro sul terreno dall’architetto Francesco Contini, il quale ne curò più tardi l’incisione in rame. Del quale fatto rimane memoria in una lunga leggenda scritta dal Contini stesso con matita nera, sulla bianca parete del criptoportico vicino ai cosidetti templi di Diana e Venere. Vedi Sebastiani p. 277142.
105Al di là della questione inerente il nome del committente, tra l’altro irrilevante visto che si tratta di membri della stessa famiglia, dalle parole di Lanciani emerge la convinzione che il cardinale Barberini, già proprietario della pianta «altamente mirabile» di Ligorio, nel 1634 affida a Contini l’incarico di verificarla per poi stamparla.
106Ciò fornisce una iniziale e possibile interpretazione in merito alla questione inerente l’iter dei lavori condotti da Contini nella Villa imperiale e, di conseguenza, impone di rivedere quell’ipotesi assai poco probabile, benché comunemente accettata dalla letteratura, secondo la quale l’architetto abbia iniziato il suo rilievo nel 1632 per poi stamparlo nel 1668.
107In effetti, al ricordare che Ménestrier rientra a Roma all’inizio del 1633 e nell’ammissione che nel corso del suo viaggio questi abbia condotto positivamente a termine l’incarico di «retrovar i suddetti disegni e recuperarli», non si può non ammettere che il primo compito assegnato a Contini dal cardinale sia stato quello di verificare in sito i ritrovati disegni ligoriani. Mandato, questo, che l’architetto intraprende appena dopo il rientro di Ménestrier e che termina, come lui stesso scrive, nel 1634.
108Certamente, in ragione delle concrete testimonianze disponibili al momento, tale verifica potrebbe aver avuto per oggetto la sola area della cd Accademia143, ossia il soggetto rappresentato nell’unico disegno ligoriano – tra l’altro propriamente definibile pianta – del quale si può ipotizzare il possesso da parte dei Barberini a partire dal 1633, non foss’altro in dipendenza della copia in pulito e della presenza del richiamo sintetico di quanto precedentemente accaduto al corpus dei disegni ligoriani di Villa Adriana, «furono portati in Francia da Monsù di Autreville».
109A seguire tale interpretazione, tra l’altro, se da una parte si conferma che l’autore della copia in pulito è proprio Contini, che nel 1633, dopo aver eseguito la riproduzione grafica, inizia le sue frequentazioni nella Villa, dall’altra si può iniziare a pensare che Ménestrier abbia recuperato più di un disegno144 e, tra questi, anche la pianta «altamente mirabile» della Villa.
Tab. 2 – I maggiori avvenimenti citati, elencati in ordine cronologico
Anno | Sui disegni di Pirro Ligorio | Altri |
1590 | Pietro Stefanoni risiede e lavora a Roma | |
pre 1615 | Muore Barbara Ligorio e gli eredi si dividono i due «cassoni» | |
1615 | Uno degli eredi, residente a Ferrara, vende ai Savoia 26 volumi di Ligorio | |
1617 | D’Autreville pubblica la prima opera a Parigi | |
1620 | D’Autreville pubblica la seconda e ultima opera a Parigi | |
1621 | Monsignor Bulgarini acquista terreno a Villa Adriana | |
1624-27 | Francesco Barberini è governatore di Tivoli | |
1627-32 | Francesco Barberini acquista copia del libro di Del Re | |
1627-37 | Lodovico d’Agliè è ambasciatore dei Savoia a Roma | |
1627 –‘32 | Un altro erede di Ligorio, o lo stesso ma non più residente a Ferrara, vende ulteriori disegni a Raimondi | |
gennaio 1632 | Raimondi vende a Roma 5000 disegni di Ligorio, provenienti da due diversi acquisti, che vengono portati in Francia da D’Autreville | |
giugno ‘32 | Ménestrier parte per la Francia | |
1632-33 | Vittorio Amedeo di Savoia «dona» copia di un codice ligoriano ai Barberini | |
febbr. ‘33 | Ménestrier è a Roma |
110Per ottenere un quadro più completo della questione attinente le due testimonianze autografe di Contini occorre aggiungere una ulteriore informazione, trasmessa in un manoscritto di Bartoli pubblicato solo nel 1741 nella raccolta Roma antica145, in seguito riportata da Canina146 e da Nibby147, sebbene per lo più ignorata dalla letteratura attuale.
111Scrive Bartoli148, che
Nella Villa Adriana a Tivoli furono rintracciati tutti gli edifizij, per ordine del Cardinal Francesco Barberini, da un tal Arcucci architetto, il quale ne fece una bellissima pianta, che poi messa in luce riuscì una sporca cosa, per l’ignoranza di chi l’intagliò ed in tale occasione vi fu trovato un bellissimo candeliero di marmo, opera di Scultore egregio, con altre Statue, che non mi ricòrdo, le quali sono nel Palazzo Barberini alle quattro Fontane; fu cavato poi per ordine d’Innocenzo X, colla direzione di Giovanni Maria Baratta, dal quale anche furono trovate cose insigni, ma particolarmente una scala colli gradi di alabastro Orientale, le pareti de’ fianchi internate di varj mischj, li quali erano intersiate di pietre di gran valore, per quello, che dettero segno alcuni frammenti rimastivi con incassature di metallo corintio indorato. Fu occupata una parte di detta Villa incontro alle cento Celle, che era luogo, per alloggiare li Soldati Pretoriani dalli Gesuiti, li quali facendo lo scassato trovarono dieci Statue Egizie di pietra Paragone, ma tutte rotte, o almeno in parte, le quali furono vendute una miseria all’Eminentissimo Massimi, che, fattele ristorare, riuscirono di prezzo inestimabile; le quali Statue, dopo la morte di detto Signore, le comprò il Marchese del Carpio, Ambasciadore di Spagna, ardisco dire per meno prezzo di quando erano frammentate; nel medesimo luogo si trovarono pezzi di gambe, teste, orecchie di Toro, code di altri animali, che malamente si poteano giudicare qual fossero.
112Nella già intricata questione della pianta di Villa Adriana intervengono, a questo punto, un nuovo nome, «Arcucci», e un’altra pianta, sempre commissionata dal cardinale Francesco Barberini; novità, queste, che impongono di rivolgere l’attenzione alla determinazione della data di conferimento di tale incarico.
113Sulla base dell’affermazione di Bartoli, l’incarico avviene nella stessa «occasione» del ritrovamento del «bellissimo candeliero di marmo»; pertanto una traccia potrebbe essere fornita dalle informazioni inerenti tale ritrovamento, documentato anche da Contini nella legenda della sua pianta149:
Piano, dove erano i sopradetti edifitij, nel quale Monsignor Bulgarino padrone del luogo, ha fatto cavare tra la detta loggia, e la sua stalla, ove ha trovato alcune stanze sotto terra rovinate, dalle quali hà cavato due candelieri di marmo intagliati a foglie con li piedi à triangolo, nelle cui facciate sono figurine di basso rilievo intagliate di buona maniera. li quali candelieri ora sono tra l’anticaglie dell’Eminentissimo Signor Card. Barberino.
114Dalle parole dell’architetto, quindi, si legge che si tratta di due candelabri, non di uno come detto da Bartoli, e che la data del ritrovamento fa riferimento agli anni durante i quali «Monsignor Bulgarino» è padrone del luogo (cd Accademia).
115Francesco Bulgarini150 trasmette che il ritrovamento avviene nel 1630: «Monsignor Bulgarini nel 1630 trovò i due magnifici candelabri di marmo bianco di finissimo intaglio, oggi al museo Vaticano, che donò al Cardinal Barberini governatore di Tivoli», mentre il restauratore dei due candelabri, Bartolomeo Cavaceppi151, nella prima delle due stampe da lui disegnate per illustrare gli oggetti, rimanda ad altro luogo e altra data: «Si questo che il susseguente, dissotterrati fra le rovine del Tempio della Fortuna Prenestina circa l’anno 1620» (fig. 3). Benché tale informazione sia in seguito ripresa da Nibby152, l’inesattezza inerente il luogo del ritrovamento è sottolineata da Marini153 che confuta Cavaceppi assumendo i dati inerenti i ritrovamenti occorsi a Palestrina nei quali non vengono citati i candelabri.
116Dato che dagli atti della famiglia Bulgarini è accertato che il monsignor Bulgarini acquista i terreni della cd Accademia nel 1621 e che il ritrovamento è del 1630, nell’accreditare la veridicità a tali informazioni, vengono poste in evidenza le incertezze che lo stesso Bartoli esprime rispetto al complesso degli eventi, «non mi ricordo», e di conseguenza occorre stabilire che i fatti sono accaduti non «vivente Bartoli», bensì cinque anni prima della sua nascita, da cui si deve ritenere che si tratta di notizie riportate e, come tali, non esenti da sviste, una delle quali potrebbe essere riscontrabile nel «tal Arcucci», l’architetto che riceve l’incarico di redigere la pianta di Villa Adriana prima di Contini.
117Camillo Arcucci, nato a Sigillo Umbro (in provincia di Perugia) nel 1618 e, come tale, appena dodicenne nel 1630, muore a Roma nel 1667, ossia quando Bartoli ha 32 anni. A fronte di quanto riportato nella letteratura, inoltre, si evince che si forma presso lo studio di Francesco Contini e che in seguito completa molti lavori di Borromini154 ; già dal 1651 gode di «buona riputazione »155, è diffusamente citato nella letteratura dell’epoca per aver progettato, tra il 1642 e il 1667, il Palazzo Gottifredi156 e alcuni suoi lavori appaiono nel catalogo d’architettura delle «fabbriche insigni di Roma »157.
118Da quanto desunto occorre riscontrare l’errore commesso da Bartoli nell’attribuire ad Arcucci la revisione della pianta ligoriana, come per altro accennato dalla recente letteratura, sebbene in maniera assai generica, «sembrerebbe che il Fea confondesse l’Arcucci con il Contini o perfino con l’Arigucci (un misuratore spesso usato dai Barberini) »158; ipotesi, questa, che, benché corretta, prende le mosse da stime erronee a partire dall’attribuzione a Fea del testo di Bartoli, per passare al mancato riscontro dell’assenza del nome di Arcucci nei «pagamenti a Contini» erogati dai Barberini, per finire alla considerazione che gli eventi hanno corso quando Arcucci è decisamente troppo giovane.
119Diversamente da Camillo Arcucci, Luigi Arigucci (o Arrigucci), nato a Firenze nel 1575 e morto a Roma nel 1647, è un architetto che lavora al servizio dei Barberini159 e, in particolare, di Urbano VIII (che nel 1630 lo nomina architetto «soprastante alle fabbriche della nostra Camera», quale successore di Maderno), come ricordato anche da Baglione160 a proposito dell’attribuzione, al «Signor Luigi Arigucci Gentil’huomo Fiorentino», di molte delle «Opere di Papa Urbano VIII» .
120Qualche ulteriore indicazione in merito alle attività di Arrigucci è riportata anche da Moroni161, mentre Limentani informa che Arrigucci è «evidentemente amico intimo del Buonarroti [il giovane] »162 e che nel 1632 fa parte di una commissione di periti per la revisione di un progetto di Camillo Arcucci163, cui fa seguito Boiteux164 che adduce i motivi portanti dell’attività professionale di Arrigucci a Roma agli stretti legami sempre mantenuti dai Barberini con l’ambiente fiorentino.
121Su tali basi, pertanto, è possibile ammettere che l’architetto cui il cardinale Barberini conferisce l’incarico della revisione della pianta della Villa Adriana attribuita a Ligorio sia stato proprio Luigi Arrigucci, che muore quando Bartoli ha dodici anni e, conseguentemente, non solo si chiarisce la forma dubitativa adottata da Bartoli ma si aggiunge una concreta possibilità all’ipotesi che tale incarico venga attribuito all’inizio del 1633, in seguito al ritorno di Ménestrier dalla Francia, ossia nel corso del periodo durante il quale Arrigucci è impegnato nella redazione di alcuni progetti più propriamente inerenti gli interessi della famiglia Barberini.
122Eppure nel 1634 Francesco Contini, sempre per conto del cardinale Barberini, sta terminando con summo labore la verifica dell’antiqua faciem delle Villa imperiale tiburtina.
123La familiarità con la quale la letteratura moderna sviluppata in merito a Villa Adriana tratta di questo architetto non implica un’esaustiva conoscenza del personaggio165 e, men che mai, contribuisce a chiarire l’epoca e i motivi della sua partecipazione professionale nel circolo dei Barberini. Alcune indicazioni biografiche di Contini166, desunte dagli atti d’archivio della parrocchia romana di Santa Maria in Vallicella, indicano che nasce a Roma il 27 luglio del 1599 da una famiglia ricordata, sempre nei medesimi atti, anche nel 1610, «Pietro Contini pittor romano d’an. 55; Felicita Sebastiani romana sua moglie con 7 figli, il maggiore Giulio Antonio d’anni 23 »167, e nel 1620168. Ulteriori testimonianze in merito alla famiglia rendono noti i nomi di altri fratelli, Gregorio e Barbara169 ; altresì del padre Pietro sono documentate alcune note di pagamento per lavori di pittura eseguiti a partire dal 1592170 e, a fronte delle date riportate in alcuni documenti, è possibile immaginare anche l’esistenza di un altro parente, omonimo dell’architetto171, mentre ben più noto nell’ambiente architettonico romano sarà il figlio di Francesco, Giovanni Battista, diffusamente trattato dalla letteratura172.
124Delle attività professionali svolte da Francesco Contini si ha traccia a partire dal 1630, quando è ricordato per aver ricevuto l’incarico di rilevare le catacombe romane al fine di completare l’opera lasciata incompiuta dallo studioso maltese Antonio Bosio. Probabilmente proprio in tale occasione Contini riesce a farsi apprezzare dal cardinale Francesco Barberini, dato che quest’ultimo, incitato da de Peiresc, ha un ruolo attivo nella vicenda173 e le ragioni che potrebbero aver inciso nell’affidamento dell’incarico al trentunenne professionista, ancora non pienamente maturo, «architetto di molta espettatione »174, potrebbero essere individuate negli stretti rapporti tra Bosio e i partecipanti all’Oratorio Filippino175, note le assidue frequentazioni della famiglia Contini con i conventuali Filippini la cui sede, tra l’altro, dovrebbere essere stata assai prossima alla loro abitazione.
125Quel che appare certo è che, tra il 1630 e il 1632 (anno nel quale viene completato il rilievo delle aree della Roma sotterranea), Contini è particolarmente attivo quale topografo: nello stesso periodo, infatti, è pagato anche per la redazione di mappe176, mentre solo alla fine degli anni Trenta del Seicento il suo nome compare associato all’edilizia, benché si tratti quasi sempre di opere minori, talora, a partire dal 1634, eseguite in collaborazione con Borromini177, con il quale, poco più di dieci anni dopo, entra in netto contrasto, tanto da raccomandarne il licenziamento dalla carica di architetto di Sant’Agnese178. Nello stesso periodo Contini assume l’incarico di architetto del Collegio di Propaganda Fide, affidatogli su intercessione del cardinale Francesco Barberini179, benché revocato poco dopo, e, nel 1642, completa la sistemazione del prospetto posteriore della «Casa grande» dei Barberini ai Giubbonari180. Tra il 1633 e il 1647 è «perito eletto per parte delli signori Federico e fratelli de Zuccari »181, e nel 1650 l’avvenuta nomina di «Professore Accademico» di S. Luca nel 1650182 sottende il raggiungimento di una buona elevazione sociale, la qual cosa è, del resto, dimostrata dall’acquisto di un palazzetto in via del Governo Vecchio, già appartenuto alla famiglia Turci183, nel quale vive anche il figlio Giovanni Battista con la famiglia. Se nel 1657 viene ricordato da Virgilio Spada quale «huomo di 50 anni disegna e misura bene, è in buon concerto di fede, e diligente è provvisionato dai SS.ri Barberini, hà moglie e figli »184, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, probabilmente a fronte dell’esperienza maturata quale topografo, compare sia nell’elenco degli «architetti e sottomaestri di strade», sia quale autore di rilievi e di disegni di mappe per il Catasto Alessandrino. Nel 1660 lavora a Palestrina, di nuovo per la famiglia di Taddeo Barberini, dove progetta e costruisce «una elegantissima chiesina [...] S. Rosalia [...] Architetto dell’Opera fu il Contini, il quale architettò altresì per delizia de’ Principi Barberini una Villetta con due Casini, e a lato di essi una Chiesa dedicata a S. Filippo Neri »185 ; infine, nel 1667, solo due anni prima della morte, assume la carica di «architetto del Conclave», come appare in un atto nel quale è indicata anche la collaborazione, in qualità di misuratore, del figlio Giovanni Battista186.
126All’incirca negli stessi anni dell’esordio professionale di Contini a Roma, la letteratura testimonia l’esistenza di un altro Francesco Contini «veneziano», per lo più indicato quale ingegnere e architetto che opera nella città lagunare e nelle aree limitrofe ma del quale si hanno testimonianze di interventi anche in altre città, come nel caso di Pisa. La concordanza delle date, associata all’omonimia e alla comune attività, ha talora recato alcuni a confondere i due personaggi, ovvero a ritenere siano stati la stessa persona187, e se Temanza188 attribuisce origine luganese ai Contini veneti, è solo Zani189 che, forse proprio per fare distinzione, attribuisce il cognome «Contini» ai membri della famiglia romana, a partire da Pietro – indicato, però, come architetto –, e il cognome «Contino» a tutti quelli luganesi o veneziani. Certo è che le analogie tra i Contini romani e gli omonimi settentrionali sono numerose; alla comune propensione verso le arti e, in particolare, verso l’architettura, è anche associabile la concordanza dei nomi Francesco, Pietro e Antonio190.
127Noto che nella Roma degli anni di cui si tratta la comunità di artisti che, provenienti da Lugano e, più in generale, di origine ticinese, è cospicua e costituita anche da numerosi tagliapietre e architetti, alcuni dei quali di chiara fama, spesso tra loro collegati da legami parentali più o meno stretti, come nei casi dei Fontana, di Maderno, di Borromini191, si potrebbe dunque concordare con Donati192 quando formula l’ipotesi di una origine ticinese anche per i Contini romani e, in tal caso, si potrebbe pensare che il lavoro assunto da Francesco presso i Barberini possa essere stato perorato anche da qualche esponente della medesima comunità, come, pe. Carlo Maderno, il progettista del palazzo dei due fratelli cardinali.
128Sulla base di quanto finora desunto, quel che risalta per il tema in oggetto è che, probabilmente a partire dal 1630, Francesco Contini lavora prevalentemente quale topografo e che, per l’esperienza maturata in quel campo, nonché per le frequentazioni con i membri dell’entourage filippino, ovvero per intercessione di qualche originario ticinese, entra in contatto con il cardinale Barberini. A fronte della stretta collaborazione con il gruppo di differenti esperti, come lui incaricati di condurre le indagini attinenti i sotterranei di Roma, non si può non ammettere che, nel corso del biennio dedicato a tale lavoro, acquisisca maggiori competenze nell’ambito del rilevamento, sia di tipo tecnico/matematico, sia nel contesto delle antichità.
129Tra il 1630 e il 1632 il cardinale Francesco Barberini, nel corso del suo secondo mandato di governatore di Tivoli (1627-1632), forse in seguito al ritrovamento dei due candelabri, inizia a interessarsi dell’insieme delle questioni pertinenti Villa Adriana e, dopo avere acquisito il manoscritto di Del Re, intraprende la ricerca dei dispersi disegni della Villa imperiale tiburtina redatti da Ligorio; tenendo fede a Bartoli, tale ricerca, quanto meno con riferimento a una «pianta» ligoriana di tutto il sito archeologico, avrebbe avuto esito proprio negli stessi anni, dato che il cardinale incarica l’esperto architetto di famiglia, Arrigucci, di verificare l’elaborato.
130A partire dal febbraio del 1633, nel corso del mandato del cardinale Antonio Barberini quale governatore di Tivoli e in seguito al ritorno di Ménestrier, sembra indubbio affermare che il cardinale Francesco sia riuscito ad acquisire altri disegni di Villa Adriana attribuiti a Pirro Ligorio, tra i quali almeno una seconda «pianta» generale, alcune piante parziali (della Palestra, dell’Accademia), che confluiranno in seguito nella raccolta di Cassiano del Pozzo e, probabilmente anche il disegno in pianta del Serapeo, del quale si ha traccia a Roma fino alla seconda metà del Settecento. Al ricordare che il disegno in pianta dell’Accademia sarà passato in pulito da Contini, che ha appena maturato l’esperienza di rilevatore delle antichità in sotterraneo, tutto induce a pensare che il trentenne architetto sia stato assunto con il compito di mettere in pulito le piante parziali e di verificare la seconda «pianta» generale, sulla cui paternità ligoriana il cardinale sembra mostrarsi giustamente dubitativo.
131Al ricordare che nel 1634 Contini termina il riscontro dell’antiqua faciem della Villa e che continua a recarsi in sito, talora accompagnato dall’incisore Parasacchi fino al 1636, occorre ritenere che, dopo il 1636, il lavoro prodotto non riuscirà a soddisfare il cardinale e che subirà la medesima sorte del precedente incarico condotto da Arrigucci.
132Se, pertanto, la copia continiana del disegno della cd Accademia dovrebbe essere riferita all’inizio del 1633, si potrebbe anche immaginare che la parte relativa alla nota – che, come rilevato da Salza Prina, sembra un’aggiunta successiva – sia stata inserita dallo stesso architetto solo dopo aver assunto l’impegno della verifica della seconda pianta dell’intera Villa. Dato, inoltre, che il rigattiere Raimondi potrebbe aver avuto la bottega in via dei Coronari, strada compresa nel rione Ponte, ma assai prossima al rione Parione dove abitava Contini, si potrebbe anche pensare che Contini aggiunga la nota al disegno dopo aver acquisito dallo stesso Raimondi l’informazione inerente la sua vendita al francese D’Autreville.
133Certo è che in tutta la vicenda per ora presa in esame manca ancora per lo meno un elemento di concatenazione indispensabile per giustificare le ragioni della grande e ripetuta insoddisfazione da parte del cardinale Barberini nei confronti di lavori condotti da suoi architetti, entrambi non certo inesperti; un elemento che, inquadrabile nella scarsa qualità della preziosa «pianta» attribuita a Ligorio, deve essere analizzato anche attraverso la testimonianza di Contini, quando afferma di aver rappresentato l’antiqua faciem della Villa, ossia un disegno ricostruttivo. A tal proposito si rende necessaria un’indagine inerente le immagini che Villa Adriana poteva evocare agli intellettuali cinquecenteschi, quali Pirro Ligorio, e, di conseguenza, ottemperare una verifica delle maniere adottate per la rappresentazione dell’antico e delle città antiche, note le esperienze condotte dal medesimo Ligorio, negli stessi anni durante i quali studia la Villa imperiale tiburtina, nell’ambito della cartografia romana.
Tab. 3 – I maggiori avvenimenti citati, elencati in ordine cronologico
Anno | I Barberini e Villa Adriana | Altro |
1575 | Luigi Arrigucci nasce a Firenze | |
1599 | Francesco Contini nasce a Roma | |
1618 | Camillo Arcucci nasce a Sigillo Umbro | |
1624-1627 | Francesco Barberini è Governatore di Tivoli | |
1627-1632 | Secondo mandato di Governatore del cardinale Francesco | |
1630 ca. | Ritrovamento candelabri | |
1630-1632 | Francesco Barberini acquista copia del libro di Del Re | Contini lavora al rilievo dei sotteranei di Roma |
1632-1634 | Luigi Arrigucci è incaricato della verifica della ligoriana pianta di Villa Adriana | Antonio Barberini è Governatore di Tivoli |
1634-1644 | Terzo mandato di Francesco Barberini quale Governatore | |
1633 | Contini copia in pulito i disegni di Ligorio recuperati da Ménestrier in Francia | |
1634 | L’incisione della pianta verificata da Arrigucci riesce «sporca cosa» | |
1635 | Nasce Pietro Santi Bartoli | |
1635-1636 | Contini e Parasacchi lavorano in Villa per completare l’incisione della pianta | |
1637 | I Barberini spediscono in Inghilterra una pianta di Villa Adriana di palmi 20x7 | |
1647 | Muore Luigi Arrigucci | |
1649 | I Barberini posseggono una pianta di Villa Adriana di palmi 24x8 | |
1651 | Camillo Arcucci è «architetto noto» | |
1667 | Muore Camillo Arcucci | |
1668 | Contini, nel suo Dechiaratione, scrive di aver portato a termine, in 2 anni, l’incarico conferitogli dal cardinale Francesco | |
1669 | Muore Francesco Contini |
Notes de bas de page
1 Salza Prina Ricotti 1973a.
2 Sebbene Ligorio sia napoletano e lo affermi più volte nei suoi scritti, di sovente si firma quale «architetto romano»; cfr. de Nolhac 1886, p. 323. Nel medesimo studio, inoltre, si legge che in alcune lettere Ligorio si firma Pyrrhus Ligorio Meisopogniros, adottando uno strano soprannome che de Nolhac giustifica quale Ce surnom bizarre, traduit du grec miaoponhroz (osor malorum), n’est point, comme le croit M. Ronchini, une allusion aux démêlés que Ligorio avait en 1565 avec Fra Guglielmo della Porta, et dont il se plaint dans sa lettre au cardinal Farnese; nous voyons qu’il se l’attribuait déjà en 1563; così come si definisce di sovente «pittore napoletano», cfr. Schreurs 2000.
3 Sgalambro 2010, p. 10-18.
4 Vagenheim 2008, p. 79-92.
5 Ripreso dall’edizione di Grævius, vedi Graeve 1704, VIII, IV, p. 23. In seguito si farà sempre riferimento alla medesima edizione.
6 Contini, Dechiaratione, testo manoscritto, BAV, Barb. Lat. 4804, e libro a stampa 1668, Cap. VI, 16; Cap. X, 5; Cap. XI, 25, 27; Cap. XIII, 7.
7 Non presente nel Barb. Lat. 4804.
8 Vagenheim 2008, p. 84, 85.
9 Viola 1818, I, p. 40.
10 Hadr., IV, X, Hadrianus in Tiburti villam ædificavit […].
11 La qual cosa è evidenziabile nel cap. III, p. 18.
12 Marzi, a cura di, Historia ampliata di Tivoli scritta dal Canonico Francesco Martii, Nobile e Giureconsulto Tiburtino. Con due libri de’ Vescovi e de’ governatori di Tivoli scritti da Michele Giustiniani Patrizio Genovese de’ Signori di Scio, in Roma per Filippo Maria Mancini, Roma 1665, VII, p. 218, 219.
13 F.S. Seni, La Villa d’Este in Tivoli, Roma, 1902, p. 234, 235.
14 Del Re 1611.
15 Ibid., p. 77, 78-85, 86.
16 Come nel caso della citazione del Tempio di Ercole Sassano sul quale sorge la Cattedrale di San Lorenzo a Tivoli, cap. I, nella quale Del Re ricalca quanto affermato da Ligorio (Torino, MS.a, II, f. 7); cfr. Ten 2005, p. X.
17 Daly Davis 2008, p. 11-14.
18 Del Re 1661, V, p. 87.
19 Dei quali solo l’ultimo stampato tre anni dopo la morte dell’autore, nel 1611, mentre il primo e il secondo sono di recente pubblicazione e il quarto – BAV, 3884 – è inedito; cfr. Candido 2012 e Vendittelli 1984.
20 S. Havercampus, in Graeve 1704, VIII, IV, p. 5, Antiquitatum Italiæ Thesauro: Maximam superioribus Sæculis Pyrrhi Ligorii exsistesse industriam, in eurendis, delineandis, explicandis veteribus Monumentis, immensa Volumina, Herculeo labore ab eodem congesta, adhucdum testatur. […] Sed certores adhuc ejus rei testes exstant Herculæ Viri Lucubrationes Antiquarie etiamnum superstites, in quadriginta & plura volumina digestæ; quæ in Taurinensi Bibliotheca, & hic in Urbe, magna fui parte, in supellectile libraria Christinæ Augustæ, Farnesiana, & Barberina, instar praestantissimi cujusdam Thesauri, adservantur.
21 Giustiniani 1665, p. 64, 65-67.
22 A proposito del cardinale Tosco, Giustininani, id., p. 64-69, riporta che è stato vescovo di Tivoli dal 1595 al 1601, studioso di geometria, poi militare «sotto la custodia di Sigismondo d’Este» e, infine, assurto alle più alte cariche dopo che «s’insinuò alla servitù del cardinale Pietro Donato Cesi».
23 Bulgarini 1845, p. 113.
24 Giustiniani 1665, prefazione; cfr. Maylender 1926, p. 91, 93; Ferruti 2008, p. 5-51, 26-31 per la parte inerente l’Accademia.
25 Come testimoniato anche da un documento datato 10 giugno, con il quale Ligorio chiede al Cardinale Camerario la licenza di esportare oggetti vari e alcune statue, tra le quali un busto di Antinoo, cfr. Reinach 1902, p. 109, e da una lettera, scritta il 6 luglio da Bernardo Tasso al duca di Urbino, nella quale il padre del noto poeta è chiaro nell’affermare che Pirro “è fuora da Roma”, cfr. Seghezzi 1733, p. 389, 390. A tal proposito occorre rivedere quanto indicato da Coffin 2003, p. 80, che attesta la partenza di Ligorio da Roma all’incirca nel mese di settembre a fronte dell’atto di pagamento del primo stipendio di 25 scudi emesso in quella data dal duca Alfonso II d’Este (fratellastro del cardinale Ippolito).
26 Ibid., p. 107.
27 Fea 1822, p. 38, «1564. Pirro Ligorio architetto con 25 ducati il mese fino al 1571» . Certo è che, in ogni caso, le attività antiquarie dell’architetto in ambito archeologico proseguono, in maniera indiretta e a fini commerciali, almeno fino al 1573, anno in cui Vincenzo Stampa, suo amico e collaboratore, gli invia una lista di 192 pezzi (tra i quali circa un centinaio sono ritratti di «Imperatori, Imperatrici, filosofi e persone illustri») da proporre al duca d’Este per arricchire il suo museo di antichità; cfr. Coffin, Pirro Ligorio, 2003, p. 115.
28 Solerti 1895, II, p. 102, Lettera LVII, inviata da «Bernardo Canigiani a Francesco de’ Medici Gran Duca di Toscana» il 6 dicembre 1572: «Stamane s’avviano [a Roma] a giornate una truppa di virtuosi: cioè il medico Brasavola, il semplicista Panza, l’antiquario Ligorio, il poeta Tasso, lo storiografo Sardi e simili; posdomani se n’avvierà un’altra e sabato poi andrà il Duca» .
29 Seni 1902, p. 55-56 e nota*, «Architetto della villa [estense] fu Pirro Ligorio, stretto già in amicizia col cardinale. Si sa ch’egli, oltre le piante, fece della villa pel primo la descrizione, dedicandola naturalmente allo stesso cardinale fondatore; ma essa non fu mai trovata, poiché quella che esiste nella biblioteca Barberini non si riferisce alla villa d’Este, come molti hanno affermato, ma bensì della villa Adriana, come io stesso ho verificato. (n*) Tre manoscritti, in proposito si conservano alla Barberiniana: Descrittione della superba et magnificent.ma Villa Tiburtina Hadriana di M.° Pirro Ligorio Dedicata all.mo e Re.mo sig. Hippolito cardinal di Ferrara e compresa in una miscellanea dal foglio 38 al 58: l’antica segnatura era N. 2906, la moderna XLVIII – 110. Dell’antichità di Tivoli e della Villa Hadriana fatta da Pirro Ligorio, Patricio Napoletano Roma, e dedicata all.mo e Re.mo Ippolito II. Cardinale di Ferrara: sono 32 fogli bene conservati. Il manoscritto è segnato col num. LIII-87. Descrittione della superba et magnificent.ma Villa Tiburtina Hadriana, di M.° Pyrro Ligorio, dedicata all.mo e Re.mo M. Hippolito Card. di Ferrara, colla stessa segnatura: dal foglio 47 al 64. I caratteri sono diversi, ciò prova che furono diversi copisti. L’originale peraltro si conserva nella Vaticana segnato col numero 5295» .
30 Cascioli 1923, p. 6-7, «Vat. Barb. 4342. (XLVIII-110) «Descrizione della super. et magnificentissima Villa tiburt. Hadriana di M.r Pirro Ligorio dedicata all’III.mo et R.mo Sig. Hippol. Card. di Ferrara» . Vatic. Barb. 5295. Trattato del medesimo sulla stessa Villa, ms. dal f. 1 a tutto il f. 32. Nello stesso ms. f. 1 al 14 segue altro quinterno ms., cioè discorso latino su Tivoli e sue antichità. Comincia: «Nascentis Tyburis primordia exposui paulo altius etc.» . Vi si parla altresì dei ponti sull’Aniene, di S. Simplicio e dedica al culto cristiano di S. Andrea in Catabarbara di Roma, della Villa Adriana, di altre ville etc. Infine si ha: Questo discorso è. stato fatto dal R.mo° Vescovo di Tivoli. Vatic. Barb. 5125 (LVI-133). Altra copia della descrizione di Villa Adriana del Ligorio [si tratta del manoscritto di Contini] dal f. 127 al 147. Vatic. Barb. 4804 (LIII-42). Sulla stessa Villa Adriana. Finisce «non vi essere di presente cosa alcuna di considerazione» . Vatic. Barb. 4841 (LIII-87). Item come sopra dal f. 47 al 64. di Pirro Ligorio napoletano. Era un eccellente architetto, ma un abile falsario. Fece anche incidere non poche false iscrizioni».
31 Garibotto 1955, n. 5.
32 Pacifici 1920; Angrisani, 2009.
33 L’opera controriformista intrapresa proprio in quell’anno da Paolo IV Carafa, in effetti, è talmente tanto ampia che nel Index librorum prohibitorum rientrano sia i testi di Luciano di Samosata, sia il De monarchia di Dante Alighieri, nonché i commentari di papa Pio II sul Concilio di Basilea. Sembra evidente che il libro di «Sebastiano», sia il trattato di Serlio.
34 «Pirro ha cavato ormai tutta la villa di Hadriano per monsignor illustrissimo di Ferrara et ha trovati da dodici corpi tra nudi e vestiti e tuttavia seguita», Parigi, BNF, ms. Dupuy 699, c. 20r-v; cfr. MacDonald, Pinto 1997, p. 327; Occhipinti 2009b, p. 142.
35 Tra il 1555 e il 1566, a causa delle traversie politiche del cardinale Ippolito II, Ligorio lascia Tivoli per lavorare a Roma, prevalentemente impegnato quale responsabile della fabbrica vaticana; Gualandi, 1856, p. 26, che riporta una lettera dell’anno 1564, scritta dal «Marchese di Massa al Granduca di Toscana Cosimo del Medici» per favorire l’assunzione di un suo protetto da parte di « M. Pirro che hora ha havuto il luogo di Michel Agnolo». La letteratura indica che, nello stesso periodo, non abbandona gli studi della Villa imperiale tiburtina; cfr. Fagiolo, Madonna 1972, p. 237-281; Vagenheim 2008, p. 80.
36 Valenti 1902, p. 235, 244.
37 Valenti 1953; cfr. Occhipinti, Inventari.
38 Barotti 1792, p. 414, nota d.
39 Seni 1902, p. 113, 114.
40 Giustiniani 1665, p. 189.
41 Seni 1902, p. 117.
42 Ibid., p. 118.
43 Ibid.p. 127; cfr. Pacifici 1920.
44 Seni 1902, p. 213.
45 Giustiniani 1665, p. 199.
46 Ibid., p. 199-214.
47 Ibid., p. 204.
48 Ibid., p. 211.
49 Ibid., p. 214.
50 Memoria di Giacinto Gigli, di alcune cose giornalmente accadute nel suo tempo, cominciando dal V anno della sua Età che era l’anno del Signore MDCVIII et del Pontificato di Papa Paolo V l’anno IIII, BAV, Vat. Lat. 8717, ff. 1-547.
51 Moroni 1855, LXXVI, p. 113.
52 Giustiniani 1665, p. 220.
53 Ibid., p. 217.
54 Lanciani 1902-1912, (1903, II), p. 113.
55 Salza Prina Ricotti 1973a, p. 20, dopo aver attentamente studiato il foglio e aver accertato che la scritta appare su una striscia di carta successivamente incollata sul disegno, inizialmente dubita che l’autore del testo sia Contini, e successivamente esclude anche la possibilità che lo stesso architetto sia stato l’autore della copia in pulito, partendo dall’assioma che Contini, conoscendo perfettamente la Villa, non avrebbe riportato gli evidenti errori che appaiono nel disegno; tali indicazioni, però, non tengono conto che, come si vedrà in seguito, all’atto della stesura in pulito, Contini ancora non conosceva la Villa. La stessa autrice, inoltre, afferma più volte e sempre con estrema sicurezza, benché senza addurre prove, che tutte le alienazioni dei disegni sono avvenute a Ferrara, basandosi solo sull’aggettivazione del rigattiere; quest’ultima convinzione è accettata anche da MacDonald, Pinto 1997, p. 249.
56 Museo Cartaceo, f. 10389; cfr. Vagenheim 2008, p. 87; Salza Prina Ricotti 1973a, p. 20.
57 Ibid. p. 7, n. 12, con riferimento al manoscritto ligoriano conservato nel British Museum, Salza Prina rileva e trascrive un appunto che suggerisce essere stato redatto da Contini, a fronte della similitudine calligrafica con il testo manoscritto del Dechiaratione. Da cui prosegue ipotizzando che si possa trattare del testo di Ligorio adottato da Contini per la conduzione dei suoi studi.
58 Ibid., p. 21, Salza Prina in effetti, riscontra sia la discordanza tra la copia in pulito e la pianta del medesimo complesso che Contini disegnerà nel suo lavoro pubblicato nel 1668, sia la sottesa conoscenza di Contini e del Monsù di Autreville, fornendo, però giustificazioni improbabili per entrambi i temi; infatti, se da una parte afferma che, proprio per la discordanza, la copia in pulito non deve essere attribuita a Contini, dall’altra indica, chissà perché, che il nome dell’acquirente «evidentemente francese è storpiato in italiano» e, successivamente, pur sempre senza motivazione, ha modo di precisare che «il chiosatore [...] ci informa che il suddetto Monsù comprò i suddetti disegni a Ferrara: a Ferrara, si badi bene, non a Roma», p. 21-22, n. 42. Cfr. Vagenheim 2008, p. 88-89.
59 de Los Rios 1777, p. 148.
60 Le Long 1772, p. 256.
61 Mylius 1740, p. 341, voce 385.
62 Bulgarini 1845, p. 125 e nota.
63 Moroni 1855, p. 113.
64 Salza Prina Ricotti 1973a, p. 9, n. 22.
65 Cascioli, 1928, p. 393-394.
66 ASV, Fondo Borghese, II, 517, cc.4-7; cfr. Kalveram 1995, p. 12, n. 35.
67 Lolli Micheletti 1818, p. 90.
68 Tabacchi 2005, p. 627; nella nota, inoltre, si legge che «Una breve biografia di Bulgarini in BAV, Chigi 1788, c.6v; anche Ch. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio 1550-1809, Roma, 1994, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi, 7, p. 528» .
69 Leti 1668, p. 85, «Comparve Monsignor Bulgarino, e disse, che standosene egli in Siena sua Patria, ad ogni altra cosa pensando, che alla Corte di Roma, era stato chiamato non dagli amici, ma dalla sua fortuna, in quel luogo dove non ci pensava, cioè in Roma, dove giunto, e postosi in Prelatura, era stato mandato, senza alcuna sua richiesta, per Governatore dello stato, e poi consignandoli la carica di Luogotenente dell’Auditor Camera; bisognoso sempre; e non con altra remunerazione che di 150 scudi di Pensione» .
70 Bellori 1664, p. 14.
71 Crocchiante 1726, p. 122.
72 Archivio Niccolini di Firenze, Beni e patrimonio, Tenuta di Foligno, cause delle acque, comunità di Montefalco, Fondo Antico, segnatura 81, inserto 23; anche Archivio Bulgarini, 167 (1262), docc. secc. XIX-XX.
73 BAV, Vat. Lat. 10486, ff. 80-81; cfr. Vagenheim 1987, p. 300 e 2008, p. 89- 90.
74 Mörschel 2001, p. 147-178.
75 Figlio di Carlo Emanuele I e di Caterina Michela d’Asburgo (figlia di Filippo II di Spagna e di Elisabetta di Valois), è ordinato cardinale nel 1607, a 15 anni, ma senza voti. Una delle sorelle di Maurizio, Isabella, nel 1608 sposa Alfonso d’Este, figlio di Cesare, duca di Modena e Reggio. Da tale matrimonio nascerà Francesco I d’Este che, come visto, sposerà Lucrezia Barberini nel 1634.
76 Grammeniati 2011, p. 3, 11.
77 «Ser.mo Sig.re La notte passata per l’ordinaria di Milano scrissi a V. A. ciò che passava in Conclave; hora le do nota come hoggi sù le quindeci hore è stato creato Papa il Cardinale Barberino, sotto nome di Urbano ottavo, con pubblica allegrezza del sacro Collegio et della Città ma in particolare, del Ser.mo P. Cardinale, il quale in questa elettione n’hà havuto ottima, anzi miglior parte a segno che il Cardinal Borgia confessa che S. A. s’è obbligata l’una et l’altra Corona. Su le 22 hore calò in S. Pietro, et fu adorato sù l’altare de Ss. Apostoli, et in questo punto il Ser.mo P. Cardinale è tornato a Palazzo con acclamationi di tutto il popolo viva Savoia […] Roma li 6 agosto 1625»; Adriani 1856, p. 206.
78 Baudi di Vesme 1932, 1, p. 196.
79 «Tutti sanno quanta ricchezza e qual ornamento siano dei nostri Archivi di Stato i celebri manoscritti di Pirro Ligorio, e rendono il ben dovuto omaggio alla intelligente munificenza di Carlo Emanuele I di Savoia, il quale non si peritò di farne acquisto al prezzo nientemeno che di ducati 18/m. Ben pochi però sanno quanto e quale pericolo abbia corso questo tesoro, di venirci ingoiato dal Cardinale di Richelieu, che se n’era in sommo grado invaghito, e di quanto perciò il paese vada, per la conservazione di esso, debitore alla Reggente Cristina di Francia, la quale, con una costanza, incrollabile, e tanto più meritoria, quantochè dovette lottare contro le pressioni de’ suoi medesimi consiglieri, seppe efficacemente opporsi al desiderio del prepotente ministro francese [...] Sovvenne in buon punto al Cavaliere [del Pozzo] dei celebrati manoscritti di Pirro Ligorio a grande cura conservati negli archivi ducali di Torino, e gli parve a buon diritto, che nulla avrebbe potuto offerirsi al Cardinale più a proposito per incarnare l’accennato suo disegno; e compilatane una nota ben specifica, quella accomandò al Pussino per essere rimessa al Cardinale e fattagliela apprezzare al suo giusto valore. Con ciò veniva, come si dice, a far un viaggio e due servigi, giacché, da una parte, acquistava merito presso il potente ministro, che di siffatte preziosità era non poco ghiotto, come vedrassi, e, dall’altra, appagava insieme la propria curiosità di antiquario, riuscendo finalmente a poter esaminare e gustare divulgati per le stampe que’ libri, che, gelosamente custoditi a Torino, aveangli senza dubbio lasciato un grandissimo desiderio di sé»; Perrero 1879, p. 1-2, 10. Sull’argomento anche Vayra 1880, p. 142, 164.
80 Perrero, ibid., p. 18.
81 Di Macco 2002, p. 421.
82 Ibid., p. 422. Si tratta del codice BAV, Barb. Lat. 5085.
83 Nato a Vauconcourt, Borgogna, Francia, tra il 1569 e il 1580, e morto nel 1639; generici cenni biografici si trovano in Notice Historique sur Notre Dame des Jacobins, Besançon 1832, p. 8 e in Biografia universale, Venezia 1827, XXXV, II, p. 205.
84 Volkel 1993, indica che dal 1630 diviene membro della famiglia del cardinale Francesco col ruolo di gentiluomo della guardia del gabinetto, mentre nelle contemporanee lettere di de Peiresc appare sia con quella carica e sia con la carica di bibliotecario, sempre al servizio del cardinale Francesco; cfr. Tamizey de Larroque 1884, V, p. V, e Notice Historique, 1832, p. 9.
85 du Crest 2009, p. 33, «Plusieurs manuscrits du fonds des Barberini latini de la Vaticane contiennent les recherches de Ménestrier en numismatique, glyptique, épigraphie, peinture et mosaïque de l’antiquité classique et ecclésiastique. Dans ces domaines, l’ouvrage le plus complet qu’a laissé notre érudit est sans doute le codex Vaticanus latinus 10545 qui se présente sous la forme d’un important recueil de documents figurés accompagnés d’études. L’auteur, probablement Claude Ménestrier, y reprenait des parties de divers manuscrits comme ceux de Ligorio» .
86 Le attività svolte per il cardinale Francesco comprendono anche quelle di copista e disegnatore, come indica Vaiani 2009, p. 170-178; p. 179: «Non solo infatti eseguiva riproduzioni ‘di servizio’ [...] ma aveva anche un ruolo specifico all’interno della corte barberiniana che richiedeva determinate competenze, ovvero la riproduzione di disegni da manoscritti e da raccolte grafiche che contenessero immagini di mosaici e pitture antiche [...] Di questa attività come copista per il cardinale Francesco ancora non si hanno riscontri precisi, mentre profondamente diversa è la situazione per quanto riguarda le riproduzioni legate allo scambio con Peiresc e con i suoi contemporanei» .
87 Volkel 1993 riporta, al n. 42 dell’inventario Barberini, le registrazioni dei pagamenti per i servizi svolti quale bibliotecario dall’agosto 1630 al giugno 1632 e dal febbraio 1633 all’agosto 1639. Si deduce, pertanto, che nel periodo intermedio Ménestrier non ha lavorato per il cardinale.
88 Weiss 1821, p. 292, «Ménestrier Claude»; cfr. Journal des débats politique et littéraires, Paris 1924, n. 34 e Bresson 1975, p. 61-72.
89 Lhote, Loyal 1989, p. 79-80, Lettre XIV, f. 57r.
90 Ibid, p. 83,84, Lettre XVI, f. 60r «Cominciammo a perdere la speranza di rihavere la valiggia del Signore Claudio Menestrier, che già li pescatori hanno cavato via tutta la robba ch’era dentro la camera del comandante della galera, senza che sia comparsa tale valiggia, talmente che saranno andati di male que’ dissegni, stampe, et libri che Vostra Signoria illustrissima s’era degnata di inviarne con quest’occorrenza. La galera sendosi aperta appunto dove era la camera del comandante, et inclinata la prora da una banda e la poppa al contrario dell’altra, si che il solo moto et violenza delle onde […] può havere portato nel fondo del mare, tutte le robbe ch’erano in detta camera, stando stupito che si siano salvate due casse di detto Signore Menestrier, forzi per essere più gravi et di maggior peso delle altre» .
91 Tamizey de Larroque 1884, p. 599, 614; Notice Historique 1832.
92 Ibid., p. 594, 599 e Tamizey de Larroque 1888, XII, p. 311, 313.
93 Lanciani 1902-1912 (1908, III, Appendice), p. 271.
94 Rossi 2012, p. 4.
95 Ibid., p. 4, 5. Stefanoni è anche autore di alcune opere a stampa, nelle quali sono contenuti numerosi disegni autografi. In una nota trasmessa da di Santa Maria 1779, VI, p. XLIX, si legge che «Lorenzo Pignoria scrive il dì 18. Luglio 1614. a Paolo Gualdo in Roma così: Fra qualche Settimana sarà costì M. PIETRO STEFANONI: Starà in Corso appresso San Carlo. Se V.S. Lo anderà a vedere, non si pentirà. È Antiquario della prima classe, e galantuomo, ed averà occasione di vedere appresso a Lui di belle cose. In fatti c’è un Libro intitolato di questa maniera: Gemme antiquitus sculpte, a Petro Stefanonio Vicentino collecta, & acclarituionibus illustratæ» .
96 Solinas, Carpita 2001, p 94.
97 Herklotz 1992, p. 81-118-125.
98 Gassendi 1641, p. 36.
99 Federici 2010, pp 18-62.
100 Dati 1664, p. 43.
101 de Sepi 1678, Introduzione.
102 Coffin 2003, p. 136.
103 Ibid., p. 135; ASM, ASE, Archivio per materie. Letterati, b. 31, c.2
104 T. Tasso, Opere colle Controversie sopra La Gerusalemme Liberata, Firenze, 1724, II, Rime Eroiche, p. 446, sonetto 248; Rime Amorose, p. 300, sonetto 262; Coffin 2003, p. 132, 133, che segnala il solo sonetto del Rime Eroiche e lo data 1580-81.
105 Baruffaldi 1846, 2, p. 393.
106 Cittadella 1868, p. 618.
107 Tema che Coffin adotta per supporre che Barbara sia la seconda moglie dell’architetto.
108 Coffin 2003, p. 132-133, 136, 143.
109 Vayra 1880, p. 137.
110 Come scrive Quatremère de Quincy 1830, I, ad vocem Ligorio, p. 315, probabilmente riprendendo l’informazione da De Boni 1840, p. 566.
111 Vanzon 1840, 6, p. 644.
112 Salza Prina Ricotti 1973a, p. 45.
113 Schreurs 2000, p. 26.
114 Riconoscibile nell’autore del «Discorso inaugurale recitato nell’università di Ferrara li 19 messidoro anno 9. Repubbl. dal cittadino dott. Francesco Gardellini P.P. di medicina pratica», Ferrara, 1801. Con riferimento ad altri membri della famiglia occorre annotare che Zatta 1782, I, nella parte dedicata al «Catalogo dei Signori associati. Ascritti alle Carte Geografiche», per la città di Ferrara segnala: «Gardelini, Illustr. Sig. Dottor Gio: Battista» .
115 Zio materno dei cardinali Francesco e Antonio Barberini, nominato vescovo di Ferrara nel 1628.
116 Cittadella 1783, III, p. 337, 338; Tosi 1838, p. 259, a proposito di questo autore, più volte ricordato quale abate e certamente imparentato col più celebre Luigi Napoleone Cittadella, ha modo di scrivere: «Si fa autore di questo poema [Il Ruggiero] divenuto assai raro, certo prete don Cesare Cittadella ferrarese, che era sfortunatissimo nelle sue produzioni.»
117 Oltre a qualche opera pubblicata Crispi è anche ricordato quale collezionista di antichità; cfr. Bracci 1786, II, p. 249, «L’altra [gemma-cammeo] in grisolita in Ferrara esistente nel museo del March. [?] Crispi Ferrarese, nella quale è incisa la testa di Sabina Augusta».
118 Baruffaldi 1844, p. 465; Frizzi 1790, p. 78.
119 Coffin 2003, p. 132.
120 Da identificarsi nel secondo acquisto dei Savoia, quattro volumi, avvenuto a Roma nel 1696, cfr. Calvesi 1994, p. 47, 48; Perrero 1879, p. 136-137; Mercando 1994, p. 201-217
121 Vagenheim, in entrambi i saggi (Retour e Les inscriptions ligoriennes) in cui tratta della questione, in merito al luogo della bottega di Raimondi, «ne’ coronati», indica che era in via dei Quattro Coronati. L’interpretazione, però non soddisfa pienamente in quanto l’area nella quale si trova la via, e la basilica, dei Quattro Coronati nella Roma secentesca era molto poco urbanizzata, come ben evidenziabile nelle piante di Roma disegnate in anni prossimi a quelli di cui si parla, e tale caratteristica è assai poco adatta allo svolgimento di attività commerciali. Inoltre, al considerare l’accurato uso delle lettere maiuscole nel testo, sembra strano che un’area riferita a una antica basilica sia stata scritta con capolettera minuscolo. La momentanea impossibilità di consultazione del documento (Vat. Lat.10486, ff. 80-81), attualmente in restauro, non permette di verificare eventuali sviste di trascrizione del termine «coronati», per cui si può fare riferimento solo ad analisi deduttive, a partire dalla certezza che la maggior parte delle botteghe dei rigattieri era dislocata nell’area attorno a Monte Giordano, tanto che quella piazza, che in seguito all’intervento borrominiano si chiamerà «dell’Orologio», si chiamava «Piazza de’ Regattieri». Noto che una delle strade che gravitano in quell’area è la via «de’ Coronari» (così chiamata per gli artigiani che producevano e vendevano le «corone», i rosari) e che la letteratura riporta molti esercizi di rigattieri nella medesima epoca e nella stessa strada, è possibile che d’Agliè abbia indicato quella strada piuttosto che la periferica via dei Quattro Coronati.
122 Cittadella 1868, p. 691, «1502. Agli stessi rogiti dell’Arquado, in data del 27 aprile, trovasi un M.° Gianfrancesco cognominato Santolino de Raimondi da Cremona, orefice cittadino di Ferrara [...] 1506. A rogito di Andrea Succi del dì 8 gennaio trovasi un altro Raimondi orefice, col nome di Pietro Giovanni»; p. 693 «1540. Ms Battista Raimondi orefice [...] ebbe a fratelli un Pietro ed un Giovanni, essi pure orefici, e furono figli di Franchino» .
123 Lanciani 1902-1912 (1908, III, Appendice) p. 256, «Anni 1579-80. «18 obre 1579. scudi 21 baj. 60 pagati a Iacomo della Porta per 4 tavole de alabastro cotognino rosso [...] stimate da Mercurio Raimondi»; cfr. v. IV, p. 55, 56, in cui Lanciani, a p. 4 del capitolo intestato a Gregorio XIII, riporta «il conto dei «diversi danari pagati per le fabbriche di N.S.re» da Mercurio Raimondi misuratore della rev. Camera [...] dal 12 gennaio 1583 al 21 marzo 1585» .
124 Ago 1998, p. 76,77-147; Pampalone 2013, 3, p. 125, n. 334, «Parrocchia di S. Lorenzo in Lucina – rione Colonna»; Cola 2013, p. 150, n. 29, « S. Maria ad Martyres – rione Pigna» .
125 Travaglini 1992, 2, p. 417, n. 4; Travaglini 1998, p. 427-472.
126 Rodocanachi 1894, p. 360, 361 e 369; cfr. Statuti e Capitoli dell’Università de’ Regattieri di Roma. Aggregazione chiesa di SS. Andrea e Bernardino ai Monti, Roma 1701.
127 Moroni 1857, LXXXIV, p. 207-210.
128 Haskell 2000, p. 37-39.
129 Lorizzo 2003, p. 334 n. 4.
130 Già nel 1553 Ligorio affermava di preparare un progetto sulle antichità suddiviso in quaranta libri; il materiale prodotto per tale progetto, approssimativamente raccolto in una serie di 10 codici, è venduto al cardinale Farnese divenendo una delle gemme possedute dalla famiglia. In seguito alla morte di Elisabetta Farnese (1766), ultima discendente della casata e regina di Spagna, il figlio primogenito, Carlo III di Borbone, porta la serie a Napoli; per la vendita al cardinale Farnese Russel 2007, p. 243, 244, afferma che «Many of them were written during his 30-years residence in Rome, altough most of these were sold to Cardinal Alessandro Farnese (1520-89) in 1567, probably because of financial hardship after Ligorio lost his post as Vatican architect. Copied material from Farnese manuscript was accessible early in the seventeenth century» .
131 Aromberg Lavin 1997, p. 250, n. 160.
132 Ibid., n. 161.
133 Ipotesi, questa, peraltro già sviluppata da Salza Prina Ricotti 1973a.
134 MacDonald, Pinto, 1997, p. 250.
135 BAV, Arch. Barb., Comp. 80, f. 156r.
136 Giustiniani 1665, p. 199.
137 Come provato dal mancato riscontro di Lavagne; cfr. Lavagne 1973a, p. 167-186 e Lavagne 1973b, p. 197-246.
138 Anche Canina 1856, V, p. 183; Lanciani 1909, p. 158; MacDonald, Pinto, 1997, p. 250; Salza Prina Ricotti 1973a, p. 19 e Salza Prina Ricotti 2001, p. 55.
139 Sebastiani 1828, Lettera XIII, p. 277, nota.
140 Moreni 1825, p. XLV, n. 2.
141 Giustiniani 1665, p. 199, Francesco Barberini è inizialmente nominato Governatore di Tivoli nel «1624 à 9 di maggio [...] per trè anni»; in seguito, p. 211, è «confirmato per altri trè anni [...] nel 1627 à 15 di maggio», anche se nel testo si legge, subito dopo l’elenco dei Vicegovernatori (p. 214), che il successivo Governatore è Antonio Barberini, nominato, però, nel 1632. Nel 1634, infine «Francesco Barberini nuovamente à ripigliato» la carica «ed esercitato per mezzo de sostituti fino all’anno 1644 nel quale passò à miglior vita Papa Urbano Ottavo suo zio di tanta memoria», p. 220.
142 Lanciani 1902-1912, (1903, II), p. 112, 113; anche Lanciani, Barbieri, Reina 1906, p. 10. Salza Prina Ricotti 1973a, p. 19, n. 36, come al solito è categorica nell’affermare «Il Cardinale è naturalmente Francesco Barberini e Antonio è chiaramente un lapsus del Lanciani»; tesi, questa, già confutata da Vagenheim 2008, p. 86.
143 Pubblicato anche da MacDonald, Pinto, 1997, p. 248.
144 Altri disegni planimetrici redatti da Ligorio esistevano a Roma nella seconda metà del Settecento, dato che James Adam, fratello del celebre architetto Robert, copia una pianta del Serapeo attribuita a Ligorio.
145 Bartoli 1741, p. 361 e Bartoli 1790, p. CCLXI. Fea 1790 p. 13, avvisa d’aver deciso di ripubblicare il testo di Bartoli in quanto «erano pochissimo conosciute [...] benché delle più interessanti» .
146 Canina 1856, V, p. 153, n. 59, che richiama Bartoli 1790, ossia nella trascrizione proposta da Fea.
147 Nibby 1827, p. 13 e Nibby 1837, 3, p. 658.
148 Come appare nell’edizione di Amidei 1741, p. 361.
149 Contini 1668, XI, 31.
150 Bulgarini 1854, p. 125, in seguito ripreso anche da Lanciani 1902-1912 (1909, III), p. 139 e da Aurigemma 1961, p. 140; più di recente Raeder 1983, Kat. I.66, ha posticipato alla metà del secolo la scoperta dei candelabri anche se la certezza della donazione ai Barberini, che terminano i mandati di governatore di Tivoli entro il 1630, spingerebbe a invalidare l’ipotesi.
151 Cavaceppi 1772, III, t. 58 «Candelabri Antichi» .
152 Nibby 1841, IV, p. 11, «trovati a Palestrina e posseduti già dalla famiglia Barberini» .
153 Marini 1771, V, p. 158, «ma nella stampa che dal Sig. Cavaceppi abbiamo de’ medesimi candelabri, si dice che fossero circa l’anno 1620 tratti fuori dalle rovine del Tempio della Fortuna Prenestina. Se ciò fosse, converrebbe dire che si stassero una volta in quel famoso gentilesco santuario, e fossero ivi consacrati alla Fortuna primigenia […]. Io però ho grandissimo sospetto che non abbia il Sig. Cavaceppi (o chiunque e’ siasi quegli che gli ha fatto scriver ciò) avuto altro argomento di tal sua asserzione, che il sapere che questi Ceriolarj appartennero già a’ Signori di Palestrina. Mi muove a ciò non solamente il racconto del Contini [legenda pianta 1751], e il non aver io potuto rinvenire alcuna prova di quanto dice il Cavaceppi, ma molto più l’averne anzi in contrario una fortissima, e questa è il silenzio di tutti gli Scrittori, che hanno parlato dell’antica Preneste, e massimamente de’ due Prelati Suares e Cecconi, i quali furono accuratissimi in tener conto di tutto ciò che ne’ passati anni erasi disotterrato in quella Città. Possibile che niuno d’essi abbia mai saputo de’ nostri Candelabri?»; cfr. Visconti 1788, p. 4, nota (e).
154 Antinori 2001, p. 434.
155 Spiazzi 1993, p. 745.
156 Titi 1763, p. 483; cfr. Roisecco 1750, p. 525, «Nell’uscire della chiesa di s. Marco si vede pochi passi discosto il palazzo detto di Venezia, dirimpetto alla principal facciata del quale, e presso al palazzo Altieri è posto questo dei signori Gottifredi, di cui fu architetto Cammillo Arcucci, ed ha una bella facciata, riguardata con istima dagl’intendenti» e Del Pesco 1998, p. 77. Francesco Gottifredi, più volte Conservatore di Roma, erudito e collezionista di monete antiche, proprio per la qualità e la quantità della sua collezione intrattiene rapporti con il cardinale Francesco Barberini; il suo palazzo in seguito verrà acquistato dalla famiglia Grazioli, oggi è della famiglia Berlusconi.
157 De Rossi 1702, I, t. 44.
158 Barry 1998, p. 162.
159 Tra le attività condotte da Arrigucci quale architetto della famiglia Barberini si segnala il progetto della facciata della chiesta di S. Sebastiano sul Palatino, nella cd. Vigna Barberini, il restauro del monastero fiorentino di Santa Maria dei Pazzi, nel quale vivevano la cognata e due nipoti di Urbano VIII, e il progetto del monastero romano dell’Incarnazione del Verbo Divino, o «delle Barberine» alle Quattro Fontane, voluto dal pontefice nel 1632 per farvi trasferire le parenti da Firenze, iniziato dopo il 1641, anno durante il quale «il Sig. Card.le Francesco Barberini Vice Cancelliere comprò il sito per fabricare di pianta il monastero, e il P. Urbano VIII venne a visitare la nepote et a vedere il sito comprato dal cardinale Vicecancelliere e diede ordine che presto su li fondamenti, si alzasse e compisse la fabrica a spese sue, et a tale effetto diede all’hora venticinquemila scudi, et il disegno fu opera del si.r Luigi Arrigucci», cfr. Possanzini 1990, p. 47 e Cacciaglia 2007, p. 314.
160 Baglione 1642, p. 180, 182. Molte attribuzioni assegnate ad Arrigucci sono oggi sconfessate, come nel caso della villa Barberini al Gianicolo, smentita da documenti dell’Archivio Barberini, cfr. Battaglia, 1942b, p. 401; altresì, alcune opere prima attribuite ad altri architetti sono attualmente riconosciute ad Arrigucci, come nel caso della basilica minore di S. Anastasia al Palatino, già proposta da Baglione, mentre Falda 1667 ÷ 1669, t. 24, poi ripreso da De Rossi 1721, aveva attribuito l’opera a Bernini; altresì Crescimbeni 1722, p. 15, traendo la notizia da Titi 1674, attribuisce il progetto a «Domenico del Castello» . Lo stesso Titi, nella riedizione riveduta dell’opera (1703) ogni volta che indica progetti di Arrigucci segnala anche qualche lavoro di Domenico Castelli, come nel caso della «Chiesa delle Convertite alla Lungara, fabbricata col pensiere, e soprintendenza dell’Arrigucci, disegno e fatiga del Castelli», p. 426; Titi, o più propriamente il curatore della sua opera postuma, pubblicata nel 1763, ha modo di rivedere l’attribuzione della facciata di S. Anastasia, p. 78: «Fra molte chiese, che s’incontrano, proseguendo questo camino alle falde del monte Palatino, una è s. Anastasia [...] Fu poi molto ristorata, e fra gli altri sotto Urbano VIII fu fatta la facciata con architettura di Luigi Arrigucci Fiorentino»; interpretazione, questa, mediata da Melchiorri 1856, p. 308, «nel 1636, essendo caduto il portico e la facciata, la rifece a nuovo con disegno di Luigi Arrigucci diretto dal Bernini».
161 Moroni 1841, XI, p. 318, «finalmente Urbano VIII, nel 1632, con disegno dell’Arrigucci, la ridusse nello stato attuale, alzando il pavimento, adornandola di pitture, e del soffitto attuale»; cfr. Melchiorri, 1856, p. 279.
162 Limentani 1977, p. 11; corrispondenza di Buonarroti il giovane, Bibl. Marucelliana, Archivio Buonarroti, 40, f. 111; cfr. Campbell 1977, p. 227 e 231-232; Battaglia 1942, p. 174-183. Più in generale su Arrigucci, Aziz Spadaro 1992, p. 180; Connors 1982, p. 19; Cole 2007, n. 118.
163 Limentani 1977, p. 16.
164 Boiteux 1977, p. 368, 369.
165 Che Contini sia realmente poco studiato emerge dalle varie citazioni che si trovano sul suo conto anche in ambiti scientifici diversi, per lo più riferite ai brevi cenni desunti da Hager 1983, p. 516, 519, e sempre pertinenti la sua pianta di Villa Adriana; cfr. Ghilardi 2012, p. 171, 181, n. 64, 65, 66, «Ben più conosciuto è l’architetto Francesco Contini, di ‘molta espettatione’, accademico di S. Luca molto attivo nella Roma dei Barberini. Il suo rapporto con l’antico, come noto, non si limitò alla realizzazione delle piante della Roma sotterranea che rimangono una parentesi della sua vita professionale molto limitata e sinora spesso taciuta. Più celebre invece, nel campo degli studi di antichità, è il suo impegno presso villa Adriana che, per commissione del Barberini, rilevò e disegnò tra il 1632 ed il 1634 utilizzando anche i dati topografici e di scavo già raccolti da Pirro Ligorio» .
166 Fiore 1976, p. 197-210.
167 Liber animarum, f. 276; cfr. Bertolotti 1880b, p. 23.
168 Bertolotti indica che il padre è attivo nel 1620 e, infatti, nell’ASR, si trovano numerosi atti della Congregazione generale dei pittori e scultori di Roma nei quali appaiono provvedimenti di Pietro Contini, che ha la qualifica di Secundus Rector fino all’agosto del 1633, mentre la data di morte di Pietro, 1636, compare nel Liber mortis di S. Tommaso in Parione. A tal ragione, pertanto, la data 1603, che si legge nella trascrizione della lapide sepolcrale riportata da Pascoli 1736, II, p. 552, deve essere considerata erronea. Tale lapide, come avvisa Del Bufalo 1982, p. 46, n. 2, rimossa nel 1736 in occasione del rifacimento del pavimento della chiesa, oggi è scomparsa.
169 Miracolati da S. Filippo Neri assieme alla madre; cfr. Bacci 1645, p. 309-310, 332, 341.
170 Orbaan 1920, p. 138, «anno 1592 [...] settembre 14, di scudi 197, Pietro Contini... per diverse pitture fatte in Castello Santo Angelo»; p. 342, n. (I): «Nell’Archivio di Stato, Roma, Depositeria Generale, 1597, sotto la data agosto 30, si registra, e. 90 b, un pagamento di: «scudi 214 a Pietro Contino, pittore, per diversi lavori di pitture per il Castello di Santo Angelo»; p. 297, n. (i), «Nell’Archivio di Stato, Roma, Mandati Diversi, 1605 ad 1608, e. 47 b, è registrato, sotto la data 1606 gennaio 31, il seguente mandato: «Petro Contini, pictori scuta ducenta monetae... ad computum diversorum la borerium per ipsum durante pontificatu felicis recordationis Clementis Octavi factorum»; p. 300, «1607 dicembre 17.... scudi trentadui di moneta pagati per mandato Camerale a Pietro Contini, pittore, per diverse arme messe sopra la porta del Castello» .
171 Bib. Casanatense, ms. 1036, cc. 1r-183r, contenenti gli atti di una causa intentata nel 1609 (conclusa nel 1636) da Franciscus Continus contro il medico Jacobus Lampugnanus per la vendita di una proprietà.
172 Anch’egli architetto, battezzato il 15 ottobre 1641 a Montalcino da «Francesco e donna Lavinia» (Del Bufalo 1982, p. 46, n.1), inizialmente mandato dal padre a studiare presso Bernini, in seguito raggiunge una notevole fama tanto che, come ricorda Pascoli 1736, p. 555, il suo studio è frequentato da numerosi allievi. Con riferimento al luogo del battesimo, Del Bufalo sembra propendere per un’origine toscana della famiglia Contini, «Da notare però che la famiglia non è originaria di Montalcino, poiché tale cognome ricorre spesso a Siena»; è più probabile, però, attribuire l’origine toscana a Lavinia Contini, moglie di Francesco.
173 Valeri 1900, p. 60, 61, «Il cardinal Francesco Barberini […] si adoperò primo perchè del prezioso legato fosse senza indugio veruno comunicato il beneficio alla cristianità. I cavalieri di Malta si addossarono, naturalmente, le spese dell’edizione. La spesa maggiore, le incisioni, era già stata fatta dal Bosio stesso: al padre Giovanni Severano fu dato a compiere il testo nelle parti rimaste imperfette; Ottavio Pico da Borgo San Sepolcro, giureconsulto, ebbe l’ufficio di rivedere tutti i monumenti, confrontarli con le tavole lasciate dal Bosio e curare la stampa; Gaspare Berti, matematico insigne, Francesco Contini, architetto, e Cesare Papini furono incaricati di ritrarre le piante dei sotterranei cimiteri – lavoro erculeo e maggiore delle forze private, che il Bosio avea sempre differito e mai non avea cominciato» . In merito a coloro che sono incaricati assieme a Contini, le informazioni riguardano per lo più Berti, citato da Holstenio in una lettera del 1636 indirizzata a de Peiresc, e indicato suo caro amico nonché vir peritissimus rerum mathematicarum […] in mathematicis instrumentis conficiendis exquisitissimus; cfr. Favino 2013, II, p. 337- 345. Altresì di Papini sono testimoniate solo le firme lasciate nelle gallerie dei cimiteri romani, come si trova in De Rossi 1877, p. 40, che riporta le firme di Cesar Papinus 1655 die 21 9hris hora 2 noctis. G. Berti 1655.
174 Severano 1632, II, p. 137.
175 Lo stesso Severano è un padre oratoriano; cfr. Ghilardi 2001, p. 41 e Ghilardi 2009, p. 183-231.
176 Pollak 1928, p. 346, n. 1023: «Cam. Dep. 1631, p. 28, 24 Jan. A Francesco Contini per sua mercè d’haver fatto n. 25 disegni della Valle di Comachio» documento che, però, deve essere attribuito a un omonimo veneziano; n. 1024: «24 Juli. A Franc. Giordano (leggi Contino) Architetto per le sue fatiche fatte in piante de confini di Rocca priora» .
177 Come nel caso del convento di Santa Maria dei Sette Dolori.
178 Eimer 1970, p 212.
179 Pollak, 1928, p. 235, n. 805, elegit et deputavit D. Franciscum Continum in suum architectum; cfr. Metzler 1971, p. 317.
180 Al quale aveva iniziato a lavorare subito dopo il trasferimento dei due fratelli cardinali e della loro madre, Costanza Magalotti, nel nuovo palazzo al Quirinale. Per i successivi incarichi conferiti dal ramo laico della famiglia cfr. Stum 2006, p. 70-86; 118; 126-128; 137-138; 347-349.
181 Curti, Sickel 2013, p. 141, 147-156.
182 Missirini 1823, p. 464; la data della nomina è in Leoni1736, p. 552.
183 Salvi 2008, p. 38-58.
184 M. Heimbürger Ravalli 1977, p. 27, n. 3. In effetti, gli incarichi ottenuti da Contini sono per lo più, se non esclusivamente, attribuiti dal ramo laico dei Barberini, come nel caso di quello del monastero di S. Maria Regina Coeli alla Lungara, con l’annessa chiesa di S. Teresa, voluto da Anna Barberini, cfr. Altieri 1664, II, p. 303; Nibby 1861, p. 467. Si tratta di una delle poche opere per le quali Contini è citato dalla letteratura storica, benché solo per un elemento decorativo, cfr. Cancellieri 1804, p. 199, «Quella [ventarola] del Campanile delle Monache di Regina Coeli ha lo Stemma di Casa Colonna, perché la Fondatrice di questa Chiesa, fu D. Anna Colonna, Moglie del Principe D. Taddeo Barberini, che si valse dell’Architettura del Cav. Francesco Contini, che vi fece in grazioso Campanile con 4 archetti semicircolari» .
185 Se quest’ultima è stata demolita, uno dei due Casini è da considerarsi l’opera più nota di Contini, per lo più citata a causa della sua particolare forma. Petrini 1795, p. 259, lo definisce «delizioso Casino di Campagna, che dalla sua rara forma chiamasi il Triangolo»; occorre sottolineare che l’autore scrive nel 1677, ossia otto anni dopo la morte di Francesco Contini, e benché sia chiaro che il riferimento è dell’anno in cui venne completata la chiesa di S. Rosalia, nell’indice del volume, a p. 490, attribuisce al figlio tutti i progetti eseguiti a Palestrina. Cfr. Cecconi 1756, p. 83.
186 Zollikofer 1994, p. 122.
187 Come nel caso di Gualandi 1845, II, p. 148-149; «Fu chiamato un tal Ingegnere Contini (2) da Venezia al quale si appoggiò l’opera di rifarlo [il ponte di mezzo a Pisa, crollato nel 1635]; che nell’anno istesso 1639 qualunque ne fosse la causa n’abbandonò l’impresa [...]. (2) – Questi è senza dubbio Francesco Contini Architetto ingegnere Veneziano, il quale nell’anno 1640 era, come vediamo, ai servigi della Repubblica essendo Doge Francesco Erîzzo. Sua è l’architettura della chiesa dell’Angelo Raffaele in Venezia, che la Guida del 1772 pag. 287 vuole innalzata l’anno 1618, e quella del Quadri del 1824 pag. 190, ne protrae l’epoca al 1688. In Roma eresse la chiesa di S. Maria Regina Coeli nel 1654 ec. ec. vi fu ancora un Tommaso Contini parimenti architetto ingegnere veneziano, il quale anch’esso operava dopo la metà del XVII secolo» .
188 Temanza 1777, p. 518: «Molti furono li Contini architetti, i quali discendevano da un Francesco Contino di Lugano sul Milanese. Figliuoli del quale furono Bernardino, e Tommaso amendue Scultori e architetti. Fiorirono essi circa il 1570. Un Francesco Contino, che fu l’architetto delle Chiese di S. Rafaello, di S. Anna, di S. Agostino e delle Cappuccine alle Fondamenta nuove fioriva circa il 1630 ed un Tommaso Contino fu eletto ingegnere del Magistrato delle acque nell’anno 1664. Da cotestoro discende la rispettabile famiglia dei Contini, che ora ha grado tra quelle dei Secretarj del senato».
189 Zani 1821, VII, 1, p. 28-29.
190 Il primo figlio di Pietro Contini si chiama Giulio Antonio; Leoni 1736, p. 560, riporta che i figli di Giovanni Battista si chiamano Antonio Filippo, Francesco Gaetano, Pietro, Giulio e Maffeo. Del Bufalo 1982, p. 47, n. 4, riporta un documento del 1688, Stato delle anime della Parrocchia dei P.P. Crociferi, nel quale si legge che nella «casa della 7° fila» abitano «Sig. Abb. Domenico Contini A [nni] 51/ Sig. Gio. Batta Contini Architetto A. 47/ Sig.a Francesca Crescentij moglie A. 24 [34?] / Sig. Francesco figlio A. 11/ Sig. Giulio figlio A. 10/ Sig.a Agata figlia A.9/ Sig.a Maria Virginia figlia A. 7/ Sig.a Paola figlia A. 6/ Sig.a Anna figlia A. 5/ Sig. Maffeo figlio A. 2». Come è possibile notare, quindi, esistono alcune differenze con quanto riportato da Leoni anche se, in funzione della giovane età della moglie di Giovanni Battista e della prolificità della coppia, è possibile immaginare che i figli citati da Leoni e mancanti nello Stato delle Anime del 1688 (Antonio e Pietro) siano nati dopo la redazione del censimento.
191 Manfredi 2008; Fagiolo, Bonaccorso 2009.
192 Donati 1942, p. 398. L’autore, a supporto dell’ipotesi, indica anche il contratto di matrimonio tra Maffeo Contini, figlio di Giovanni Battista e nipote di Francesco, e «una gentildonna di casa Franconi erede di certi Fontana parenti di Domenico».
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