Conclusione generale
p. 429-442
Texte intégral
1Al termine di un viaggio che ha attraversato il Mediterraneo da Corfù a Naxos e l’Asia Minore da Costantinopoli all’altipiano armeno, credo sia apparsa evidente la durata, l’estensione e sovente l’inevitabilità del fenomeno della communicatio in sacris tra le comunità cristiane orientali. Allo stesso tempo colpiscono le singole particolarità della pratica, che si concretizzò in forme diverse a seconda delle circostanze locali, dei rapporti di potere, della storia e delle relazioni tra le Chiese coinvolte, finendo per rendere il problema della partecipazione comune alle cose sacre una manifestazione concreta delle questioni teologiche, canoniche e pastorali insite nei rapporti con gli “altri” cristiani. Si tratta di una storia lunga e complessa, costantemente in bilico tra le definizioni di principio e le necessità concrete della coesistenza, con snodi profondamente ambigui e mai veramente risolti. Si tratta, soprattutto, di qualcosa di ancora profondamente attuale: questo lavoro ha scelto di concentrarsi sulle dinamiche caratteristiche dell’età moderna e dei territori ottomani e veneziani, in quanto espressione di uno snodo fondamentale nell’evoluzione dei rapporti tra cattolici ed orientali, ma il tema e la realtà dell’intercomunione continuarono anche nell’epoca contemporanea, dovendosi quindi confrontare con un nuovo clima politico e culturale.
2Nel corso dell’Ottocento, le principali difficoltà delle comunità cattoliche dell’Impero ottomano non riguardarono tanto i rapporti con le Chiese orientali quanto paradossalmente i rapporti di forza interni al mondo cattolico. La tendenza accentratrice e decisionista di Roma si scontrò infatti con il mantenimento delle originarie tradizioni liturgiche e disciplinari, mentre il processo di selezione della gerarchia generava forti tensioni, fino a sfociare, nel caso armeno, in un temporaneo scisma interno alla Chiesa unita1. Diverso fu il caso delle relazioni tra cattolici e ortodossi nel mondo greco. Se il 1831 aveva significato per gli orientali cattolici ottomani la liberazione dalla tutela civile dei patriarchi «scismatici», per i latini delle isole egee vide il passaggio ad una nuova sovranità politica, quella del novello regno di Grecia. Il fatto che lo stato uscito dalla rivoluzione greca fosse connotato in senso confessionale ortodosso rese ovviamente sempre più difficile la vita delle comunità cattoliche locali, tanto più in un momento storico caratterizzato dal montare del nazionalismo2. La situazione si fece così critica che nel 1893 il vescovo cattolico di Tinos, mons. Michele Castelli, presentò al congresso eucaristico di Gerusalemme una proposta per mitigare la normativa canonica sulla communicatio in sacris, quantomeno per i nuovi convertiti, adducendo come motivazione il fatto che
le principe religieux et le principe national s’identifiant chez nos frères séparés, dès le lendemain de sa conversion, le néophyte sera censé ne plus faire partie de sa nation: s’il est marchand, il ne pourra plus débiter ses marchandises; s’il est commis dans un négoce, il en sera congédié; s’il est journaliste, tous ses clients l’abandonneront l’un après l’autre; s’il pose sa candidature aux élections législatives, pas un seul vote ne tombera dans son urne; s’il aspire à quelque charge du gouvernement, elle ne lui sera pas accordée. Où trouveraient-ils alors, ces infortunés, les moyens de pourvoir à leur subsistance et à celle de leurs familles?
3I cattolici erano inoltre troppo pochi per poter formare un gruppo solidale ed efficace, dato che non ammontavano a neanche 20.000 fedeli. Le ragioni di un numero così basso erano dovute all’assenza di conversioni, nonostante il grande sforzo missionario e culturale portato avanti ormai da tre secoli: questo per Castelli era il segnale che era necessario rimuovere alcuni ostacoli insuperabili all’apostolato, in particolare la sostanziale inesistenza di un cattolicesimo di rito greco sul territorio ellenico (dove, come abbiamo visto, tutti i fedeli di Roma divenivano «latini» e quindi percepiti come ancor più «stranieri») e precisamente la proibizione della communicatio in sacris. Le proposte del vescovo si incentravano sostanzialmente sul permettere ai neofiti greci di continuare a frequentare le chiese di rito bizantino e ricevervi lì i sacramenti dal clero ortodosso, pur senza nascondere la propria fede cattolica: esse erano sostenute da alcune argomentazioni volte a ridurre la portata dell’istruzione del 1729 ai soli fedeli nati nel cattolicesimo (non ai convertiti, dunque) e in generale a derubricare il divieto di communicatio ad una mera norma ecclesiastica dispensabile3.
4Come prevedibile, il memoriale di Castelli non fu accolto positivamente a Roma, ma suscitò comunque un dibattito interessante e varie prese di posizione da parte di alcuni colleghi nell’episcopato, come l’arcivescovo latino di Atene Gaetano De Angelis (favorevole) o il patriarca latino di Gerusalemme Ludovico Piavi (nettamente contrario). I loro punti di vista sono importanti in quanto mostrano come ancora alla fine del XIX secolo potessero coesistere posizioni perfettamente antitetiche in merito al giudizio sulle Chiese orientali: il primo riconosceva senza problemi che i loro «riti, la loro messa, le preghiere, i Sacramenti, i Santi, le chiese, in somma tutta la vita pratica di un cristiano è tutta cattolica», mentre il secondo negava recisamente anche la stessa qualifica di «Chiese orientali», ritenendole delle sette e trovando anzi offensiva «la frase riunione delle Chiese… come quella che inchiude il concetto eretico che la Chiesa attualmente non sia una, talché convenga riunirla»4.
5Quella di monsignor Castelli non fu l’unica richiesta per un ammorbidimento della normativa, ma nonostante singole concessioni a livello di decreti di risposta a dubbi locali (che peraltro ci si premurava di mantenere segreti)5, il principio proibitivo stabilito nel 1729 rimase sempre in vigore. Esso trovò anzi una formalizzazione definitiva nel Codice di diritto canonico piano-benedettino del 1917: qui, al canone 1258, con parole che abbiamo imparato a conoscere si ripeteva come non fosse lecito ai fedeli quovis modo active assistere seu partem habere in sacris acatholicorum; l’unica tolleranza possibile riguardava una praesentia passiva seu mere materialis ai funerali e ai matrimoni degli eretici e scismatici, solo per ragioni di convenienza civile o per altra grave causa ed in ogni caso dummodo perversionis et scandali periculum absit6.
6Una reale discontinuità in tale prospettiva è stata possibile solo con la nascita del movimento ecumenico (peraltro inizialmente considerato con notevole sospetto da Roma) e poi soprattutto con il Concilio Vaticano II, che ha costituito una svolta non solo pastorale nelle relazioni della Chiesa cattolica con le Chiese orientali: esse infatti sono passate dalla categoria di «scismatiche» o «eretiche» a quella di «chiese sorelle», all’interno di una ecclesiologia che è arrivata poi all’immagine di un corpo composto da due polmoni di eguale dignità7. Il decreto Unitatis Redintegratio (1964), nel riferirsi ai cristiani non in comunione con Roma, affermava che quanti «ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. Coloro infatti che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica» . Passando al caso specifico delle Chiese orientali, si precisava inoltre: «siccome poi quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in virtù della successione apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite a noi da strettissimi vincoli, una certa comunicazione nelle cose sacre, presentandosi opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo è possibile, ma anche consigliabile»8.
7Le circostanze opportune erano precisate nel decreto Ecclesiarum Orientalium: il canone 26 iniziava con un richiamo alla tradizione, fissando il principio per il quale «la comunicazione nelle cose sacre che offende l’unità della Chiesa oppure che include la formale adesione all’errore o il pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo, è proibita dalla legge divina» (e si noti qui ancora una volta la lunga persistenza della terminologia adottata); ma, in modo opposto rispetto all’istruzione del 1729, nei paragrafi successivi si soggiungeva come la prassi pastorale relativa ai «fratelli orientali» indicasse l’esistenza di situazioni «nelle quali né si lede l’unità della Chiesa, né vi sono pericoli da evitare, ma invece urgono la necessità della salvezza e il bene spirituale delle anime». Per questo motivo
agli orientali, che in buona fede si trovano separati dalla Chiesa cattolica, si possono conferire, se spontaneamente li chiedano e siano ben disposti, i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e dell’unzione degli infermi; anzi, anche ai cattolici è lecito chiedere questi sacramenti da quei ministri acattolici nella cui Chiesa si hanno validi sacramenti, ogni volta che la necessità oppure una vera spirituale utilità lo consigli e quando l’accesso a un sacerdote cattolico riesca fisicamente o moralmente impossibile. Similmente, posti gli stessi principi, per una giusta ragione è permessa la partecipazione a funzioni, cose e luoghi sacri tra cattolici e fratelli orientali separati.9
8Tale «maniera più mite di communicatio in sacris», come veniva esplicitamente definita, è stata in seguito recepita e precisata ulteriormente nel nuovo Codice di diritto canonico post-conciliare (sia in quello per la Chiesa latina del 1983 che in quello per le Chiese orientali cattoliche del 1990) e nei due Direttòri per l’ecumenismo (1970 e 1993)10.
9Appare evidente come fosse ben chiara agli estensori dei testi citati la coscienza della duplice natura della «comunicazione nelle cose sacre». L’accesso ai sacramenti continuava ad essere la manifestazione visibile della comunione ecclesiale, non potendo dunque essere concesso indiscriminatamente a quanti non fossero in tale condizione; d’altro canto, ammettere alla communicatio in sacris quanti ne avessero necessità e buona fede permetteva di estendere la partecipazione ai mezzi della grazia e promuovere un cammino di riconciliazione completa11. Anche se le intenzioni ecumeniche dei padri conciliari erano ben diverse dalle strategie di proselitismo dei missionari seicenteschi, è impossibile non notare come l’ambivalenza qui citata finisca per riassumere in sé stessa l’acceso dibattito che abbiamo ricostruito nelle pagine precedenti.
10Diversa la situazione per le Chiese orientali, nelle quali non si è verificato un passaggio paragonabile a quello del Concilio Vaticano II, nonostante l’importanza della reciproca rimozione degli anatemi fatta dal patriarca Atenagora insieme a Paolo VI. Non è un caso che il Direttorio Ecumenico del 1993 precisi come l’ordinario cattolico, prima di concedere ai propri fedeli la licenza di comunicare in sacris, si debba premurare di contattare le controparti orientali, dato che «un cattolico che desidera legittimamente ricevere la comunione presso i cristiani orientali deve, nella misura del possibile, rispettare la disciplina orientale e, se questa Chiesa riserva la comunione sacramentale ai propri fedeli escludendo tutti gli altri, deve astenersi dal prendervi parte»12. È esattamente il caso della Chiesa ortodossa, che in una visione di esclusivismo soteriologico di derivazione ciprianea mantiene la convinzione che l’accesso alla salvezza eterna passi dall’appartenenza visibile ad essa, l’unica che possa effettivamente trasmettere la grazia attraverso i sacramenti13. Esclusa dunque totalmente la possibilità di legittimare teoricamente una qualche forma di communicatio in sacris, la questione si ripercuote anche sul modo di ricevere gli altri cristiani convertiti all’Ortodossia, punto sul quale si verifica invece una notevole oscillazione, non solo sul piano storico come abbiamo visto (la sanzione a metà Settecento della necessità del ribattesimo non cancella che in precedenza questa fosse un’opzione decisamente estrema e minoritaria), ma anche attualmente a seconda dei luoghi e delle situazioni. Nelle Chiese ortodosse oggi si possono infatti trovare tre forme di ricezione: professione di fede, semplice crismazione o ribattesimo; la scelta dipende dallo status dei neofiti (e qui è importante sottolineare come la scismaticità o eresia dei «franchi» non sia mai stata precisata veramente) e soprattutto dall’applicazione di un criterio rigoroso (ἀκρίβεια) o di uno più attento alle necessità pastorali e circostanziali (οἰκονομία)14. Le difficoltà summenzionate e l’esistenza di correnti indubbiamente ostili ad ogni apertura verso il cattolicesimo non intaccano comunque il fatto che anche in seno all’Ortodossia agiscano personalità interessate al dialogo ecumenico e che gli stessi patriarchi abbiano espresso l’auspicio di una futura piena comunione15.
11Per quanto riguarda invece le altre Chiese orientali «precalcedonesi», esse mantengono atteggiamenti diversificati: la Chiesa assira d’Oriente accorda esplicitamente ai propri membri la facoltà di ricevere l’eucarestia nelle chiese caldee e la Chiesa siro ortodossa concede ai propri fedeli in difficoltà la possibilità di ricevere i sacramenti nelle chiese cattoliche. Questo a livello pratico accade anche nel caso degli armeni apostolici, anche se Ēǰmiacin si è limitata in merito solo a riconoscere il valore dei sacramenti cattolici senza ulteriori indicazioni; la Chiesa copta ha invece finora mantenuto un approccio estremamente rigido, richiedendo da alcuni decenni anche il ribattesimo per i convertiti16. È difficile non riconoscere come le comunità più aperte all’intercomunione siano anche quelle che più hanno sofferto nell’ultimo secolo per le violenze nazionaliste e settarie: in Medio Oriente, la collaborazione a più livelli tra le Chiese è stata resa di fatto necessaria per la stessa sopravvivenza del cristianesimo orientale nelle sue terre d’origine, sconvolte dalla guerra o da un crescente clima di insicurezza.
12 Tornando però al focus della nostra ricerca – la porosità dei confini confessionali delle comunità cristiane orientali e gli sforzi intrapresi dalle autorità gerarchiche per rafforzarli attraverso il divieto della communicatio in sacris – è necessario concludere con alcune riflessioni generali.
13Nei rapporti seicenteschi spediti dai missionari italiani e francesi nelle isole dell’Egeo si trova spesso segnalato come i greci locali sembrino non conoscere altra differenza dai latini al di fuori di «osservanze e riti esteriori»; e anche per i territori soggetti alla Serenissima abbiamo visto commenti analoghi o ancora più forti, se è vero che secondo il primo segretario della Congregazione di Propaganda Fide, Francesco Ingoli, «molti contadini e persone idiote» di Corfù «non sanno né intendono differenza tra la Chiesa latina, e greca»17. In realtà, come è evidente, la reale ignoranza in materia teologica degli strati popolari aveva pur sempre un limite: tutti sapevano distinguere una divina liturgia bizantina da una messa latina. Le differenze «rituali» erano materia di vita quotidiana e comportamenti pratici: la lingua, i paramenti, la forma di alcuni sacramenti, il celibato sacerdotale, i digiuni… tutto questo marcava una reale e tangibile differenza, prima di qualsiasi aspetto dottrinale.
14Questa differenza però non valeva per le comunità cristiane orientali che avevano adottato il cattolicesimo mantenendo il loro «rito» e, soprattutto, la rete di relazioni e frequentazioni precedente alla conversione. Fino agli inizi del Settecento il loro modo di vivere la fede cattolica non risultò in opposizione aperta rispetto alla Chiesa di origine, si confuse con essa e anzi ne cercò la collaborazione, data la dipendenza per tutto quanto riguardava l’aspetto pubblico e ufficiale della vita religiosa. Discettare su quanta coscienza e consapevolezza ci fosse in questo atteggiamento ambiguo – tollerato dalla strategia del «cavallo di Troia» promossa dai missionari – è ovviamente difficile, tanto quanto pretendere di porre un’etichetta confessionale precisa e definita su personaggi e comportamenti che predatano il momento in cui tali definizioni cominciarono a prendere un significato realmente esclusivo.
15Le etichette sono infatti necessarie al discorso storico nel momento in cui consentono generalizzazioni e sguardi d’insieme, ma rivelano la loro debolezza o ambiguità se considerate dal punto di vista diacronico o geografico. Il termine «cattolicesimo» è ugualmente impiegato per definire la cultura religiosa dell’Europa medievale e moderna, ma nessuno si sognerebbe di negare le differenze che sussistono tra la chiesa tedesca del X secolo, quella italiana del XIII o quella spagnola del XVII. Analogamente, il concetto di «Ortodossia» può essere utilmente impiegato per indicare la realtà teologica, liturgica ed ecclesiale dei cristiani orientali che si riconoscono nella tradizione bizantina; ma utilizzarlo per intendere una realtà immutabile dai padri della Chiesa ai giorni nostri, senza evoluzione e soprattutto senza particolarità locali, sarebbe fuorviante. La Chiesa greca aveva al suo interno una lunga tradizione polemica che bollava come «eretici» i riti e le credenze della Chiesa d’Occidente (in modo speculare all’accusa di «scisma» che le gerarchie latine utilizzavano per riferirsi a quelle orientali), ma abbiamo cercato di mostrare come tale coscienza non fosse ovunque diffusa allo stesso modo, né allo stesso grado.
16Anche per quanto riguarda la dottrina, l’idea di una naturale ed insanabile contrapposizione tra la teologia occidentale (razionalistica, astratta, legata alla filosofia e alla logica, con una visione legalistica della salvezza) e quella orientale (mistica, esperienziale, apofatica, legata alla liturgia e finalizzata all’unione con il divino) è in realtà un frutto del XIX e del primo XX secolo, soprattutto del clima di contrapposizione tra slavofili e occidentalisti in Russia e della battaglia contro la neo-scolastica condotta da Vladimir Lossky e discepoli. È chiaro che tale dicotomia si fonda comunque su reali elementi preesistenti, ad esempio sull’importanza nella tradizione ortodossa della distinzione tra essenza divina inconoscibile ed energie divine comunicabili, proposta dall’insegnamento di Gregorio Palamas nel XIII secolo e malcompresa o giudicata ereticale nel mondo latino. Tuttavia, le cose sono più complicate: non solo sono innegabili le influenze della Scolastica sulla teologia greca di età moderna, così come i prestiti, le citazioni o direttamente le imitazioni di autori della Controriforma da parte di autori «ortodossi»; ma anche in precedenza, figure considerate tra le più «anti-latine» sembrano aver avuto conoscenza e stima anche degli autori più rappresentativi della cultura teologica occidentale, come Tommaso e Agostino. Per fare solo pochi esempi, studi recenti hanno sottolineato come il patriarca di Costantinopoli Gennadios Scholarios, che dopo un’iniziale simpatia verso la Chiesa di Roma era divenuto un feroce avversario del Concilio di Firenze, pubblicò un’epitome in greco della Summa theologiae di Tommaso nel 1464, cioè più di quindici anni dopo la sua svolta in senso «ortodosso»; Markos Eugenikos fu un difensore dell’ortodossia di Agostino, il quale in età moderna fu incluso tra i santi da venerare il 15 giugno nel Sinaxarion curato da Nikodimos del Monte Athos, uno degli scrittori più conosciuti e prolifici della fine del XVIII secolo; quest’ultimo curò anche l’edizione della traduzione greca dei Soliloquiorum libri duo18.
17 Lo stesso si potrebbe dire di altre grandi figure dell’età moderna, per le quali valgono ancora le parole con cui Martin Jugie cercava di inquadrare la personalità del metropolita di Filadelfia Gavriil Seviros:
Je sais des théologiens actuels qui vont dire que le métropolite de Philadelphie était un latinophrone frotté de scolastique. Je n’y contredirai pas, mais comment se fait-il que ce latinophronisme était, au XVIe siècle, parfaitement conciliable avec la plus stricte orthodoxie et qu’il y répugne aujourd’hui? Y aurait-il eu par hasard, depuis, un nouveau concile œcuménique, ou l’orthodoxie varierait-elle avec le temps? Tout compte fait, Gabriel Sévère était bien un Orthodoxe, mais un Orthodoxe du XVIe siècle, qui ne ressemblait pas complètement aux Orthodoxes du XXe. Que conclure de là, sinon que ce qu’on appelle l’Orthodoxie n’échappe pas à une certaine évolution?19
18Sarebbe assurdo negare le differenze teologiche, liturgiche, ecclesiali tra la Chiesa latina e quelle orientali: ciò non toglie, però, che il modo con cui è stato concepito il confronto tra le Chiese sia profondamente cambiato nel tempo e che la «rinascita» della teologia ortodossa agli inizi del XX secolo abbia visto il passaggio da una critica a specifiche posizioni teologiche o «errori» fattuali ad una visione dominata dall’idea di una contrapposizione tra due culture inconciliabilmente diverse – ironicamente, un concetto che deriva sicuramente dal contatto con lo storicismo europeo dell’epoca20. Come ogni mito di «purezza» culturale o religiosa, anche questo è in fondo insussistente, dato che ignora la realtà multiforme e cangiante delle varie e diverse Chiese orientali, per le quali il confronto con Roma fu inevitabilmente foriero di effetti, ibridazioni e reazioni, sin dall’inizio.
19Così come il confronto con le idee luterane e calviniste della Riforma ha costituito uno snodo essenziale nel processo di costruzione dell’identità confessionale cattolica (meglio: tridentina) nell’Europa di età moderna, altrettanto si deve dire del complesso rapporto stabilitosi tra le Chiese orientali e Roma, fatto di un misto inestricabile di fascinazione e rigetto, di iniziale subordinazione culturale e poi di emulazione e reazione identitaria, tra prestiti più o meno consapevoli e fiere contrapposizioni, in cui la conoscenza degli strumenti culturali dell’avversario poteva divenire un’arma polemica in più. Se la storiografia cattolica era portata ad esagerare il numero dei fedeli convertiti dall’apostolato missionario e l’elenco dei prelati che avrebbero fatto atto di unione con Roma (o sarebbero stati in procinto di farlo), quella di stampo ortodosso contestava numeri e casi, spesso con giusti ridimensionamenti e contestualizzazioni. Tuttavia, mentre da un lato essa difendeva la fedeltà dei cristiani d’Oriente alle loro Chiese d’origine contro «gli inganni dell’uniatismo», dall’altro lato paradossalmente finiva per presentare a sua volta un quadro in cui il mondo ortodosso era come un oggetto passivo e subalterno rispetto all’iniziativa cattolica. Ciò avveniva perché la foga polemica e l’istanza identitaria del movimento neo-ortodosso si spingevano a presentare tutte le influenze e i contatti culturali tra la tradizione teologica occidentale e orientale come uno snaturamento della seconda: ecco allora una paradossale caccia alle «latinizzazioni» da individuare e da espellere dal canone della vera Ortodossia21.
20Categorie polemiche come «latifronia», per indicare l’ammirazione consapevole dell’Occidente cattolico, o la «pseudo-morfosi» con cui da Florovski in poi si è bollata la teologia ortodossa di età moderna, colpevole di essersi deformata in senso scolastico assumendo categorie e termini cattolici (si pensi ad esempio a Pietro Mohyla), possono forse essere impiegate in un discorso che punti alla catalogazione sistematica del pensiero religioso orientale dei secoli XVI-XVIII, ma risultano di dubbio valore euristico e inevitabilmente viziate da un impianto ideologico. Ha veramente senso pretendere di inquadrare in rigidi steccati confessionali figure ambigue come il patriarca melchita Athanâsyûs Dabbâs, il vescovo greco Paisios Ligaridis o, per limitarci alle personalità evocate in questo lavoro, il maestro di scuola Alvise Gradenigo, il metropolita Ieremias Varvarigos, il kat‘ołikos armeno Nahapet, lo stesso patriarca Awetik‘? Se non si vuole assumere come tipica una vita straordinariamente plurale come quella del monaco Romanos Nikiforou – che girò per l’Europa del primo Seicento presentandosi come «Orthodox in Orthodox circles, uniate in Catholic circles, sympathetic to Protestantism in Protestant circles»22 – che dire dell’ampio numero di vescovi dell’arcipelago egeo che nel XVII secolo si mostrarono collaborativi con i missionari gesuiti, lasciandoli liberi di catechizzare e confessare i fedeli, purché questi ultimi continuassero a rispettarli come gerarchi e a frequentare la divina liturgia? O dell’ampio numero di prelati orientali che intrattennero buona relazioni con la Propaganda, senza però venir mai meno all’obbedienza verso Costantinopoli? Tutti «cripto-franchi», come li vorrebbe certa storiografia ortodossa? E come comprendere il fatto che l’ordinario latino di Zante Bernardo Bocchini non sapeva se considerare i fedeli greci della sua diocesi come «scismatici» o «cattolici di rito greco», e che questo avveniva non a metà Cinquecento, ma ancora nel 1783?
21Se ne può concludere che non è dunque nel Medioevo, ma durante l’età moderna che nel Mediterraneo orientale si assistette al passaggio da identità religiose caratterizzate da marcatori rituali a linee di confine costruite su appartenenze confessionali. Il passaggio dalle «identità rituali» alle «identità confessionali» (cioè, per fare un esempio, da una divisione tra «greci e latini» ad una tra «ortodossi e cattolici») ebbe l’effetto di complicare e al tempo stesso chiarire il paesaggio religioso. Lo complicò, perché la nascita delle Chiese uniati fece sì che il «rito» non fosse più identificato in modo univoco con l’appartenenza ad una o all’altra Chiesa: melchiti e armeni cattolici sono in comunione con la Chiesa di Roma, pur condividendo il rito della Chiesa greca ortodossa e di quella armena apostolica. D’altro canto, proprio allora emerse con sempre maggior forza la richiesta di una scelta di campo che prevedeva l’adozione di comportamenti e di affiliazioni esclusive, in cui l’ambiguità e la pluralità delle appartenenze erano viste come non più tollerabili.
22Se in Europa i processi di confessionalizzazione e costruzione delle identità confessionali si compirono tra Cinque e Seicento, per le comunità cristiane dell’Impero ottomano fu decisivo invece proprio il XVIII secolo, momento in cui i vertici ecclesiastici di ambo le parti combatterono una battaglia per l’erezione di confini confessionali netti, in primo luogo contro quei fenomeni di communicatio in sacris che sono stati l’oggetto delle pagine precedenti. L’interiorizzazione da parte dei fedeli della realtà della «frontiera» e del suo carattere sempre più invalicabile non dipese però solo dalle decisioni normative prese a Roma o a Costantinopoli, ma soprattutto dalla loro applicazione, tramite un progressivo divaricarsi da un lato dell’educazione e degli stili di vita e dall’altro delle stesse strutture istituzionali di riferimento. Ciò è evidente nel caso dei latini dell’arcipelago greco, in cui la difesa dell’identità cattolica procedette di pari passo con l’assimilazione della cultura materiale occidentale ed infine con il tentativo di rivendicare legami d’appartenenza alle nazioni europee23. Ancora più chiaramente, tra i cattolici orientali si diffusero con successo le confraternite di devozione e le congregazioni per la recita del rosario, la pratica della confessione frequente, dell’esame di coscienza e degli esercizi spirituali sotto la direzione di un religioso (spesso un missionario gesuita); diminuì invece l’attenzione prestata ai digiuni e alle astinenze, centrali nella pratica del cristianesimo orientale, con una maggior enfasi posta sulla preparazione ai sacramenti, sull’autodisciplina dei costumi e sulla morale sessuale; prese infine piede il ricorso a strumenti devozionali di origine occidentale, dalle immagini portatili della Vergine e del Sacro Cuore fino agli scapolari mariani, dai testi di preparazione alla buona morte alle vite dei santi, sia quelli di origine europea nuovamente diffusi, sia quelli di tradizione orientale, ripresentati sotto una luce diversa24. L’ampliamento dei poteri dei patriarchi orientali sulle comunità a loro sottoposte (sia per ragioni fiscali, che per controllare i disordini sociali provocati proprio dall’apostolato cattolico) e la successiva sanzione della differenza cattolica con la costruzione di un millet separato rappresentano lo snodo finale e «istituzionale» di questo processo. Il confessionalismo tipico di buona parte del Vicino Oriente attuale non deve dunque essere considerato semplicemente come un prodotto inevitabile della società ottomana, ma in buona parte anche come il risultato dell’incontro con il mondo europeo e con il suo tentativo costante di categorizzare gli «orientali», attribuendo ad ognuno un’identità confessionale chiara25. In questo senso è interessante avvicinare quanto detto alle tesi di Thomas Bauer, che in un libro di grande impatto ha sottolineato come la rigidità dottrinale e comportamentale che comunemente si attribuisce al mondo arabo-islamico sia in realtà una costruzione tardiva, stimolata in gran parte dal confronto con la colonizzazione occidentale, responsabile della scomparsa di una lunga e precedente tradizione di pluralismo interpretativo e di «cultura dell’ambiguità»26.
23Tornando al cristianesimo orientale, nel XIX e XX secolo il processo fin qui delineato fu aiutato considerevolmente anche dall’emergere del nazionalismo e dalla frantumazione progressiva degli imperi in stati-nazione: non è un caso che ancora oggi le resistenze identitarie più forti si ritrovino propri in quei paesi dove si è verificata una sovrapposizione tra appartenenza religiosa e nazionale, come in Grecia per la Chiesa ortodossa ed in Egitto per quella copta (il caso armeno è invece particolare a causa della rilevanza del fenomeno della diaspora). Laddove questa identificazione non era invece così immediata (come nel mosaico religioso siriano o iracheno), la percezione acuta da parte delle comunità cristiane della propria minoranza e fragilità di fronte ad un’islamizzazione crescente della società ha probabilmente contribuito a rinsaldare i legami tra le Chiese, fornendo in alcuni casi lo stimolo ad assumere una disciplina più tollerante in merito alla communicatio in sacris ed in generale un atteggiamento più collaborativo.
24La questione rimane comunque complessa, ma in evoluzione. In questo senso si può concludere menzionando il documento firmato a Balamand nel 1993 dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa: nonostante la sua ricezione faticosa e contestata (in particolare riguardo alla già citata definizione di «Chiese sorelle»), è importante perché si tratta di una rinuncia esplicita da parte cattolica all’apostolato esercitato per mezzo dell’uniatismo27. Pur ribadendo la necessità di salvaguardare l’esistenza delle Chiese orientali cattoliche già esistenti, la dichiarazione sancisce che il modello elaborato in età moderna dalla Chiesa di Roma si è rivelato inadatto e in alcuni casi controproducente, dando ragione a posteriori alle perplessità espresse a suo tempo da quanti, come Mechitar, si mostrarono restii nei confronti delle unioni parziali con singoli pezzi degli episcopati orientali28.
25Ritornando con la mente al confronto tra i due missionari con i quali abbiano aperto questo lavoro, il nuovo atteggiamento nei confronti della communicatio in sacris con le Chiese orientali sembra a distanza di secoli allontanarsi ormai definitivamente dal disprezzo di Michel Febvre, per abbracciare invece l’attenzione pastorale di Elia di Giorgio e di tutti gli altri religiosi che cercarono faticosamente di coniugare la fedeltà alla Chiesa unam, sanctam con la realtà di un cristianesimo plurale.
Notes de bas de page
1 L’occasione fu legata alla promulgazione nel 1867 da parte di Pio IX della bolla Reversurus (che intaccava seriamente il ruolo del clero e del laicato armeno nella scelta del patriarca, riservando sostanzialmente la scelta, la consacrazione e la stessa sanzione dell’operato di questi al pontefice romano), ma forti contrasti erano già sorti in seno alla comunità dopo l’unificazione della sede patriarcale di Cilicia con quella primaziale di Costantinopoli nella persona di mons. Hasun: cfr. Martina, Pio IX (1867-1878), cit., p. 53-96 e la bibliografia ivi citata e supra, p. 379.
2 Dopo il 1830 i dubbi di communicatio in sacris relativi ai greci non sembrano riguardare più tanto problemi di mescolanza tra i fedeli, quanto il problema dei rapporti ufficiali da tenere con il nuovo stato ellenico (ad esempio, le difficoltà legate al giuramento da prestare alla presenza di un prete ortodosso da parte di chi ricopriva incarichi pubblici, o l’accompagnamento e la presenza richiesti ai vescovi cattolici in occasione di cerimonie ufficiali presenziate dal re o da ministri acattolici). Cfr. Collectanea S. C. de Propaganda Fide, cit., § 819, 921, 1133, 1256; G.M. Croce, Monde hellène et chrétienté romaine: l’union introuvable (1878-1903), in P. Levillain, J.-M. Ticchi (a cura di), Le pontificat de Léon XIII: renaissances du Saint-Siège?, Roma, 2006, p. 151-183.
3 La dissertazione di mons. Castelli, scritta in francese e intitolata «Un moyen pour faciliter aux Grecs séparés leur adhésion à l’Encyclique de Léon XIII Praeclara», è stata pubblicata da Korolevskij (ed.), Verbali delle Conferenze patriarcali, cit., p. 608-616. Per una ricostruzione completa ed erudita del clima culturale unionista tipico del XIX secolo, si veda l’opera di G.M. Croce, La Badia greca di Grottaferrata e la rivista “Roma e l’Oriente”. Cattolicesimo ed Ortodossia tra unionismo ed ecumenismo (1799-1923), 2 vol., Città del Vaticano, 1990; a Croce si deve anche lo studio e la pubblicazione dell’autobiografia di uno protagonisti di quel clima, qui più volte citato: C. Korolevskij, Kniga bytija moego (Le livre de ma vie). Mémoires autobiographiques, 5 vol., Città del Vaticano, Archives Secrètes Vaticanes, 2007.
4 Korolevskij (ed.), Verbali, p. 617-623. Ai due pareri menzionati si deve infine aggiungere quello del canonico Oreste Borgia, archivista di Propaganda Fide, incaricato come mons. Piavi di presentare un voto formale sulla ricevibilità della proposta. Anche lui si esprime in conclusione per la negativa, ma con una scrittura decisamente meno apodittica e più informata, in cui si premura di citare recenti casi dubbi e richieste provenienti dall’Oriente in merito alla communicatio in sacris (ibid., p. 625-637).
5 De Vries ne dà una rapida rassegna nella parte finale del suo articolo Communicatio in Sacris. An Historical Study, cit., p. 37-39.
6 Codex Iuris Canonici Pii X Pontificis Maximi iussu digestus Benedicti Papae XV auctoritate promulgatus, ed. P. Gasparri, Roma, typis polyglottis vaticanis, 1917, nn. 1258 e 731.
7 Per il significato del recupero dell’espressione antica «chiese sorelle» all’interno del dialogo ecumenico tra Paolo VI e il patriarca Atenagora, si veda J. Meyendorff, Églises soeurs. Implications ecclésiologiques du Tomos Agapis, in Istina, 20, 1975, p. 35-46; la successiva precisazione della Congregazione per la Dottrina della fede del 30 giugno 2000 (pubblicata su L’Osservatore Romano il 28 ottobre 2000, p. 6) ed infine lo studio di H. Legrand, La théologie des Églises sœurs. Réflexions ecclésiologiques autour de la Déclaration de Balamand, in Revue des sciences philosophiques et théologiques, 3, 2004, p. 461-496. L’immagine della Chiesa a due polmoni, utilizzata frequentemente da Giovanni Paolo II, è studiata da A. Cazzago, “Respirare con due polmoni”. Sull’origine di un’immagine fortunata, in Communio, 157, 1998, p. 58-68.
8 Decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo (21 novembre 1964), nn. 3 e 15. Cfr. Enchiridion vaticanum, cit., vol. 1: Documenti del Concilio Vaticano II 1962- 1965, § 494-572 (corsivo mio; originale latino: quaedam communicatio in sacris… non solum possibilis est sed etiam suadetur).
9 Decreto Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche (21 novembre 1963), nn. 26-28: cfr. Enchiridion vaticanum, cit., vol. 1, § 457-493 (originale latino dell’ultima frase: communicatio in sacris functionibus, rebus et locis inter catholicos et fratres seiunctos orientales iusta de causa permittitur).
10 Cfr. Codex Iuris Canonici auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus, in Acta Apostolicae Sedis [AAS], 75-2, 1983, p. 1-317 (Enchiridion vaticanum, cit., vol. 8), § 844; Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatus, in AAS, 82, 1990, p. 1045-1363 (Enchiridion vaticanum, vol. 12), § 671; Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, Direttorio Ecumenico, I. Ad Totam Ecclesiam, II. Spiritus Domini, in AAS, 59, 1967, p. 574-592; 62, 1970, p. 705-724; Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo, Bologna, 1993. Tra gli studi recenti sulla communicatio in sacris, si segnalano: T. Broglio, Alcune considerazioni sulla communicatio in sacris nel Codice di Diritto canonico, in Quaderni di Diritto Ecclesiale, 6-1, 1993, p. 83-91; P. Gefaell, Il nuovo Direttorio ecumenico e la communicatio in sacris, in Ius Ecclesiae, 6, 1994, p. 259-279 e F. Coccopalmerio, La “communicatio in sacris” nel Codice di Diritto Canonico e negli altri documenti ecclesiali, in Gruppo italiano docenti di diritto canonico (a cura di), La funzione di santificare della Chiesa, Milano, 1995, p. 221-232.
11 «La communicatio in sacris dipende soprattutto da due principi: dalla manifestazione dell’unità della Chiesa e dalla partecipazione ai mezzi della grazia. La manifestazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione. La partecipazione della grazia talvolta la raccomanda» (Unitatis Redintegratio, § 8).
12 Direttorio per l’applicazione, cit., § 124.
13 Come ben formula Enrico Morini, rispetto all’ecumenismo cattolico attuale il pensiero teologico ortodosso non riesce a comprendere «come questa comune participazione di più chiese, sia pure ad un grado diverso di pienezza, al mistero dell’Una Sancta, sia conciliabile col dogma della sua unicità». Le citazioni sono da: E. Morini, La Chiesa ortodossa. Storia, disciplina, culto, Bologna, 1996, p. 48-50 e passim.
14 Cfr. J.H. Erickson, The Reception of Non-Orthodox into the Orthodox Church: Contemporary Practice, in St. Vladimir’s Theological Quarterly, 41, 1997, p. 1-17. Le differenze dipendono molto anche dai contesti geografici e sociali: la Chiesa ortodossa d’America, ad esempio, è molto più accomodante ed aperta nei confronti dei cattolici di quanto lo sia la Chiesa di Grecia.
15 È significativo tra l’altro come le Chiese ortodosse partecipino sin dall’inizio al Consiglio ecumenico delle Chiese (World Council of Churches, un organismo di matrice protestante nato nel 1948 per fungere da occasione di incontro e dialogo), mentre la Chiesa cattolica abbia sempre rifiutato di aderirvi ufficialmente, nonostante vi collabori attivamente: come nota Morini, questo atteggiamento è «divergente negli esiti ma comune nei presupposti», che riguardano proprio la consapevolezza di rappresentare l’unica Chiesa professata nel Credo: Morini, La Chiesa ortodossa, cit. p. 47.
16 Oltre ai documenti cristologici comuni firmati ormai con tutte le Chiese orientali (per i quali si rimanda ai testi italiani editi in: Enchiridion oecumenicum, 10 vol., Bologna, EDB, 1986-), cfr. in particolare gli Orientamenti per l’ammissione all’eucaristia fra la Chiesa caldea e la Chiesa assira dell’Oriente, 20 luglio 2001 (Enchiridion oecumenicum, cit., vol. 7, § 994-1000); la Dichiarazione comune di papa Giovanni Paolo II e del patriarca siro d’Antiochia Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, 23 giugno 1984 (n. 9: «Non è raro… che i nostri fedeli si trovino moralmente o materialmente impossibilitati ad avvicinare un ministro della loro stessa chiesa. Desiderosi di venire incontro alle loro necessità e pensando al loro bene spirituale, in questo caso noi li autorizziamo a richiedere i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e dell’unzione degli infermi ai legittimi ministri dell’una o dell’altra delle nostre chiese sorelle, qualora se ne presenti la necessità»: Enchiridion oecumenicum, cit., vol. 3, § 2006-2015); e il Comunicato congiunto di papa Giovanni Paolo II e del catholicos Karekin II, 9 novembre 2000 ( «Noi riconosciamo inoltre che la Chiesa cattolica e la Chiesa armena hanno veri sacramenti, soprattutto – per mezzo della successione apostolica dei vescovi – il sacerdozio e l’eucaristia. Continuiamo a pregare per la comunione piena e visibile tra di noi»: Enchiridion oecumenicum, cit., vol. 7, §§ 2494-2497). Con la Chiesa copta esiste un accordo del 12 febbraio 1988 su di una formulazione cristologica comune: Enchiridion oecumenicum, cit., vol. 3, § 1996-2000.
17 APF, SOCG, vol. 286, c. 624r: «li Greci hoggidì, toltone li luochi che sono soggetti a Signori Venetiani, per la molta ignorantia che per la tirannia del Turco vi è entrata, non conoscono quasi altra differenza tra loro e Latini che delle osservanze e riti esteriori» (memorandum anonimo, databile agli anni ’60 del Seicento); APF, SOCG, vol. 206, c. 321r ( «dubii della Chiesa di Corfù», 28 agosto 1634).
18 Cfr. G.E. Demacopoulos, A. Papanikolaou (a cura di), Orthodox readings of Augustine, Crestwood (NY) 2008; M. Plested, Orthodox readings of Aquinas, Oxford, 2012; G.E. Demacopoulos, A. Papanikolaou (a cura di), Orthodox Constructions of the West, New York, 2013 e le considerazioni svolte supra, p. 162.
19 M. Jugie, Un théologien grec du XVIe siècle: Gabriel Sévère et les divergences entre les deux Églises, in Échos d’Orient, 99, 1913, p. 97-108.
20 Uno degli autori più importanti per il rinnovamento della teologia ortodossa, Georges Florovsky (1893-1979), fu pesantemente influenzato dall’eurasiatismo degli emigrati russi e da Oswald Spengler, da cui prese a prestito il concetto di «pseudomorfosi»: P. L. Gavrilyuk, Florovsky’s Neopatristic Synthesis and the Future Ways of Orthodox Theology, in Demacopoulos, Papanikolaou (a cura di), Orthodox Constructions of the West, cit., p. 102-124 (p. 105-108).
21 A questo riguardo, per un esame del legame tra teologia e interpretazione storica nelle opere di Ioannis Romanidis e Christos Giannaras, si vedano i saggi contenuti nel già citato volume Orthodox Constructions of the West ed in particolare quello di P. Kalaitzidis, The Image of the West in Contemporary Greek Theology (p. 142-160). Per un esempio recente e citato nelle pagine precedenti di ricostruzione storica ancora fortemente appoggiata a lavori di impostazione confessionale e nazionalista, cfr. T. Dialektopoulos, Iconography as a Research Source, cit. Tra gli altri autori più o meno inquadrabili nel movimento «neo-ortodosso» si possono menzionare Kostis Moskof e Georgios Metallinos; cfr. V. Makrides, Byzantium in Contemporary Greece: the Neo-Orthodox Current of Ideas, in D. Ricks, P. Magdalino (a cura di), Byzantium and the Modern Greek Identity, Aldershot, 1998, p. 141-153.
22 M.D. Lauxtermann, Unhistoric Acts: The Three Lives of Romanos Nikiforou, in The Historical Review / La Revue Historique, 9, 2012, p. 117-140.
23 O.J. Schmitt, Levantiner: Lebenswelten und Identitäten einer ethnokonfessionellen Gruppe im Osmanischen Reich im” langen 19. Jahrhundert”, Monaco, 2005.
24 Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 511-548.
25 Cfr. B. Heyberger, Catholicisme et construction des frontières confessionnelles dans l’Orient ottoman, in F. Bethencourt, D. Crouzet (a cura di), Frontières religieuses à l’époque moderne, Parigi, 2013, p. 123-142, 142: «Le confessionnalisme n’est donc pas une composante d’une nature orientale qui serait figée à jamais par un déterminisme local, ni le produit du système politico-religieux de l’Empire ottoman, avec ses millet-s. Il est en grande partie le résultat d’une ingérence de l’Occident, avec ses discours et ses méthodes d’enseignement, dans l’univers mental des chrétiens orientaux, à partir du XVIIe siècle. Il est un des aspects de l’occidentalisation du Proche-Orient».
26 T. Bauer, Die Kultur der Ambiguität. Eine andere Geschichte des Islams, Berlino, 2011; osservazioni interessanti a questo proposito in Windler, Regelobservanz und Mission, cit., p. 44 e sg. e B. Heyberger, De l’ambiguïté en Islam. Notes critiques, in Revue de l’histoire des religions, 3, 2012, p. 403-412.
27 L’uniatismo, metodo d’unione del passato e la ricerca attuale della piena comunione, Balamand (Libano), 23 giugno 1993, in particolare i nn. 12 e 22: «Per la maniera in cui cattolici ed ortodossi si riconsiderano nel loro rapporto con il mistero della Chiesa e si riscoprono come Chiese sorelle, la forma di “apostolato missionario” sopra descritta, e che è stata chiamata “uniatismo”, non può essere accettata né come metodo da seguire né come modello dell’unità ricercata dalle nostre Chiese […] L’azione pastorale della Chiesa cattolica sia latina che orientale non tende più a far passare i fedeli di una Chiesa all’altra; cioè non mira più al proselitismo tra gli ortodossi. Essa mira a rispondere ai bisogni spirituali dei suoi propri fedeli e non ha nessuna volontà di espansione a spese della Chiesa ortodossa» (Enchiridion oecumenicum, vol. 3, § 1867-1900; versione originale francese apparsa su Service d’Information, 83-2, 1993, p. 100-103). La Dichiarazione è stata sottoscritta dalla Chiesa cattolica e dalla maggioranza delle Chiese ortodosse, con l’eccezione notevole della Chiesa di Grecia. Cfr. Comité mixte Catholique-Orthodoxe en France, Catholiques et orthodoxes: les enjeux de l’uniatisme. Dans le sillage de Balamand, Parigi, 2004.
28 Vedi supra, p. 388, la lettera del 2 novembre 1742 in cui Mechitar esprimeva il proprio disagio rispetto alla creazione unilaterale di un patriarca armeno cattolico: «la casa non c’è e si prepara il padrone» (Mechitar di Sebaste, Namakani caṙayi Astucoy Mxit‘aray Abbayi, cit., n. 712).
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