Capitolo 7. Trasgressioni necessarie
p. 381-427
Texte intégral
Decreti romani e domande dei missionari
1Le persecuzioni e i burrascosi eventi dei primi anni del XVIII secolo avevano senza dubbio rischiato di intaccare il lavoro paziente dei missionari cattolici. Tra gli armeni furono numerose le defezioni e i ritorni all’ovile tradizionale della Chiesa apostolica, mentre negli stessi anni anche le relazioni tra greci e latini nell’arcipelago toccarono punte critiche, particolarmente a Chio. Gli editti del sultano contro il proselitismo cattolico e i disordini interni alla società armena ebbero anche importanti ripercussioni sulla curia romana, facendo letteralmente esplodere il numero dei casi di communicatio in sacris sottoposti al suo giudizio. Più le risposte si facevano negative e la pratica esplicitamente proibita, più paradossalmente cresceva l’attenzione verso il fenomeno e dunque la sua documentazione. Scorrendo le pagine dei faldoni di Propaganda Fide o del Sant’Uffizio per i primi due decenni del Settecento, si è colpiti dal fatto che praticamente ogni anno le stesse problematiche venivano sollevate da questo o quel missionario attivo in una diversità comunità.
2Nel 1704, ad esempio, erano i cappuccini di Costantinopoli a chiedere delucidazioni, sottoponendo dieci dubbi relativi alla communicatio e in generale alla validità o meno del rito e delle consuetudini armene: il divieto che proibiva la partecipazione alle messe degli scismatici riguardava anche quelle località in cui non era possibile trovare religiosi cattolici? Un sacerdote armeno poteva evitare di versare pubblicamente l’acqua nel calice, purché lo facesse di nascosto? I fedeli cattolici potevano mangiare lecitamente carne per i quaranta giorni successivi alla Pasqua, com’era tradizione nel rito armeno? E dovevano celebrare le feste religiose nei giorni stabiliti dalla Chiesa di Roma o piuttosto spostarle alla domenica, come avevano sempre fatto? Era lecito ad un parroco latino sposare un cattolico ed una scismatica? Il consultore allora incaricato della risoluzione – il solito Giovanni Damasceno Bragaldi – seppe rispondere a tali quesiti in modo chiaro e per lo più in senso negativo, moderato in un paio di occasioni dall’intervento dello stesso pontefice. Tuttavia, non mancavano le questioni scottanti o ancora oggetto di riflessione: quando fu questione di decidere se il decreto che proibiva ai cattolici orientali di confessarsi dagli scismatici fosse valido anche in articulo mortis, la replica scelta fu: nihil esse respondendum, et PP. Missionarii consulant Theologos1.
3Una risposta non dissimile fu ricevuta l’anno seguente dal sacerdote e poi vescovo armeno di Mardin Melk‘on Tasbas, allorché, avendo richiesto il permesso di pregare assieme gli eretici nello stesso luogo, «per non esservi chiesa de’ cattolici», fu rescritto: Ad mentem, et mens est ut non detur responsum a S. Congregatione, sed consulat theologos2.
4Se nei palazzi vaticani continuava ad esservi una certa cautela in materia, non altrettanto si può dire del mondo missionario, dove gli animi andavano surriscaldandosi in un senso o nell’altro. Sempre nel 1706, il vescovo di Cipro Minas P‘ēruazean lamentava che gli armeni cattolici ritornati da Roma predicavano opinioni che erano fonte di scandalo: secondo loro il battesimo celebrato secondo il rito armeno non era valido e dunque i convertiti andavano tutti ribattezzati e ricresimati; l’ostia utilizzata nella consacrazione doveva essere «sottile» come quella dei latini e anche nei digiuni e nelle feste bisognava conformarsi agli usi occidentali; ogni sacerdote doveva rimanere celibe «e se haverà [moglie] non confessate a lui, perché loro non sono legittimi ministri e secondo la lege»3. Il Sant’Uffizio rispose condannando questo eccesso di scrupolo, che portava a far coincidere il cattolicesimo con il rito latino e che era direttamente responsabile dell’esplodere della discordia all’interno della comunità, fornendo così un facile pretesto alle violenze degli ufficiali ottomani4.
5In ogni caso, la rete informativa dei missionari di Propaganda aveva permesso una diffusione ormai vasta dei decreti proibitivi della communicatio, costringendo molti fedeli a cambiare abitudini, o quantomeno a provarci. All’inizio dell’anno 1707 un gruppo di «mercanti armeni cattolici dispersi per il dominio del Turco» indirizzò una petizione direttamente a papa Clemente XI: a causa del loro lavoro erano costretti a passare molto tempo in luoghi dove non si trovavano chiese cattoliche in cui ascoltare la messa e per questo motivo «erano soliti per il passato intervenire per l’adempimento de narrati esercitii alle Chiese d’altri Armeni, e Greci Scismatici»; ora però alcuni missionari avevano fatto loro presente che tale pratica era proibita, senza tuttavia poter mostrare alcun decreto preciso in materia. Poiché i mercanti pregavano il pontefice di chiarire quale fosse la situazione, il 24 febbraio si provvide a spedire un decreto che affermava: non licere oratoribus intervenire Sacro Armenorum Schismaticorum5.
6Era tuttavia difficile far rispettare una norma del genere e molte lettere, più o meno disperate, lo ricordavano continuamente ai cardinali. Nel giugno 1708 la Congregazione del Sant’Uffizio ricevette quella di un certo Macerdig di Aleppo, che pregava di concedere ai cattolici orientali la licenza di recarsi almeno una volta all’anno nelle chiese nazionali. Secondo il supplicante, chi non le frequentava veniva emarginato, come era accaduto allora ad una famiglia siro-cattolica che, quando aveva pregato il vescovo locale di celebrare il funerale di un proprio defunto, si era sentita rispondere così:
«andate da quei che vi confessavano, e vi communicavano, per seppelire essi gli vostri morti; noi non sepelliamo gli morti dei Franchi, che seguitano il Papa, e non facciamo essequie per i Nestoriani» et incominciarono li parenti del morto suplicarli, e dirli: «habbiate misericordia di noi, noi non siamo Franchi papisti, non siamo andati mai da essi, ma noi siamo Siri come voi» e si obbligarono che per l’avvenire sarebbero andati da essi, et haverebbero orato nella chiesa loro; allhora si mossero a compassione loro et sepellirono il morto loro, dopo haver preso da loro molti danari.
7Macerdig stesso si trovava in una situazione difficile: paralitico da dodici anni, quando i sacerdoti giacobiti venivano a casa sua per dargli l’eucaristia doveva accampare diverse scuse per non riceverla ( «alle volte li dissi io non sono digiuno, et alle volte feci scusa che ho vomitato»), ma nell’ultima occasione era stato costretto con la forza a comunicarsi; chiedeva dunque alla Sacra Congregazione di essere assolto da questo atto illecito6.
8Le segnalazioni della difficoltà di applicare alla lettera le direttive romane arrivavano da ogni parte dell’Oriente, compresa la Persia, l’altipiano armeno e la zona del Caucaso. I cappuccini attivi in Georgia, ad esempio, riferivano che i religiosi armeni cattolici, quando si recavano nelle chiese per predicare, evitavano accuratamente le materie oggetto di disputa dottrinale, preferendo argomenti di carattere morale, infondevano l’acqua nel calice solamente di nascosto e, quando confessavano qualche fedele, non esigevano da essi professioni esplicite di fede cattolica, temendo di venire scoperti e perseguitati. Soprattutto, chiedevano se fosse ogni tanto lecito ai convertiti segreti pregare insieme agli eretici, particolarmente nei casi in cui il contenuto della liturgia fosse privo di particolari errori, perché altrimenti la loro separazione li avrebbe manifestati come cattolici e questo avrebbe scatenato ritorsioni. Quando Roma rispose in modo negativo, ricordando i decreti precedentemente editi in materia (si citava addirittura quello fatto il 4 dicembre 1668 o 1669 per il vescovo di Trebinje in Bosnia, nel quale si proibiva ai cattolici «l’accostarsi alle Messe et altri officii divini nelle Chiese delli Scismatici»), il cappuccino Tommaso da Massa non si perse d’animo. Nel 1710 ripresentò l’istanza, facendo notare come dall’osservanza di quei decreti nascessero gravi conseguenze:
li Parochi Scismatici d’ordine del loro Patriarca non vogliono più battezzare, sposare né sepelire quelli che vanno alle chiese de’ Missionarii […] onde molti passano all’altra vita senza sacramenti, o pure disperati, e vinti dall’insinuatione de’ parenti et amici scismatici, prendono li sacramenti da preti Armeni Scismatici e doppo d’essere vissuti sempre buoni Cattolici, nell’ultimo della vita si perdono.
9Per questo motivo, il cappuccino chiedeva a gran voce di permettere ai convertiti di recarsi ogni tanto nelle parrocchie armene per ricevere «le funzioni principali del Battesimo, Sposalitio e Sepoltura», soprattutto perché tale pratica era stata fino ad allora diffusa ovunque nell’Impero ottomano; gli stessi ex allievi di Propaganda, una volta tornati nel loro paese d’origine, partecipavano alle funzioni degli «scismatici» e si adeguavano ai loro riti, «il che se non facessero non potrebbero conseguire il fine d’introdurre l’unione e cattolicità, come fanno con catechismi, prediche etc.; essendo verissimo che per aiutare a sollevar uno che sia caduto, bisogna per pietà inchinarsi»7.
10Tommaso da Massa non mentiva, visto che proprio nel 1710 un allievo armeno del Collegio Urbano, «Gregorio Arachiele», aveva fatto domanda perché i cattolici di Tokat potessero almeno nei giorni festivi assistere alle messe celebrate dagli «eretici nazionali», dato che non vi erano in città chiese diverse dalle loro. Anche a lui fu risposto: non licere e anche in questo caso il missionario non esitò a ripresentare le stesse richieste nel 1711 e nel 1713, evidenziando l’assoluta difficoltà di rispettare i decreti trasmessi: «i cattolici non hanno chiesa propria, nella quale possino intervenire e separarsi in questa guisa da scismatici»8. Un’identica difficoltà veniva esposta allora anche dal vescovo armeno di Sivas, «Giona», che durante un soggiorno nell’Urbe pregò in prima persona la Santa Sede di permettere ai fedeli di comunicare in divinis9. Ugualmente fecero altri esponenti della gerarchia armena, più o meno esplicitamente in comunione con Roma: nel marzo 1711 alcuni vardapet di Costantinopoli scrissero una lettera appassionata alla Congregazione di Propaganda per denunciare la totale impossibilità di rispettare i divieti di frequentare le chiese nazionali10. Dello stesso parere erano anche quei vescovi armeni che risiedevano allora temporaneamente a Roma, dato che si dichiaravano disposti a tornare nei loro paesi d’origine come apostoli più o meno segreti del cattolicesimo, ma solo nel caso in cui avessero prima ottenuto una dispensa per poter celebrare nelle chiese degli scismatici: in questo modo avrebbero potuto svolgere il loro ministero e trarne di che vivere, mentre in caso contrario sarebbero stati costretti a vagare raminghi e dover continuamente chiedere denaro alla Congregazione. La Propaganda non sembra aver preso in seria considerazione l’idea, preferendo riflettere se erigere per loro un convento presso la chiesa romana di Santa Maria Egiziaca (già ospizio dei pellegrini armeni) oppure se pregare l’ambasciatore francese a Costantinopoli di consentire ai vescovi ritornati in patria l’esercizio delle loro funzioni nelle cappelle consolari francesi del Levante11.
11Ad un certo punto si valutò anche l’idea di provare ad ottenere i permessi per erigere, a Tokat come a Costantinopoli, delle chiese separate per gli armeni cattolici12. I tempi non erano però ancora maturi: abbiamo visto nel capitolo precedente come il tentativo del 1714 sfumasse a causa delle necessità economiche dei parroci armeni e soprattutto della rivalità tra i missionari. Quest’ultima si aggravò ancor di più nei decenni seguenti, quando alla contrapposizione sopra ricordata tra cappuccini e gesuiti se ne aggiunse un’altra, ancora più forte e determinante, grazie alla comparsa in scena di un nuovo attore storico: la congregazione fondata dall’abate Mechitar.
Strategie confliggenti: mechitaristi e «collegiani»
12Abbiamo visto come Mechitar intuisse i rischi insiti nel rimanere a Costantinopoli sotto il patriarcato di Awetik‘ e avesse dunque lasciato la città per la Morea occupata dai veneziani, dove negli anni precedenti aveva progressivamente inviato discepoli per organizzarvi una casa religiosa. Nel febbraio del 1703 la comunità stabilita a Modone contava dunque una quindicina tra monaci e aspiranti tali e poteva procedere alla costruzione di un vero monastero e all’elaborazione di una costituzione, che venne sottoposta all’esame della Santa Sede nel 1705, ottenendo una prima approvazione nel 1711. A causare tale ritardo furono le accuse e le critiche provenienti dall’Oriente a proposito dell’attività missionaria dei discepoli di Mechitar, che secondo uno dei loro quattro voti si recavano periodicamente tra i connazionali13.
13I mechitaristi erano accusati di non rispettare la gerarchia ecclesiastica (in primo luogo l’autorità del vicario patriarcale di Costantinopoli), di avere un culto carismatico della personalità del loro abate e di utilizzare una liturgia non appropriata. Una rivalità spiccata si istituì presto con quelli che fino ad allora erano stati gli unici missionari armeni cattolici (se si eccettuano i Fratres Unitores del Naxiǰewan, parte dell’ordine domenicano), cioè gli allievi del Collegio Urbano di Propaganda (i cosiddetti «collegiani»). Molte cose li dividevano: anche senza raggiungere i livelli di latinizzazione a cui si erano prestati in passato i Fratres Unitores (come la traduzione della messa latina in un armeno che sovente era un calco dell’originale), quanti avevano studiato a Roma avevano comunque più o meno consciamente introiettato un sistema teologico-ecclesiale basato sulla tradizione scolastica occidentale, sulla liturgia latina e su un modello di Chiesa stabilito nel corso della Controriforma. Mechitar desiderava invece formare i propri discepoli alla riscoperta della particolare tradizione armena, della cui sostanziale ortodossia era fermamente convinto, rileggendo gli antichi autori e rifiutando alterazioni immotivate del rito14.
14Il principale punto di divisione era quello relativo alla strategia missionaria e più in generale all’atteggiamento nei confronti del clero armeno allora esistente. Gli allievi di Propaganda e i missionari latini non si facevano scrupoli nel bollare tutti coloro che non fossero esplicitamente uniti con Roma come «scismatici» ed «eretici»; di più, essi cominciarono – seguendo le direttive romane – a rifiutare il contatto con loro e la partecipazione ai loro riti sacri. Melk‘on T‘aspasean, ad esempio, accettò pienamente le risposte negative circa la possibilità di comunicare in divinis e nelle lettere inviate alla Propaganda affermò di aver smesso di celebrare nelle chiese della sua nazione per non dover essere costretto a «fare oratione con gli heretici» e non dover «sentire la messa heretichissima loro». Tale esigenza era esattamente quella alla base del tentativo di ottenere una chiesa separata per gli armeni cattolici; il fallimento del progetto nel 1714 non ne provocò l’abbandono, ma la successiva persecuzione inasprì gli animi e spinse un numero sempre maggiore di missionari verso un atteggiamento intransigente. Se in precedenza abbiamo visto come potessero esistere posizioni come quelle di Gregorio Arachiele (per fare il nome di un allievo del Collegio Urbano favorevole a una qualche forma di tolleranza per la communicatio), in seguito esse divennero sempre più rare. Lo stesso vicario patriarcale Gallani, inizialmente favorevole alla frequentazione da parte dei fedeli cattolici delle chiese armene, in seguito si irrigidì fino a considerare fuori dalla comunione cattolica quanti comunicassero in sacris15.
15Mechitar perseguiva una via diversa. Abbiamo prima ricordato l’opposizione dei gesuiti al tentativo del 1714, tralasciando però di dire che anche l’abate manifestò allora la sua contrarietà al progetto, seppure per motivi molto diversi. Il suo obiettivo era la comunione completa tra la Chiesa romana e quella armena senza passare da scissioni o lacerazioni del corpo ecclesiale. La missione dei suoi discepoli doveva essere quella di fomentare un risveglio culturale e spirituale nella nazione, perché sia tra gli armeni che tra i latini si prendesse coscienza della natura intimamente cattolica della tradizione armena, superando gli steccati confessionali eretti in precedenza. Anziché mettere l’accento sugli «errori» o gli «abusi» da correggere per raggiungere l’unità, Mechitar preferiva evidenziare i punti in comune al di là delle incomprensioni; pur rispettando completamente l’autorità papale e le regole della Chiesa di Roma, riteneva che l’unione dovesse passare dall’accettare il dialogo con la gerarchia armena allora esistente e non dalla sua sostituzione con una alternativa – come avvenne nel 1742 con il riconoscimento del vescovo Abraham Arciwean come patriarca degli armeni cattolici di Siria, evento verso il quale l’abate non nascose la propria perplessità16. Nonostante la cautela e i compromessi dell’abate, un tale approccio ovviamente esponeva i suoi discepoli ad accuse di eccessiva indulgenza nei confronti degli «scismatici» o di aperto incitamento alla pratica della communicatio, per non parlare dei sospetti sulla loro ortodossia17.
16Tale ostilità emerse a pochi anni dall’approvazione della Costituzione dell’ordine: già nel 1714 padre Elia, uno dei primissimi collaboratori di Mechitar, era costretto a lasciare Costantinopoli a seguito di numerose denunce. Questa tuttavia non fu che una delle difficoltà che la novella congregazione dovette affrontare allora, dato che lo scoppio della guerra turco-veneziana costrinse l’anno successivo i mechitaristi a lasciare il monastero di Modone appena costruito e ad abbandonare tutti i loro pochi averi per rifugiarsi a Venezia. Dalla città lagunare i monaci non sarebbero più andati via: il 26 agosto 1717, infatti, il Senato concesse loro di risiedere sull’isoletta di San Lazzaro, dove fu eretta una nuova casa, futuro centro dell’attività missionaria e intellettuale dell’ordine.
17Nello stesso tempo, il vicario patriarcale di Costantinopoli aveva trasmesso a Roma nuove accuse contro altri monaci, in particolare riguardo ad un «padre Giorgio» di Antep, che fu sospeso dall’esercizio delle sue funzioni e richiamato in Italia per essere esaminato. Mechitar affrontò di petto la questione e si recò a Roma di persona per perorare la causa dei propri discepoli e per difendere il novello ordine di fronte alla Congregazione di Propaganda. Per prepararsi adeguatamente, raccolse una serie di attestati di stima o riconoscenza da parte dei prelati cattolici nelle cui diocesi i mechitaristi si erano trovati ad operare, oltre alle lettere delle comunità armene visitate dai missionari. Arrivato a Roma ai primi di giugno del 1718, Mechitar apprese dal prefetto di Propaganda, il cardinal Sacripante, che le accuse erano state avanzate in primo luogo proprio da missionari «collegiani» di origine armena, in particolar modo dal già menzionato don Giovanni Minas, collaboratore di monsignor Gallani nel vicariato di Costantinopoli. Secondo quest’ultimo, i mechitaristi erano ignoranti e impreparati, non avendo compiuto i necessari studi presso il Collegio Urbano; erano avidi di elemosine e ritenevano il loro abate divinamente ispirato; predicavano e confessavano senza averne ottenuto l’autorizzazione, anzi erano stati inviati in missione senza il permesso della Propaganda. Ma l’accusa più grave era un’altra:
qui è capitato un tal padre Giorgio, monaco armeno di Modon, quale ha dato molto disturbo et a noi, et all’Ill.mo Monsignor Vicario Patriarcale e Arcivescovo di Ancira, mentre alli nostri nationali concedeva la libertà di andar alle chiese degli heretici, et assistere alle loro funtioni, assicurandoli che in ciò non vi era alcun scrupolo et acciò non potessero esser disingannati da noi, e da PP. Latini, gli prohibiva venir a confessarsi da noi e da latini, et anche conversare. Burlandosi di più delle indulgenze e di altre opere di pietà, et anche burlava li miei compagni che sono morti in carcere, dicendo che sono martiri di cane, e mille altri baronate contra di me e di miei compagni […] L’EE. VV. farebbono bene comandare al suo Abbate, che hora si trova a Venetia, che non mandi più in queste parti gli suoi monaci, mentre non vengono per instruire gli nostri nationali, ma per far denari. Inoltre questo sudetto Giorgio ha tal natura, che fra il popolo proferisce tali errori, ma avanti dell’Ill.mo Monsig. Vicario et apresso di noi nega totalmente18.
18Mechitar prese nota dei capi di imputazione e sulla base degli attestati preparò un memoriale difensivo in armeno, facendolo poi tradurre in italiano e stampare19. A facilitare il suo compito fu paradossalmente il sostegno di due vecchi ex-allievi del Collegio Urbano, cioè l’amico Xač‘atur Aṙak‘elean e l’allora parroco di Livorno Gasparo Bartolomeo Vehrad. Questi, ribattendo alle accuse degli altri «collegiani» più giovani, affermava che i discepoli di Mechitar si trovavano sovente ad operare in zone lontane e prive di comunicazioni e dovevano essere vigili a non far scoprire il loro operato dalle autorità turche, circostanze che spiegavano la difficoltà a rimanere in contatto con il vicariato di Costantinopoli o con le Congregazioni romane. Secondo lui, all’origine dell’ostilità verso i mechitaristi stava l’erronea credenza di molti cattolici a proposito della validità dei sacramenti della Chiesa armena: «non essendo capaci d’intendere la giurisdizione, né capaci di poter distinguere la giurisdizione dal carattere sacerdotale», alcuni convertiti e parte degli stessi missionari si erano convinti «che il sacerdozio degli Armeni non è vero, che il pane consacrato dai sacerdoti Armeni è puro pane e niente altro». Di fronte a tale affermazione erronea, i discepoli di Mechitar avevano giustamente reagito, ribadendo «che il sacerdozio degli Armeni secondo la validità è vero sacerdozio, che il pane consacrato dagli armeni sacerdoti secondo la validità è veramente consacrato e transustanziato in vero e reale corpo di Gesù Cristo» . Tale difesa della «validità» dei sacramenti amministrati dagli «scismatici» (altra questione era la «liceità» di riceverli) aveva però persuaso molti che i mechitaristi dessero licenza ai loro discepoli di frequentare le chiese armene20.
19Il 26 settembre 1718, dopo una lunga discussione, la riunione dei cardinali di Propaganda si concluse con la piena assoluzione di Mechitar e di padre Giorgio. Per prevenire ulteriori accuse si prescrisse però che in futuro i monaci mechitaristi fossero esaminati dal nunzio apostolico di Venezia prima del loro invio in missione21.
I dubbi di Mechitar
20All’inizio dell’autunno 1718, l’abate Mechitar si apprestava dunque a ripartire pienamente soddisfatto allorquando il cardinale Sebastiano Tanara, protettore degli armeni in curia, approfittò della sua presenza a Roma per chiedergli di contribuire a risolvere una questione che ormai da alcuni anni intasava le cancellerie dei tribunali ecclesiastici – cioè proprio il problema della communicatio in sacris22. Mechitar si sentì in dovere di accettare e il 6 ottobre seguente sottopose al Sant’Uffizio un quesito complesso, così formulato:
Se gli Armeni cattolici habitanti sotto la signoria de’ Turchi, senza verun pregiudizio della loro Fede cattolica, con la speranza di guadagniare ancora altri, e per evitare alcuni gravissimi danni spirituali, e per la necessità del Battesimo e del Matrimonio, possino trovarsi presenti, o intervenire alle Messe ed agli ufficii divini degli Armeni, i quali per ignoranza assieme coll’ortodossa Fede della loro Chiesa hanno mescolate alcune opinioni hereticali23.
21Assieme al dubbio l’abate si premurò di far pervenire un lungo memoriale, in cui spiegava in sette punti il quesito avanzato, cercando nel contempo di sollecitare una risposta positiva24. Mechitar operava innanzitutto alcune distinzioni fondamentali tra i cattolici armeni e quelli di altre nazioni, tra i sudditi dell’Impero ottomano e quelli di Persia, tra la tradizione antica della Chiesa armena e alcune sue deviazioni ereticali. Criticando qualsiasi generalizzazione, l’abate argomentava come la Chiesa armena non potesse essere definita come eretica e scismatica in senso “formale”, ma semmai solo “materiale”: se nel corso del tempo si erano introdotti alcuni abusi o credenze erronee, questo era dovuto all’ignoranza di una parte del clero e alle vicende storiche della nazione, senza che però ciò intaccasse la sostanziale cattolicità della fede professata dagli armeni, garantita dal riferimento alle opere degli autori antichi e dalla correttezza dei libri liturgici: «propriamente parlando, la Chiesa Armena principiata da S. Gregorio Illuminatore coetaneo di S. Silvestro Papa, fino ad hoggi dì… ha conservata la Fede cattolica, e non vi fu mai verun tempo, in cui affatto l’habbia abbandonata».
22Venendo più propriamente al problema della communicatio in sacris, la pratica aveva cominciato ad essere vietata dai missionari solo dopo alcune recenti decisioni del Sant’Uffizio, delle quali a suo parere la principale era il decreto del 28 novembre 1709 che vietava ai convertiti cattolici di Isfahan e Nuova Giulfa in Persia l’accesso alle chiese armene e ai sacramenti amministrati dai preti del clero gregoriano25. Ma, obiettava Mechitar, il decreto rispondeva solo alle circostanze particolari di Nuova Giulfa, dove gli armeni avevano comunque la possibilità di ricorrere liberamente alle chiese dei missionari latini o a quelle «della nobilissima Casa del Conte di Sciriman, Armeno da molto tempo cattolico»26, evitando così il contatto con il clero armeno persiano, particolarmente ostile alla fede cattolica. Queste condizioni non si ritrovavano nel caso degli armeni residenti nell’Impero ottomano, non solo perché questi erano invece «molto propensi alla fede cattolica, e più tosto segregati per ignoranza e timore de’ Turchi, che per malitia», ma anche e soprattutto per la diversità di politica religiosa nei due regni.
Per maggiore chiarezza deve supporsi, che li Catolici esistenti nel Dominio Ottomano non sono [tutti] della medesima condizione, poiché tanto li Latini quanto li Maroniti hanno le loro chiese particolari antichissime, nelle quali possono liberamente celebrare gli officii divini separatamente dalli Scismatici; all’opposto, non permettendo la Tirannia Turchesca che s’aprino nuove chiese nelli suoi stati, li Armeni, che di nuovo hanno abbracciato la Fede Cattolica, non potendo intervenire nelle chiese degl’Armeni Scismatici, vengono a restare privi affatto di chiese, non essendoli permesso di mutare il Rito, né frequentare le chiese deli Catolici delle altre Nazioni, le quali pure si trovano solamente in pochissimi luoghi. Nasce questo rigore de’ Turchi verso gli Armeni sì da una superstizione di non farsi protettori di nessuna religione diversa dalla setta maomettana, sì dalla gelosia di Stato, che li rende sospetta una tale mutazione tra gl’Armeni, quasi che si faccia a fine di unirsi con li Latini, nemici irreconciliabili delli Turchi. Quindi si vede che li Armeni Catolici esistenti nel Dominio del Turco sono molto più angustiati di quelli che stanno nel dominio delli Persiani, li quali possono professare publicamente la Fede Cattolica, avendo le loro Chiese proprie nella Provincia di Nacivan, sotto la direttione delli PP. Domenicani sino da tempi più antichi, e nelle altre provincie dove non hanno chiesa propria, possono frequentare le chiese delli Latini ne loro spirituali bisogni, e battezzare gli loro bambini e celebrare il matrimonio senza timore delli Persiani, il che tutto è proibito rigorosamente alli Armeni Catolici nel Dominio Turchesco.27
23D’altro canto, la communicatio in sacris non era solo presentata come inevitabile, ma anche come priva di reali pericoli e addirittura utile alla propagazione del cattolicesimo: secondo l’abate, infatti, i nuovi convertiti non correvano rischi di scandalo o perversione dal contatto con i sacerdoti «scismatici», che del resto erano interessati solo a conservare le elemosine versate loro dai fedeli. L’esperienza dimostrava al contrario che erano proprio gli armeni gregoriani ad aver finito per assimilare aspetti della pietà cattolica, come la recita dell’Ave Maria, l’adorazione delle specie sacramentali al momento della consacrazione o la confessione e comunione frequenti. In tal modo dal 1694 al 1709 si erano contate ben 20.000 conversioni tra gli armeni, prima che la svolta rigorista bloccasse questo sviluppo e anzi lo pregiudicasse: non si riusciva infatti ad immaginare in che modo i nuovi cattolici potessero mantenere la loro fede se era impedito loro di recarsi in quelle che molto spesso erano le uniche chiese disponibili. In conclusione, dopo una lunga serie di ragioni di ordine pratico e pastorale, Mechitar ricorreva anche alla dottrina canonica per ribadire che «il non doversi communicare con gli eretici non è di ragion divina, ma soltanto di ragion ecclesiastica, nella quale sempre può dispensare il Sommo Pontefice». L’abate terminava ricordando dunque alcuni esempi di tale tolleranza concessa dalla Chiesa, come nel caso dei matrimoni misti celebrati in Inghilterra e Germania o in quello delle liturgie comuni tenute nelle isole greche e nel Santo Sepolcro di Gerusalemme28.
24Il parere di Mechitar venne allora rafforzato dall’opinione di uno dei missionari più stimati da Propaganda, l’armeno Xač‘atur Aṙak‘elean, già attivo a Costantinopoli e in Transilvania e ora residente presso la comunità di Venezia. Quest’ultimo riprendeva le argomentazioni dell’abate, aggiungendo come il suo apostolato nella capitale ottomana avesse cominciato a portare grandi frutti solo dopo aver lasciato le chiese latine per andare a predicare in quelle armene. In più, faceva presente come fosse impossibile e controproducente vietare ai cattolici la ricezione dei sacramenti dalle mani del clero armeno gregoriano: impossibile perché prima o poi sarebbe dovuto avvenire, perlomeno nel caso di battesimo, matrimonio e funerali, dato che non vi era modo di svolgere quei riti di passaggio se non in forma pubblica e approvata dalle autorità; controproducente perché avrebbe comportato una reiterazione vietata del sacramento (nel caso in cui qualche missionario l’avesse già amministrato di nascosto) o l’aggiunta dell’obbligo di una professione di fede da parte del clero scismatico, reso sospettoso dal tentato rifiuto29.
25A dispetto di tali ragionamenti, il voto steso allora dal consultore Giuseppe Maria Baldrati fu assolutamente negativo. Il consultore ammetteva che la frequentazione delle chiese scismatiche non fosse in astratto da considerarsi come intrinsecamente sbagliata, quanto piuttosto come un atto «indifferente» (non sit per se loquendo illicitum, nec sit actio ex obiecto intrinsice mala, sed indifferens); tuttavia, ciò che rendeva concretamente illecita la pratica era l’insieme di circostanze a cui essa era indissolubilmente legata – cioè, lo scandalo dato ai buoni cattolici, il loro forte pericolo di perversione e soprattutto il fatto che la partecipazione alla liturgia e ai sacramenti degli scismatici finiva per assumere il valore di una professione di fede eretica. Quanto ai pericoli concreti derivanti dalla proibizione, il consultore non li ignorava, ma rimaneva saldo su questioni di principio, rifiutandosi di applicare un ragionamento basato sul concetto di «male minore»30.
26Il voto del Baldrati fu accolto e fatto proprio dai cardinali del Sant’Uffizio, ma inaspettatamente non dal papa. Clemente XI, infatti, anziché rispondere seccamente in modo negativo ai dubbi in questione, preferì una soluzione interlocutoria che evitasse di prendere veramente posizione. Così, il rescritto del 12 gennaio 1719 consistette in un ambiguo invito a consultare teologi e religiosi esperti, astenendosi nel frattempo dal compiere atti che potessero provocare scandalo31. In questo modo si rimetteva sostanzialmente la decisione nelle mani dei missionari, a cui si sarebbero dovuti rivolgere i fedeli per l’illuminazione delle loro coscienze: tale mossa però, lungi dal risolvere o uniformare la pratica dei religiosi cattolici circa il problema della communicatio, contribuì al contrario a fare esplodere le contraddizioni e le diversità di vedute interne al mondo cattolico su questo tema.
27Non appena la notizia della risoluzione raggiunse l’Oriente, sollevò immediatamente grandi speranze da una parte e grande apprensione dall’altra. Per alcuni mesi regnò una notevole confusione, dato che – come scriveva un missionario armeno – circolava la voce che fosse «uscito un decretto, in cui vi era la licenza per nostri cattolici d’andare in chiesa degl’Armeni, ma non si sa la certezza»32. Quando infine pervenne il testo effettivo, assieme al «dubbio» che lo avevano originato, i nemici dei mechitaristi e in generale i missionari più intransigenti non tardarono a far sentire la loro voce. Il vicario patriarcale di Costantinopoli, mons. Raimondo Gallani, in una lettera del 13 giugno 1720 riferì a Roma che l’abate aveva mentito nel presentare le condizioni di vita degli armeni cattolici nell’Impero ottomano, giacché secondo lui quanti avessero rifiutato di svolgere battesimo, matrimonio o funerali nelle chiese degli scismatici andavano incontro a semplici multe pecuniarie, e non a persecuzioni o addirittura rischio di morte; ugualmente, non si doveva dare alcun adito all’idea che la communicatio fosse tollerabile, perché «con tal licenza si stabilirebbero gli Scismatici nelle loro eresie, et errori, credendoli con questi approvati da Sua Santità». Concludeva poi con una grave accusa:
Intanto non posso tralasciare di dolermi del sudetto Padre Abbate Mechitar, perché avendo scritto qua, ed in diverse città dell’Asia, d’aver ottenuta la licenza dalla Santità di Nostro Signore che li Cattolici possino liberamente andare alle Chiese de’ Scismatici, ha causato un altro scisma tra li Cattolici, in maniera tale che stento con gli altri Missionari a levarlo. Il medesimo hanno praticato qui due de’ suoi Monaci, uno de’ quali, chiamato P. Gabrielle, andava dicendo alli suoi Nazionali et a due Padri Domenicani Persiani, pure Missionari, che essi non sono soggetti a Vescovi, a quali non sono obbligati ubbidire, ma al loro Padre Abbate, di cui sono figli, e che hanno la licenza di predicare che gli Armeni Cattolici vadino alle Chiese degli Eretici: soggiungendo alli nostri Missionari, che a ciò s’opponevano: «Predicate voi che non vadino, e vedremo a chi ubidiranno» .33
28Cose simili scriveva nel novembre seguente anche don Giovanni Minas, che non esitava ad accusare i discepoli di Mechitar di aver spaccato le comunità tra «chi va e chi non va, e chi va essorta e rimprovera chi non va alla Chiesa Schismatica »34.
29Ma non mancavano anche altri generi di perplessità sulla risoluzione del 1719: durante la congregazione di Propaganda Fide dell’8 luglio 1720, il maronita Giuseppe Assemani fece notare come in molti luoghi fosse impossibile trovare sacerdoti in grado di rispondere adeguatamente ai dubbi dei fedeli, anche perché i missionari non solo non erano preparati dottrinalmente, ma erano spesso di opinioni differenti proprio a riguardo del divieto di communicatio: «dal che viene a risultarsi una somma confusione, ed angustia alle coscienze de’ poveri orientali, che non sanno qual sia in tal caso la più vera dottrina, e viene altresì a screditarsi presso di loro la Chiesa Romana, come se questa fosse maestra di dottrine tra loro repugnanti »35.
L’inchiesta generale del 1720-1723
30Nel novembre seguente i cardinali della Suprema decisero che si rendeva necessaria una raccolta di informazioni più approfondita sulla questione, che comprendesse il parere non solo dei missionari latini, ma possibilmente anche di tutto il clero orientale cattolico. La vastità dei territori ottomani abitati dagli armeni costringeva infatti ad allargare il campo d’inchiesta, dato che «in diversi luochi, et provincie, può variare lo stato della controversia, et in un Paese può esser occasione di scandalo e di perversione il far atti protestativi di Scisma, ciò che altrove forse non sarà»36. In altre parole, si riconosceva implicitamente che le condizioni non erano ovunque le stesse e che soprattutto da queste dipendeva il giudizio sulla liceità o meno della communicatio in sacris. In un biglietto anonimo del 10 novembre 1720, un consultore del Sant’Uffizio riusciva a sintetizzare con inusuale chiarezza dove si celasse il problema: da una parte nell’Impero ottomano non esistevano chiese cattoliche armene, dall’altra Roma insisteva che gli orientali uniti seguissero il loro rito e non quello latino – «come dunque hanno a fare i poveri armeni cattolici: ove battezzarsi per immersione, ove ricevere l’Eucharistia sub utraque specie? »37.
31Si decise dunque di elaborare una circolare da inviare a tutti i missionari più esperti ancora attivi nel Levante o da poco ritornati in Italia:
Si desidera una piena informazione se i Cattolici Armeni di Constantinopoli, dell’Asia minore, e di altre regioni sottoposte al Dominio Ottomanno per non avere chiese proprie siano necessitati di portare li loro figli a battezzarsi nelle Chiese de Scismatici, dare in quelle sepoltura a loro defonti, e in esse anco contrarre matrimonii colla licenza del Patriarca Armeno Scismatico, e se ricevendo, o amministrando i Sagramenti fuori delle Chiese de Scismatici incorrano o pericolo della vita o altro grande pericolo, e se possino communicare in divinis con gl’Armeni Scismatici senza fare atti protestativi di una falsa setta, senza grave scandalo, e senza pericolo di perversione, talmente che non possa temersi che li Scismatici si confermino nei loro errori, et eresie, e si sovvertano i Cattolici che hanno abiurato lo scisma, perché credessero gl’uni e gl’altri approvati gl’errori et eresie de Scismatici.38
32Una tale informazione avrebbe permesso di rispondere in maniera più completa ed univoca al dubbio proposto da Mechitar due anni prima. Proprio a questo riguardo si inviò contestualmente anche una lettera di ammonizione all’abate, con la quale lo si informava dello stupore suscitato dalla lettera da lui inviata in Oriente, in cui affermava di aver ottenuto dal papa il permesso di comunicare in divinis per gli armeni cattolici; gli si imponeva di ritrattare assolutamente questa affermazione e di vietare ai suoi monaci di diffonderla, «mentre la Santità di Nostro Signore non ha mai dato tale licenza, e molto meno ha definito esser ciò lecito, ma puramente insinuato che si consultino con teologi, e con dotti ecclesiastici che per la loro lunga dimora in quelle parti siano ben instrutti della qualità de Riti, e Dottrina degli Armeni Scismatici»39.
33Gli originali delle risposte dei missionari furono passati tutti al Sant’Uffizio per essere esaminati, e questa è la ragione per cui nell’archivio storico di Propaganda Fide ne è rimasta una traccia soltanto indiretta. Al contrario, la filza M 3 a del fondo Stanza Storica nell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede contiene un voluminoso dossier di più di 250 carte, all’interno del quale sono tuttora conservate le lettere, assieme ai voti dei consultori e al materiale burocratico legato al loro esame40. Questo spiega perché gli studiosi che in passato si sono occupati del problema della communicatio in sacris non abbiano potuto avere accesso diretto a questa documentazione, disponibile soltanto a partire dal 199941.
34Le ventinove lettere presenti nel fascicolo sono le seguenti, qui organizzate per data, mittente, luogo di provenienza e segnatura archivistica:
Data | Mittente | Luogo | Segnatura |
8 febbraio 1721 | Xač‘atur Aṙak‘elean, missionario e | Venezia | cc. 237r-238v |
14 febbraio 1721 | Apostolo Micho, originario di | Roma | 229r-230v |
16 febbraio 1721 | Gasparo Bartolomeo Vehrad, missionario e vardapet armeno, allievo del Collegio Urbano | Livorno | 296r-315v |
22 febbraio 1721 | Abate Mechitar | Venezia | 241r-245r |
10 marzo 1721 | Fra Lorenzo di San Lorenzo (Lorenzo Cozza), vice commissario generale dei minori osservanti | Roma | 316r-320r |
22 marzo 1721 | Mons. Stai, arcivescovo di Edessa | Venezia | 232r-233v |
4 aprile 1721 | Saverio Giustiniani | Corfù | 235r-236r |
4 aprile 1721 | Carlo Francesco da Vindocino (Vendôme), superiore dei cappuccini del Cairo | Cairo | 286r-287v |
6 aprile 1721 | Claude Sicard, gesuita | Cairo | 249r-250v; copia a |
6 aprile 1721 | Elia di Giorgio (de Georgis, Elia | Cairo | 253r (copia 254r) |
16 aprile 1721 | Raimondo Gallani, ex vicario patriarcale di Costantinopoli, eletto arcivescovo di Ragusa | Smirne | 268r-269v |
17 aprile 1721 | Luigi Antonio di Casalmaggiore (lettera a P. Celestino di Quarona, a Roma, San Bartolomeo in Isola) | Aleppo | 278r-279v |
18 aprile 1721 | Angelico da Gazzolo, minore osservante (lettera a P. Celestino di | Aleppo | 277rv |
23 aprile 1721 | Joseph Dimanus, missionario abissino | Cairo | 267rv |
27 aprile 1721 | Giacomo d’Albano, procuratore delle missioni di Terra Santa nel | Cairo | 259r |
2 maggio 1721 | Minas Osghano (Osgan) di Sebaste (Sivas), sacerdote armeno allievo del Collegio Urbano | Pera, | 272r-273v |
4 maggio 1721 | Agostino di Morano, vice prefetto di Terra Santa | Cairo | 288rv (copia?), |
Data | Mittente | Luogo | Segnatura |
9 maggio 1721 | Pier Battista Mauri, arcivescovo di | Pera, | 270r-271v |
15 maggio 1721 | Giuseppe Maria di Gesù, carmelitano scalzo | Tripoli di Siria | 282r-283v |
18 maggio 1721 | Gerolamo Maria di Santa Barbara, carmelitano scalzo | Aleppo | 261r-262r (con copia a |
18 maggio 1721 | D. Giovanni Minas di Nicomedia, sacerdote armeno, allievo del | (Costantinopoli) | 274r-275v |
29 giugno 1721 | Barnaba (Fedeli), vescovo di | Isfahan | 290rv |
4 luglio 1721 | Giacomo Caschodo (Jacques | Costantinopoli | 255r-256v |
15 luglio 1721 | Fra Benedetto da Teano, minore osservante riformato, prefetto delle missioni in Egitto | Akhmim, Egitto | 291r-292v |
3 agosto 1721 | Fra Giovanni dal Marco, superiore della missione di Laodicea (?) | Tripoli di Siria | 276rv |
16 agosto 1721 | Doroteo, cappuccino, custode di | Damasco | 260rv |
12 dicembre | Francesco dalla Castellina, cappuccino, prefetto delle missioni di Georgia | Tbilisi, Georgia | 323r-324r |
1° giugno 1722 | Giorgio Lucas armeno aleppino cattolico (girata alla | Aleppo | 284r-285v |
23 gennaio 1723 | Pier Battista Mauri, vicario patriarcale di Costantinopoli | Costantinopoli | 327rv (copia) |
35Nella maggioranza dei casi, la data di composizione delle lettere si concentra nella prima metà del 1721, seguendo un logico ordine di prossimità geografica: i primi a ricevere la richiesta di informazioni dalla Propaganda e quindi a rispondere furono ovviamente i missionari residenti nella penisola o nelle isole vicine (febbraio-marzo), seguiti poi da quelli attivi nelle grandi città di Siria, Egitto e Anatolia (aprile-maggio) e dal vescovo di Isfahan in Persia (giugno); tra luglio e agosto giunsero altre lettere da religiosi attivi in luoghi meno facilmente raggiungibili (come Akhmim, nell’alto Egitto) e ancora dalla Siria, mentre il prefetto delle missioni in Georgia poté rispondere soltanto nel dicembre seguente, per non parlare dei gesuiti di Crimea, che molto probabilmente furono interpellati ma di cui non si conserva la risposta. Fanno eccezione le ultime due lettere del dossier, che risalgono rispettivamente al giugno 1722 e al gennaio 1723, con un notevole ritardo rispetto al corpus principale: questa discrepanza si spiega con il fatto che esse non costituiscono una vera e propria risposta alle domande inviate da Roma, ma sono “normali” lettere inviate o girate alla Congregazione e successivamente accluse per l’interesse delle informazioni in esse contenute42. Alla stessa categoria appartengono anche le missive inviate nell’aprile 1721 da due minori osservanti di Aleppo al loro superiore residente a Roma, padre Celestino di Quarona, che si premurò di farle avere a Propaganda e quindi al Sant’Uffizio43. Un ulteriore caso a parte è costituito dall’apologia inviata da Mechitar il 22 febbraio 1721, in quanto l’abate si preoccupò soprattutto di difendere se stesso e il proprio ordine rispetto alle accuse e alle ammonizioni ricevute, ma così facendo ebbe modo di ribadire la propria opinione sul problema oggetto di discussione44.
36È possibile trarre alcune informazioni già a partire dall’esame dei luoghi di provenienza delle lettere e dallo status dei loro autori. Come era possibile aspettarsi, metà delle risposte proviene dalle tre città principali dell’Impero ottomano (Costantinopoli, Aleppo e Il Cairo), ma è da rimarcare come subito dopo venga una città italiana, Venezia, dove risiedevano tre dei religiosi interpellati. Potrebbe stupire la presenza di luoghi dove non si trovavano comunità armene significative, ma la scelta di consultare anche altri orientali fu presa «per maggior sicurezza della verità, acciò gli Armeni talvolta non occultino qualche loro rito illecito, o non adduchino cause, non sussistenti per iscusa»45. Quanto all’affiliazione religiosa dei missionari, i gruppi più rappresentati sono i frati minori osservanti (responsabili della Custodia di Terra Santa) e gli allievi del Collegio Urbano, direttamente dipendenti dalla Congregazione di Propaganda, seguiti poi da gesuiti, cappuccini e carmelitani scalzi46.
37L’analisi diventa più interessante quando si passi al contenuto delle lettere e alla relazione tra le opinioni espresse e il contesto locale di attività. Come abbiamo visto, le domande a cui i missionari dovevano rispondere erano sostanzialmente tre: 1) se vi fosse reale necessità per i cattolici armeni di ricorrere alle chiese e al clero scismatico per la celebrazione del battesimo, del matrimonio e dei funerali; 2) se in caso contrario essi incorressero in «pericolo della vita o altro grande pericolo»; 3) se questa forma di communicatio in divinis potesse essere svolta «senza fare atti protestativi di una falsa setta, senza grave scandalo, e senza pericolo di perversione».
38Quanto al primo punto, la maggioranza dei religiosi confermava in modo più o meno esplicito quanto affermato a suo tempo da Mechitar. Laddove le opinioni divergevano era invece a riguardo dell’effettiva gravità delle punizioni inflitte ai trasgressori. Sull’esistenza di un pericolo grave o mortale per quei cattolici che si rifiutassero di ricevere i sacramenti dal clero armeno apostolico, infatti, le risposte sono di difficile classificazione.
39Alcuni religiosi intendevano i sacramenti in generale e in quel caso rispondevano di no, dato che – come affermava il gesuita Jacques Caschod – per l’amministrazione della confessione, eucaristia ed estrema unzione il patriarca non riceveva alcun emolumento, e dunque non si curava di riservarne il conferimento al proprio clero47. L’arcivescovo titolare di Edessa, monsignor Stai, rimarcava che i cattolici armeni potevano confessarsi e comunicarsi dai missionari europei senza pericolo, grazie alla protezione degli ambasciatori dei sovrani europei, e sosteneva addirittura che a Costantinopoli fosse possibile «conferire il battesimo e contrarre i matrimoni anco nelle case private»; tuttavia, era subito costretto a riconoscere che tali atti non potevano avere valore senza «l’assistenza del parocho supposto scismatico» e che particolarmente gli sposalizi non si potevano contrarre «senza la rigorosa ispezione, e dello stato libero e della qualità dei gradi, che tutto unicamente dipende dal Patriarca Scismatico, e suoi Ministri »48. Altri religiosi mettevano in chiaro come fosse impossibile rispondere in modo sbrigativo alla domanda, dato che la pena poteva variare dalla semplice multa alla condanna alla galera, all’esilio o più raramente alla morte: molto era lasciato all’arbitrio del visir49.
40Non mancavano, tuttavia, quanti credevano di poter risolvere più nettamente la questione, come lo stesso Mechitar. Nel difendersi dalle accuse sopra ricordate, l’abate lamentava che i suoi avversari andassero contro la realtà dei fatti: nel corso degli ultimi decenni moltissimi armeni convertiti al cattolicesimo erano stati certamente battezzati, congiunti in matrimonio e seppelliti, ma in quale luogo era potuto avvenire ciò, se non nelle chiese armene? Ancora una volta l’abate tornava a fondare la propria argomentazione sull’ordinamento politico ottomano:
dentro l’imperio del Turco, il Scismatico Patriarca degl’Armeni ha jus con decreto regio, che niuno senza sua licenza possa battezzare, congiungere in matrimonio e dare sepoltura alli defonti. E da queste cose egli ne tira gran parte delle sue entrate patriarcali per pagare la Porta Ottomana. […] Laonde, fino a tanto che i Cattolici nostri si trovano sotto la giurisdittione del Patriarca Scismatico, con provedersi de sudetti sagramenti fuori delle sue chiese inciampano nel reato di lesa maestà, non solamente in quanto che con questo vengono a dichiararsi solennemente per Franchi, come essi nominano i Latini, e abbiano cambiata la paterna religione, ma ancora in quanto che contravengono direttamente al real decreto che li vuole soggetti alla giurisdittione di quel Patriarca: e questo è quello che atterrisce tutti. Adunque, non è falso il mio proposto fino a tanto che i Cattolici Armeni stanno sotto la tirannia del perfido Turco50.
41Argomenti analoghi utilizzava il vardapet Gasparo Vehrad, parroco della comunità armena di Livorno. Secondo il suo ragionamento, fino a trent’anni prima non esistevano quasi cattolici tra gli armeni del Levante e quelli che si vedevano ora affollare le varie città ottomane erano perlopiù convertiti: gli stessi religiosi armeni cattolici erano in gran parte nati da genitori scismatici e quindi «battezati nelle chiese de scismatici per mano dei sacerdoti scismatici, e chiunque attestasse altrimenti il contrario non direbbe la verità» . Anche per quanto riguardava i funerali e i matrimoni, era assolutamente necessario ricorrere ai ministri della Chiesa apostolica, e Vehrad insisteva sui pericoli corsi da chi provasse ad evitarlo: nel primo caso i cadaveri sarebbero rimasti insepolti e la famiglia del defunto avrebbe subito indagini e violenze a causa dell’impossibilità delle autorità turche di verificare le condizioni del decesso; nel secondo, qualunque coppia che non avesse voluto sposarsi di fronte a un sacerdote della propria chiesa d’origine avrebbe dovuto in alternativa «chiamare il Mollà de’ Turchi… accioché egli li congiunga in matrimonio secondo la lege del contratto matrimoniale che s’essercita tra li Turchi; e se ciò non faranno, saranno da giudici turchi condannati come fornicarii, adulterii e meretrici». Insomma, concludeva amaramente ma realisticamente il parroco di Livorno, «non si può vivere da perfetto catolico in paese de’ Turchi»51.
42D’altro canto, il più forte accusatore dei mechitaristi, monsignor Gallani, da poco dimesso dalla carica di vicario patriarcale di Costantinopoli (1706-1720), affermava che ai suoi tempi quei cattolici zelanti che si erano rifiutati di comunicare in divinis non avevano corso «altro pericolo che della borsa», dato che il patriarca era interessato solamente a non perdere le loro contribuzioni ecclesiastiche: quando gli si fosse promessa una certa somma ogni anno «per il mantenimento delle chiese e de suoi ministri, egli facilmente li concederebbe la libertà di conscienza, e la licenza di andare alle nostre chiese»52. Possiamo notare come le diverse opinioni dipendessero in buona parte dall’esperienza personale e dalle circostanze storiche, giacché l’immediato successore nella carica di vicario patriarcale (1720-1730), Pier Battista Mauri, riferiva di una situazione molto diversa, provocata dall’inasprimento della persecuzione: agguati quotidiani ai fedeli orientali visti uscire dalle chiese latine, loro arresto e bastonatura, liberazione solo dietro pagamento di forti somme e della sottoscrizione di una professione di fede «scismatica»53. Testimoni di questo stato di cose erano gli stessi missionari armeni sudditi del Gran Signore, come Minas Osgan o don Giovanni Minas, che avevano entrambi sperimentato la carcerazione per la loro attività apostolica e da allora agivano soltanto di nascosto.
43Molto spesso, tuttavia, sembra essere il contesto geografico e sociale a fare la differenza nelle risposte dei missionari: «le persecuzioni più facilmente sono eccitate in Aleppo, in Costantinopoli e in Damasco, che in altri luoghi; onde ne’ luoghi più piccoli e meno popolati è caso raro che succeda»54. In realtà, tra quanti affermavano che non vi fosse reale necessità di recarsi alle chiese degli scismatici per ricevere i sacramenti, né che vi fosse grave pericolo nel ricorrere ai sacerdoti latini per lo stesso fine, è da notare come la maggioranza fosse costituita da religiosi attivi in Egitto. Secondo uno di loro, il minore osservante Agostino da Morano, le autorità ottomane si curavano poco di regolamentare le pratiche religiose cristiane, specialmente al Cairo, il cui «governo è governo come di repubblica, dove si gode molta libertà in ordine alla religione»55. Analogamente, il confratello Giacomo d’Albano scriveva che nel capoluogo egiziano «il governo del Turcho è assai diverso, né così dispotico et assoluto come in Aleppo, et in Damasco»: in molti anni di missione non aveva mai sentito che «nessun Cattolico di qualsisia natione per esser venuto alla nostra chiesa per sentir la messa, o ricevere sacramenti sia stato carcerato, né bastonato, o che habbia patito aggravio alcuno». Ammetteva però che nel caso frequente di matrimonio tra un orientale cattolico e una «scismatica», questo si svolgeva sempre nelle loro chiese nazionali, senza che i missionari potessero impedirlo. A tale riguardo un rigorista come il prefetto delle missioni francescane nell’Alto Egitto, Benedetto da Teano, si augurava comunque che Roma concedesse presto «la libertà di congiongersi indifferentemente o nell’una o nell’altra Chiesa», dato che a compiere il sacramento in quel caso non erano i sacerdoti eretici ma gli sposi, «né sarebbe participatio in sacramentis, sed tantum in sacramentalibus»56.
44I frati minori della Custodia di Terra Santa attivi in Egitto non riconoscevano dunque la reale necessità della communicatio e al contrario cercavano in tutti i modi di estirpare la pratica. Ma non tutti i religiosi la pensavano allo stesso modo: sempre Giacomo d’Albano si lamenta nella lettera citata che gli sforzi intrapresi per separare i melchiti cattolici del Cairo dal clero «scismatico» erano stati vanificati dall’arrivo di due sacerdoti dalla Siria, Gabriele Aslan e «Abuna Juseph damasceno», i quali insegnavano essere lecito partecipare alla liturgia e ai sacramenti dei greci57. Anche tra gli stessi missionari latini del Cairo vi era peraltro discordanza di parere: in un appunto conservato nel dossier del Sant’Uffizio si può leggere infatti una denuncia contro i padri gesuiti, accusati di lasciare i fedeli orientali liberi «di andar a prendere la comunione da preti scismatici nelle proprie loro chiese», cosa che provocava continue discussioni con gli altri missionari58.
45Nello specifico, in una lettera del maggio 1721, Agostino da Morano si lamentava della condotta del superiore locale della Compagnia di Gesù in Egitto, Claude Sicard, affermando che «quasi tutti i reconciliati da lui vivono con libertà d’andar alle loro chiese scismatiche e participar in divinis con resto della loro nazione» e che «il disparere de missionarii è la rovina delle missioni»59. Quali fossero le idee di Sicard lo si ricava del resto dalla risposta che lui stesso, un mese prima, aveva inviato a Propaganda: in essa sosteneva la necessità primaria di scongiurare l’abbandono del rito d’origine da parte dei cattolici del paese. La difesa delle peculiarità liturgiche orientali contro la latinizzazione insita nella frequentazione delle chiese dei missionari si accompagnava ad alcune convinzioni espresse molto chiaramente. Per il gesuita era sempre lecito a greci, armeni, copti e siri celebrare battesimi, matrimoni ed esequie nella propria chiesa nazionale, quamquam schismatica; era accettabile anche recarsi ogni tanto alla messa degli scismatici, ma con una presenza soltanto fisica e senza una reale partecipazione, a patto di assolvere poi al precetto domenicale in una chiesa cattolica; non era invece mai lecito, se non in casi di estrema necessità, confessarsi o ricevere l’eucaristia da un sacerdote non approvato dalla Chiesa romana60. Della stessa opinione era il suo compagno Elia di Giorgio, gesuita di famiglia maronita e originario di Aleppo, per il quale la ricezione dei sacramenti nelle chiese orientali permetteva di conservare la diversitas Rituum e la partecipazione alla messa poteva intendersi come manifestazione di carità o occasione di apostolato61.
46D’altro canto, queste idee non erano condivise da tutta la Compagnia di Gesù e le rivalità tra ordini potevano assumere contorni rovesciati. Abbiamo visto a più riprese nel capitolo precedente come a Costantinopoli i gesuiti fossero tra i più severi sostenitori della segregazione dei convertiti cattolici; ugualmente, anche i gesuiti di Aleppo non avevano timore a denunciare lo scandalo della communicatio in sacris, mentre al contrario i padri di Terra Santa ne sottovalutavano la portata62. In Siria assistiamo dunque ad un confronto di carattere esattamente opposto a quello che abbiamo visto in Egitto: se al Cairo i francescani stigmatizzavano il lassismo gesuita, ad Aleppo succedeva il contrario, con i minori osservanti Angelico da Gazzolo e Luigi Antonio da Casalmaggiore ad insegnare ai loro penitenti la liceità dell’assistenza esteriore alle messe degli scismatici63.
47Non si può dunque parlare di una particolare accomodatio gesuitica su questo campo, dato che le divisioni di opinione e di atteggiamento dei missionari erano trasversali rispetto alle stesse famiglie religiose e dipendevano piuttosto dai luoghi e dalle circostanze. Anche gli stessi vertici degli ordini ne erano coinvolti: il vicecommissario generale dei minori osservanti Lorenzo Cozza, ad esempio, riconosceva esplicitamente la necessità per gli orientali di comunicare in divinis per evitare «persecuzioni, carcerazioni, ed altri danni sopra la robba e la persona», mali provocati da una parte dalla diffidenza ottomana verso i convertiti cattolici e dall’altra dalle necessità economiche del clero «scismatico »64. Di più, sconfessando implicitamente l’atteggiamento rigorista dei missionari da lui dipendenti (e la sua stessa posizione di qualche anno addietro)65, Cozza si mostrava favorevole alla promulgazione di un’istruzione che invitasse all’uniformità e alla tolleranza, dato che
niun frutto si potrà sperare in quelle parti, ogni volta che [i cattolici orientali] non possino in qualche forma communicare in divinis co’ loro Nazionali, o Eretici o Scismatici… E sarei di sentimento che tutto quello [che] gli si può permettere secondo la mente de’ buoni autori catolici, e con autorità della Santa Sede, e non sia contrario alla purità della fede cattolica, se gli concedesse, e si mandasse una Istruzione Generale a tutti li Missionarii di qualunque Ordine o Istituto siano, secondo la quale dovessero tutti uniformemente regolare nella prattica i loro riconciliati.
48Secondo Cozza, del resto, i convertiti cattolici «quando siano ben ammaestrati» non correvano il rischio di pervertirsi frequentando le chiese orientali, dato che l’avrebbero fatto solo per prevenire danni alle loro cose e persone, non certo perché intendessero in tal modo approvare errori dottrinali66.
Scandalo e perversione?
49Siamo così arrivati a toccare il terzo punto dell’inchiesta, forse quello più decisivo, ovvero la necessità di appurare se fosse davvero possibile svolgere qualche forma di communicatio in sacris «senza fare atti protestativi di una falsa setta, senza grave scandalo, e senza pericolo di perversione». È su tale questione che si riscontra la maggiore differenza di opinione tra i missionari, che ovviamente finiva per ripercuotersi anche nell’atteggiamento dei fedeli da loro dipendenti. Scorrendo le risposte, si può trovare traccia di un topos ricorrente, quello della suddivisione degli orientali cattolici in «classi» differenti.
50Monsignor Stai, ad esempio, durante il periodo trascorso in missione ricordava di aver conosciuto «quattro sorte di cattolici»: «cattolici notori, e di questi pochissimi; cattolici occulti, e questi pochi più che pochissimi; cattolici occasionali all’occorrenze, e questi non così pochi; cattolici puri materiali, e questi della gran turba dell’Apocalisse». I primi, benché non corressero alcun vero rischio di pervertirsi, non potevano in nessun caso comunicare in divinis a causa dello scandalo che avrebbero provocato nel mostrarsi affratellati agli scismatici. Al contrario, i secondi (cioè i cattolici «occulti») potevano comunicare «in un atto che non sia protestativo di falsa setta, e fuori d’ogni errore», dato che senza la partecipazione ai sacramenti sarebbero stati giudicati «non solo non Cattolici, ma né pur Christiani»: del resto la loro clandestinità impediva agli altri cattolici di potersi scandalizzare di loro, o agli scismatici di trarre giovamento dal loro comportamento. Per quanto riguardava le ultime due classi, non c’era molto da dire: i cattolici puramente materiali per la loro ignoranza delle cose di fede potevano essere solo compatiti, mentre gli «occasionali, come quelli che omnibus omnia facti s’affratellano indifferentemente con tutti, adattandosi all’occorrenze dei luoghi e dei tempi» si ponevano da se stessi al di fuori della comunione cattolica. Riflettendo sul fatto che questi due gruppi fossero la maggioranza tra gli orientali, l’arcivescovo titolare di Edessa concludeva amaramente: «gran parte di questi decantati cattolici si servono dell’apparenza dogmatica o per politica, o per pura prammatica»67.
51Il vicario apostolico di Costantinopoli Mauri, dal canto suo, distingueva gli armeni cattolici di quella città: da una parte quanti evitavano in ogni caso le chiese degli eretici, dall’altra coloro che si recavano liberamente nelle chiese nazionali, pretendendo di poter fare ciò senza scandalo o pericolo alcuno – «e questi sono per lo più quelli che sono facoltosi e temon d’esser spogliati »68. Anche il minore osservante Benedetto da Teano riteneva che gli orientali cattolici fossero di due specie, quelli veramente interessati alla salute dell’anima e perciò rigorosi nell’evitare la compagnia degli scismatici, e quelli che «vorrebbero contentare Iddio ed insieme il Demonio»69.
52Le divisioni tra i fedeli rispecchiavano quelle tra i religiosi, come faceva lucidamente notare il già citato parroco armeno Gasparo Vehrad: «questi missionarii… havendo insegnato e insegnando ancora diversamente l’uno dall’altro al popolo della nostra nazione, sì come essi tra di loro sono divisi, così hanno diviso il popolo catolico in tre classi di dottrina e d’opinione» . Alcuni seguivano l’insegnamento degli allievi di Propaganda Fide; altri (concentrati perlopiù a Costantinopoli e ad Aleppo) facevano ricorso ai missionari latini; infine, dove questi ultimi non erano presenti, come nella maggior parte dell’Anatolia centro-orientale, erano i mechitaristi a svolgere compiti pastorali. Il problema era che ognuno di questi tre gruppi insegnava cose diverse: «ciò che uno ammette, lo proibisce l’altro, né mai ciò che speculativamente decidono hanno saputo accordarsi a pratticarlo», così che i fedeli alla fine potevano scegliere di seguire l’opinione che più si confaceva alle loro necessità, senza dover esprimere una posizione uniforme. Al di là del ritenere più o meno tollerabile la communicatio, le diversità d’opinione riguardavano anche aspetti centrali del rito:
Noi missionarii del nostro Collegio, gl’altri vescovi o arcivescovi o sacerdoti catolici che fugitivi girano qua e là per l’Europa, tutti e singoli diversamente procediamo nelle cerimonie e nell’orazioni delle messe, e negl’altri riti ecclesiastici… per il che siamo la pietra dello scandalo alli nostri popoli, dai quali con rossore nostro siamo rimproverati, che vedono la diversità delle messe da noi celebrate70.
53Una tale confusione ( «non sappiamo quello che facciamo») andava infatti tutta a discapito della disciplina, dato che, come avrebbe commentato l’anno seguente un altro missionario, «alcuni dicono osservar il rito latino, altri l’armeno; perciò, molte volte molti né l’uno né l’altro osservano»71. Lo stesso discorso valeva per la scelta del calendario ecclesiastico, per il quale secondo Vehrad si davano tre possibilità: c’era chi riteneva di dover seguire il nuovo calendario gregoriano in modo da conformarsi completamente con Roma; chi preferiva il calendario «vecchio» (giuliano), celebrando le principali festività nelle stesse date dei greci; oppure infine chi sceglieva di non stare «né con i Latini, né con i Greci», ma rimaneva fedele al calendario tradizionale utilizzato dagli armeni, che prevedeva di festeggiare Natale, Epifania e Circoncisione di Cristo lo stesso giorno, il 6 gennaio. Quest’ultima scelta, peraltro, non era affatto un segnale di minore ortodossia, dato che i fedeli che adottavano questa opzione «in quanto alla professione della fede sono buoni catolici, e per la fede catolica patiscono molto». Ecco allora che nelle principali città dell’Anatolia e della Siria poteva capitare che la stessa comunità di armeni seguisse calendari diversi, con prevedibili disordini.
54Per quanto concerneva infine il nodo della communicatio in sacris, Gasparo Vehrad avanzava un atteggiamento conciliante: era consapevole che nella liturgia armena adoperata in Oriente si erano inseriti elementi ereticali (come il Trisagion «con l’aggiunta di Pietro Fullone» o le invocazioni a santi considerati eresiarchi dalla Chiesa Romana), ma riteneva che i fedeli cattolici potessero assistervi portando «segni distintivi» che indicassero la loro mancanza di adesione, ad esempio utilizzando un rosario o inginocchiandosi durante la consacrazione, mentre gli scismatici restavano in piedi. Vehrad relativizzava inoltre il pericolo di «scandalo», facendo ricorso ad un paradosso: se i cattolici armeni fossero venuti in Italia, si sarebbero certamente stupiti nel vedere le donne locali girare a capo scoperto e mescolarsi per strada e in chiesa con gli uomini – ma chi, per evitare un tale «scandalo», avrebbe impedito loro di compiere un pellegrinaggio a Roma? In presenza di un fine legittimo e di circostanze necessarie il pericolo poteva dunque essere ridimensionato: attraverso un approccio tollerante, il missionario ventilava addirittura la possibilità di ottenere la riunificazione della comunità armena. Il pericolo più grande, infatti, non era tanto la perversione dei pochi cattolici integerrimi, quanto il distacco dei dubbiosi e di tutti coloro che soffrivano della proibizione della communicatio:
li primi non hanno affetto e amore fraterno con gli secondi e terzi ordini de’ catolici, né si comunicano con essi in carità e devozione, anzi li chiamano pervertiti e scismatici, e quelli [replicano]: «il giogo di Giesù Christo è dolce, è soave, non insopportabile, e la Sacra Congregazione non ci deve obligare a questa legge così dura»… anzi sono alcuni così arditi, che dicono queste insolenti parole: «venghi la S. Congregazione ad habitare con noi nel nostro paese fra Turchi, e allora ci proibisca l’andare alle chiese de scismatici, dai quali siamo sforzati »72.
55La communicatio rimaneva il pomo della discordia e il principale argomento di divisione tra i fedeli e tra gli stessi missionari. Gli allievi di Propaganda esprimevano alcuni dei religiosi allo stesso tempo più zelanti e più perseguitati: il vicario Mauri non faceva mistero che gli «alunni de’ cotesto Collegio Urbano sono odiatissimi, e cercati per essere carcerati», soprattutto perché, a differenza dei mechitaristi, non permettevano in nessun modo l’ingresso nelle chiese degli scismatici73. Tra le lettere raccolte nell’inchiesta è conservata anche la risposta di uno di loro, don Giovanni Minas, già in passato tra i principali accusatori dell’abate Mechitar: a parer suo, il pericolo di scandalo e perversione era fin troppo reale e il ritorno di molti convertiti alle chiese nazionali aveva ridato coraggio e baldanza agli scismatici, che potevano sostenere come i cattolici avessero finalmente preso coscienza della falsità della loro fede. Come possiamo immaginare, don Giovanni Minas attribuiva la responsabilità di tali eventi alla «nuova dottrina» sparsa dai discepoli di Mechitar, che aveva finito per avere conseguenze dirette sulla stessa sicurezza personale dei missionari più rigorosi74.
56In effetti, l’interpretazione data da alcuni mechitaristi del responso del 1719 aveva avuto l’effetto collaterale di inasprire le ostilità contro i cattolici intransigenti, come era del resto già accaduto in passato dopo le aperture di altri missionari favorevoli ad intavolare trattative con gli «scismatici»75. Don Giovanni Minas ne aveva fatto le spese direttamente qualche anno prima, venendo arrestato e condannato alla galera e, in seguito, costretto ad agire in totale clandestinità, dato che erano gli stessi «pusillanimi cattolici» a volerlo denunciare76. «Pusillanimi» e «tiepidi» erano i termini con cui anche Francesco della Castellina, prefetto delle missioni cappuccine di Georgia, definiva i cattolici che non avevano il coraggio di mostrarsi pubblicamente per tali o che nascondevano il loro status religioso perfino ai parenti più stretti e al coniuge, temendo di essere abbandonati o diseredati77.
57Ma qual era il vero stato d’animo di questi fedeli, costretti in una situazione così drammatica? Oltre alle testimonianze indirette riportate da alcuni religiosi, possiamo farcene un’idea grazie ad una lettera del dossier scritta non da un missionario, ma da un semplice armeno cattolico di Aleppo, tal Giorgio Lucas78. Egli si dilungava a descrivere la pietosa condizione dei convertiti locali, vessati dal vescovo armeno e da quello siro con la complicità e il finanziamento di un mercante inglese riformato, Rowland Sherman79; quest’ultimo «tenendo in mano gl’Armeni e Giacobiti, pare d’esser loro patriarca», tanto che li aveva istigati a non lasciar «battezzare li bambini cattolici, né sepellir li nostri morti, né benedire li sposalizi». Il peggio però era che in mezzo ad arresti, bastonature ed estorsioni di denaro, i cattolici si facevano la guerra tra di loro, mentre i religiosi rendevano la vita impossibile a fedeli già sufficientemente vessati:
Infine vi facciamo sapere che ci troviamo in gran perplessità nelle cose spirituali, mercé che de PP. Missionari chi ci insegna una cosa, chi un’altra: li PP. Francescani ci insegnano che non pecchiamo assistendo puramente colla presenza alla messa et officio nella chiesa armena cattolica [leggi: scismatica] senza intenzione di communicar con gl’eretici, e ciò per liberarsi dai pericoli suscritti; e dicono questo esser uniforme alle lettera della Sag. Cong.ne. L’istesso asseriscono li Maroniti. Li PP. Cappuccini né dicono di sì, né di no. Ma li PP. Gesuiti e Carmelitani proibiscono ciò efficacemente, talmente che non ci permettono né pure accostarci alla porta della chiesa. […] Habbiamo sentito, che li religiosi armeni detti della Morea abbiano dato permissione a cattolici di far ciò. Noi ci troviamo perplessi80.
58Nonostante le assicurazioni fornite dall’abate Mechitar a Roma, sembra proprio che i suoi discepoli ( «i religiosi della Morea») acconsentissero dunque al compromesso di frequentare le chiese nazionali senza fare professione di obbedienza al vescovo scismatico; altrettanto facevano i minori osservanti, che tolleravano la semplice assistenza materiale alla messa. Giorgio Lucas auspicava che la Congregazione di Propaganda rilasciasse il permesso di seguire la loro opinione anziché quella degli altri missionari, non tanto perché intimamente convinto della sua maggiore ortodossia o giustezza, ma «per poter campare in questo paese, finché piaccia all’Altissimo concederci tempi più sereni».
La conclusione dell’inchiesta e la necessità di una decisione
59Abbiamo visto come le risposte dei missionari all’ultimo punto dell’inchiesta siano difficilmente classificabili in modo solo affermativo o negativo. Tuttavia, volendo comunque raggrupparle, si può forse farlo secondo cinque prese di posizione: A) quanti credevano che il pericolo di scandalo e perversione fosse realmente esistente e che quindi la communicatio non potesse essere tollerata; B) coloro che, pur non identificando nella communicatio in sacris con gli armeni un vero pericolo, sottolineavano l’inopportunità di renderla lecita; C) coloro che erano risolutamente favorevoli a consentire la frequentazione delle chiese e dei sacramenti degli «scismatici»; D) quanti, pur consapevoli dei rischi succitati, erano comunque favorevoli ad una certa forma di tolleranza, ritenendo gli esiti positivi più probabili di quelli negativi; e infine E) quelli che preferivano non esprimersi in modo chiaro, rinviando il giudizio in base alle diverse circostanze di ogni caso.
60Come si può notare dal grafico, la maggioranza degli interpellati era convinta dell’esistenza di un serio pericolo per la fede cattolica nella pratica della communicatio, ma questo non toglie che le opinioni favorevoli a una qualche forma di tolleranza fossero più o meno equivalenti (anzi, leggermente superiori) a quelle che spingevano per una proibizione netta (fig. 16). Nel chiudere l’inchiesta, tuttavia, la burocrazia del S. Uffizio elencò per punti le principali informazioni raccolte in modo tale che il quadro finale prendesse un accento piuttosto diverso.
61Secondo il riassunto accluso alla fine del dossier81, si riteneva infatti acclarato che: 1) gli armeni cattolici dell’Impero ottomano non possedevano altre chiese del loro rito al di fuori delle scismatiche, ed in queste celebravano battesimi, matrimoni e funerali; 2) nel rito di questi sacramenti non vi era «né errore né eresia» e i missionari avevano sempre tollerato la pratica per l’impossibilità di impedirla, alcuni di essi appoggiandosi anche all’autorità canonica del decreto di Martino V Ad Evitanda e del manuale del Verricelli; 3) ciò nonostante, la maggioranza dei religiosi riteneva questa pratica illecita e quasi tutti i cristiani orientali conoscevano le risposte negative emesse in passato da Roma ai dubbi su tale materia; 4) il motivo dell’illiceità era il pericolo di perversione in cui incorrevano i cattolici che si prestavano a tale pratica e il rischio di scandalo per coloro che vi assistevano, dato che anche la semplice assistenza materiale poteva valere come atto protestativo di eresia; 5) per tutti questi motivi, «sebbene alcuni informanti inclinino perché la S. Sede permetta la communicatione con li scismatici in divinis, nulladimeno la maggior parte esclama che sarebbe scandalosa per esser da tanto tempo tutti ammaestrati a crederla per illecita».
62Si concludeva osservando che i pericoli in cui i cattolici incorrevano non erano motivo sufficiente a renderla lecita: infatti, se essi dipendevano dall’avidità del clero scismatico, si sarebbe dovuto ricorrere al denaro per quietarli; se invece erano causati dall’odium fidei, a maggior ragione era necessario non cedere e rimanere costanti nell’ortodossia. Il consultore Leandro Porzia nel suo voto finale proponeva dunque di negare ai cattolici orientali la facoltà di entrare nelle chiese degli «scismatici», così come Paolo V aveva impedito nel 1606 ai cattolici inglesi di entrare in quelle protestanti82.
63Ancora una volta, però, il rescritto finale non si conformò al voto del consultore: il 3 giugno 1723 i cardinali della Congregazione sospesero la risoluzione dei dubbi proposti da Mechitar e ordinarono che dalla Propaganda si inviasse in Oriente una risposta «non per definizione, ma per mera istruzione generale»83. Il testo di questa istruzione era molto simile a quello del 1719, precedente all’inchiesta, dato che l’unica diversità consisteva nell’ordine delle frasi: le clausole proibitive (quod omnino abstinere debent ab actibus protestationis falsae sectae, et a communicatione in ritu schismatico et haeretico, a periculo perversionis et ab occasione scandali) venivano ora prima dell’appello a consultare i missionari (si ulterius gravem aliquod dubium occurat, doctores theologos et missionarios diu versatos in illis regionibus consulant), ma, in sostanza, era una risposta che poteva prestarsi ancora a letture tra loro diverse e ambigue84.
64Non stupisce dunque che le discussioni tra i missionari in merito alla communicatio in sacris non cessassero negli anni successivi. È anzi eloquente a questo riguardo quanto avvenne allora ad Aleppo, dove il problema era molto sentito: nonostante si fossero riuniti insieme in numero di quattordici per deliberare, i religiosi europei non riuscirono a mettersi d’accordo. Informata dell’evento, Propaganda rispose inviando al Custode di Terra Santa l’istruzione appena formata, ma fra Tommaso da Lucca non ebbe timore nel far notare che quel testo non risolveva proprio niente:
il motivo per cui si trovano divisi li Missionarii, specialmente d’Aleppo, ne’ dubbii concernenti se, et in quali casi, e con quali cautele possano i cattolici communicare coi scismatici, ed eretici, e star presenti alle loro funzioni, parmi possa procedere dal riflesso d’un decreto emanato nel tempo della felice memoria di Clemente XI Sommo Pontefice, consimile a quello che ora ho l’onore di ricevere dall’EE. VV., come di già gliene diedi relazione in altra mia, poiché a tenore del sudetto decreto alcuno de Missionarii sostiene esservi scandalo, protestazione di falsa setta e pericolo d’apostatare andando li cattolici alle chiese de’ loro nazionali scismatici o eretici, altri sostengono il contrario, sì che dubito assai che per questo nuovo decreto senza decisione definitiva non restino maggiormente fermi, e stabili nelle loro diverse opinioni, senza potersi altrimenti unire, mentre che li uni non si stimano di minor dottrina e pratica nelle missioni degl’altri; per tanto stimo assai malagevole che possano venire ad una bramata unione, se non è comandata, o precettata dall’EE. VV. Per quello risguarda l’uniformità che l’EE. VV. m’insinuano procurare ne’ Missionarii miei sudditi, le assicuro d’una total uniformità tra medemi, ma che s’uniformino Missionarii d’ordine all’opinione de Missionarii d’altro ordine, questo lo giudico assai difficile per esser gl’uni indipendenti dagl’altri.85
65Il Custode di Terra Santa rimarcava insomma come si sentisse ancora la mancanza di una decisione definitiva che obbligasse in coscienza tutti i missionari ad uniformarsi ad un solo parere, lasciando peraltro trasparire come il suo personale punto di vista coincidesse con quello dei religiosi più tolleranti verso la communicatio. L’istruzione del 1719 (il cui contenuto abbiamo detto si ritrova pressoché identico in quella del 1723) metteva in guardia contro «il pericolo dello scandalo, della perversione e della protestatione di falsa setta», ma era appunto discutibile che gli armeni cattolici incappassero realmente in tali rischi nel frequentare le chiese nazionali: tutti sapevano che i cattolici vi si recavano solo perché erano costretti dalle misure violente suscitate dal clero scismatico e dalle autorità ottomane, per cui nessuno poteva veramente scandalizzarsi; «quanto poi al pericolo di pervertirsi col tempo, pare più ragionevole anteporre il pericolo che è de facto al pericolo che è de possibili, essendo questo incerto e quello certissimo». Anzi, i convertiti che acconsentivano a farsi vedere ogni tanto nelle chiese armene sfuggivano alla sorte riservata invece agli intransigenti, quella cioè di venire in seguito costretti a recitare una professione di fede eretica per poter ricevere (per loro o i loro congiunti) il battesimo, il matrimonio o i funerali. Insomma, concludeva fra Tommaso da Lucca, «se stimassero bene l’EE. VV. conceder alli cattolici nelle presenti emergenze di poter andare nella lor chiesa, mi pare sarebbe più agevole il conservare la santa fede cattolica»86.
66Sembrava dunque che l’inchiesta che aveva occupato gli anni precedenti fosse stata condotta invano, visto che i problemi e le divisioni tra i missionari continuavano come prima. Anzi, peggio di prima: il numero dei religiosi zelanti andava infatti aumentando (nonostante le ambiguità evidenziate, le istruzioni romane esprimevano comunque una evidente preoccupazione nei confronti nella pratica e non bisogna dimenticare i singoli decreti proibitivi emessi già da decenni in merito a dubbi particolari), mentre i missionari più aperti verso la communicatio si trovavano ora a scegliere se continuare a difendere il loro operato tramite interpretazioni sempre più scivolose della normativa canonica o al contrario sottomettersi al nuovo indirizzo.
67Particolarmente colpito dal divieto, il superiore dei gesuiti nel Cairo Claude Sicard si gettò nella stesura di una appassionata Dissertation sur la communication qu’on peut avoir avec les hérétiques et schismatiques dans les prières et les sacrements (composta il 17 giugno 1725). Questo testo, di cui abbiamo già trattato87, scandalizzò gli altri missionari e particolarmente i minori osservanti. Luigi Antonio di Casalmaggiore definì la dissertazione «erronea e piena di falsità e contradizione», mentre il vice prefetto di Terra Santa Bernardo d’Alpicella corse a denunciarne l’autore alla Propaganda: «il P.re Sicard Giesuita Francese, non sodisfatto di tali ordini [l’istruzione del 1723], disse che non erano risposta adeguata a dubbi trasmessi, e che parlando con buona pace di questi Sig.ri Em.mi, il rito di queste nazioni rispetivamente era buono, ed aprovato. Coram Deo che io non mentisco: continuò e continua a predicar la strada larga insegnando che puonno andar alle loro chiese»88. La Congregazione ammonì Sicard e lo mise sotto osservazione, ma l’improvvisa morte del gesuita l’anno successivo gli risparmiò ulteriori reprimende89.
68Il suo tuttavia non fu l’unico gesto di dissenso, visto che ritroviamo un atteggiamento analogo nel 1727 presso il provinciale dei gesuiti di Siria, Pierre Fromage. Quest’ultimo aveva mandato per iscritto al minore osservante Bernardo d’Alpicella cinque ragioni per cui riteneva lecita la partecipazione dei convertiti cattolici del Cairo alle loro chiese nazionali. Innanzitutto sosteneva che in passato i missionari avevano ricevuto simili permessi da parte di Propaganda in caso di persecuzioni, tanto che «tre o quattro anni fa la S. Congregatione haveva trasmesso un decreto al padre Clotero franciscano superiore in Aleppo, dal quale fu promulgato e pubblicato, ove si permetteva alli catolici soriani et armeni l’assistere alle messe degl’eretici»90; in secondo luogo, tutti i missionari di Damasco, a prescindere dal loro ordine, avevano sempre permesso ai loro fedeli di partecipare alle messe celebrate dal defunto patriarca melchita Cirillo V al-Za‘îm anche prima che quest’ultimo facesse professione di fede cattolica nel 1716 ( «anzi, che i medesimi Missionarii qualche volta vi assistevano in persona»); c’era poi da considerare che molti «scismatici» si erano convertiti proprio a causa della familiarità con i cattolici, mentre al contrario la separazione e la conseguente mancanza di elemosine erano il primo motivo dell’odio del clero orientale verso i convertiti. Il gesuita non mancava di ricordare come lui stesso all’inizio della propria attività non credesse lecita la communicatio, «come ancora non prattico delle cose orientali»; ma un’esperienza di molti anni nel Levante gli aveva mostrato «che ciò si possa lecitamente fare, e che possa il catolico assistere alla messa degl’eretici suoi nationali, quando così gli comandasse il suo Patriarca o prelato: purché il prelato non intenda di pervertirlo e ridurlo all’eresia con questo obbligarli a venire alla propria chiesa». Per tutte queste ragioni, Pierre Fromage riteneva dunque lecita la comunione nelle cose sacre, pur ribadendo che i fedeli dovessero sempre essere diretti con attenzione dal loro padre spirituale, al quale spettava indicare le occasioni e le modalità nelle quali fosse possibile la frequentazione della liturgia e dei sacramenti degli «eretici»91.
69Una tale divergenza di opinioni creava scandalo e pareva agli stessi fedeli «segno d’incostante pazzia», come scrisse nell’aprile 1727 il chierico melchita Fares di Aleppo, trasmettendo alla Propaganda le argomentazioni del superiore gesuita. Pregava anzi la Congregazione di far sapere se le idee dei gesuiti fossero state approvate o no dalla Santa Sede «affinché li cattolici sappiano regolare le loro coscienze e caminare nella luce della verità»92. In altri termini, la circolare del 1723 aveva dimostrato la sua inutilità e si tornava a chiedere con ancora maggiore insistenza una direttiva chiara.
70Di fronte ad una situazione del genere non fu più possibile tergiversare e nel 1729 fu redatta e trasmessa una nuova istruzione generale, che sin dalle sue prime parole rimproverava i missionari93. Gli estensori del testo (che venne firmato dal cardinal Petra) affermavano che le disposizioni precedentemente fornite da Roma non si prestavano ad una vera ambiguità, ma che erano stati piuttosto i religiosi inviati in Oriente a complicare la questione, interpretando le parole delle istruzioni «contro la mente di questa S. Congregazione, arrogandosi alcuni l’autorità di decidere tutti i casi, e con scritture donar regole generali pericolose in una materia così delicata»; era stata dunque la gelosa discordia tra i missionari a rendere «più dubbioso il quesito, tante volte risoluto, con danno delle coscienze, e con scandalo de’ buoni» . Se speculativamente era possibile immaginare in astratto alcuni casi in cui la communicatio in sacris era tollerabile, «colla scienza prattica, considerato il fatto con tutte le sue circostanze», era invece difficile se non impossibile ritrovarne e per questo Roma aveva determinato che la partecipazione ai sacri degli acattolici «dovea regolarmente nella pratica credersi illecita, o per il pericolo di perversione, o per il pericolo di partecipare nei riti scismatici ed eretici, o finalmente per il pericolo ed occasione di scandalo; ed essendo queste circostanze […] universalmente proibite per il diritto naturale e divino, contro cui non c’è potestà che dispensi, o connivenza che salvi, non lasciavano apertura a farne più dubbio».
71Tuttavia, neanche questa presa di posizione finalmente chiara fu sufficiente ad eliminare veramente il fenomeno, che rimase diffuso in Oriente ancora per decenni.
Divieti teorici e tolleranza pratica
72Le decisioni romane lasciavano ora poco margine di azione a quegli armeni che si professavano cattolici ma non potevano rendere nota la propria condizione: era il caso degli ecclesiastici di alto livello come i vescovi, che avrebbero immediatamente perso la loro posizione (dato che essa dipendeva non solo dall’ordinazione ricevuta dal kat‘ołikos di Ēǰmiacin o da suoi delegati, ma anche e soprattutto dal riconoscimento delle autorità ottomane). Formalmente, Roma non pretendeva una dichiarazione pubblica, ma ordinava comunque di compiere una serie di gesti che nella pratica denunciavano come cattolico chi li compiva: versare l’acqua nel calice, celebrare le festività principali nelle stesse date dei latini, omettere la menzione dei santi armeni ritenuti eretici…
73Vi furono esempi di prelati che obbedirono rigorosamente ai comandi, oscillando tra il coraggio e l’incoscienza, come il vescovo di Aleppo Abraham Arciwean (Arzivian), che ne ricavò persecuzioni, arresti, un esilio e la fuga tra le montagne libanesi, ma infine anche il riconoscimento come primo patriarca di Cilicia per gli armeni cattolici; ma certo non tutti potevano seguirne l’esempio. Minas P‘ēruazean, già arcivescovo a Cipro e poi a Smirne, riteneva ad esempio che non fosse possibile: a partire dal 1706 fino alla fine degli anni ’20 continuò a far notare alla Propaganda quanto fosse irrealistico pretendere il rispetto di quelle condizioni, chiedendo quindi di esserne esentato. Di fronte ai numerosi rifiuti, arrivò perfino a proporre spontaneamente di lasciare la carica e recarsi a Roma, dove avrebbe potuto finalmente vivere da cattolico senza gli scrupoli di coscienza e i timori a cui era continuamente sottoposto – del resto non sarebbe costato nulla alla Congregazione, giacché era molto ricco (apparteneva ad una famiglia di amira, come rivela il fatto che suo fratello fosse allora «presidente della zecca del Gran Signore»)94. Eppure, da Roma si continuò a chiedergli di rimanere nella sua diocesi, fin quando nel 1733 gli si lasciò liberta di coscienza in merito, ammonendolo però di riflettere «se la di lui partenza può ridondare in pregiudizio degli Armeni cattolici colà dimoranti» . I cardinali non facevano alcuna concessione di principio, ma lasciavano al suo posto un vescovo che diceva loro apertamente di non poter rispettare proprio quei principi, perché questa comunque appariva la soluzione migliore95.
74Nel corso del secolo la strategia più o meno consapevole di vietare generalmente in linea teorica e tollerare nei singoli casi in via pratica trovò ampia attuazione, particolarmente sotto il pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), un pontefice che aveva altrettanta dottrina e conoscenza dei limiti insuperabili del diritto canonico e della teologia, quanta capacità di comprendere i contesti locali e le loro necessità.
75Nel 1748 il vicario apostolico di Costantinopoli Girolamo Bona riferì a Roma che l’abuso di far battezzare i propri figli nelle chiese armene e ancor più di contrarvi matrimonio alla presenza di un sacerdote «eretico» era diffusissimo e che poco aveva potuto anche il suo tentativo di rendere la communicatio in sacris un caso riservato a sé e a pochi missionari di sua fiducia, così da scongiurare le assoluzioni troppo facili dei penitenti recidivi96. Dato che il vicario mostrava di considerare «nulli» i matrimoni contratti in quel modo, la questione fu esaminata specificamente nella congregazione del Sant’Uffizio del 27 febbraio 1749, alla presenza del pontefice: all’unanimità fu riconosciuto che i matrimoni degli armeni cattolici contratti alla presenza di un ministro acattolico erano validi; quanto alla loro liceità, «quantunque siasi creduto non dover recedere in verun modo dalle regole generali altre volte stabilite proibenti ai Cattolici il comunicare in divinis coi Scismatici, si è però creduto e determinato… che attese le funeste conseguenze provenienti dalla prepotenza del Patriarca Armeno Scismatico… non debbono nel caso di cui si tratta per questo capo inquietarsi gli Armeni Cattolici». Quanto affermato era però subito accuratamente delimitato: «la stabilita validità de matrimoni comprende i cattolici Armeni, ma non le altre nazioni che hanno insino ad ora osservata la forma del Concilio di Trento, e che la tolleranza indicata in ordine ai matrimoni, che si fanno avanti il Prete Scismatico, non deve estendersi agli altri atti che dagli stessi Cattolici Armeni si potessero o si possono fare»97. Poiché il vicario sembrava non aver recepito la decisione e continuava a chiedere se fosse necessario rivalidare i matrimoni contratti in quel modo, un’ulteriore e più chiara istruzione fu emanata nel 1754:
Esponendo che sono frequenti e sempre più saranno frequenti i matrimoni fra cattolici e scismatici o eretici, acciò non prenda equivoco e non sparga oscurità, ove non sono, sembra bene fargli sapere che contraendosi senza sua saputa, e non potendo esso impedirli, si regoli come si regolano i buoni superiori ecclesiastici nei paesi nei quali simili matrimoni sono frequenti; cioè che non si accinga ad impedirli, li lasci correre, li tenga per validi benché illeciti, non potendosi in tutto ciò valutare che una semplice tolleranza o permissione d’un male minore per evitare un maggiore. Che se poi ad esso si fa ricorso per avere la licenza di contrarre matrimonio fra un contraente cattolico ed un altro scismatico o eretico, deve il suo contegno esser il seguente: cioè, deve ammonire il cattolico che facendo il matrimonio, il matrimonio sarà valido ma illecito; ch’esso commetterà un grave peccato; che mette sé in pericolo di perversione; che espone la prole nascitura ad un pericolo di perdizione; e che se esso non si accinge ad impedirlo, ciò deriva dall’infelicità delle circostanze e dal timore di mali maggiori. E regolandosi in questo modo dice la verità, che è quella che sempre dee dirsi, insegna le vere massime, non fa atto positivo di approvazione, né col fare schiamazzo per impedire il matrimonio o contro il matrimonio dopo che è contratto si espone al pericolo di eccitar tumulti98.
76La predetta «tolleranza» non si limitò tuttavia solo ai matrimoni, ma finì per coinvolgere anche gli altri sacramenti o sacramentali dotati di valore civile e pubblico, come appunto il battesimo e i funerali. Lo si vede bene da un’istruzione inviata nel 1764 in risposta ai dubbi del vicario apostolico di Aleppo, che chiedeva se fosse possibile permettere la communicatio nei tre casi citati. La Propaganda non poté che ripetere quanto già stabilito circa l’illiceità di quelle pratiche (si noti peraltro come il clero missionario continuasse a sottoporre sempre le stesse richieste, come se la decisione del 1729 non esistesse), ma vi aggiunse un rescritto particolare:
perché non ignora… essere inveterato e quasi universale l’abuso di comunicare li cattolici in divinis cogli eretici nelle tre cose suddette… così la S. C. ha giudicato opportuno di mandare a V. S. questa istruzione a parte, acciocché ella né rilassi il necessario rigore della costante disciplina circa la comunicazione in divinis cogli eretici…, né dall’altra parte, per volere anche nei detti casi zelarne l’osservanza, metta in sommo perturbamento e pericolo gran parte dei cattolici di coteste nazioni orientali. Per di Lei regolamento adunque ha giudicato poter bastare, senza fare nuovo decreto, l’Istruzione che diresse in materia consimile la s.m. di Benedetto XIV al Vicario Patriarcale di Costantinopoli nell’anno 1754: a tenore della medesima… Ella potrà regolarsi, adottando ai casi particolari dei battesimi, matrimoni e sepolture quella specie di tolleranza, che quel sapientissimo Pontefice, per evitare un male maggiore ha insinuata nella detta Istruzione, tenendo però sempre ferma la massima non esser lecita la comunicazione cogli eretici neppure nei casi suddetti99.
77Se era possibile tollerare in pratica nei casi predetti, non si mostrava altrettanta flessibilità verso chi si recava nelle chiese del patriarcato per partecipare alla liturgia o semplicemente per farsi vedere e versarvi le decime, né soprattutto verso quanti – come i mechitaristi – aprivano spiragli a giustificazioni teoriche della communicatio. Gli scontri tra i missionari che abbiamo descritto in precedenza continuarono infatti anche dopo l’istruzione del 1729: basti considerare la supplica fatta nel 1757 dal monaco mechitarista Giorgio Antepli di poter essere riammesso alla celebrazione della messa, facoltà che gli era stata sottratta per aver sostenuto pubblicamente in Levante che la communicatio in sacris fosse lecita100, o alla denuncia sporta ancora contro di lui nel 1761 dal missionario «collegiano» Pasquale Longhi, che finiva per attaccare in generale l’intero ordine mechitarista. Longhi affermava infatti che i monaci di San Lazzaro assolvevano senza problemi quanti si recavano nelle chiese armene, non perché ignorassero le istruzioni romane in merito ma perché mossi da vera malizia. Secondo lui, lo stesso abate generale successore di Mechitar (Step‘anos Melk‘onean o «Stefano Melkon», 1749-1800) in pubblico professava una stretta aderenza ai decreti romani, ma in privato li contraddiceva:
In quanto al loro Abbate, mi dice un giovine che, essendo novizio nel loro monistero, dimandava spesso se si poteva senza peccato frequentare le chiese delli Scismatici, al che essi: «Questo non si dice, se non a chi è per partire». Osservi V. S. Ill.ma il silenzio: non so se così si sarebbero portati con chi gl’avesse dimandato se poteva senza peccato un privato uccidere un innocente. «Nel giorno della mia partenza», soggiunge il suddetto giovane, «faccio al P. Abbate la medesima dimanda, ed egli m’interroga se in Constantinopoli frequentavo; rispondo di sì, ed egli: di qua inanzi, pure frequentate» . Il giovine poi mi disse che, arrivato in Costantinopoli, avea fatto così; io però l’ho dissuaso. In quanto alli monaci, una volta trovandomi con uno di loro, mi disse che il P. Giorgio avea fatto male ad insegnare quella dottrina con quella pubblicità di scritti, e lettere, e replicandogli io che pur avrebbe fatto male se avesse insegnato in privato, m’ha risposto con certa maniera: «Sì sì, ma tutto il male era in quella pubblicità»101.
78Giorgio Antepli alla fine ritrattò tutto quanto aveva insegnato oralmente e per iscritto ai fedeli di Ankara (in particolare che nella liturgia armena non ci fosse niente di erroneo a parte l’anatema contro il concilio di Calcedonia), ma questo non alleggerì i sospetti contro l’ordine, tanto che nel 1770 fu infine stabilito che ogni mechitarista in procinto di partire per il Levante fosse tenuto a prestare giuramento di non comunicare in divinis102. Peraltro, anche all’interno della congregazione fondata da Mechitar circolavano idee diverse, visto che neanche tre anni dopo si verificò la scissione di un gruppo di monaci guidato dai padri Astuacatur Papikean (Babik) e Minas Gasparean, stabilitisi a Trieste e poi a Vienna, dove per lungo tempo funzionarono come ramo indipendente dell’ordine103.
Una battaglia di carta: la disputa pubblicistica sulla communicatio in sacris
79I mechitaristi di Venezia giocarono comunque un ruolo fondamentale nei tentativi di accordo tra armeni cattolici e «scismatici» che ebbero luogo tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi del secolo seguente: la loro attività si esplicò non soltanto con la missione e la predicazione, ma anche con mezzi eminentemente culturali (come la traduzione di opere di autori armeni antichi o medievali, spesso sospettati di eterodossia dai censori romani) e addirittura con pressioni sull’opinione pubblica, sia nel Levante che in Europa. Erano risaputi, infatti, i contatti che legavano i monaci con il marchese Giovanni de Serpos: quest’ultimo, in occasione del rinnovarsi delle violenze sotto il patriarca di Costantinopoli Zak‘aria II, cercò in ogni modo di persuadere i vertici della Chiesa romana ad ammettere la liceità della communicatio in sacris con il clero armeno apostolico.
80Serpos aveva dalla sua parte i mezzi economici e l’influenza politica internazionale: come si è detto, veniva da una importante famiglia di amira ottomani (suo fratello Tomas era sarraf-başi del gran visir Seyyid Mehmed pascià) ed era stato in grado di diventare uno dei principali banchieri veneziani, patrizio romano e finanche nobile polacco104. Tuttavia, per vincere una battaglia intellettuale di tale importanza, erano necessarie competenze storiche, teologiche e canonistiche inusuali per un uomo d’affari: per questo Serpos fece ricorso all’erudizione di un ex-gesuita di Perasto, Josip Marinović ( «Giuseppe Marino», 1741-1801). Fu lui il probabile estensore materiale di un primo libello, pubblicato a Venezia nel 1783 con il titolo: Dissertazione polemico-critica sopra due dubbj di coscienza concernenti gli Armeni cattolici sudditi dell’Impero Ottomano, presentata alla S. C. di Propaganda dal marchese Giovanni de Serpos; alla stessa mano si deve ascrivere anche il successivo e più ambizioso Compendio storico e cronologico di memorie concernenti la religione e la morale della nazione armena, comparso in tre volumi nella città lagunare nel 1786. I «dubbi di coscienza» citati nel primo titolo non erano altro che la riproposizione di problematiche ormai vecchie di quasi un secolo, e che abbiamo già incontrato nella formulazione sottoposta da Mechitar all’esame della Propaganda e in mille altre occasioni105. Tuttavia, dalla lettura dell’opera appariva chiaro che non si trattava tanto di richiedere una risposta da parte romana alle domande in questione, quanto di cercare di convincere i cardinali del fatto che la Chiesa armena non poteva dirsi formalmente né scismatica né eretica; anche nell’eventualità in cui vi fossero stati tra i suoi membri alcuni eretici e scismatici, non essendo questi personalmente scomunicati, non sussisteva alcuna norma che proibisse assolutamente di partecipare ai loro riti sacri, dato che la comunicazione in divinis era vietata non per diritto divino, ma solo ecclesiastico, moderato in quel caso specifico dalla costituzione Ad Evitanda.
81Prima ancora che a Roma si potesse esaminare nel dettaglio la Dissertazione, ne arrivò una stroncatura da parte di un teologo deputato dall’Università di Siena, l’abate Paolo Marcello Del Mare, spinto ad un atteggiamento rigorista sia dalle proprie tendenze giansenistiche, sia dall’amicizia con l’allora vicario patriarcale di Costantinopoli Fracchia, avverso ai mechitaristi106. In soccorso del marchese e di Marinović accorse d’altro canto un teologo croato, il vescovo di Lesina (Hvar) Ivan Dominik Stratiko ( «Domenico Stratico», 1732-1799), che nel 1785 diede alle stampe a Siena l’Esame teologico del voto publicato da tre teologi dell’Università di Siena sui dubbi di coscienza riguardanti gli Armeni cattolici (riedito l’anno seguente in forma ampliata), a cui si aggiunsero nello stesso anno alcune Annotazioni… sulla questione della tolleranza a favore degli Armeni cattolici sudditi ottomani del chierico regolare teatino Fabrizio Dotto (Venezia, 1785). Nonostante tali pareri favorevoli alla «tolleranza», l’abate Del Mare non si diede per vinto, rispondendo l’anno seguente con un ulteriore pamphlet in cui si rigettavano il lassismo e il «molinismo» impliciti in un atteggiamento aperto verso la communicatio. Tale pubblicazione suscitò la contro-reazione in prima persona del Marinović, spalleggiato negli anni seguenti dai domenicani Francesco Marsili, Domenico Maria Pellegrini e Vincenzo Maria Palazzolo107.
82Insomma, negli anni ’80 del Settecento il problema della communicatio in sacris tra gli armeni dell’Impero ottomano assunse brevemente carattere di notorietà anche tra il grande pubblico, come testimoniano i riferimenti alla querelle suscitata dal marchese de Serpos anche in opere generali; e se, come scrisse amaramente l’autore di una di esse, «della quistione da lui introdotta successe quello che per lo più suole avvenire, che dopo molto gridare e scrivere ognuno rimase nella sua antica opinione»108, ciò nondimeno il clamore spinse effettivamente papa Pio VI a creare una congregazione particolare di quattro cardinali (Gerdil, Boschi, Borromeo e Antonelli) e altrettanti consultori (i domenicani Mamachi e Becchetti, l’oratoriano De Magistris e il canonico Monsagrati) per esaminare nel dettaglio la materia109.
83La commissione incaricata raccolse molto materiale, compresi numerosi memoriali e pareri favorevoli al Serpos (come la Relazione del P. Deodato Caroli sullo stato degl’Armeni sudditi dello stato ottomano) o del tutto contrari (come le confutazioni del sacerdote armeno Antonio Murat o del missionario francese Viguier), mentre il marchese provava a sua volta a forzare la mano, inviando personalmente copie della Dissertazione a vari sovrani e personaggi influenti delle corti europee110. Questo comportamento, unito alla sua corrispondenza con il patriarca Zak‘aria e agli scontri con il vicario apostolico di Costantinopoli, contribuì probabilmente a orientare alla fine il voto dei consultori in modo nettamente negativo (1785)111.
84Non sembra tuttavia che la Dissertazione fosse messa all’Indice né che la Congregazione particolare arrivasse a pubblicare una decisione formale, probabilmente grazie all’intervento del patriarca armeno cattolico di Cilicia, Grigor Petros K‘iwbelean: interpellato su quale fosse il parere suo e degli altri vescovi armeni «circa la nota questione Serposiana», suggerì che non fosse assolutamente il caso di dirimere in modo netto, in un senso o nell’altro, una questione così complessa, soprattutto in un momento delicato come quello. Sembra dunque che la Congregazione di Propaganda si sia conformata al suo consiglio112. Ancora una volta, il silenzio appariva la soluzione migliore.
85Il nuovo secolo iniziò dunque senza sostanziali differenze da quello che lo aveva preceduto, lasciando i fedeli cattolici armeni e i religiosi incaricati della loro cura nelle stesse condizioni in cui li aveva trovati Mechitar. Nonostante una ormai generale consapevolezza del divieto di comunicare in divinis, il flusso di richieste di tolleranza che raggiungevano Roma dal Levante non venne meno. Se ne potrebbero qui portare molti esempi, ma forse è sufficiente citare lo sfogo di un consultore del Sant’Uffizio, interpellato all’inizio dell’Ottocento in merito all’ennesimo dubbio sottoposto da un missionario:
Sembra quasi incredibile, che dopo essersi tanto scritto da Sommi Theologi, e tante volte decretato da questo Supremo Consesso, e dall’altro di Propaganda, su la Comunicazione in divinis de’ Cattolici Armeni cogli Scismatici, ad ogni cambiamento di Missionari insorger debbano nuove difficoltà, e riproporsi dubbi da risolversi all’Apostolica Sede. Per nessun’altra Nazione uscirono di qua tanti decreti, e ognun sa, che la famosa Istruzione del 1729 specialmente fu stesa per allontanar dal commercio degli scismatici dell’Oriente i Cattolici Armeni, e le ragioni sopra cui è fondata sono inconcusse, e saran le ragioni di tutti i tempi. Sempre si è insegnato, e s’insegnerà nella Chiesa Santa di Dio, che non dee veruno accostarsi alle pece per non imbrattarsi: che non si può servire a due padroni: e che dove pericolano la Fede, l’onore della Religione e ’l bene delle Anime, intrinsecamente è pravo ogni commercio cogli Eretici, o Scismatici; non havvi podestà, che possa dispensare. Quest’è il gran punto; quest’è il tutto da notarsi. Cento volte è stato risposto Non licere, et dentur decreta: ma o non gli studiano, o non vogliono intenderli113.
86C’era un’altra possibilità, che il consultore non considerava: e cioè che non fosse veramente possibile osservare quei decreti così tante volte promulgati. I convertiti orientali continuavano a trovarsi intrappolati tra le proibizioni romane e le costrizioni ottomane, particolarmente per quel che riguardava i sacramenti dotati di valore civile, come battesimo e matrimonio, che potevano essere amministrati soltanto dal clero ufficialmente riconosciuto, cioè quello «scismatico». Lo riconosceva lo stesso vicario patriarcale Fonton nel proprio rapporto del 1808: «Gli Armeni cattolici di Costantinopoli sono circa 30.000. Non hanno chiese proprie, ma intervengono alle latine, e i sacerdoti celebrano nelle case particolari… Non vi sono parochi cattolici perché gli Armeni cattolici stanno soggetti ai parochi eretici, e da essi ricevono i sacramenti parochiali»114.
87Per cambiare tale situazione era necessario un profondo mutamento della società ottomana e dei rapporti di potere ad essa inerenti. I fattori decisivi in questo senso furono due: da una parte, il processo di costruzione delle identità confessionali, che fu portato a termine proprio durante il XVIII secolo sia dalla Chiesa cattolica che dalle varie Chiese orientali, anche grazie alla demonizzazione di pratiche che erano state invece considerate accettabili fino a un secolo prima; dall’altra, l’evoluzione dell’organizzazione interna dell’Impero ottomano in seguito alla sua crisi politica e diplomatica, che condusse a partire dagli anni ’30 del XIX secolo a una serie di riforme radicali. Nel 1831 fu approvata la costituzione del millet-i katolik e al primate armeno cattolico furono riconosciuti i poteri civili sui propri fedeli, così come sui cattolici siri e caldei; nel 1848 anche i melchiti cattolici (che già nel 1841 erano stati dichiarati separati dai greci ortodossi) ottennero un loro millet autonomo115.
88I cattolici sudditi dell’Impero erano finalmente emancipati dal controllo della gerarchie orientali: soltanto allora vennero meno le condizioni che fino a quel momento avevano reso la communicatio in sacris una “trasgressione necessaria”.
Notes de bas de page
1 APF, Biglietti del S. Offizio 1670-1710, c. 281r-283r; ACDF, SO, St. St., UV 19, c. 230r-246v; Dubia varia 1669-1707, fasc. XXXV, c. 602-621 (il testo dei dubbi è alle c. 604r-605r; alle c. 608r-612r ci sono le soluzioni proposte dal Damasceno, con a lato la soluzione definitiva approvata dal papa); APCP, Constantinople (Saint-Louis), série D, doc. 26-27. Cfr. anche Collectanea S.C. de Propaganda Fide, cit., p. 91, §267 (2° e 3° dubbio); Codificazione Canonica Orientale. Fonti, cit., fasc. II, p. 83. Per quanto riguarda la cronologia, il papa ordinò di sottoporre i dubbi all’esame del Sant’Uffizio il 18 febbraio 1704 (il biglietto di trasmissione è del 2 giugno 1704); sulla base del voto del Damasceno (con interventi diretti del papa a cambiare alcune resoluzioni) i primi quattro dubbi vennero decisi nella congregazione del 7 agosto e i rimanenti in quella del 14 agosto seguente.
2 APF, Acta, 1706, cong. gen. del 15 marzo 1706, c. 52v (annotazione in occasione di una nuova richiesta di Melk‘on T‘aspasean, che riferisce esservi in Mardin «una sola chiesa commune agl’eretici et a cattolici, non potersegli celebrare publicamente secondo il rito cattolico, né starvi senza communicar coll’eretici, né poter anco ciò fare in casa; restare però sospeso e desiderare sopra di ciò qualche risolutione dell’EE. VV.»).
3 ACDF, SO, St. St., QQ 2 f, fasc. 23 (XXV), c. 308-368; UV 52, fasc. 7; Doctrinalia, vol. 2, fasc. 16, c. 212-225.
4 La relazione del consultore Damasceno (ACDF, SO, St. St., QQ 2 f, c. 321r-332r) fu sottoposta a vari consultori e membri: il 16 dicembre 1706 si decise sopra i primi due punti; il 20 gennaio 1707 sul terzo e quarto; il 27 gennaio 1707 sul quinto e sesto.
5 APF, Biglietti del S. Offizio 1670-1710, c. 304r-305v; ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. IX; c. 63-66.
6 La lettera di Macerdig è del 20 maggio 1706, la questione è trasmessa al Sant’Uffizio dalla Propaganda con biglietto del 4 giugno 1708 e decisa il 20 giugno seguente: ACDF, SO, Dubia de Eucharistia 1603 – 1788, fasc. 20, c. 322r-325v; cfr. anche APF, Biglietti del S. Offizio 1671-1710, c. 350; cfr. anche Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 388-389.
7 I primi dubbi, sottoposti dal prefetto Reginaldo da Lentini, furono girati al Sant’Uffizio il 16 aprile 1711, risolti in congregazione tra il 29 aprile e il 7 maggio: ACDF, SO, Dubia Varia 1708-1730, fasc. 7, c. 21r-50v; Doctrinalia, vol. 3, c. 53-69; APF, Biglietti S.O. 1711-1720, c. 67r-92v. La relazione di Tommaso da Massa del 1710 venne discussa a Propaganda il 5 novembre 1711 (APF, Acta, 1711, c. 545v-550r) e trasmessa al Sant’Uffizio il 12 luglio 1712, dove fu deciso di affidarne la risoluzione al consultore Damasceno, già incaricato di esaminare i dubbi sottoposti da alcuni vescovi armeni e dal gesuita Jacques Villotte (ACDF, SO, St. St., UV 54, fasc. 38, c. n. n.).
8 ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. 12 (XII), c. 156r-159v (Sant’Uffizio, 4-6 agosto1710); APF, Acta, 1713, cong. gen. del 16 gennaio 1713, c. 26r-27v.
9 ACDF, SO, St. St., UV 54, fasc. 38, c. n. n., lettera del 15 agosto 1711; APF, SOCG, vol. 582, c. 520r-521v. Cfr. Abagian, 1990, p. 414.
10 ACDF, SO, St. St., UV 54, fasc. 38, c. n. n.: lettera di «Geremia Arcivescovo di Egitto e della Congregazione di Gerusalemme», «Elia dottore Constantinopolitano Armeno», «Giuseppe dottore armeno constantinopolitano», «Gherabied Armeno constantinopolitano», «Deodato Armeno da Persia», inviata da Costantinopoli il 2 marzo 1711 e diretta al pontefice; la lettera è sottoscritta anche da don Gregorio Arachiele.
11 APF, Acta, 1713, c. 615r e sg. (13 novembre 1713).
12 Ibid., c. 619v-620r.
13 Sulle circostanze di fondazione dell’ordine mechitarista, si veda Nurikhan, Il servo di Dio abate Mechitar, cit., cap. VII-VIII. La ratificazione delle regole e il formale riconoscimento della congregazione rimasero un problema annoso che riesplose ancora nella seconda metà del secolo, allorquando si tentò una modifica delle costituzioni: APF, CP, vol. 127: Congregatio Particularis habita in Aedibus E.mi Card. Spinelli Praefecti die 4 Decembris 1762 super approbationem Regularum Monachorum Armenorum Congregationis S. Lazari in Urbe Venetiarum.
14 Sulla spiritualità di Mechitar, soprattutto in merito ai rapporti tra cattolici e apostolici, si vedano i numerosi lavori di B.L. Zekiyan: Armenians and the Vatican during the Eighteenth and Nineteenth Centuries. Mekhitar and the Armenian Catholic Patriarchate: The challenge of Mechitarian ecumenism and Latin-Roman loyalty, in Het Christelijk Oosten, 52-3/4, 2000, p. 251-267; La visione di Mechitar del mondo e della Chiesa: una ‘Weltanschauung’ tra teologia e umanesimo, in B.L. Zekiyan, A. Ferrari (a cura di), Gli Armeni a Venezia. Dagli Sceriman a Mechitar: il momento culminante di una consuetudine millenaria, Venezia, 2004, p. 177-200.
15 Si veda la ricostruzione di Abagian, 1988, p. 162-164; 1990, p. 152-154; cfr. infra le lettere analizzate nel corso dell’inchiesta generale di Propaganda del 1721.
16 Si veda quanto scrisse in prima persona in una lettera del 2 novembre 1742: «… nella città di Aleppo il vescovo Abraham, che era ortodosso [= cattolico], ha ordinato vescovi tre sacerdoti ortodossi, e dopo essi lo hanno ordinato kat‘ołikos, e ora con un vescovo e altre due persone è venuto a Roma come kat‘ołikos della diocesi di Sis per avere la conferma da parte del Santo Padre, e avendo qualcuno che agisce da intermediario, ottiene ciò che chiede. E dove andrà (a finire) questo fatto, Dio lo sa. Nel ritornare da Roma, vuole venire qui. La casa non c’è e si prepara il padrone» (Namakani caṙayi Astucoy Mxit‘aray Abbayi [Corrispondenza del servo di Dio Abate Mechitar], Venezia-San Lazzaro, 1961, n. 712, p. 512-513; testo originale in armeno).
17 Negli articoli citati Zekiyan arriva a parlare di un atteggiamento «ecumenico» ante litteram, ispirato probabilmente dalla stessa tradizione amena e in particolare dalla lettura delle opere di Nersēs Šnorhali (kat‘ołikos tra il 1166 e il 1173, a lungo impegnato in un tentativo di riunione con la chiesa bizantina: cfr. Zekiyan, Un dialogue oecuménique au XIIe siècle, cit. e supra, p. 94-95; cfr. anche Abagian, 1992, p. 204.
18 APF, SC, Armeni, vol. 6, c. 624rv (15 novembre 1716); alle c. 633r-635v il vicario Gallani corrobora le accuse a carico di P. Giorgio a fronte della difesa presa nei suoi confronti da Xač‘atur Aṙak‘elean (24 maggio 1717). Cfr. anche APF, SOCG, vol. 609, c. 474rv.
19 Ricorso fatto nell’anno MDCCXVIII agli E.mi, e R.mi Prencipi i Sig.ri Cardinali della Sagra Congregatione de Propaganda Fide da i Monaci Armeni di S. Antonio Abate fondati in Modone, e Residenti in Venezia; Sommario degli attestati presentato nell’anno MDCCXVIII agli E.mi, e R.mi Prencipi i Sig.ri Cardinali della Sagra Congregatione de propaganda fide da i Monaci Armeni di S. Antonio Abate fondati in Modone, e Residenti in Venezia, in Roma, 1718. Il Ricorso, il Sommario e molta altra documentazione manoscritta sono conservati in APF, SOCG, vol. 615, c. 366r-429r.
20 Lettera del 1° agosto 1718, citata da Nurikhan, Il servo di Dio abate Mechitar, cit., p. 247-250.
21 Ibid., p. 251-254. Il padre Giorgio provocò comunque in seguito ulteriori problemi e disordini, mettendo in imbarazzo i confratelli, finché l’anno seguente venne espulso dalla congregazione (p. 282-283). Cfr. anche la lettera di Xač‘atur Aṙak‘elean a sostegno di Mechitar e contro le «calunnie» indirizzate verso l’ordine: APF, SC, Armeni, vol. 6, c. 632r-637v.
22 «Andate da ciascuno de’ signori Cardinali e Consultori del S. Offizio, e dichiarate loro la gran difficoltà dei Cattolici Armeni sulla presente questione e scrivete alcuni fogli coi quali pienamente gli informarete di tutte le circostanze… e col spesso andare e venire gli sollecitarete infino a tanto, che si venga a qualche opportuna risolutione» (ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 242v-243r).
23 Sulla copertina del fascicolo in cui è contenuto il dossier di cui ci occuperemo (ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. XIV, c. 166r) si trova invece una formulazione tripartita del quesito che deriva dai «Paragrafi d’una scrittura stampata presentata a questa S. Congregazione dal P. Abbate Michitar» (c. 337r).
24 Abagian (1991, p. 461-476) lo identifica con il «Memoriale alla S. Congregazione del S. Offizio, intorno a due punti, o clausole rimesse dalla S. Congregazione de Propaganda Fide alla medema Congregazione del S. Offizio, ne’ quali punti si cerca: se i cattolici Armeni possono lecitamente andare nelle chiese dei scismatici; e vi danno nell’Oriente all’istessa questione da diversi predicatori diverse risposte» (edito in appendice a Mechitar di Sebaste, Lettere del Servo di Dio Abate Mechitar, fondatore della Congregazione dei Monaci Armeni Mechitaristi, vol. 4: 1705-1749, Venezia-San Lazzaro, Casa Editrice Armena, 1980, p. 404-417). Di tale testo non vi è traccia nell’Archivio del Sant’Uffizio, dove invece si conserva una «Informatione alla Sacra Congregatione» di contenuto analogo ma forma redazionale diversa: cfr. infra, nota 27.
25 ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. X, c. 67r-149v; Collectanea S. C. de Propaganda Fide, vol. I, Roma 1907, §278. Ne abbiamo fatto menzione in precedenza nel paragrafo dedicato all’evoluzione del giudizio romano sulla communicatio (p. 180). Su questo e altri dubbi risolti nella medesima occasione, cfr. anche ACDF, SO, St. St., M 3 i, fasc. 2; M 3 l, c. n. n.; QQ 2 g, fasc. 42 (XLIII), Elenchus, c. 649v-650r; QQ 3 i, fasc. I; UV 52, fasc. 9; Doctrinalia, vol. 2, c. 298r-319v e c. 462r-476r; APF, Biglietti del S. Offizio 1671- 1710, c. 380 e sg.
26 Sulla famiglia Sceriman (Šahrimanean), si veda la voce di S. Aslanian, H. Berberian, Sceriman Family: a wealthy Persian-Armenian merchant family, s.v. in Encyclopædia Iranica, 2009, online: http://www.iranicaonline.org/articles/sceriman-family (28 aprile 2015). Sull’apostolato cattolico tra gli armeni di Persia, cfr. K. Kostikyan, European Catholic Missionary Propaganda among the Armenian Population of Safavid Iran, in W. Floor, E. Herzig (a cura di), Iran and the World in the Safavid Age, Londra-New York, 2012, p. 371-378 e J. Flannery, The Mission of the Portuguese Augustinians to Persia and Beyond (1602-1747), Leida, 2013, p. 111-148; per la successiva reazione apostolica, cfr. Ghougassian, The Emergence of the Armenian Diocese of New Julfa, cit., p. 125-156
27 La citazione non viene dal memoriale citato ma dalla più sintetica «Informatione alla Sacra Congregatione del S. Offitio fatta dal Pad. Michitar Petro, Abbate delli Monaci Armeni del titolo di S. Antonio Abbate, circa la questione controversa nell’Oriente, se sia lecito alli Catolici di andare nelle Chiese delli Scismatici» (ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 338r-352v: c. 338v-339v).
28 «Memoriale alla S. Congregazione del S. Offizio», cit., p. 416. Era evocato in particolare il caso della chiesa di San Spiridione a Corfù, di cui abbiamo trattato in precedenza: cfr. supra, cap. 5.
29 Quando fui Constantinopoli, in principio incoepi predicare in Ecclesia Latina Societatis; veniebant centum, ad summum ducenti homines. Et non erat in natione nisi maxima perturbatio. Transtuli me ad Ecclesias Armenorum, & in illis incoepi predicare mane, & vespere quotidie. Quis poterat enumerare fructus? Innumeri veniebant ad concionem, quamplurimi ad amplectendam fidem catholicam Romanam… (ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 168r-171r: lettera del 22 ottobre 1618; edita in Serpos, Compendio storico di memorie cronologiche, cit., vol. 1, p. 442-451).
30 … cum communicare in ritibus schismaticorum et simulare actu externo eorum actiones sit quid intrinsece malum, ac proinde de his malis nemo, etiam minimum, eligere debeat (ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. n. n.: «n° 11: Voto del Padre Baldrati»; copia alle c. 175r-179v).
31 Ad mentem: Mens autem est ut consulant doctores et probos ac idoneos ecclesiasticos diu versatos in illis missionibus, abstinendo prorsus ab actibus protestationis falsae sectae et ab occasione scandali et dissensionis (ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 166v, 202r).
32 APF, SC, Armeni, vol. 7, c.87v: lettera di Minas Osgan da Pera, 9 novembre 1709.
33 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 184r-187v (inviata al Sant’Uffizio da Propaganda il 27 agosto 1720).
34 Ibid., c. 222rv: lettera del 14 novembre 1720.
35 Inoltre, soggiungeva, a molti cattolici orientali «sembra che il sudetto rescritto porti seco qualche contraddizione, essendo che per le prime parole Consulant doctores etc. pare che possa permettersi l’accesso alle chiese scismatiche, e per le restanti abstinendo prorsus ab actibus protestativis falsae sectae pare che tal accesso assolutamente si neghi, mentre lo stesso andare alla chiesa scismatica sembra un atto protestativo della falsa setta» (APF, Acta, 1720, c. 396v-397r).
36 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 220v, 7 novembre 1720; ibid., c. 221r-222r, lettera dal Sant’Uffizio al segretario di Propaganda Fide, 15 novembre 1720.
37 Ibid., c. 216r-219r
38 Ibid., c. 223r-224v (bozza dell’istruzione con molte aggiunte e correzioni); APF, Biglietti del S. Offizio 1711-1720, c. 429rv (testo finale trasmesso a Propaganda).
39 Lettera trasmessa dal Sant’Uffizio al Segretario di Propaganda, 15 novembre 1720: ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 221r-222r; APF, Biglietti del S. Offizio 1711-1720, c. 425r-426r; APF, SC, Missioni Miscellanee, IV, c. 304rv.
40 ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. XIV, c. 166r-416v: 1718 ad 1723. Armenis catholicis non licet communicare in divinis cum schismaticis.
41 Fanno eccezione le due lettere inviate al superiore dei minori osservanti a Roma (cfr. infra) e il testo di quella di Minas Osgan (ricopiato da quest’ultimo in una lettera successiva), di cui Abagian ha potuto vedere le copie nell’archivio di Propaganda (1990, p. 156: il riferimento va corretto però in APF, SC, Armeni, vol. 7, c. 518r-519v). A queste si aggiunge la risposta del francescano Benedetto da Teano, di cui c’è una copia in APF, SC, Egitto Cofti, vol. 2, c. 259-260. Di quest’ultima W. De Vries fece una trascrizione integrale, che si trova nel suo articolo Eine Denkschrift zur Frage der ‘communicatio in sacris cum dissidentibus’ aus dem Jahre 1721, in Ostkirchlichen studien, 7, 1958, p. 253-266 (p. 254-258). De Vries non conosceva le altre risposte, di cui scrisse in un successivo articolo sul tema della communicatio: «In 1720 Propaganda had already sent a letter around to all the missionary superiors in the Near East, seeking definite information about the problem. The replies were passed on to the Holy Office, and therefore must be in the unfortunately inaccessible archives of this congregation. Only a single answer remained, through a fortunate accident, in the archives of Propaganda, that of the superior of the Reformed Franciscans in Egypt, Benedict of Teano. The letter, written in Italian, is dated July 25, 1721. Several years ago we published it together with a German translation» (De Vries, Communicatio in Sacris. An Historical Study, cit., p. 34, enfasi aggiunta). A mia conoscenza, l’unico degli studiosi contemporanei che si sia interessato al dossier (seppur in maniera tangenziale) è Windler, Uneindeutige Zugehörigkeiten, cit.
42 L’ultima lettera inserita nel dossier risulta inviata il 23 gennaio 1723 dal vicario patriarcale di Costantinopoli Giovan Battista Mauri, che però aveva già avuto modo di fornire le informazioni richieste a Propaganda il 9 maggio 1721. Per questo motivo non è stata presa in considerazione nelle statistiche.
43 Per questo motivo si ritrovano in copia anche nell’Archivio di Propaganda: SC, Armeni, vol. 7, c. 312rv (Angelico da Gazzolo) e SOCG, vol. 631, c. 207v (Luigi Antonio da Casalmaggiore, su cui si veda Abagian, 1989, p. 252).
44 Oltre all’esemplare manoscritto, la lettera è riprodotta a stampa in Schiarimenti e Documenti, raccolta anonima e senza luogo né data di stampa (ma: San Lazzaro, XIX sec.) conservata presso l’Archivio dei Padri Mechitaristi a San Lazzaro, n. 61, p. 106-113. Per un’analisi della difesa di Mechitar dalle accuse di aver autorizzato la pratica della communicatio, cfr. Nurikhan, Il servo di Dio, cit., p. 286-292.
45 Come venne precisato il 6 dicembre 1720: ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 225r.
46 Giacomo d’Albano, procuratore delle missioni nel Cairo, apparteneva all’ordine dei frati minori osservanti, ma nella sua lettera scrive «noi missionarii della Sacra Congregatione».
47 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 255v.
48 Ibid., c. 232r-233v.
49 Ibid., c. 236v.
50 Ibid., c. 243r-244v (corsivo mio).
51 Ibid., c. 299r-301r, 302v-303r
52 Ibid., c. 268r.
53 Ibid., c. 270r. Sull’atteggiamento del vicario Mauri verso la questione della communicatio, cfr. Abagian, 1988, p. 165-167; cfr. anche G. Matteucci, Mons. Pier Battista Mauri o.f.m. vicario patriarcale di Costantinopoli e il ven. abate Mechitar (1720- 1730), in Studi francescani, 64-2, 1967, p. 35-79.
54 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 319rv (lettera di Lorenzo Cozza, cfr. infra).
55 «… il governo ottomano poco si cura che i cristiani, o cattolici o scismatici, vadino in una o in un’altra chiesa a fare le loro orazioni [...] e siccome nella nostra chiesa vengono ogni giorno cattolici d’ogni nazione, tanto per battezzare i loro figliuoli, quanto per sepellir i loro defonti, contraere matrimonj, e ricevere altri sagramenti, potrebbero per conseguenza venir tutti senza pericolo di morte, né altro grave pericolo» (ibid., f. 288r). È probabile che l’allusione alla «repubblica» rifletta il sistema di governo oligarchico dei mamelucchi, sopravvissuto alla conquista ottomana dell’Egitto.
56 Ibid., c. 291r-292v.
57 Ibid., c. 259r. Su Gabriele Aslan e la disputa sulla communicatio in sacris nelle missioni egiziane, cfr. Libois (ed.), Égypte (1700-1773), cit., p. xlii e sg., p. 366-380; APF, CP, vol. 76, doc. 118 (lettera di Benedetto da Teano, 15 agosto 1723). Gli sforzi missionari cattolici tra la comunità copta e la successiva reazione di chiusura confessionale di quest’ultima sono ben illustrati da F. Armanios, Coptic Christianity in Ottoman Egypt, New York, 2011, capitolo 5; Hamilton, The Copts and the West, cit., cap. 6.
58 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 227r. Il testo corsivo è sottolineato nel documento originale.
59 La lettera è edita in Libois, Égypte (1700-1773), cit., p. 353-354, n. 140 (4 maggio 1721). Su Claude Sicard si veda il profilo biografico alle p. 624-627, e quanto scritto supra, capitolo 3.
60 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 249r-250v: lettera dal Cairo, 6 aprile 1721.
61 Ibid., c. 253r, 6 aprile 1721.
62 APF, CP, vol. 75, c. 427r (lettera di Yves de Lerne, 28 luglio 1722).
63 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 277rv, 278r-279v.
64 Secondo Cozza, in seguito agli editti del sultano era «proibito a tutti i sudditi suoi, siano Armeni, siano Greci, o Soriani, o di qualunque altra setta, il farsi, com’essi dicono, Franchi, ch’è lo stesso che riconciliarsi alla Religione Cattolica… facendone ragione di Stato, con rappresentare che se li sudditi del Gran Signore ricevevano la Religione de’ Franchi, in occasione della Guerra co’ Cristiani quelli avrebbero prese l’armi al favore di questi»; ricordava poi che i principali disordini nella Chiesa armena erano nati perché il patriarca avava visto «minuito il suo popolo nel convenire alla sua Chiesa nel tempo ch’esso celebrava, e con ciò assai minuita l’oblazione che suol riceversi dal suo popolo in tempo de’ sagrificii» (ibid., c. 316v-318v)
65 Cfr. i dubbi sottoposti a Roma nella lettera del 10 aprile 1711, edita in E. Castellani (ed.), Atti del Rev.mo Lorenzo Cozza Custode di Terra Santa, tomo I, parte I (1709-1715), Quaracchi presso Firenze, Collegio S. Bonaventura, 1924 (Biblioteca bio-bibliografica di Terra Santa e dell’Ordine Francescano, nuova serie – documenti, vol. 4), p. 112-118.
66 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 318v.
67 Ibid., c. 232r-233v.
68 Ibid., c. 270r-271v. Suddivisione analoga in un’altra lettera del marzo 1721: APF, SOCG, vol. 632, c. 165r-168r).
69 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 291r-292v.
70 Ibid., c. 296r-315v: 297v.
71 «Nel S. Sacrificio della messa ogni sacerdote armeno cattolico diversamente celebra, et usa diversa ceremonia: chi sminuisce, chi agiunge oratione alla liturgia, che habiamo corretta e stampata dalla S. Congregatione della Propaganda Fide. Onde la medema S. Congregatione farebbe singularissimo favore se rimediasse a questo, e prescrivesse una regula, accioché tutti i sacerdoti fossero uniformi in tutte le cose, e così invece di quei scandali che giornalmente succedono, si darebbe molta edificatione al popolo» (APF, SC, Armeni, vol. 7, c. 480r, lettera del 20 settembre 1722 di «Minas Osghano» da Pera di Costantinopoli).
72 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 296r-315v.
73 Ibid., c. 272r. Non bisogna però generalizzare eccessivamente, dato che anche religiosi più o meno favorevoli alla communicatio, come Xač‘atur Aṙak‘elean o «Giovanni Gabudigh», erano missionari apostolici di Propaganda. La radicalizzazione in senso restrittivo successiva al 1714 dovette soppiantare un atteggiamento precedentemente più aperto: cfr. Abagian, 1990, p. 154-155.
74 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 274r-275v, 18 maggio 1721.
75 Lo stesso argomento, in modo più melodrammatico, era avanzato anche da don Minas Osgan: «dicono molti personaggi che questa ultima persecutione da noi tanto rigorosamente patita in questi 13 mesi, giorno e notte nascosti, sia efetto di questa voce, la quale arivando alle orecchie del Patriarca, si infuriò for di modo contro di noi, dicendo che “il Papa dà licenza di venire alle nostre chiese, e questi la negano! Perciò io non posso quietarmi finché non beverò il sangue di costoro”» (ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 272v).
76 «[Di] giorno non posso mai uscir fuora, non tanto dalla paura de’ Scismatici, ma più tosto dei pusillanimi cattolici, che sono nemici domestici, sin tanto hanno fatto arrivare all’orecchio del Patriarca che “don Giovanni e don Minas e li altri missionarii non permettono di venire alla vostra chiesa li Armeni Cattolici”, e per questo il Patriarca s’è infuriato contro di noi…» (ibid., c. 274r-275v). Cfr. Abagian, 1990, p. 155-156.
77 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 323r-324r.
78 Ibid., c. 284r-285v (1° giugno 1722). La lettera era stata tradotta in italiano e girata a Propaganda dal sacerdote armeno Giorgio Mardiros. Pur non essendo formalmente una replica all’inchiesta di cui ci occupiamo, il fatto che nella missiva si esprima comunque un’opinione a riguardo della communicatio e che questo parere sia stato preso in considerazione nell’esame inquisitoriale (è citato a c. 397r nel riassunto dei pareri ricevuti) è stato ritenuto un motivo sufficiente a includerla nel corpus.
79 Sherman (menzionato nelle fonti come «Charmel», «Charmen» o anche «Chairman») soggiornò per un lungo periodo ad Aleppo, dal 1688 fino alla sua morte nel 1747: membro della Society for the Propagation of the Gospel in Foreign Parts, negli anni ’20 e ’30 del XVIII secolo è ricordato come diffusore e autore in prima persona di opere anticattoliche o di propaganda protestante: cfr. Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 476; Mansi (ed.), Sacrorum Conciliorum, cit., t. 46, col. 7, 82-83 etc.; sulla sua collezione e traduzione di libri greci ed arabi, cfr. C. Zwierlein, Coexistence and Ignorance: What Europeans in the Levant did not Read (ca. 1620-1750), in Id. (a cura di), The Dark Side of Knowledge. Histories of Ignorance, 1400 to 1800, Leida-Boston, 2016, p. 225-265: 250-255.
80 Si veda anche un’altra lettera di contenuto analogo inviata pochi mesi dopo, il 22 dicembre: APF, SC, Armeni, vol. 7, c. 515r.
81 ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 404r-405v.
82 Ibid., c. 328r-331v: Catholicis Armenis Turcico Imperio subiecti id indicendum est, quod Paulus V Catholicis Anglicis enixe praecepit Brevi emanato anno 1606.
83 Cfr. il biglietto del 9 luglio seguente con cui si trasmetteva l’istruzione a Propaganda, precisando: «si mandi l’accluso foglio per mera Instruzzione, quale è non per definizione senza altra espressione della Congregazione e forma con cui è emanata detta Instruzzione, ma con soggiungerli che questa è Instruzzione generale con cui si debbono regolare» (ibid., c. 411r).
84 Il testo completo dell’istruzione è alle c. 412rv: cfr. Appendice online (1).
85 Lettera del 12 luglio 1724 da Gerusalemme; la lettera precedente è del 3 marzo: cfr. APF, CP, vol. 76, c. 85r-87v.
86 APF, CP, vol. 76, c. 85r-86r.
87 Vedi supra, cap. 3 e il testo pubblicato nell’Appendice online (5).
88 APF, CP, vol. 76, c. 97rv (10 giugno 1724), in Libois (ed.), Égypte (1700-1773), cit., p. 391-393, n. 159; vol. 77, c. 94rv, 99rv (lettera di Luigi Antonio da Casalmaggior al generale dei frati minori, 19 settembre 1725).
89 Cfr. Libois (ed.), Égypte (1700-1773), cit., p. 399-412, 624-626.
90 Si riferisce verosimilmente al p. François Clotereau, curato di Sayda nel 1715, ma non sono riuscito a trovare traccia del decreto a cui si fa allusione.
91 APF, CP, vol. 77, c. 9v-10v (traduzione italiana della lettera), 17r-18v (originale arabo).
92 Ibid., c. 9r-14v (20 febbraio 1727: l’originale arabo è alle c. 15r-16v).
93 Cfr. supra, capitolo 3, p. 185; le citazioni che seguono sono tratte dall’istruzione del 1729, edita integralmente nell’Appendice online (3).
94 Dato che la sovrintendenza generale della Darphane-i Amire (zecca imperiale) era allora appannaggio di una famiglia ebraica (lo sarà fino al 1758), si può pensare che il fratello dell’arcivescovo fosse Sahib-i ‘ayar (controllore del conio, la carica immediatamente successiva); un’altra possibilità è che qui non ci si riferisca alla zecca centrale, ma ad una periferica, che in effetti esisteva nella regione di Smirne, a Bayindir. Devo queste informazioni alla gentilezza di O. Jamgocyan: cfr. il suo studio Les banquiers du Sultan, cit.
95 Si veda la lettera scritta da P‘ēruazean al papa: «Beatissimo Padre, il mutarsi le Festività Armene, et il far publicamente meter acqua nel Calice sarebbe un volere una solevatione universale degl’Armeni Schismatici contro li Cattolici; onde, vedendo la morale impossibilità, ero disposto di rinunciare l’Arcivescovato e portarmi a’ piedi di Vostra Santità per riceverne la Beneditione, et ivi attendere alla salute dell’anima mia. Il mentovato Padre Rev.mo Vicario m’ha non solo essortato, ma anche pregato a differire la renontia, representandomi il gran uttile che ne ricevono questi Cattolici, mentre io risiedo qui» (ACDF, SO, St. St., QQ 2 g, c. 686r; cfr. in generale tutto il fascicolo 42 (XLIII), c. 570r-714v, 3 luglio 1727-7 novembre 1729; APF, SC, Armeni, vol. 9, c. 1r-8v; SOCG, vol. 674, c. 262, 1733). Cfr. Abagian, 1990, cit. p. 416-418.
96 APF, SC, Romania, vol. 8, c. 530r e sg.; cfr. Hofmann, Il vicariato, cit., p. 120-124.
97 ACDF, SO, St. St., M 3 b, c. 368r: «Istruzione della Santità di Nostro Signore sopra i matrimonii degli Armeni Cattolici in Costantinopoli» (enfasi aggiunta); cfr. APF, SC, Armeni-Miscellanea, vol. 4, c. 109-112; Terzian, Le patriarcat de Cilicie, cit., p. 31-32.
98 ACDF, SO, Dubia de matrimonio 1768-1770, fasc. VIII: «Copia d’istruzione trasmessa dalla S. Memoria di Benedetto XIV a Mons. Segretario di Propaganda li 30 novembre 1754» (enfasi aggiunta). Cfr. Collectanea S.C. de Propaganda Fide, cit., §455 e nota; De Martinis (ed.), Iuris pontificii, p. 342 nota 2; Codificazione canonica orientale. Fonti, cit., fasc. II, p. 339.
99 Congregazione generale di Propaganda fide, 6 agosto 1764: Collectanea, cit., § 455 (enfasi aggiunta); Codificazione canonica orientale. Fonti, cit., fasc. II, p. 105-107; De Martinis (ed.), Iuris pontificii, p. 342-343, n. DCXV; Terzian, Le patriarcat, cit., p. 32-33 (quest’ultimo edita il testo presente in APF, Istruzioni, vol. 1, c. 675-677, che riporta la data del 29 agosto).
100 ACDF, SO, M 3 l, fasc. II, c. 49r-50r (29 agosto-2 settembre 1757).
101 ACDF, SO, St. St., M 3 b, fasc. XXI, c. 898r-899r, lettera del 3 aprile 1761, trasferita da Propaganda al Sant’Uffizio il 25 maggio seguente.
102 Ibid., c. 900r-905v. Per il giuramento imposto ai mechitaristi, cfr. supra, capitolo 3, p. 193.
103 Sullo «scisma» mechitarista del 1773, si vedano G. Cappelletti, Storia del Cristianesimo… dall’anno 1720 a tutto il 1846, Firenze, tipografia di Alcide Parenti, 1847, p. 209-210; C.L. Curiel, La Fondazione della Colonia Armena in Trieste, in Archeografo Triestino, 43, 1929-1930, p. 339-379; S. Aslanian, The Great Schism of 1773: Venice and the Founding of the Armenian Community in Trieste, in H. Berberian, T. Daryaee, Reflections of Armenian Identity in History and Historiography, Irvine, 2018, p. 75-126.
104 Cfr. Jamgocyan, Les banquiers du Sultan, cit., p. 64-69, secondo il quale è anche grazie agli stretti legami tra Serpos e Napoleone Bonaparte se quest’ultimo risparmiò il monastero mechitarista di San Lazzaro dalle soppressioni degli enti religiosi.
105 Il primo dubbio era formulato così: «se… possa permettersi a’ suddetti Armeni cattolici di accostarsi qualche volta alle Nazionali Chiese Scismatiche, ed esercitarvi in esse qualche atto di Religione conformemente al rito Cattolico, e contribuirvi qualche limosina a solo fine di redimersi per via di sì fatte contribuzioni più forzate, che spontanee, da mille vessazioni gravissime, e di mantenersi nella pacifica professione della notoria loro Cattolicità»; nel secondo invece si chiedeva «se a’ medesimi possa permettersi di conformarsi nella celebrazione di alcune Feste al Calendario osservato dalle Chiese suddette, supposto che un tal Calendario non sia niente difforme da quello usato ne’ tempi primitivi da tutti i Santi Padri Armeni venerati dalla Chiesa Universale; ed altronde non possa da essi osservarsi altro Calendario senza mettere in aperto risico le sostanze, la libertà e talvolta anche la vita» (Serpos, Dissertazione, cit. p. 2).
106 [P.M. Del Mare], Voto dell’eccellentissimo collegio della sacra facoltà teologica della regia Università di Siena in risposta a due dubbi riguardanti la comunicazione in divinis degli Armeni cattolici di Costantinopoli con gli scismatici…, Firenze, per Anton-Giuseppe Pagani, 1785; cfr. il profilo curato da C. Fantappié nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 38 (1990), ad vocem, e quanto scrive su di lui F. Piselli, ‘Giansenisti’, ebrei e ‘giacobini’ a Siena. Dall’Accademia ecclesiastica all’Impero napoleonico (1780- 1814), Firenze, 2007.
107 P.M. Del Mare, Principj teologici per servire di preservativo agli errori contenuti nell’ “Esame teologico del Voto”..., Siena, Carli, 1786; [J. Marinović], Risposta al signor abbate Paolo Marcello Del Mare, sopra un opuscolo da lui dato alle stampe…, Venezia, presso Antonio Zatta e figli, 1786; [F. Marsili], Lettere teologico-critico-morali sopra li due dubbi di coscienza concernenti gli Armeni cattolici sudditi ottomani…, Venezia, presso Giovanni Gatti, 1786; [D.M. Pellegrini], Lettera d’un teologo pacifico ad un teologo amico, che gli chiedeva una breve informazione della causa Armena introdotta dal S. Marchese Serpos…, Venezia, presso Antonio Zatta e figli, 1787; V.M. Palazzolo, Lettera del Vincenzo Ma. Palazzolo intorno al comunicar dei Cattolici Armeni sparsi per l’Ottomano Impero cogli Eretici, o Scismatici Nazionali nelle cose di Chiesa, Treviso, per Gio. Antonio Pianta, 1788.
108 G. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVII fino a’ nostri giorni, 4 vol., Venezia, Palese, 1806: vol. 1, p. 276-278, 304; vol. 4, p. 23; cfr. anche G.B. Tavanti, Fasti del S. P. Pio VI, con note critiche, documenti autentici e rami allegorici, 3 vol., Italia [Firenze], a spese di Gio. G. Chiari, 1804: vol. 1, p. 182.
109 APF, SC, Armeni-Miscellanea, 4; Serpos, Compendio storico, cit., vol. 3, p. 588.
110 Cfr. ACDF, SO, St. St., QQ 3 f (la Relazione è un vero e proprio libro manoscritto; in un lettera del 23 maggio 1784, riportata nell’appendice, l’autore Deodato Caroli si definisce così: «Io che sono nativo di Costantinopoli, ma fatti li miei studj in Italia, cattolico di religione e di professione sacerdote regolare de’ Minori Conventuali, essendomi stato spedito in qualità di missionario in Costantinopoli e Moldavia, dove son trattenuto per lo spazio di tredici interi anni, pratico della lingua armena e turca volgare, sono stato a pienissima portata di verificare personalmente tutto ciò che rispetto ai fatti nella sua Dissertazione si asserisce…»; a p. 427 del voto afferma di avere 75 anni); cfr. anche la filza QQ 3 g che raccoglie, oltre alle confutazioni citate, lettere e testimonianze contro il Serpos, ad esempio circa la sua connivenza con l’abate mechitarista e la sua potenza economica e politica.
111 Tra i quattro consultori vi fu infatti chi prese di mira gli errori dottrinali dell’opera (come Becchetti, secondo il quale «un libro nel quale si mettono in discredito i Cattolici, si affastella un gran numero di imposture per dar loro un libero passaggio all’eresia e per corrompere la fede di una intiera Nazione, mi sembra che meriti una giusta e severa censura»), ma in generale a prescindere dalla questione se ne ritenne particolarmente pericoloso lo spirito, tanto che Mamachi propose di ribadire l’istruzione del 1729 senza nominare neanche il lavoro del Serpos, per non fargli pubblicità: ACDF, SO, St. St., QQ 3 h.
112 Cfr. APF, SOCG, vol. 893, c. 235r-238r: «per più motivi ci pare pericolosa sì la decisione affermativa, che la negativa; che perciò preghiamo la D. Maestà che si degni ispirare alle LL. EE. una via mezzana, con cui si possa ovviare alle massime difficoltà e pericoli che s’incontrano necessariamente in ambedue le decisioni» (12 ottobre 1791); APF, Lettere della S. Congregazione, vol. 262, c. 387rv: «Intorno all’opera del Marchese Serpos di Venezia, qui si ritiene appunto il sistema che V.S. suggerisce, cioè di non dar fuori alcuna decisione» (14 luglio 1792). Cfr. anche Terzian, Le patriarcat de Cilicie, cit., p. 23 (i riferimenti archivistici vanno corretti come indicato).
113 APF, Biglietti e Risolutioni del S. O. tomo I°, c. n.n. (ma: c. 849-860; copia alle c. 861-71). Il voto è del minore conventuale Jacopo Belli e non è datato, ma si riferisce ai dubbi sottoposti nel 1803 da Stefano Agem, missionario presso gli armeni di «Chiutaye» (Kütahya).
114 «Stato della Missione o sia Vicariato Armeno di Costantinopoli per l’anno 1808»: APF, SC, Armeni, vol. 26, edito in: Hofmann, Il vicariato apostolico, cit., p. 243-248, p. 244.
115 Cfr. Frazee, Catholics and Sultans, cit., p. 256-261; C. Charon [= Korolevskij], Melkites et Arméniens sous Maxime III Mazloum (1831-1847), in Échos d’Orient, 11-71, 1908, p. 212-218; B. Masters, The Establishment of the Melkite Catholic Millet in 1848 and the Politics of Identity in Tanzimat Syria, in P. Sluglett, S. Weber (a cura di), Syria and Bilad al-Sham under Ottoman Rule. Essays in honour of Abdul Karim Rafeq, Leida-Boston, 2010, p. 455-473; P. Maggiolini, Bringing together Eastern Churches under a Common Civil Head. The Agreements between the Syriac and Chaldean Patriarchs and the Civil Head of the Armenian Catholic Church in Constantinople (1833-1871), in Journal of Eastern Christian Studies, 64-3/4, 2012, p. 253-285.
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