Capitolo 3. La communicatio in sacris con gli «scismatici» orientali1
p. 169-196
Texte intégral
La costituzione Ad evitanda e il dibattito canonistico
1Il problema teorico fondamentale con cui la dottrina cattolica dovette fare i conti nel momento in cui lo slancio apostolico della Controriforma portò ad intensificare i contatti con gli orientali, creando nuovi gruppi di convertiti, più o meno segreti, all’interno delle diverse Chiese, fu di capire per quale ragione la communicatio in sacris con loro fosse o non fosse lecita, e in quale misura. Nella seconda metà del Cinquecento Martín de Azpilcueta, il «Dottor Navarro», affermava di essere il primo ad affrontare una così grave questione: in effetti la sua esposizione divenne un punto di riferimento, nel momento in cui egli decise di inserirvi come elemento essenziale alla giustificazione della pratica il ricorso alla costituzione di Martino V Ad evitanda scandala (1418), che autorizzava la comunione sacramentale con gli scomunicati, purché non fossero stati personalmente e pubblicamente condannati come tali o fossero noti aggressori di un sacerdote1. Dopo di lui la discussione si spostò dunque sulla validità del privilegio, sulla sua applicabilità e infine sulla sua sufficienza a giustificare la communicatio.
2Il problema della validità era innanzitutto formale e giuridico: la costituzione era stata promulgata durante il Concilio di Costanza, ma non era stata registrata nei suoi canoni bensì in quelli del contemporaneo concordato con la nazione tedesca; a causa di ciò molti canonisti non riuscivano a trovare traccia del testo negli atti ufficiali, dovendosi accontentare di quello riportato da un partecipante, il vescovo di Firenze Antonino Pierozzi, alla cui sola testimonianza si doveva inoltre l’interpretazione del privilegio come valido senza limiti di tempo e di categorie2. In compenso, la Ad evitanda era inserita negli atti del successivo Concilio di Basilea, che però non era stato riconosciuto come valido dalla Chiesa; se era possibile derogare a questa difficoltà dal momento che il privilegio era stato inserito in seguito anche nel concordato tra Leone X e il re di Francia in occasione del V Concilio Lateranense, rimaneva però un problema maggiore, e cioè che il testo di Basilea differiva da quello di Costanza in un punto essenziale, giacché sembrava escludere dai benefici della costituzione anche colui che notorie excommunicationis sententiam constiterit incidisse, in modo cioè da includere i cosiddetti excommunicati notori (a cui erano assimilati gli scismatici) non tra i tolerati, ma tra i vitandi3.
3Entrava qui in gioco il secondo punto, quello della applicabilità della Ad evitanda alle relazioni con gli scismatici, aspetto per noi decisamente più centrale. Dal punto di vista fattuale, appariva infatti evidente che al momento della redazione del privilegio Martino V non intendesse giovare particolarmente alle relazioni con i cristiani orientali, né potesse immaginare le conseguenze di una Riforma ben là da venire: con ogni probabilità il suo intento era stato quello di ovviare ai problemi concreti provocati dalla divisione della Cristianità tra diverse obbedienze papali nel corso del Grande Scisma d’Occidente, in un contesto cioè dove capire chi fosse in comunione con il vero capo della Chiesa era divenuto oggettivamente complicato e un atteggiamento rigido in materia avrebbe reso impossibile la vita civile e religiosa. Ciò nondimeno, due secoli dopo la questione da dirimere era di tipo giuridico, cioè se fosse o no legittimo estendere i benefici della costituzione anche ad una categoria diversa dai semplici scomunicati, quella degli scismatici e/o eretici4. Alcuni autori lo negavano, argomentando che gli scismatici orientali erano pubblicamente noti a tutti come tali ed erano per di più eretici: quindi o non erano compresi dalla Ad evitanda nel caso in cui si considerasse come valido il testo più restrittivo (è la posizione di Prospero Fagnani5), o comunque dovevano essere esclusi dato che la loro notorietà aveva il valore di denuncia nominale (posizione che parte da Domingo de Soto e arriva fino al tardo manuale di Carlo Francesco da Breno); altri però, come Francisco Suárez, ribattevano che dal punto di vista del diritto vi era una profonda differenza tra la semplice notorietà e la condanna formale e personale richiesta dalla versione originale della costituzione6.
4Nel corso del XVII secolo prese progressivamente piede un’interpretazione favorevole a riconoscere come, dopo la Ad evitanda, la communicatio in sacris con gli scomunicati anche notorî non fosse più in sé stessa proibita dal diritto comune e canonico: tra gli altri, lo scrissero esplicitamente Juan Azor, Thomas Sánchez, Francesco Albizzi e il cardinal de Lugo, oltre al già citato Suárez7. Tale affermazione di principio, tuttavia, non fece altro che spingere i critici della pratica ad opporre il ricorso al diritto divino e naturale, per il quale era sempre proibita la frequentazione di scismatici ed eretici. Ecco allora di nuovo comparire il problema di come considerare l’altro, nel caso che ci interessa il cristiano orientale: il fatto che si potesse ora comunicare con lui in quanto scomunicato non toglieva la possibilità che non fosse comunque lecito farlo in quanto scismatico ed eretico, giacché questi ultimi rispetto ai semplici scomunicati erano separati dalla Chiesa con un maggior grado di intensità, durata e volontà. Già Mario Altieri aveva egregiamente sintetizzato il punto nel suo De censuris (1616):
haereticus non solum ut excommunicatus, sed etiam praecise quia exterius haereticus est vitari debet […] ergo quamvis Concilium Constantiense concesserit ut communicare in divinis possumus cum eo quamvis excommunicato, non tamen quatenus haereticus est, et quando sunt […] duo vincula, uno sublato non tollitur alterum; idem iuris videtur de schismatico8.
5Si arriva così infine al terzo dei punti ricordati, quello riguardante la sufficienza del privilegio costanziense nel giustificare la pratica: ricorrendo a quanto scritto dal Bellarmino in relazione alla possibilità di un papa eretico, i critici obiettavano che si poteva pure attribuire tutto il valore possibile alla costituzione, ma scismatici ed eterodossi rimanevano comunque separati dalla comunione ecclesiastica non per una sentenza umana dispensabile, ma eo ipso e già prima di qualunque denuncia, per diritto divino; in particolare era poi ritenuto assolutamente proibito ricevere sacramenti da loro, in quanto si riteneva che in virtù stessa della loro separazione avessero perduto il potere di giurisdizione, come sembrava confermare Clemente VIII nella Perbrevis instructio del 1595 e come ribadiva anche il Pignatelli nelle sue Consultationes9. I sostenitori concedevano che potesse in effetti esservi una proibizione di diritto divino, ma la limitavano ai casi in cui la communicatio in sacris rischiasse di produrre nei fedeli scandalo, pericolo di perversione o partecipazione attiva ad un rito intrinsecamente erroneo, tale cioè da costituire una professione di fede eretica. Da un problema di interpretazione canonica si passava così ad una questione ancora più spinosa: il giudizio sulla possibilità di una communicatio priva dei rischi succitati passava dall’esistenza o meno di riti e liturgie orientali accettabili come cattoliche, cioè prive di errori. D’altro canto, la questione della liceità della ricezione dei sacramenti da sacerdoti «scismatici» richiedeva inevitabilmente una definizione del loro potere di giurisdizione e del loro status come ministri legittimi. A questo riguardo, come abbiamo detto, l’istruzione per gli italo-greci di Clemente VIII sembrava aver messo un punto chiaro nello stabilire che i religiosi ordinati da vescovi scismatici recipiunt ordinem, sed non executionem, cioè la possibilità di esercitarlo lecitamente, per il quale era necessaria una dispensa successiva alla riconciliazione con Roma10. Anche se il principio rimase sempre valido, come vedremo la questione complessiva si rivelò ancora a lungo problematica e dibattuta.
Aperture missionarie
6Se dalla letteratura canonistica seicentesca ci si sposta ora su quella missionaria, si incontra da subito un atteggiamento più aperto: già nel 1613 il carmelitano Tommaso di Gesù nel suo De procuranda salute omnium gentium (un testo dall’influenza mai abbastanza sottolineata) sosteneva che i cattolici per adempiere al precetto domenicale potevano partecipare alle messe di greci, armeni e altri scismatici: ratio est, quia ritus etiam Graecanici in re divina et sacrificiis faciendis sunt Catholici e la Chiesa non ha mai specificato ut rem divinam audiamus hoc vel illo ritu, sed simpliciter. Per quanto riguardava la ricezione di sacramenti, anche se scismatici ed eretici in effetti mancavano del potere di giurisdizione, era però possibile accostarsi ad essi previa dispensa pontificia, dato che la questione era di puro diritto canonico11. Ancora più in là si spingeva a metà secolo Angelo Maria Verricelli nel suo famoso manuale, dove si possono trovare le affermazioni più coraggiose in materia: la communicatio poteva essere vietata solo per le conseguenze pericolose che provocava in determinate circostanze, non quindi in assoluto di per sé; prova ne era che esistevano molti luoghi dove essa era prassi corrente e che la Chiesa ne dispensava frequentemente nei matrimoni misti; l’argomento bellarminiano della mancanza di giurisdizione, in cui incorrerebbero immediatamente gli eretici e scismatici senza bisogno di apposita scomunica, non reggeva, in quanto la separazione avveniva per diritto umano, dal quale dispensava la costituzione Ad evitanda, che si estendeva indubitabilmente anche agli orientali: ne conseguiva che questi ultimi mantenevano il potere di giurisdizione, e quindi la facoltà ad esempio di assolvere lecitamente in confessione. Anche circa la comunione sacramentale il suo atteggiamento era estremamente aperto: riteneva possibile in determinate condizioni confessarsi e comunicarsi dagli scismatici perfino extra articulum mortis, e affermava esplicitamente la possibilità per i missionari di assistere con le vesti sacre alla liturgia degli orientali quando questa fosse celebrata catholico ritu, dato che in quel caso ciò che contava era l’atto del sacrificio e non la dignità del sacrificante, significativamente accostato al caso del sacerdote concubinario. Insomma, la communicatio con gli scismatici poteva essere vietata per accidens, ma non per se12.
7A queste affermazioni, contenute in due dei testi più conosciuti ed utilizzati nella formazione dei missionari, si devono aggiungere gli sforzi che nel corso del Seicento alcuni autori impiegarono per dimostrare che greci e latini professavano essenzialmente la stessa fede. Leone Allacci, originario di Chio, educato al Collegio Greco in Roma e quindi divenuto scriptor graecus della Biblioteca Vaticana, dedicò una monumentale opera a dimostrare il «perpetuo consenso della Chiesa orientale e occidentale», particolarmente in confronto invece alle deviazioni compiute in materia dottrinale e sacramentale dai protestanti: un genere letterario che diventerà un topos, grazie alle opere di altri autori come Pietro Arcudio e Jean Morin, fino al notissimo lavoro con cui Antoine Arnaud collezionò testimonianze sull’accordo della concezione orientale e cattolica dell’eucaristia13. Allacci non si limitava a discussioni sulla dottrina, ma tracciava anche un ritratto estremamente positivo della convivenza religiosa nel Mediterraneo: la conquista ottomana e la fine della Francocrazia avevano infatti provocato un riavvicinamento dei greci ai latini, facendo deporre le ostilità e creando un clima di familiarità tale da spingere i primi a contrarre matrimoni con i secondi, frequentare le loro chiese, portare i propri figli alle loro scuole, partecipare sacris officiis, sermonibus ecclesiasticis, aliisque omnibus Latinorum; insomma, una vita comunitaria così mescolata da rendere in alcuni luoghi addirittura vacillante la stessa distinzione confessionale e in cui la communicatio in sacris era pratica abituale14. Non esitava a sostenere la venerazione dei greci per il pontefice romano e al contrario il loro odio per i protestanti: il vescovo latino di Chio era trattato con tutti gli onori dal clero greco dell’isola, che lo aveva lasciato celebrare nel monastero di Nea Moni, mentre quando un cittadino chiota aveva stretto amicizia con un calvinista questo era stato oggetto della riprovazione generale.
8Anche nel caso in cui questi episodi non rispecchino una fedele descrizione della pratica corrente nell’Egeo e a Chio (Allacci lasciò l’isola da bambino e vi ritornò soltanto una volta per un breve soggiorno), è significativo lo sforzo dell’autore nel mostrare la sostanziale unità delle due comunità, così come l’idea che nei punti fondamentali greci e latini non abbiano mai smesso di approvare e rigettare insieme le stesse cose. Diversamente da Jean Morin, che andava allora rintracciando nelle controversie del tempo di Fozio e di Michele Cerulario l’origine della separazione tra le Chiese, Allacci non credeva in un tale approccio: singulares personae, licet in dignitatibus constitutae in Graecorum Ecclesia, Ecclesiam Graecam non faciunt. Anche se erano esistiti scismatici ed eretici greci, la Chiesa greca non poteva essere detta scismatica (né a maggior ragione eretica) nel suo complesso più di quanto non si potesse dire della Chiesa latina per aver prodotto Calvino o Zwingli15. Tale concetto, ripreso in seguito anche da Nicolò Papadopoli nelle sue Praenotiones Mystagogicae ex Jure Canonico (Padova 1697) doveva rimanere nella letteratura canonica e missionaria molto a lungo, se si pensa che ancora nel 1726 il Manuale Missionariorum Orientalium di Carlo Francesco da Breno così rispondeva alla domanda se la Chiesa orientale fosse scismatica: Respondeo, non esse secundum se spectatam reipsa Schismaticam, etsi in ea multi Schismatici sint16.
9Queste posizioni non erano confinate esclusivamente alla Chiesa greca, ma anche alle comunità religiose che sembravano più distanti dall’ortodossia romana: un contemporaneo di Allacci, il teatino Clemente Galano, concentrò la propria esperienza missionaria in un’opera (Conciliationis Ecclesiae Armenae cum Romana) in cui argomentava come non fosse possibile definire simpliciter eretica la Chiesa armena, né divisa tra una parte eretica e una cattolica, dato che al suo interno membri ortodossi ed eterodossi convivevano in modo spesso indistinguibile; ancora più avanti si spingeranno poi alcuni autori nel XVIII secolo, cercando di negare anche gli errori dottrinali segnalati dal Galano17.
10Tutto considerato, si riesce dunque a capire come intere generazioni di religiosi finissero per introiettare una giustificazione teorica di fondo della liceità della comunione con gli scismatici orientali nelle cose sacre (perlomeno in alcune circostanze o occasioni), vedendola come un utile strumento di penetrazione delle idee cattoliche tra una popolazione sostanzialmente ignorante ma attaccata alle proprie tradizioni. Tale giustificazione non veniva scalfita dai frequenti responsi negativi (non licere) delle congregazioni romane quando venivano interpellate su punti precisi, anche perché per lungo tempo esse non seppero o non vollero esprimere una dichiarazione generale di principio in merito, risolutiva di ogni questione. Ancora nel 1705, ad esempio, il missionario di Terra Santa Alessandro di Monte Brandone interrogava la Propaganda sulla possibilità che i cattolici soddisfacessero il precetto domenicale nelle chiese degli orientali e che un ecclesiasticus catholicus occultus vi celebrasse in compagnia del clero scismatico: se nel primo caso la risposta era negativa, nel secondo ci si limitava a rispondere di consultare probatos authores, rimettendosi cioè proprio al giudizio dei teologi e degli autori di manuali per missionari18.
Dispute e istruzioni
11Quando all’inizio del XVIII secolo le cose cominciarono a cambiare, anche probabilmente per l’eco delle contemporanee dispute sulla questione dei riti cinesi, le resistenze furono clamorose. Nell’agosto 1707 al consultore del Sant’Uffizio Giovanni Damasceno Bragaldi19 fu affidato l’esame di alcuni dubbi relativi alla communicatio tra armeni cattolici e «scismatici» in Persia. I missionari attivi ad Isfahan, e particolarmente nel sobborgo armeno di Nuova Giulfa, avevano segnalato infatti una lunga serie di comportamenti irregolari nella pratica dei sacramenti, soprattutto il battesimo, il matrimonio e l’ordine sacro. Per convenienza sociale ma anche per timore di ripercussioni o violenze, gli armeni cattolici facevano battezzare i loro figli «da sacerdoti scismatici, ed eretici, che pretendono essere loro parochi, o perché essi non erano prima cattolici, o perché le loro mogli al presente non lo sono»; i matrimoni misti erano dunque molto comuni e si svolgevano alla presenza del clero armeno apostolico, «né vi manca tra missionarii chi stima ciò esser lecito». La communicatio in sacris non era generalizzata solo tra i fedeli laici, ma anche nello stesso clero, giacché non essendoci in Persia alcun vescovo cattolico di rito armeno, i candidati al presbiterato venivano mandati a ricevere gli ordini sacri dai membri dell’episcopato «scismatico». Infine, si segnalava come tra gli stessi missionari vigesse la confusione, dato che secondo alcuni di loro i casi fin qui ricordati erano resi leciti dalla costituzione Ad evitanda, «che permette ricevere gli sagramenti dagl’eretici e scismatici che non sono nominatim e specialmente denunziati, come non lo sono i vescovi e sacerdoti armeni di Aspaan e Giulfa»20.
12Il consultore Bragaldi analizzò i sette dubbi proposti uno per uno, seguendo il classico stile della giurisprudenza canonica (dubium – resolutio – ratio resolutionis) e fornendo in tutti i casi una risposta negativa alle domande sulle liceità delle pratiche descritte. Nelle motivazioni del voto, si rifaceva alla prassi precedente della Congregazione, citando spesso casi analoghi, ma relativi alla communicatio tra cattolici e protestanti in Olanda, Irlanda e Scozia; sosteneva inoltre particolarmente l’idea secondo cui il clero gregoriano, essendo scismatico, non poteva mai esser considerato come dotato di prerogative «parrocchiali» sui fedeli di quel rito; concludeva poi che la minaccia di danni materiali non era sufficiente a giustificare la communicatio, come testimoniava il fatto che Paolo V avesse risposto negativamente ad un’analoga richiesta dei cattolici inglesi circa il recarsi alle funzioni anglicane, a causa del carattere di professione ereticale che la cosa avrebbe assunto. Nell’argomentazione il consultore si appoggiava insomma su di una giurisprudenza formata soprattutto da casi relativi ai protestanti; e del resto il confronto era stato fatto già dal missionario che aveva sottoposto i dubbi, quando aveva glossato che «gli Armeni non sono come i Luterani, e Calvinisti, ma che importa ciò? mentre anco essi sono veramente scismatici, et eretici, benché non tanto perversi come quelli»21.
13Il 26 gennaio 1708 le prime risoluzioni proposte dal Bragaldi furono presentate nella congregazione del giovedì, alla presenza di papa Clemente XI e dei cardinali inquisitori. Due di essi, tra cui il segretario di Propaganda Fide Carlo Agostino Fabroni, obiettarono però che il consultore aveva liquidato troppo sbrigativamente due questioni molto complesse, su cui non vi era consenso unanime tra i dottori: ovvero proprio la validità della Ad evitanda nel giustificare la communicatio in sacris e il problema del potere di giurisdizione del clero orientale. La cosa era tanto più imbarazzante in quanto una delle autorità del diritto canonico e inquisitoriale, il cardinale Francesco Albizzi, già assessore del Sant’Uffizio tra il 1635 e il 1654, sembrava essersi espresso in modo opposto a quello del Bragaldi22. Nel suo famoso trattato De inconstantia in iure admittenda, vel non (1683) e sulla scorta anche di altri autori, come i già citati Verricelli e Arcudio, Albizzi aveva infatti chiaramente scritto che la costituzione di Martino V garantiva agli eretici orientali il mantenimento del potere di giurisdizione e quindi la facoltà di conferire i sacramenti; non solo, aveva corroborato il giudizio facendo anche riferimento alla propria esperienza accumulata al Sant’Uffizio, affermando che ciò resolutum fuit saepius in Suprema et Universali Inquisitione, ea ratione, quia Schismatici Orientales sunt ab Ecclesia tolerati, et successive cum non sint nominatim denunciati, neque carent ordine, neque iurisdictione23.
14A quel punto il pontefice in prima persona sospese la risoluzione dei dubbi sugli armeni di Isfahan, richiedendo al Bragaldi un voto preliminare sulle questioni menzionate. Il «consultore Damasceno» produsse così due lunghi e dotti pareri. Nel primo, esaminando il valore della Ad evitanda, argomentava come essa valesse per gli scomunicati (cioè i separati dalla Chiesa per sentenza canonica) e non per gli eretici e scismatici (separati per la natura stessa del loro crimine, secondo l’interpretazione bellarminiana). Il consultore passava in rassegna la giurisprudenza canonica in materia e le stesse decisioni della Santa Sede e concludeva che, nonostante il parere diverso del Verricelli e di altri, comunicare con gli acattolici era un’azione intrinsecamente sbagliata e proibita24. Poiché molti missionari continuavano però a tollerarla e questo contribuiva a spargere per l’Oriente un morbo pericoloso per la fede, era dunque necessario formare e diffondere un’istruzione generale sulla materia, sul modello di quella di Clemente VIII per gli italo-greci e di Clemente IX per i riti cinesi25. Nel secondo voto, Bragaldi si sforzò invece di controbattere al parere dell’Albizzi sul potere di giurisdizione dei prelati orientali, ricorrendo proprio a quella prassi del Sant’Uffizio a cui alludeva il cardinale: con un lavoro di tipo archivistico, il consultore elencò diversi decreti che dimostravano come la Congregazione avesse giudicato il clero greco come sospeso dall’esercizio degli ordini sacri, perlomeno fino all’intervento di una dispensa papale che lo assolvesse dall’irregolarità legata al fatto di aver ricevuto l’ordinazione da vescovi «scismatici»26.
15Le dotte disquisizioni di Giovanni Damasceno Bragaldi non bastarono però a convincere completamente Clemente XI dell’opportunità di sancire in modo netto le questioni ricordate. Se il papa convalidò le proposte di risoluzione del consultore in merito ai dubbi degli armeni di Persia, non altrettanto fece riguardo ai voti «teorici» . Nella congregazione del 14 novembre 1709, infatti, il pontefice decise di non promulgare una istruzione generale sulla communicatio in sacris, e di non pronunciarsi sulla questione del potere di giurisdizione dei vescovi orientali: Sanctissimus… censuit abstinendum esse ab examine huius materiae. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima in cui la strategia del silenzio avrebbe avuto la meglio nella gestione dei casi più spinosi relativi ai rapporti con i cristiani orientali27.
16Ad ogni modo, la risoluzione negativa ai dubbi di Isfahan e Nuova Giulfa e altri decreti emessi in quegli anni che proibivano agli armeni cattolici l’ingresso nelle chiese nazionali provocarono una vera e propria esplosione dei casi di communicatio in sacris sottoposti al Sant’Uffizio, così come di lettere di religiosi orientali cattolici che denunciavano l’impossibilità di rispettare le direttive romane. Anche alcuni missionari europei erano di questa opinione: nel 1712 il gesuita Jacques Villotte presentò al pontefice un lungo memoriale che, pur non pretendendo de abstrusissima illa difficultate theologice disputare, ne sviscerava le problematiche apprese in vent’anni di apostolato tra gli armeni. Il religioso premeva per una risoluzione positiva dei dubbi relativi alla possibilità di ricevere dal clero «scismatico» alcuni sacramenti, tanto più che questi erano amministrati debita forma et intentione e che la frequentazione tra cattolici e apostolici non aveva in passato prodotto scandalo o perversione, ma anzi buoni frutti. Villotte avvertiva il papa che dalla soluzione del problema della communicatio dipendeva il futuro delle missioni e dello stesso cattolicesimo in tutto l’Oriente28.
17Non esagerava: un’indagine sistematica compiuta dalla Congregazione di Propaganda tra il 1718 e il 1722 rivelò che il fenomeno della frequentazione civile e religiosa tra cattolici e non aveva raggiunto livelli critici. Non solo dalle risposte al questionario (originariamente destinato a raccogliere informazioni solo sul caso armeno) emerse che la communicatio era diffusa da Costantinopoli al Cairo, dalla Georgia a Corfù, ma anche che la questione era oggetto di aspre dispute tra gli stessi missionari, tanto che le diversità di vedute creavano scandalo e indecisione tra i fedeli29. Finito il tempo delle prime missioni, in cui un atteggiamento tollerante poteva essere difeso come strumento per guadagnare segretamente anime tramite una strategia da «cavallo di Troia», ora la questione si poneva sul piano della conservazione delle comunità cattoliche già esistenti dalle persecuzioni e dal rischio dell’indifferentismo dottrinale30. La frattura non passava più come in passato tra pragmatismo e affermazioni di principio, ma tra due visioni realmente differenti dell’operato apostolico: cioè tra chi sosteneva l’utilità e la liceità delle conversioni private e delle buone relazioni con gli «scismatici», e chi argomentava ormai per la necessità di una separazione netta dei neofiti dalle comunità d’origine, per preservarne la cattolicità – tale diversità di opinione inoltre non si incarnava nella differenza tra l’accomodatio gesuitica e le strategie più ortodosse degli altri religiosi, ma attraversava trasversalmente tutti gli ordini31.
18Particolarmente aspra si rivelò la querelle tra i missionari armeni formatisi nel collegio di Propaganda Fide e i membri della nuova congregazione mechitarista, il cui grande successo si basava sulla valorizzazione delle tradizioni autoctone della Chiesa armena ma anche su di un atteggiamento estremamente aperto riguardo alla communicatio32. Le conseguenze negative di tale approccio secondo i critici sono esemplarmente riassunte in una lettera del 1721:
gli Cattolici, comunicando con gli Scismatici in divinis, perdono quella devotione che havevano prima verso la Chiesa Romana, massime i rudi diranno che non vi è differenza, tra Cattolici e Scismatici […] molti de Cattolici oggidì vanno dicendo che «sin hora non sapevamo che non vi fosse differenza tra noi e scismatici, adesso abbiamo saputo che non c’è niente, e che quelli missionarii che metevano questa differenza ci gannavano»33.
19Anziché attirare gli scismatici verso la Chiesa Romana ricomponendo l’unione, l’atteggiamento possibilista di alcuni religiosi nei confronti della communicatio aveva finito per dividere la stessa novella cattolicità: nei resoconti inviati allora sullo stato delle missioni abbondano le classificazioni dei fedeli in gruppi diversi a seconda del loro rispetto più o meno rigido del divieto di recarsi alle chiese d’origine34.
20Nonostante la gravità della situazione, la risposta romana fu lenta e ambigua: appoggiandosi alle già ricordate condizioni nelle quali la communicatio era vietata per diritto divino, nel 1723 Roma comandò ai cattolici di astenersi dagli atti che potessero indicare adesione ad un’altra confessione religiosa o compartecipazione a riti ereticali, evitando ogni pericolo di scandalo o perversione. Questa generica proibizione, tuttavia, era subito mitigata dal suggerimento di fare ricorso in casi dubbi ai teologi o missionari più esperti35. Non c’era da sperare granché da una istruzione che per risolvere le divergenze tra i missionari si rimetteva in definitiva a questi ultimi36, come si vide nel fatto che il gesuita Claude Sicard, attivo in Egitto, colse l’occasione per comporre in francese ed in arabo un pamphlet che difendeva vigorosamente la communicatio, anche con argomenti diversi da quelli visti finora: oltre al ricorso frequente alle citazioni bibliche anziché canonistiche (dall’episodio del Samaritano a quello dell’adorazione idolatrica di Naaman il Siro), oltre alla sottolineatura della necessità di imitare l’atteggiamento compassionevole di Cristo verso i peccatori e all’idea che fosse impossibile per il pontefice decidere di questioni così legate alle circostanze locali, colpiva la distinzione tra gli errori dottrinali degli scismatici (che pure non si faticava a bollare generalmente come eretici) e le loro celebrazioni liturgiche, di cui invece si sosteneva la piena validità: «Le rit n’a rien de mauvais dans aucune secte […] malgré la profanation de l’hérésie et l’intention perverse […] le Verbe divin étant exposé dans le sacrement sur l’autel des impies ne laisse pas d’être notre Dieu». Lo scritto fece scalpore e suscitò la risposta di un altro missionario, il minore riformato Joseph Wengeler, per il quale invece il rito degli orientali manifestava spesso concretamente la loro eresia e tra di essi abbondavano sacerdoti e prelati irregolarmente ordinati e quindi in ogni caso impossibilitati ad amministrare validamente i sacramenti37. Da posizioni del genere era facile arrivare ad altri eccessi, come nei racconti riportati da alcuni religiosi, secondo i quali alcuni fedeli cattolici comunicati a forza dagli scismatici finivano poi per sputare l’ostia consacrata e buttarla via con ingiurie38.
21Negli anni immediatamente successivi il mondo missionario fu dunque molto agitato, anche a causa degli ordini imperiali arrivati da Costantinopoli, che proibivano ai religiosi di recarsi nelle case dei fedeli (dove erano soliti comunicarli e confessarli di nascosto) ed intimavano agli orientali convertiti di tornare alle loro chiese d’origine. Il 3 marzo 1724 il Custode di Terra Santa scriveva ai cardinali della Congregazione di Propaganda «a cagione d’una differenza d’opinione che di presente verte tra li padri Missionarii della città d’Aleppo». Poiché i superiori degli ordini religiosi lì presenti avevano idee diverse circa la possibilità di concedere agli orientali cattolici il permesso di frequentare le chiese «scismatiche», come ora veniva imposto dall’autorità ottomana, si era organizzato un incontro per adottare una linea comune: ma la riunione era presto degenerata in rissa ( «fu una contesa, benché religiosa, assai strepitosa»), senza che si potesse trovare un terreno d’intesa. Da una parte vi era chi sosteneva che concedere ai cattolici l’accesso alle funzioni religiose degli orientali eretici produceva proprio quel «pericolo dello scandalo, della perversione e della protestatione di falsa setta» ricordato nell’istruzione del 1723; dall’altra vi era chi lo negava, argomentando che era risaputo come i cattolici che comunicavano in divinis con gli eretici lo facessero soltanto perché costretti, e non perché pervertiti nelle loro credenze. Sconsolato, il Custode concludeva: «Queste dispute e dispareri tra missionari stessi, come anco tra preti maroniti, cagionano in quella città un grandissimo scandalo, mentre chi permette l’andar alla lor chiesa, chi nega e prohibisce assolutamente, chi sostiene esservi scandali, chi sostiene il contrario, talmente che li poveri cattolici armeni si trovano in grande costernazione, non sapendo più a chi de’ missionarii dar credito»39.
22Non essendo più possibile dilazionare una presa di posizione ufficiale in merito, le Congregazioni romane compresero la necessità di una istruzione generale che sancisse definitivamente la posizione della Chiesa cattolica sulla communicatio in sacris. L’occasione della sua redazione fu data dalle turbolenti vicende del patriarcato d’Antiochia, dove proprio nel 1724 i melchiti cattolici avevano eletto un loro rappresentante non riconosciuto dagli ortodossi, spaccando in sostanza la comunità e ponendo Roma di fronte alle necessità di confermare o no la canonicità del nuovo patriarca cattolico, Cirillo VI (Sarufîm Ṭânâs)40. Papa Benedetto XIII decise a quel punto di creare una «congregazione particolare super rebus Melchitarum» che fu incaricata anche di esaminare tutte le questioni collaterali, come le innovazioni latinizzanti introdotte nel rito bizantino dal vescovo melchita Aftîmyûs Ṣayfî, zio del patriarca, e appunto il problema della communicatio. Il 26 aprile 1729 i cardinali decisero di affidare la risoluzione della questione generale sulla liceità della communicatio al Commissario del Sant’Uffizio, il domenicano Luigi Maria Lucini, e al generale dei minimi Francesco Zavarroni. Questi ultimi presentarono un primo testo, che fu poi rivisto e perfezionato il 5 luglio seguente, ottenendo in calce la firma del prefetto di Propaganda fide, il cardinale Vincenzo Petra41.
23Nella sua formulazione finale, l’istruzione teneva conto di tutte le argomentazioni utilizzate negli anni precedenti da canonisti e missionari per giustificare la communicatio, ma ne rovesciava la portata: se i primi avevano posto l’accento sul fatto che in assenza di determinati pericoli la pratica era in sé lecita, Roma trasformava ora quella possibilità teorica in una impossibilità pratica – cioè, senza entrare in affermazioni di principio, stabiliva però che le suddette condizioni di liceità non si davano quasi mai concretamente, dato che la partecipazione ai riti dei sacerdoti scismatici (significativamente bollati come pseudoministri) comportava sempre almeno il pericolo di scandalo, anche perché «quasi mai vi è rito che non sia macchiato da qualche errore in materia di fede»42. Nonostante quest’ultima affermazione, però, anche questa istruzione poneva solamente una regola generale di comportamento che, per quanto restrittiva, non risolveva completamente tutte le questioni teoriche: tanto è vero che le discussioni sulla communicatio continuarono anche in seguito. All’origine di tutto vi era una cautela evidentemente voluta, che continuava ad alimentare diversità di opinioni sullo statuto degli «scismatici orientali». Ciò avveniva nello stesso seno dell’ortodossia cattolica, come è ben visibile dall’esame di due episodi del pontificato di Benedetto XIV, in cui rispettivamente il pontefice e il Sant’Uffizio si opposero ad alcuni teologi e alla stessa Congregazione di Propaganda.
Le oscillazioni di Benedetto XIV
24All’inizio del 1752, davanti agli inquisitori romani finì un fascicolo relativo ad una processione comune tra cattolici e serbo-ortodossi il giorno del Corpus Domini nel villaggio montenegrino di Spizza. Ciò che rendeva questo caso diverso da altri era che il parroco locale, Nicolò Giorga, aveva difeso la tradizione con una lunga giustificazione scritta, in cui sulla scorta della lettura di alcuni dei teologi più possibilisti in merito e della stessa consuetudine, ribadiva che la «communicatione di sua natura et essenza non è peccato; e scandalo non succede alcuno, se non se alcuno lo vuol per malitia»43. Il consultore prescelto per l’analisi della questione fu il minore osservante Giovanni Antonio Bianchi, celebre allora come difensore dei diritti divini della Chiesa contro le nuove teorie illuministe. Nel suo voto si poteva trovare un concentrato di tutti gli argomenti contrari fin qui illustrati, dal dubbio valore della Ad evitanda fino alla negazione della somiglianza tra scismatici pubblici e scomunicati occulti. Bianchi abbracciava così in pieno l’opinione di Prospero Fagnani, esprimendo invece un giudizio molto critico sul cardinal de Lugo ed altri autori, colpevoli di non aver «ben spiegata questa controversia, perciò possono ancora ministrare a’ semplici grave cagione di errare, e far loro credere che in Oriente, per modo di essemplo, possano i Cattolici ammettere alla communione nelle sagre e divine cose gli eretici Armeni, Giacobiti, Gophti, Nestoriani, Melchiti ed altri, e ciò perché sebbene questi sono notoriamente eretici, non sono stati con tutto ciò né intorno alle persone, né intorno alle loro Chiese o alle loro adunanze da alcun giudice ecclesiastico nominatamente ed espressamente denunciati, quasi che la loro aperta separazione dalla Chiesa Romana e la pubblica professione dell’eresia non bastasse per farli conoscere privati della communione della cattolica Chiesa in tutte le cose sagre, di cui sono partecipi i soli fedeli»; terminava suggerendo di imporre al parroco montenegrino una ritrattazione esplicita delle proprie idee e il riconoscimento della non liceità della communicatio «per qualsivoglia ragione o pretesto»44.
25Bene, nel momento in cui il voto del Bianchi fu presentato nella congregazione generale del 24 febbraio, il pontefice lo criticò pesantemente, con una delle importanti e dotte allocuzioni per cui andava famoso. In essa precisò infatti che, nonostante i diversi pareri dei teologi, ciò che contava era l’ecclesiastica consuetudo e quest’ultima non prevedeva di considerare vitandi se non gli aggressori dei chierici e gli scomunicati con sentenza pubblica. Di più, affermò che la communicatio in divinis con gli eretici e scismatici non doveva con troppa leggerezza essere sempre bollata come proibita, dato che constavano numerosi esempi di dispense nei casi dei matrimoni misti, e che era possibile tollerare la presenza di eterodossi notori durante una celebrazione eucaristica: ex quibus passiva in divinis communicatio permissa dignoscitur contra sententiam Fagnani, qui hoc erravit. Nel seguito del suo discorso ribadiva la validità della costituzione di Martino V contro i dubbi del Bianchi e di altri, e ricostruiva le circostanze storiche che avevano portato in molti luoghi del Mediterraneo (ed in particolare nelle isole controllate dalla Serenissima) ad una convivenza civile e religiosa tra latini cattolici e greci scismatici. Tale excursus permetteva al Lambertini di evocare il caso di Corfù, dove era ugualmente tradizione svolgere una processione comune per il Corpus Domini: quando però all’inizio del Seicento l’arcivescovo locale Vincenzo Querini aveva interpellato Roma per ottenerne una proibizione, gli era stato risposto che era preferibile tollerare la cosa piuttosto che rischiare di produrre moti o agitazioni popolari: allo stesso modo bisognava regolarsi dunque nel caso montenegrino45. A questo proposito bisogna ricordare che nel 1723 un altro e più famoso esponente della stessa famiglia asceso al medesimo episcopato, il futuro cardinale Angelo Maria Querini, aveva avuto al momento di prendere possesso della sua diocesi una lunga e stupefacente conversazione con il cardinal Giovanni Battista Tolomei, il quale gli aveva consigliato di considerare i greci di Corfù come dei cattolici, visto che l’Unione di Firenze era formalmente ancora in vigore; alle proteste del prelato bresciano circa la scismaticità del patriarca di Costantinopoli, da cui dipendeva il clero corfiota, Tolomei aveva replicato di considerare il patriarca greco tanto vero quanto quello latino. Se a questo si aggiunge che sempre il Querini nelle sue memorie ricordava come l’allora pontefice Benedetto XIII gli avesse consigliato di regolare la propria condotta sugli scritti di un altro cardinale, Giovan Battista Salerni, autore di un’opera dall’eloquente titolo Dissertatio de licito Latinorum cum Graecis in sacris commercio, si capisce come anche al vertice stesso della Chiesa potessero esistere opinioni non così diverse da quelle di certi missionari46.
26Tornando agli anni ’50, tuttavia, non bisogna credere che il pontificato di Benedetto XIV abbia voluto significare un reale allentamento dell’atteggiamento romano nei confronti della communicatio. Al contrario, nel 1753 il Sant’Uffizio formulava una istruzione ancora più severa di quella del 1729, appoggiandosi esplicitamente ad un passo della prima edizione del De Synodo Dioecesana (1748), in cui proprio il Lambertini aveva ribadito che era praticamente impossibile adempiere a tutte le condizioni imposte dagli autori perché la communicatio con gli scismatici fosse priva di scandalo47. Da allora l’istruzione del ’29 venne sempre ristampata con in calce quel brano48, in cui tra l’altro si poteva leggere una frase che sembrava ridurre la portata della Ad evitanda all’autorizzare la communicatio con scismatici ed eretici solo in rebus mere prophanis et civilibus, inibendo i fedeli dal pensare che fosse loro lecita anche in materia di sacramenti.49 Peccato che a partire dall’edizione del 1756 lo stesso passo risultasse notevolmente cambiato, dato che ora vi si leggeva che, a causa della costituzione di Martino V, la disciplina era stata allentata fino a comprendere anche la comunicazione in divinis; alla proibizione sopra ricordata era poi stato aggiunto un significativo indistincte che ne modificava il senso50.
27Come spiegare questo mutamento, così come l’apparente contraddizione tra il divieto del 1753 e i responsi favorevoli dell’anno precedente e di quello immediatamente successivo, in cui – rovesciando ancora una volta il parere del consultore Bianchi – il pontefice optava perché il vescovo di Syros tollerasse le celebrazioni di un prete greco scismatico in una chiesa cattolica dell’isola?51 Credo che la risposta si trovi nella reale problematicità e sconvenienza di affermazioni di principio su di una materia come questa. Sempre sotto il pontificato di Benedetto XIV si pose infatti la possibilità di dirimere in maniera netta l’annosa questione del potere di giurisdizione dei prelati scismatici e di far divenire per decreto la communicatio un caso riservato agli ordinari, con la sospensione ipso facto di tutti quei missionari che avessero assistito ad esempio ad un matrimonio misto. Ebbene, in entrambi i casi si decise di non decidere. Quando cioè nel 1743 l’arcivescovo di Ragusa pose esplicitamente la domanda «Se il sacerdote scismatico sia privo di giurisdizione solo perché è scismatico?», entrambi i consultori interpellati, il commissario del Sant’Uffizio Luigi Maria Lucini e l’abate Raimondo Besozzi, pur mostrando di propendere personalmente per il sì, suggerirono comunque di non pronunciarsi direttamente su di una questione che la Santa Sede non aveva mai voluto chiarire, «perché attesa la varietà delle circostanze dei casi può nascere qualche dubbio, o perché ogni decisione generale in jure è sempre mai pericolosa »52. Ancor più significative furono le resistenze emerse nel 1757, allorquando di fronte alla succitata proposta di Propaganda di stroncare la pratica della communicatio inasprendo le pene, i tre consultori chiamati a giudicare la bozza del decreto la giudicarono inopportuna: in particolare, secondo uno di essi, il dotto maronita Giuseppe Assemani, alcuni riti e sacramenti delle Chiese orientali erano realmente privi di errori e i cattolici potevano quindi, in caso di grave necessità, assistervi senza rischio di «infezione ereticale» o pericolo di scandalo: «Onde, che sia lecita o illecita la comunicazione in divinis de’ Cattolici con gl’eretici e scismatici, assolutamente parlando non si può definire se non dipendentemente dalla materia, dalle persone e dalle circostanze de’ luoghi e tempi»53.
28Come ha messo bene in luce recentemente Christian Windler, il rifiuto dell’assolutezza si sommava ad altre «pratiche di non-decisione» frequentemente utilizzate nel trattamento dei dubbi relativi alla communicatio, dal ricorso alla formula nihil respondendum est alla scelta di trasmettere le linee-guida in materia tramite uno strumento meno vincolante del decreto, cioè l’istruzione54 : tale strategia rivelerebbe secondo lui la coscienza del rischio che avrebbe corso l’autorità morale della Chiesa nel momento in cui si fossero emanate regole di principio del tutto inapplicabili sul terreno di missione55. Riconoscendo la fondatezza di tale interpretazione, bisogna però a mio avviso sottolineare che un certo grado di incertezza era reale e non solo strategica, come ho cercato di dimostrare con gli esempi precedenti e come testimonia ancora oggi un repertorio ad uso interno degli inquisitori, redatto negli anni ’70 del Settecento e significativamente intitolato: «Decreti che ammettono in qualche modo la communicazione in divinis»56.
29È senz’altro vero che a partire dalla metà del secolo XVIII le risposte del Sant’Uffizio ai dubbi dei missionari si fecero sempre più nette nel negare in quasi tutti i casi la possibilità della communicatio: in questo senso hanno ragione quegli studiosi che sostengono che la disciplina ufficiale della Chiesa in materia avesse oramai raggiunto una sua solidità. Tuttavia, non solo a livello locale queste direttive furono spesse disattese (a partire dalla stessa istruzione del 1729), ma – ciò che a noi più interessa – il dibattito sulla liceità della pratica non si arrestò affatto e finì per coinvolgere ancora alla fine del secolo la definizione stessa degli «scismatici» orientali. L’occasione fu fornita da due episodi quasi contemporanei, relativi ai greci delle isole Ionie e agli armeni di Costantinopoli.
Scismatici o cattolici?
30Quando nel 1783 il vescovo di Zante Bernardo Bocchini scrisse a Propaganda, non ignorava certo quale fosse la prassi corrente delle Congregazioni romane riguardo alla communicatio. Il suo problema, tuttavia, era un altro: non cioè sapere come comportarsi con gli scismatici, quanto capire se i greci della sua diocesi fossero davvero tali. Nella risoluzione di questo dubbio le istruzioni precedentemente ricevute non lo aiutavano affatto, giacché esse si basavano sul presupposto di una chiara e netta riconoscibilità delle parti in causa. Bocchini negava questa evidenza: greci e latini erano completamente mescolati «in tutto ciò che ha rapporto alla società, o comunione sagra… quanto lo potrebbe essere se fosse una sola nazione»; il governo della Serenissima, a cui erano soggette le isole Ionie, «non vuole assolutamente che in conto alcuno si dica o si faccia qualunque atto dichiarativo di tenersi dai Latini per Scismatici questi Greci». Non limitandosi alla situazione locale, passava quindi al piano teorico generale: in base a quale criterio si sarebbe dovuto considerare qualcuno come scismatico? Non bastava la semplice appartenenza alla Chiesa greca, giacché non vi era alcuna sentenza o decisione solenne che la dichiarasse come scismatica, né essa stessa aveva mai affermato pubblicamente di volersi separare dalla latina. Mancando una dichiarazione formale, si poteva obiettare che il loro scisma constasse comunque in modo pubblico e notorio: ma, ribatteva il vescovo, l’unica dimostrazione in tal senso era la loro dipendenza dal patriarca di Costantinopoli – e dove si poteva leggere che questi fosse uno scismatico vitandus? L’uso dei greci era che ogni ministro nella celebrazione ricordasse il suo immediato superiore: se il patriarca non nominava il pontefice romano, questo errore non ricadeva sui suoi sottoposti. In numerosi atti, infine, Roma aveva dato segno di considerare come legittimi numerosi prelati orientali. Ma quand’anche si fosse voluto arbitrariamente definire come scismatici i greci di Zante e Cefalonia, monsignor Bocchini faceva presente che le condizioni richieste per la liceità della communicatio si ritrovavano tutte: regolare ordinazione dei sacerdoti, rito privo di errori, grave necessità ( «o bisogna comunicare, o bisogna sconvolgere sossopra le famiglie ed il paese, restare oppressi dal popolo, accendere nuovi odî contro la Chiesa, e divenire l’oggetto del risentimento del Principe»)57.
31Se già una tale argomentazione, che scaturiva dai semi piantati un secolo e mezzo prima da autori come Allacci, si rivelava interessante, ancor più lo è ai nostri occhi la risposta che uno dei consultori interpellati da Propaganda ebbe a vergare a riguardo. Vale la pena di riportarne un brano:
Ognuno quando sente proporre questo, e simili dubbi, come se gli Armeni, gli Abissini etc. siano scismatici, pensa che si proponga un dubbio semplicissimo ed individuo, che non ammetta altra risposta fuori di un assoluto sì o un assoluto no. Siccome non vi è strada di mezzo tra essere scismatico, e cattolico, così ognuno crede che non siavi mezzo tra l’affermare, e il negare, che un particolare, una comunità, una nazione, e nel caso nostro li Greci siano o non siano scismatici. Ma pure vi è questa strada di mezzo, ed il dubbio se li Greci siano scismatici, non è un dubbio semplice, individuo ed esclusivo di risposta diversa dal sì e no, ma è dubbio benissimo suscettibile di risposta che affermi: non sapersi, o non costare se siano o non siano scismatici. [...] L’esteriore apparenza delle azioni è l’unico oggetto al quale tenere l’occhio fisso per conoscere tanto ne’ morti, quanto ne’ vivi la fede, e carità che gli ha tenuti et tiene nel senso della Chiesa. E quest’oggetto può essere talmente confuso che, quanto più si osserva, tanto più si conosca da noi indeterminabile a scisma, o cattolicità, che però dovendosi decidere non possa rispondersi altro, che non costa né l’uno né l’altro58.
32Questa singolare ammissione dell’impossibilità di dirimere la questione, argomentata per oltre cento pagine, dovette imbarazzare i cardinali, che si limitarono a raccomandare di nuovo al vescovo l’osservanza dell’istruzione del 1729 senza ulteriori commenti, rinviando l’esame della materia ad una congregazione particolare che proprio allora stava affrontando problemi analoghi per gli armeni59. Per tutto il XVIII e alcuni decenni del XIX secolo, infatti, gli armeni furono i principali promotori di dubbi relativi alla communicatio, giungendo a letteralmente esasperare i teologi romani. Seguendo l’espansione missionaria, la pratica si era diffusa in ritardo rispetto ai greci e con lo stesso ritardo, per così dire, seguirono le elaborazioni dottrinali e teoriche volte a dimostrare la liceità dell’intercomunione, da cui si arrivò in qualche caso ad affermare non solo l’assenza di errori ereticali nella liturgia, ma addirittura la perpetua ortodossia e non-scismaticità della Chiesa armena, decisamente più difficile da provare di quanto lo non fosse per la greca60. Protagonista di questo sforzo fu, come si è già accennato, la congregazione mechitarista, che per questo pagò il prezzo di un eterno sospetto nei propri confronti da parte dei guardiani della fede: il 30 luglio 1770 Propaganda decise di imporre per via di giuramento ai monaci in partenza per le missioni l’osservanza del divieto di comunicare in divinis61.
33Nello stesso anno in cui monsignor Bocchini proponeva la sua riflessione, un amico e protettore dell’ordine lui stesso di origine armena, il marchese Giovanni de Serpos, dava alle stampe una Dissertazione polemico-critica sopra due dubbj di coscienza concernenti gli Armeni cattolici sudditi dell’Impero Ottomano in cui chiedeva in sostanza a Propaganda di concedere la possibilità di recarsi nelle chiese gregoriane in occasione di alcune festività solenni. L’opera tuttavia finiva per riguardare in generale la disciplina sulla communicatio e la stessa considerazione in cui si sarebbe dovuta tenere la Chiesa armena (di cui si negava la semplicistica divisione in una parte cattolica ed una scismatica ed eretica) e finì sotto l’esame del Sant’Uffizio, in una lunga e complicata causa che si allargò anche al successivo Compendio storico del de Serpos e via via anche ad altri scritti direttamente opera di mechitaristi62. Ciò che da molti non veniva perdonato ai monaci di San Lazzaro era l’ambiguità con cui si rapportavano ai connazionali non uniti e in generale la disaffezione all’idea stessa di una separazione netta tra cattolici e scismatici: a tal proposito il fondatore stesso, Mechitar, non aveva nascosto le sue perplessità al momento della creazione del patriarcato armeno-cattolico di Cilicia (1742), e nella corrispondenza degli anni precedenti aveva fatto chiaramente intendere che l’idea della divisione era molto lontana dal suo pensiero63. Questo non mancò di avere conseguenze: «Il P. Abbate – scrisse anni dopo un armeno, esagerando – spedì molte lettere in molti Paesi, dicendo che la nostra Nazione non è eretica, e per andare in Chiesa non abbiate scrupolo, ma che utile fece? Questo fu l’utile, che i poveri cattolici non sapevano se erano più cattolici o eretici»64. Ancora nel 1856, l’autore di un violento pamphlet contro i monaci di San Lazzaro commentava con aspro sarcasmo la loro indole irenica: «ogni Pagano ama il suo correligionario, ogni Mussulmano il suo, ogni Ebreo il suo, ogni Greco il suo, il solo Mechitarista Cattolico Cattolicissimo ama più lo Scismatico, che il Cattolico »65.
Una linea di demarcazione
34Il collegamento che è possibile istituire nel caso dei mechitaristi tra l’atteggiamento favorevole nei confronti della communicatio e quello sfavorevole alla creazione di comunità separate permette di tirare alcune conclusioni generali sul problema che abbiamo sinora affrontato. Tra il XVII e il XIX secolo il mondo cattolico sperimentò una progressiva divaricazione tra due differenti atteggiamenti cognitivi e pratici nei confronti degli acattolici orientali. Da una parte chi, bollandoli come «scismatici» tout court, ne osteggiava la frequentazione, ne riteneva invalidi i sacramenti e ne rifiutava le particolarità liturgiche, ritenendo all’inizio anche che solo l’adesione al rito latino potesse garantire l’immunità da deviazioni ereticali66: con il tempo quest’ultima posizione andò smussandosi a favore del riconoscimento della validità dei riti orientali, purché cattolicamente corretti, ma solo ed esclusivamente all’interno di un quadro gerarchico dipendente da Roma. In un certo qual modo, costoro non solo postulavano la disunione degli «scismatici», ma intendevano mantenerla come garanzia della cattolicità di tutti gli altri.
35Dall’altra parte, invece, si collocava chi cercava in ogni modo di attenuare questa separazione, prima sottolineando l’ignoranza e la pura materialità dello scisma per la maggior parte dei fedeli coinvolti, poi valorizzando la sostanziale correttezza delle loro celebrazioni e in ogni caso cercando di mostrare la liceità canonica di una qualche forma di communicatio in vista del maggior bene apostolico, almeno come tolleranza implicita. Da parte dei sostenitori di tale posizione, tra i quali buoni ultimi vanno annoverati appunto i mechitaristi, non si voleva rinunciare alla possibilità della frequentazione degli acattolici perché l’obiettivo ultimo rimaneva il ricongiungimento completo della Chiesa attraverso l’adesione della gerarchia già esistente, e non la sua sostituzione con un suo surrogato uniate.
36Roma cercò inizialmente di tenere insieme queste due visioni, salvando al contempo le esigenze dell’ortodossia e quelle dell’apostolato, ma alla fine optò decisamente per l’uniatismo, soluzione che più si confaceva al modello tridentino di confessionalizzazione allora in atto. Le incertezze e le contraddizioni che abbiamo visto periodicamente affiorare testimoniano però che tale scelta non fu affatto facile e non comportò la risoluzione di tutti i problemi teorici in gioco. Nell’istruzione più volte citata del 1729 si poteva leggere anche che, pur «conservandosi per lo più la sostanza e validità de sacramenti» nelle Chiese orientali, la communicatio in sacris con esse era proibita perché non permetteva «che si manifestino tutti quegli atti di disapprovazione e di segregazione propria ad un cattolico»67.
37L’elemento che dovette alla fine imporsi fu cioè la coscienza che la communicatio andava ad intaccare la stessa identità cattolica, non solo con la pratica (che in casi speciali, in effetti, poteva essere tollerata), ma anche e soprattutto con gli sforzi teorici di legittimazione, fondati sull’applicazione ad eretici e scismatici di una norma (la Ad evitanda) pensata per gli scomunicati cattolici, e sull’assottigliamento o la neutralizzazione delle differenze dottrinali o liturgiche – in definitiva, sull’erosione di quella linea di demarcazione necessaria a mantenere in vita i concetti stessi di «cattolico» e «scismatico».
Notes de bas de page
1 Navarrus [M. de Azpilcueta], Enchiridion sive manuale confessariorum et poenitentium, Roma, apud Victorinum Romanum, 1573, cap. 27, n. 35; Id., Consiliorum sive responsorum libri quinque, Roma, ex Typographia Iacobi Tornerii, 1590, vol. 2, p. 360: eam esse grandem quaestionem, et a nemine, quod sciam, ante nos tractatam (in realtà nel 1569 anche Domingo de Soto aveva citato la costituzione di Martino V, ma finendo per neutralizzarne gli effetti con una posizione che venne scarsamente seguita dai posteri: cfr. infra, p. 171). Per il testo latino della Ad evitanda, cfr. G.D. Mansi, Sacrorum Concilium nova et amplissima collectio, 54 vol., Parigi, expensis H. Welter, 1901-1927: vol. 27, col. 1192 e sg.
2 S. Antonino Pierozzi, Summa Theologica, Verona, Augustus Caratonius, 1740, pars III, tit. 25, cap. 3 (p. 1415); K.-J. Hefele, H. Leclerq, Histoire des Conciles d’après les documents originaux, t. VII/1, Parigi, 1916, p. 536: «Ce décret Ad evitanda scandala n’est pas un règlement général porté par le pape sacro approbante concilio, ce n’est pas non plus un décision conciliaire générale, mais c’est, en première ligne, un indult spécial accordé à la nation allemande, non par le concile, mais par le pape […] Les intentions du souverain pontife étaient, en outre: 1° que cet indult n’eût pas seulement force de lois pendant cinq ans, comme les autres dispositions du concordat germanique, mais qu’il demeurât perpétuellement en vigueur, et 2° qu’il profitât non pas seulement à l’Allemagne, mais à toute la chrétienté; et en effet les maîtres de l’Université de Paris ont adopté ce décret. D’ailleurs, comme suivant les derniers mots du concordat, on pouvait tirer de copies séparées des différents articles, il est probable que de nombreux exemplaires de ce décret Ad evitanda furent répandus, puisqu’il s’appliquait à tout le monde: de cette diffusion serait née l’idée que c’était une bulle spéciale» .
3 Per la discussione su quale versione fosse legittimo seguire, cfr. G. Höhle, Die Stellung der Kirche zur communicatio in sacris cum acatholicis nach der Constitutio Martins V. „ Ad evitanda “, Roma, 1938, p. 42 nota 25.
4 Ibid., p. 13-24.
5 P. Fagnani, Commentaria in Quintum Librum Decretalium, Colonia, sumptibus & typis Wilhelmi Metternich, 1704 (1a ed. Roma, 1661): De schismaticis et ab eis ordinatis, cap. I, nn. 53-56 (a suo dire il testo di Costanza è superato da quello lateranense o di Basilea) e n. 65. La sua posizione a riguardo, nettamente minoritaria tra i canonisti, verrà definitivamente criticata da Benedetto XIV nel 1752 (cfr. infra, p. 186-187).
6 D. de Soto, Commentariorum… in Quartum Sententiarum tomus primus, Salamanca, apud Joannem Baptistam a Terranova, 1569, vol. 1, dist. 22, quaest. I, art. 4 (p. 946-947) e vol. 2, dist. 25, quaest. I, art. 1 (p. 46): evitare non tenemur nisi nominatim excommunicatis (in quibus comprehenditur haeretici); F. Suárez, Opus de triplici virtute theologica, fide, spe, et charitate, Parigi, sumptibus Iacobi Cardon & Petri Cauellat, 1621, disp. XXI, sec. III, § 2, p. 750: At vero non omnes haeretici sunt per hominem judicati, praesertim in particulari, sed tantum ipso jure excommunicati sunt; ergo non possunt dici omnes denuntiati, etiamsi cogniti sint. Quapropter statuendum est hoc novum jus Concilii Constantiensis etiam ad haereticos extendi, ut reliqui auctores omnes censent; C.F. Camozzi (da Breno), Manuale Missionariorum Orientalium, Venezia, ex typographia Balleoniana, 1726, t. II, p. 278-89, §13.
7 J. Azor, Institutionum moralium... pars prima, Lione, apud Ioannem Pillehotte, 1602 (1a ed. Roma, 1600), pars I, lib. VIII, cap. 10, col. 853-854 e cap. 11, col. 858 e sg.; T. Sánchez, Opus morale in praecepta decalogi, Lione, sumptibus Iacobi Cardon & Petri Cavellat, 1621, lib. 2, cap. 9, n. 3 (ed. 1624, p. 114 e sg.); F. Albizzi, De inconstantia in iure admittenda, vel non. Opus in varios tractatos divisos, Amsterdam, sumptibus Ioannis Antonij Huguetan, 1683: De inconstantia in fide, tract. I, cap. 18 (p. 94-107) e cap. 20 (p. 111-115); J. de Lugo, Disputationes… de virtute fidei divinae, Lione, sumpt. haered. Petri Prost, Philippi Borde & Laurentii Arnaud, 1646, disp. 22, sect. I (p. 605 e sg.); Suárez, loc. cit.
8 M. Altieri, Disputationes… de censuris ecclesiasticis, Roma, D. Horatij Alterij R.F. sumptibus, 1616, vol. 2, disp. IX de suspensione, cap. 3 (p. 147); cfr. Höhle, Die Stellung, cit., p. 32-33.
9 R. Bellarmino, Disputationes… de controversiis Christianae fidei adversus huius temporis haereticos, Tertia controversia generalis, De summo pontifice, ora in Opera Omnia, Napoli, apud Josepho Giuliano, 1856 (1a ed. Ingolstadt, 1587), vol. 1, lib. II, cap. 30, p. 419-420 (Concilium autem Constantiense non loquitur nisi de excommunicatis, idest, de his qui per sententiam Ecclesiae amiserunt jurisdictionem: haeretici autem etiam ante excommunicationem sunt extra Ecclesiam, et privati omni jurisdictione); G. Pignatelli, Consultationes canonicae, sumptibus Samuelis et Gabrielis de Tournes, 11 vol., 1700 (1a ed. Roma, 1668-1697), vol. 8, consult. 80: Schisma et haeresis ex natura sua ante ullam excommunicationem praescindit... ab Ecclesia, privans eos omni jurisdictione.
10 Cfr. supra, p. 116-117. Sull’atteggiamento romano verso i riti orientali in età moderna e il processo di negoziazione preliminare alla loro accettazione, rimando ancora a Girard, Le christianisme oriental, cit.
11 Thomas a Jesu (T. Díaz Sánchez Dávila), De procuranda salute omnium gentium, Anversa, sumptibus viduae et haeredum Petri Belleri, 1613, p. 312-313: et cum ex altera parte non teneamur vitare Schismaticos, nisi nominatim sint excommunicati, aut alias scandalum oriatur, fit, virum latinum posse interesse sacrificiis Graecorum et Schismaticorum; p. 552: quamvis Ecclesiastica iurisdictione Haereticus careat, eo quod sit segregatus ab Ecclesia, potest tamen eam habere, si id Romanus Pontifex sive Ecclesia permittat aut concedat. L’opera di Tommaso di Gesù, fondamentale nella formazione di molti missionari, fu in seguito molto criticata dall’orientalista francese Eusèbe Renaudot nella sua Dissertation sur les Missions en Orient, composta tra il 1700 e il 1706 e pubblicata in N. Gemayel, Les échanges culturels entre les Maronites et l’Europe, du Collège maronite de Rome (1584) au Collège de Ayn-Warqa (1789), Beirut, 1984, t. 2, p. 862-888.
12 A.M. Verricelli, Quaestiones morales… seu Tractatus de apostolicis missionibus, Venezia, apud Franciscum Baba, 1656, quaest. 19, n. 5 (ingresso nei templi acattolici, assistenza ai riti: p. 88); quaest. 39-59 (vari dubbi sulla communicatio e sulle ragioni della liceità/proibizione: p. 136-167, cfr. in particolare quaest. 44, p. 145: Quamvis sacrificans sit schismaticus, aut haereticus, tamen id est extrinsecum sacrificio, nec tollit illud esse in se sanctum, ac Catholicum: sicuti ministrans Sacerdoti concubinario, non ideo approbat concubinatum); quaest. 85 (sull’applicabilità della Ad evitanda ai Greci: p. 206); quaest. 163 e 169 n. 3 (sul potere di giurisdizione dei prelati greci, p. 464-467, 492: Haereticum, aut schismaticum notorium non denunciatum, hodie non esse privatum iurisdictione, atque adeo valide absolvere, et licite, si alia inconvenientia cessent, fideles petere ab eo Sacramenta, praesetim poenitentiae […] Clementem VIII nihil hac de re determinasse, sed reliquisse disputationi Doctorum). A proposito di Verricelli, Ware nota che non è un caso che la sua opera uscisse a Venezia, e dubita che avrebbe potuto vedere la luce con il beneplacito di Propaganda e ancor meno del Sant’Uffizio: Ware, Orthodox and Catholics, cit., p. 270-271. Se il trattato missionario non fu censurato, un suo lavoro di teologia morale (Quaestiones morales et legales, in octo tractatus distributae, Venezia, apud Franciscum Baba, 1653) finì invece all’indice: Girard, Le christianisme oriental, cit., p. 394.
13 L. Allacci, De Ecclesiae occidentalis atque orientalis perpetua consensione, Colonia, apud Jodocum Kalcovium, 1648; P. Arcudio, Libri VII de concordia Ecclesiae occidentalis et orientalis in septem sacramentorum administratione, Parigi, apud Sebastianum Cramoisy, 1626; J. Morin, Commentarius de sacris ecclesiae ordinationibus, secundum antiquos et recentiores, Latinos, Graecos, Syros, et Babylonios, Parigi, sumptibus Gaspari Meturas, 1655; A. Arnaud, P. Nicole, La Perpétuité de la foy de l’Église catholique touchant l’eucharistie, Parigi, chez la veuve Charles Savreux, 1664. Cfr. Girard, Le christianisme oriental, cit., p. 62-79.
14 Allacci, De Ecclesiae occidentalis atque orientalis, cit., col. 979-980, 1059. In appendice all’opera era edita anche un’attestazione del domenicano Jacques Goar, residente a Chio tra il 1631 e il 1637, che affermava di aver somministrato in prima persona l’eucaristia sotto una sola specie ad alcuni diaconi greci (col. 1660: Addo non quod vidi, sed quod ipse feci, manibus meis in omnium praesentia palam et in Ecclesiae conspectu, Diaconis Graecis sacram Synaxin sub unica specie porrexi: quod ubi intellexit illorum Episcopus, nullatenus improbabit).
15 L. Allacci, Ioannes Henricus Hottingerus fraudis et imposturae manifestae convictus, Roma, typis Sac. Congreg. de Propaganda Fide, 1661, p. 6-7. Tra gli studi sull’Allacci, si vedano C.A. Frazee, The De ecclesiae of Leon Allatios. A Church History of the Seventeenth Century, in Greek Orthodox Theological Review, 29, 1984, p. 55-94 e K. Hartnup, “On the Beliefs of the Greeks”. Leo Allatios and Popular Orthodoxy, Leida-Boston, 2004.
16 … dici adhuc nequit secundum se Schismatica, cum semper in ea floruerint multi communionis participes Apostolicae, et nunc quoque magna cum laude floreant. Numquam hucusque publico se ab Ecclesia Decreto sejunxit; quemadmodum nec eam Ecclesia Romana anathemate publico damnavit. Multi Patriarchi post Photium in Sede Constantinopolitana sederunt Romanae sequaces authoritatis […] Multi Imperatori Romani culmen Primatus agnoverunt (Camozzi, Manuale Missionariorum, cit., vol. I, p. 83, § 412-413).
17 Galano, Conciliationis Ecclesiae Armenae cum Romana, cit.; si vedano le critiche al Galano sollevate negli ambienti vicini alla congregazione mechitarista, ad esempio da Giuseppe Cappelletti e Josip Marinović.
18 Tre anni dopo, il Guardiano di Terra Santa Gaetano da Palermo non mancava di sottolineare la contraddizione insita in una tale risposta: si enim non est licitum ad messas, et alia divina officia accedere in ecclesiis schismaticorum, a fortiori videtur non licere in eisdem ecclesiis celebrare, vel altari ministrare, ac cum schismaticis officia divina persolvere (APF, SOCG, vol. 565, c. 128v, 23 agosto 1708). La relazione di Gaetano da Palermo, seppur in forma di dubbi sottoposti alla risoluzione della Congregazione, è in realtà un lungo elenco di pratiche e affermazioni diffuse in materia di communicatio, così come il religioso le aveva apprese nel corso della sua visita nel Levante.
19 Il «consultore Damasceno» (1665-1715) partecipò alla fase iniziale della controversia sui riti malabarici, anche se è ricordato principalmente per il ruolo svolto nella controversia quietista e giansenista: cfr. L. Ceyssens, Autour de la bulle Unigenitus: Le P. Damascène Bragaldi, Conventuel (1665-1715)», in Bulletin de l’Institut historique belge de Rome, 51, 1981, p. 147-165; C. Santus, Les papiers des consulteurs, cit.
20 La lettera di trasmissione dei dubbi da Propaganda Fide al Sant’Uffizio è del 4 agosto 1707; venti giorni dopo i cardinali della Congregazione decisero di affidare la risoluzione delle questioni al Bragaldi. Cfr. ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. 10 (X), c. 67r-149v; M 3 i, fasc. 2; UV 52, c. 35r; APF, Biglietti del S. Offizio 1671-1710, c. 380 e sg. Il consultore Bragaldi aveva dovuto affrontare problemi simili posti dai missionari cappuccini in Persia e Georgia già alcuni anni prima: cfr. ACDF, SO, UV 20, c. 216r-231v (1699) e Windler, Missionare in Persien, cit., p. 614-617 e passim.
21 ACDF, SO, St. St., QQ 3 i, fasc. I, c. n. n.; UV 52, c. 37r-48v (voto di G.D. Bragaldi sui sette dubbi); M 3 a, c. 73r-74v, copia della lettera giunta a Propaganda dalla Persia.
22 ACDF, SO, St. St., UV 52, c. 73rv: motivum dubitandi et resolvendi illud esse… quod hucusque non satis exploratum est inter doctores an licitum sit communicare in divinis cum Haereticis et Schismaticis non denuntiatis, anque Episcopi et Parochi Haeretici et Schismatici careant iurisdictione post Extravagantem Martini V Ad evitanda, qua de re Cardinalis Albitius etiam ex praxi huius Supremae negative respondit in libro de Inconstantia in fide.
23 F. Albizzi, De inconstantia in iure admittenda, vel non, cit., tract. I, cap. 20, nn. 3 e 5 (p. 111-115); sull’importanza di Francesco Albizzi, cfr. L. Ceyssens, Le Cardinal François Albizzi (1593-1684): un cas important dans l’histoire du jansénisme, Roma, 1977 e V. Lavenia, Quasi haereticus. Lo scisma nella riflessione degli inquisitori dell’età moderna», in MEFRIM, 126-2, 2014, p. 307-324.
24 ACDF, SO, St. St., UV 52, c. 49r-69v, in particolare c. 60rv: Ratio vitandi haereticos et cum eis non communicandi in divinis non oritur dumtaxat a lege humana excommunicationis, sed a natura haeresis […] et propterea cum Concilio Constantiense non loquatur nisi de excommunicatis, idest de his qui per sententiam Ecclesiae sunt vitandi, non potest illius dispositio extendi ad haereticos. Haeretici siquidem, etiam praecisa excommunicatione, sunt extra Ecclesiam, et activa ac passiva communicationem praesertim in divinis cum catholicis sunt privati, cum sint proprio iudicio condemnati, hoc est praecisi a corpore Ecclesiae (originale con correzioni; copia in APF, Biglietti del S.Offizio 1671- 1710, c. 441r-466v).
25 Dubium: An supposita dispositione extravagantium Ad Evitanda, licitum sit Catholicis communicare cum haereticis et schismaticis in divinis […] Resolutio: Non licere, et monendi missionarii ut ab huiusmodi doctrina ac praxi omnino abstineant sub poenis arbitrio Sanctitatis Suae infligendis, et opportunum omnino videtur, tam pro dubiis de quibus agitur quam pro aliis ad praxim saltem Sacramentorum et communicationem cum haereticis in divinis spectantibus, quae passim a missionariis […] proponuntur, illorum conscientiae et Catholicorum salutem opportunam ac generali instructionem, mature prius examinandam ad instar instructionis Clementis Octavi pro Italograecis et Clementis Noni pro Regnis Sinarum consulere, et providere (ibid., c. 441rv). Quest’ultimo riferimento dovrebbe essere alla decisione con cui nel 1669 papa Clemente IX cercò di acquietare gli opposti schieramenti missionari a proposito dei riti cinesi, lasciando ai religiosi il compito di individuare quando fosse opportuno seguire le disposizioni restrittive formulate sotto Innocenzo X o quelle più tolleranti concesse da Alessandro VII. È da notare che proprio negli anni in cui il consultore vergava il suo parere la controversia tornava ad esplodere e che il Bragaldi fu chiamato ad esprimersi sia nel caso dei riti cinesi che in quello dei riti malabarici: Santus, Les papiers des consulteurs, cit.
26 ACDF, SO, St. St., UV 52, c. 74r-95v: Non enim alia causa adinveniri potest per quam ordinati ab Episcopis Haereticis et Schismaticis Orientalibus, cuiuscumque ritus sint, suspensione et irregularitatem incurrant, nisi illa quod ab Episcopis non habentibus iurisdictionem sacros susceperint ordines (c. 91v-92r). Copia del voto in M 3 i, fasc. 9.
27 ACDF, SO, St. St., UV 52, c. 96r. Le risposte ai singoli dubbi dei missionari di Isfahan furono decise nelle congregazioni del 14, 21 e 28 novembre 1709, e le risoluzioni trasmesse alla Propaganda il 2 gennaio 1710: ACDF, SO, St. St., M 3 a, c. 70r-71v; APF, Biglietti del S. Offizio 1671-1710, c. 382v-383r.
28 ACDF, SO, St. St., UV 54, fasc. 29: Quaeritur: An liceat Armeniis catholicis in sacris communicare cum Armenis schismatici? Alii absolute negant, alii ex parte concedunt. Nos a Sanctitate Vestra poscimus, tam gravis dubii solutione, a qua pendet, non in Armenia tantum, sed in toto pene Oriente, religionis missionumque aut conservatio, aut ruina. La risoluzione dei problemi sollevati fu affidata ancora una volta al Bragaldi, che stilò un voto (ibid., fasc. 28) dove ribadì la propria opinione contraria; ma non sembra che questo desse luogo ad un decreto specifico. Il memoriale di Villotte è analizzato anche da Windler, Missionare in Persien, cit., p. 370-374.
29 ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. XIV, c. 166r-416v. L’indagine prese avvio dall’esame di due dubbi sottoposti dall’Abate Mechitar alla Congregazione di Propaganda: analizzo nel dettaglio la vicenda infra, p. 390-417.
30 L’immagine del “cavallo di Troia” è evocata da Ware, Orthodox and Catholics, cit., p. 259-276 (p. 265); ma, come abbiamo visto, appartiene in effetti al lessico dell’epoca (cfr. supra la definizione usata a proposito degli allievi del Collegio Greco, p. 114).
31 Ad Aleppo, ad esempio, il gesuita Marc Antoine Treffons era uno strenuo oppositore della communicatio (cfr. W. De Vries, Eine Denkschrift zur Frage der ‘communicatio in sacris cum dissidentibus’ aus dem Jahre 1721, in Ostkirchliche Studien, 7, 1958, p. 253-266, p. 265), mentre i Francescani di Terra Santa la ritenevano accettabile: (cfr. la lettera di Yves de Lerne del 28 luglio 1722, Archivio di Propaganda Fide, Congregazioni Particolari, vol. 75, c. 427r-428r). Anche in Egitto, secondo la testimonianza di Benedetto da Teano, il «superiore di Terra Santa… permetteva ad alcuni cattolici, che havevano il compare heretico, d’andare a battezzare li loro figlioli dall’heretici» (APF, CP, vol. 76, c. 103r).
32 Cfr. M. Abagian, La questione della communicatio in sacris nel secolo XVIII e la formazione del patriarcato armeno cattolico, in Bazmavep, 139, 1981, p. 129-182; 141, 1983, p. 215-232; 146, 1988, p. 155-172; 147, 1989, p. 244-258; 148, 1990, p. 146-161, 413-418; 149, 1991, p. 461-476; 150, 1992, p. 202-214. Un difensore della communicatio formatosi però al Collegio Urbano fu invece Giovanni Gabudigh: ibid., 1990, p. 159-160. Sul carisma dell’ordine mechitarista, cfr. infra, p. 386-388.
33 ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. XIV, 272r-273v: lettera di «Minas Osghano sacerdote armeno alunno del venerabile collegio di Propaganda Fide, da Pera di Costantinopoli, 2 maggio 1721».
34 Si veda ad esempio come mons. Mauri, vicario apostolico di Costantinopoli, divideva i fedeli della capitale tra quanti si mostravano «constantissimi in non voler andare alle chiese de scismatici», quanti al contrario vi si recavano anche se solo per prestarvi una semplice assistenza materiale, e infine i «cattolici occulti», in niente distinguibili dagli altri «scismatici» (APF, SOCG, vol. 632, c. 165r-168r; cfr. anche M 3 a, 270r v, lettera del 9 maggio); cfr. anche l’opinione espressa nel febbraio 1721 del vardapet armeno Gasparo Vehrad, analizzata infra, p. 408.
35 … ipsi instruendi erunt, quod omnino abstinere debent ab actibus protestationis falsae sectae, et a communicatione in ritu schismatico et haeretico, a periculo perversionis et ab occasione scandali; hisque semper firmis et salvis, et prae oculis habitis, si ulterius gravem aliquod dubium occurat, doctores theologos et missionarios diu versatos in illis regionibus consulant. L’istruzione è edita in De Martinis, Iuris pontificii, cit., p. 290, n. DLIII; riporto il testo completo nell’Appendice online (1). Un avviso molto simile a quello dell’istruzione del 1723 era stato già dato il 12 gennaio del 1719 in risposta ai dubbi dell’abate Mechitar, da cui aveva preso il via l’indagine ricordata sopra: ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. XIV, c. 202rv.
36 «Ma nascendo tutta la differenza, come si è detto di sopra, dalla diversità delle opinioni de’ missionarj, il consultar questi in materia della detta communicazione, non solo non toglie le turbolenze, ma le fomenta maggiormente», come scrisse Carlo Uslenghi riassumendo la vicenda pochi anni dopo (APF, CP, vol. 75, 1729: «Ristretto addizionale per la Congregazione Particolare di Siria e Palestina overo de’ Greci Melchiti», c. 97v; cfr. Mansi, Sacrorum Concilium nova et amplissima collectio, cit., vol. 46, col. 20).
37 C. Sicard, Dissertation sur la communication qu’on peut avoir avec les hérétiques et schismatiques dans les prières et les sacrements. Au Caire, le 17 Juin 1725 (il testo è pubblicato in Mansi, Sacrorum Concilium, cit., vol. 46, col. 169-176 ed è stato ben analizzato da De Vries, Das Problem der„ communicatio”, cit., p. 89-91). La critica di Wengeler, inedita, è invece conservata in APF, CP, vol. 77, c. 103r-108v. Riporto entrambi i testi nell’Appendice online (5). Per comprendere meglio il contesto in cui nacque il pamphlet è molto utile fare riferimento alla corrispondenza dei missionari gesuiti in Egitto, ora edita, in Libois (ed.), Égypte (1700-1773), cit., così come allo studio di Hamilton, The Copts and the West, cit. (p. 85-91). Cfr. anche la pubblicazione delle scoperte di Sicard in campo egittologico, tra le prime nel suo genere: C. Sicard, Oeuvres, ed. M. Martin, 3 vol., Il Cairo-Parigi, Institut français d’Archéologie Orientale, 1982. Due mesi dopo la stesura della refutazione, Wengeler tornò a sottolineare la pericolosità dell’atteggiamento propugnato da Sicard in una lettera indirizzata al pontefice il 10 dicembre 1725: APF, CP, vol. 77, c. 257r-258v.
38 Si veda ad esempio quanto scrive il già citato Vehrad: «un’altra donna catolica nel medesimo modo comunicata per forza dal sacerdote scismatico, e doppo la di lui partenza cavò la particola dalla sua bocca e la misse drento d’un tozzo di pane, e per ludibro o aborimento della comunione portata dal sacerdote scismatico, diede quel tozzo di pane che haveva in sé la particola ad una zinghera» (ACDF, SO, St. St., M 3 a, fasc. XIV, c. 301v).
39 APF, CP, vol. 76, c. 85r-86r (Gerusalemme, 3 marzo 1724). Cfr. anche infra, p. 414.
40 C. Bacha, L’élection de Cyrille VI Thanas au patriarcat d’Antioche, in Échos d’Orient, 10, 65 (1907), p. 200-206; A. Girard, Quand les “grecs-catholiques” dénonçaient les “grecs-orthodoxes”, cit., p. 157-170.
41 «Istruzione per l’Oriente sopra la Communicazione in Divinis de’ Cattolici co’ Scismatici, ed Eretici»: la prima versione italiana (conservata in APF, CP, vol. 75, c. 157-163) fu modificata e approvata il 5 luglio 1729 (APF, CP, vol. 75, c. 165r-171v e ACDF, SO, M 3 a, c. 476r-483v); il testo finale in lingua italiana e latina è edito in: Mansi, Sacrorum Conciliorum, cit., vol. 46, col. 99-104 (il volume di Mansi è un’edizione degli atti della Congregazione super rebus Melchitarum). Riporto le due versione dell’istruzione nell’Appendice online (2 e 3).
42 Originale latino: vix ullus sit ritus apud heterodoxos, qui aliquo errore in materia fidei non maculetur. Una buona contestualizzazione e commento dell’istruzione si trovano in C. Korolevskij (ed.), Verbali delle Conferenze patriarcali, cit., p. 587-602, p. 587-602 e De Vries, Das Problem der„ communicatio in sacris cum dissidentibus” in Nahen Osten zur Zeit der Union (17. und 18. Jahrhundert), in Sonderdruck aus Ostkirchliche Studien, 6, 1957, p. 81-106.
43 ACDF, SO, St. St., M 3 b, fasc. VIII, c. 508r-538r, c. 537-538v: «Vero Processo della Processione delli Spizzani Cattolici con li Serviani nel giorno del Corpus Domini», 12 luglio 1751.
44 Ibid., c. 514r-524v (copia in H 4 d, n. 137). Bianchi era fresco autore di Della potestà e della politia della Chiesa trattati due contro le nuove opinioni di P. Giannone..., Roma, nella stamperia di Pallade, appresso Niccolò e Marco Pagliarini, 1745-1751. Sulle diverse sensibilità culturale del Bianchi e del Lambertini, si vedano i rispettivi profili stesi da M. Rosa, Benedetto XIV, s.v. in Enciclopedia dei papi, Roma, 2000, vol. 3, p. 446-461 e G. Ricuperati, Giovanni Antonio Bianchi, s.v. in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, 1968, vol. 10, p. 114-117.
45 Hinc SS.mus iterum deduxit, hanc cum schismaticis communicationem non posse omnino et in omni eventu conclamari prorsus illicitam. Il voto si concludeva con le parole: pro suo arbitrio et prudentia [Archiepiscopus] se gerat, ac dissimulet, ad peiora mala vitanda. Cfr. Collectanea S. Congregationis de Propaganda fidei, cit., §384, p. 226-227. L’identificazione del R. P. D. Quirino ricordato dal Pontefice con il vescovo Vincenzo Querini (1597-1618) è provata da un documento del 1634: APF, SOCG, vol. 206, c. 320rv.
46 Nel ricordare la conversazione con il Tolomei, Querini menzionava anche un’altra opera del cardinale Salerni, lo Specimen Orientalis Ecclesiae, pubblicato in due parti a Roma nel 1702 e 1706; nel 1724, interpellando il pontefice a proposito del modo di comportarsi nei confronti dei sacerdoti greci di Corfù che si facevano ordinare da metropoliti «scismatici», ricevette come risposta dal Tolomei una «lunga scrittura» del Salerni di cui non si cita il titolo, ma che giustamente Vittorio Peri esclude di poter identificare con lo Specimen edito; a mio parere rimane dunque la possibilità che si tratti della fantomatica Dissertatio, mai pubblicata (A.M. Querini, Commentarii de rebus pertinentibus ad Ang. Mar. S.R.E. Cardinalem Quirinum, 2 vol., Brescia, ex typographia Joannis-Mariae Rizzardi, 1749: vol. 2, libro I, cap. XI, p. 173-175, 190-195; V. Peri, Querini e la Vaticana, in Cultura, religione e politica nell’età di Angelo Maria Querini. Atti del Convegno Venezia-Brescia, 2-5 dic. 1980, Brescia, 1982, p. 33-190: p. 42 nota 34). A proposito dei rapporti particolari instaurati sull’isola tra il clero greco e latino, cfr. infra, capitolo 5.
47 ACDF, SO, St. St., M 3 b, fasc. IX, c. 558r-561v (10 maggio 1753): cfr. infra, p. 230 e Appendice online (4); Benedetto XIV, De Synodo Dioecesana libri octo, Roma, excudebant Nicolaus et Marcus Palearini, 1748, lib. VI, cap. 5, § 2, p. 179-180: fere impossibile est usuvenire, ut a flagitio excusari valeant catholici sese in rebus sacris cum haereticis et schismaticis immiscentes… vix unquam accidere potest, ut in praxi sit innoxia catholicorum cum haereticis communicatio in divinis. Cfr. Collectanea, cit., §389, p. 231-232.
48 Numerosi esemplari a stampa dell’istruzione del 1729 con il decreto del 1753 si conservano in ACDF, SO, St. St., H 4 d.
49 Il passo era basato anche sul divieto già ricordato di Paolo V ai cattolici inglesi. Poco dopo era comunque elencato un piccolo catalogo degli autori che avevano ritenuto lecita anche la frequentazione in divinis, purché alle note condizioni.
50 Si confronti la formulazione del ’48: Non idcirco tamen arbitrari debent catholici, fas quoque sibi esset cum iisdem haereticis consortium habere etiam in rebus sacris et divinis, con quella del 1756: non idcirco tamen arbitrari debent Catholici, fas sibi esse, indistincte cum haereticis, quamvis non denuntiati, in rebus sacris et divinis communicare (De Synodo Dioecesana libri tredecim, Ferrara, impensis Jo. Manfrè, 1756, vol. 1, p. 244, enfasi aggiunta). Georg Höhle nota la modifica, ma nel suo sforzo apologetico di difendere il divieto assoluto di communicatio (siamo negli anni ’30) non tiene conto della cronologia e finisce per credere che la versione più restrittiva sia quella più recente, cosa che evidentemente non è (Die Stellung, cit., p. 37).
51 Congregazione del 14 novembre 1754: ACDF, SO, St. St., M 3 b, fasc. XI; cfr. anche M 3 m, c. n. n., «Sira 1754». Il papa fu convinto da un voto (di cui purtroppo non è indicato l’autore) in cui tra l’altro si argomentava che «altro è tolerare, ed altro è dare positiva licenza, e facoltà» (M 3 b, c. 635v).
52 ACDF, SO, St. St., M 3 b, fasc. III, c. 43r-56v (voto Lucini) e c. 57r-65v (voto Besozzi); la citazione è tratta dal riassunto a c. 68rv. Idee simili venivano espresse ancora in un voto del 1756 da Giuseppe Maria Castelli, secondo il quale la Santa Sede «ha sempre considerato essere cosa sommamente pericolosa lo stabilire regole generali in cose alle quali mille diverse circostanze, a cui sono soggette, possono in mille modi far mutare di sembiante, e di sommamente ree farle divenire meno ree, ed anche talora innocenti» (M 3 b, fasc. XII, c. 686rv).
53 ACDF, SO, St. St., M 3 b, fasc. XV ( «Sopra il nuovo progetto d´impedire con riserve e censure la comunicazione in divinis dei cattolici con gli scismatici»), c. 784r. Riferendosi al testo del proposto decreto di interdizione, così commentava: «ove dicesi “La participazione ne’ riti intrinsecamente macchiati d’errore” mutarei in questi termini: “La participazione ne’ riti per lo più macchiati d’errori”. La S. Congregazione della Correzione de’ Libri Ecclesiastici Orientali ha ben osservato finora, quanto al rito greco, che prescindendo dalla festa dell’empio Gregorio Palama, e da qualche errore ne’ Sinassari e ne’ Menei, nel rimanente è netto di errori [...] E quanto alli sacramenti, l’istesso può dirsi degli Armeni, Siri e Copti. […] Il matrimonio de’ cattolici con gli eretici e scismatici è proibito non per Lege divina ma Ecclesiastica, onde il Sommo Pontefice può concederne la dispensa colle condizioni note a tutti» (c. 795r-796v).
54 Cfr. per esempio questo appunto del 6 aprile 1696: «vi sono decreti dei Papi, fatti nella Congregazione di Giovedì, che si rimandi da questa Sacra Congregatione del Sant’Offitio a quella di Propaganda la copia delli dubii havuti dalla medesima e le risposte di qua date, senza nota di giorno o di congregatione nella quale detti dubii sono stati proposti, e che si notifichi a mons. Segretario di Propaganda, che dovendosi mandare dette risolutioni a Missionari, o altri ministri, si mandino in forma d’instruttione, e non di definitione» (APF, Biglietti del S. Offizio 1671-1710, c. 106v, corsivo mio; il primo dei decreti in questione è quello del 17 settembre 1671: ACDF, SO, Doctrinalia, vol. 5, c. 278v e inserto lettera H; Dubia Varia 1669-1707, fasc. XVIII).
55 Cfr. C. Windler, Uneindeutige Zugehörigkeiten. Katholische Missionare und die Kurie im Umgang mit„ communicatio in sacris “, in A. Pietsch, B. Stollberg-Rilinger (a cura di), Konfessionelle Ambiguität. Uneindeutigkeit und Verstellung als religiöse Praxis in der Frühen Neuzeit, Gütersloh, 2013, p. 314-345: (l’espressione «Praktiken des Nichtentscheides» è a p. 341); cfr. ora Id., Missionare in Persien, cit., p. 607-625. Quindici anni prima Heyberger aveva analizzato lo stesso problema per Propaganda, arrivando diversamente però alla conclusione che le tattiche dilatorie fossero causate da dubbi circa l’attendibilità delle informazioni provenienti dalle missioni: B. Heyberger, Pro nunc, nihil respondendum. Recherche d’information et prise de décision à la Propagande: l’exemple du Levant (XVIIIe siècle), in MEFRIM, 109-2, 1997, p. 539-554.
56 APF, Biglietti e Risolutioni del S. O. tomo I°, c. 196r-199v (il titolo è sul retro del fascicolo, c. 199v; sul davanti si legge: «Feria V, 27 Junii 1771. Sommario»). Da notare che la metà dei responsi elencati risaliva proprio al pontificato Lambertini.
57 APF, SOCG, vol. 868, c. 275v-290v (ristretto del 22 novembre 1784, da cui derivano le citazioni), c. 300r-318r (lettera integrale del 29 dicembre 1783); SC, Isole Ionie, 1, c. 144r-164r; ACDF, SO, St. St., M 3 m, fasc. «Morea», c. n. n.
58 «Quando si cerca, se li Greci siano scismatici, non si ricerca già, se avanti Dio siano tali. A questo dubbio non vi è risposta di mezzo tra l’essere e non essere. Quel che cercasi è, se dagli uomini debbano giudicarsi scismatici. [...] E certamente in quella stessa maniera, nella quale da ciò che si sa delle gesta, ed azioni dei morti, può restare nel buio dell’incertezza la di loro fede, religione, unità colla Chiesa, etc., può ancora da ciò che sappiamo delli Greci viventi rimanere involta tra le medesime tenebre d’incertezza la fede ed unità di questi» (APF, Miscellanee Varie, VII, c. 109r-176v: 113r-114v, enfasi aggiunta. Alle c. 177r-218v è conservato invece il parere decisamente negativo di un altro consultore, anch’esso anonimo).
59 APF, Acta, 1784, c. 596rv (22 novembre 1784).
60 All’inizio del XIX secolo il padre mechitarista Mik‘ayēl Č‘amč‘ean ( «Michele Ciamician») nel suo Vahan hawatoy (Scudo della fede) provò appunto a «manifestare che la Chiesa Armena in vari stati di prosperità e di avversità, benché abbia sofferto molte tempeste, ciò nonostante non deviò dalla strada della retta fede e de’ buoni costumi che ricevè dal Santo Illuminatore», cercando di giustificare anche i punti più scabrosi, come il rigetto di Calcedonia o la questione del primato papale. Il manoscritto fu scoperto nel 1816 e sottoposto ad un accurato esame da parte degli inquisitori (la citazione viene dalla traduzione fatta all’uopo); nel maggio 1819 venne esplicitamente condannato, con lo stratagemma di disconoscerne la paternità del mechitarista: cfr. ACDF, SO, St. St., O 7 a/b/c/g e QQ 3 i; APF, SC, Armeni-Miscellanea, vol. 31. L’opera circolò comunque in copia; se ne conosce solo un’edizione, stampata nel 1873 a Calcutta, significativamente per mano di armeni non cattolici: cfr. A.K. Sanjian, Medieval Armenian Manuscripts at the University of California, Los Angeles, Los Angeles, 1999, p. 12.
61 APF, Acta, 1770, c. 321v; SC, Armeni, vol. 19, c. 395r-397r; la necessità del giuramento fu ribadita con ancor più forza il 13 settembre 1779: Non posse a P. Abbate S. Lazari Venetiarum mitti suos monachos ad missiones exercendas, nisi prius ab Apostolico Nuntio eiusdem civitatis examinati atque huic muneri idonei fuerint reperti, et iuramentum in manibus eiusdem Nuntii emiserint de non communicando in divinis cum haereticis vel schismaticis (Acta, 1779, c. 209v-210r). Si deve dunque correggere Korolevskij (ed.), Verbali delle Conferenze, cit., p. 606, che ipotizzava una data successiva al 1783.
62 G. de Serpos, Dissertazione polemico-critica sopra due dubbj di coscienza concernenti gli Armeni cattolici sudditi dell’Impero Ottomano, presentata alla S.C. di Propaganda dal marchese Giovanni de Serpos, Venezia, nella stamperia di Carlo Palese, 1783; Id., Compendio storico e cronologico di memorie concernenti la religione e la morale della nazione armena…, 3 vol., Venezia, nella stamperia di Carlo Palese, 1786. Un ruolo fondamentale nella stesura dei testi dovette averlo l’abate Josip Marinović di Perasto, ex gesuita, sotto il cui nome sono a volte indicizzati. È da notare come nel Compendio storico (vol. 1, p. 377, 399-402) si faccia riferimento al voto anonimo sui greci di Cefalonia sopra citato: è possibile dunque che anche in quel caso ci sia la sua mano. Per gli sviluppi della querelle e il coinvolgimento di altri autori, cfr. infra, p. 422-425. La Congregazione particolare sulla vicenda era composta da quattro cardinali e altrettanti consultori: cfr. ACDF, SO, St. St., QQ 3 g, QQ 3 h.
63 Si veda a riguardo la sua lettera del 2 novembre 1742 citata infra, p. 388, ma in generale anche quella del 22 febbraio 1721: cfr. B.L. Zekiyan, Armenians and the Vatican during the Eighteenth and Nineteenth Centuries. Mekhitar and the Armenian Catholic Patriarchate: The challenge of Mechitarian ecumenism and Latin-Roman loyalty, in Het Christelijk Oosten, 52-3/4, 2000, p. 251-267, nota 19.
64 ACDF, SO, QQ 3 g, c. n. n., lettera del 20 dicembre 1785 di Paolo Giher: «Il loro p. Filippo venne in Ancira dicendo che la nostra nazione non è eretica, e l’andare in chiesa non è peccato, ma che utile fu? Non fu altro utile che questo: quelli che andavano in chiesa furono fatti inimici con quelli che non andavano». Non è chiaro se con «P. Abbate» Giher si riferisse al fondatore o al suo successore allora in carica. Per la posizione di Mechitar, più complessa di quanto è stato possibile presentare qui, si vedano le pagine di Abagian, 1991, p. 461-476.
65 Cfr. G.C. Vuccino, Il Mechitarista di San-Lazzaro di Venezia: osservazioni critiche sopra l’opuscolo intitolato Memoria diretta a sviluppare i motivi delle imputazioni che si riproducono a carico della Congregazione dei Monaci Armeni Mechitaristi, Livorno [ma: Galata, Costantinopoli], s.e., 1852, p. 97. Il pamphlet era in realtà opera dei sacerdoti armeni Paolo Malachian e Stefano Azarian: J.-M. Hillereau, Inchiesta giuridica sulla compilazione e la pubblicazione del libello intitolato: Il Mechitarista di S. Lazzaro…, Costantinopoli, dai torchi di San-Benedetto, 1852.
66 Cfr. quanto si legge nella supplica di un anonimo missionario armeno di inizio Settecento: Ritus latinus fuit, et est, vinculum qui Armeni… Ecclesiae Romanae obstricti maneant, ut inter haereticos in fide Catholica perseverant (APF, SC, Armeni, vol. 5, c. 351: Abagian, 1990, p. 152).
67 Mansi, Sacrorum Conciliorum, cit., vol. 46, 1811, col. 101 (alla col. 102 l’originale latino: licet adhuc substantiam ac valorem sacramentorum plaerumque conservent, non sinunt tamen ut ea, quae debent, catholici improbationis et segregationis signa exterius edant).
Notes de fin
1 Una versione ridotta di questo capitolo è già stata pubblicata: C. Santus, La communicatio in sacris con gli «scismatici» orientali in età moderna, in MEFRIM, 126-2, 2014, p. 325-340.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
De la « Cité de Dieu » au « Palais du Pape »
Les résidences pontificales dans la seconde moitié du XIIIe siècle (1254-1304)
Pierre-Yves Le Pogam
2005
L’« Incastellamento » en Italie centrale
Pouvoirs, territoire et peuplement dans la vallée du Turano au Moyen Âge
Étienne Hubert
2002
La Circulation des biens à Venise
Stratégies patrimoniales et marché immobilier (1600-1750)
Jean-François Chauvard
2005
La Curie romaine de Pie IX à Pie X
Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux
François Jankowiak
2007
Rhétorique du pouvoir médiéval
Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XVe siècles)
Benoît Grévin
2008
Les régimes de santé au Moyen Âge
Naissance et diffusion d’une écriture médicale en Italie et en France (XIIIe- XVe siècle)
Marilyn Nicoud
2007
Rome, ville technique (1870-1925)
Une modernisation conflictuelle de l’espace urbain
Denis Bocquet
2007