Capitolo 2. Roma e l’Oriente
p. 104-183
Texte intégral
1La storia dei rapporti tra l’Oriente cristiano e Roma è un universo ampio e magmatico, dove è difficile districarsi: sia per l’ampiezza, l’eterogeneità e la complessità della prima categoria presa nel suo divenire storico, come abbiamo visto nel capitolo precedente, sia perché l’atteggiamento della Chiesa cattolica non è mai stato univoco a questo riguardo, variando a seconda delle circostanze e degli attori considerati. Qui non si intende ripercorrere le varie dichiarazioni del magistero pontificio sulle Chiese orientali, quanto piuttosto cercare di mettere in evidenza le tortuosità e le ambiguità con le quali il mondo cattolico dovette fare i conti nelle sue relazioni con greci, armeni, siri e altri.
2Per fare questo è giusto iniziare con il momento fondativo della «riscoperta» europea dei cristiani orientali, ovvero le crociate e la conseguente prima ondata missionaria diretta verso gli orientali1. Per i vertici della Chiesa di Roma ciò costituì in particolare il momento in cui per la prima volta si posero concretamente due questioni, ovvero il problema teorico di come considerare i fedeli orientali e la loro gerarchia e la possibilità pratica di provare a ricondurli all’ «Unione», ovvero in sostanza sottoporli all’obbedienza papale – come avvenne ad esempio con i maroniti all’inizio del XIII secolo con la bolla Quae divinae Sapientiae di Innocenzo III. Tuttavia, ciò che è ancora più interessante è la realtà concreta che si produsse allora nei territori latini del Levante, ovvero una convivenza sviluppata secondo modalità non previste o sovente contraddittorie rispetto ai principi che avrebbero dovuto informare il funzionamento di quelle società. Ai fini della ricerca che qui si presenta, si tratta di una sorta di «archeologia della communicatio in sacris», tanto più significativa quanto alcuni dei caratteri di questa esperienza medievale permarranno ugualmente anche in età moderna, seppur in contesti storici radicalmente diversi, per non dire opposti.
L’eredità medievale: convivenza pratica, dibattiti dottrinali e scambi culturali nei territori del Levante
3Nel corso degli ultimi anni la storiografia sul Levante medievale si è sempre più concentrata sulla questione della convivenza e degli scambi culturali tra le diverse comunità etnico-religiose, stimolata in questo anche dai dibattiti teorici intorno all’esistenza o meno di una unità geografica, economica o culturale mediterranea, un tema inaugurato nel dopoguerra dall’opera fondamentale di Braudel e rilanciato con nuove proposte metodologiche all’inizio di questo secolo2. Particolare interesse sembra aver suscitato la questione dei rapporti storici tra le tre religioni monoteiste fiorite proprio nello spazio mediterraneo, problematica resa urgente e necessaria anche dagli stimoli provenienti dall’attuale situazione geopolitica3. Se la scoperta di inedite possibilità di convergenza tra ebrei, cristiani e musulmani (legate ad esempio al sorgere e persistere di santuari o pratiche devozionali comuni)4 è apparsa tanto più significativa quanto più ampia sembrava l’alterità esistente o postulata, non bisogna sottovalutare l’importanza di contatti di questo genere anche all’interno del mondo cristiano stesso, dato che le differenze tra simili possono essere più difficili da superare di quelle tra diversi5. Quest’ultima osservazione sembrava ad esempio essere condivisa fino a non molto tempo fa dalla maggioranza degli storici interessati a descrivere la situazione dei cristiani orientali nei principati latini del Levante, stabiliti in seguito alla prima crociata (1096-1099). Già secondo Steven Runciman, le condizioni di vita di quanti erano passati dalla dominazione dei califfi musulmani a quella dei «franchi» erano addirittura peggiorate, dato che questi ultimi non si limitavano a discriminarli come sudditi di seconda classe, ma intervenivano pesantemente anche sulla loro autonomia religiosa, sostituendo o subordinando il clero orientale autoctono a quello latino importato dall’Europa6. Grazie ai lavori di uno studioso come Joshua Prawer, nei decenni seguenti raggiunse ampia diffusione l’interpretazione secondo la quale nei territori crociati sarebbe stato messo in atto un rigido regime segregazionista, una formulazione nella quale peraltro si rispecchiava il clima politico degli anni ’70 e si attuava neanche troppo implicitamente una proiezione sulla Francocrazia medievale dell’imperialismo coloniale europeo del XIX secolo e della situazione israelo-palestinese7.
4Pur senza negare l’esistenza di chiare gerarchie teoriche e di un’ineguaglianza di fondo (peraltro propria di tutte le società medievali e moderne d’ancien régime), nuovi studi hanno rovesciato o messo in discussione il quadro presentato, mostrando come le relazioni tra i cattolici latini e i cristiani orientali fossero decisamente più ricche e complesse di quanto sospettato8. Un esempio recente ne è il libro di Christopher MacEvitt a proposito del singolare modus vivendi stabilito in Terra Santa nel secolo successivo alla prima crociata, particolarmente nella Contea di Edessa9. La tesi dell’autore è che la violenza utilizzata dai franchi verso le comunità indigene non impedì ai primi di accettare con pragmatismo compromessi e adattamenti alla realtà locale, mettendo in atto una serie di comportamenti che sarebbero stati inaccettabili nelle loro terre d’origine. Ecco così che un nobile latino come il conte Baldovino di Marash scelse come proprio confessore un prete armeno mai formalmente convertitosi al cattolicesimo, al quale fu anche affidato il compito di tenere l’orazione funebre in suo onore; che nel 1156 una famiglia latina costruì un monastero in onore di un santo giacobita, Barsauma, ritenendolo responsabile della guarigione miracolosa del proprio figlio; o ancora che un vescovo melchita di Gaza ottenne dal Gran Maestro dei Cavalieri Ospitalieri il permesso di essere seppellito come uno di loro. Al di là di questi esempi aneddotici, le testimonianze documentarie e l’evidenza archeologica sembrano attestare come nei contesti rurali e nelle città più piccole fedeli latini e orientali condividessero le stesse chiese o addirittura partecipassero alla stessa liturgia e che i signori franchi fossero direttamente responsabili della fondazione o ricostruzione di alcuni santuari e monasteri locali, dove cristiani di diversa lingua e rito si recavano in pellegrinaggio10.
5MacEvitt ritiene che questo tipo di fenomeni sia stato il prodotto di un’attitudine che propone di chiamare «rough tolerance»: lungi dall’essere qualcosa di anche lontanamente comparabile al concetto di multiculturalismo o all’idea di tolleranza come emersa nell’età moderna, questo termine nelle sue intenzioni vuole indicare un atteggiamento eminentemente pratico e non definito teoricamente, anzi costruito sull’ignoranza delle specificità religiose del cristianesimo orientale e mantenuto tramite l’indifferenza o piuttosto la sottovalutazione delle sue diversità dottrinali. Questo permise alle prime generazioni di crociati di evitare di sviluppare una retorica di contrapposizione con gli autoctoni, evidenziando al contrario più spesso gli elementi in comune ed evitando che gli occasionali scoppi di violenza si generalizzassero11.
6Un tale atteggiamento era riconosciuto e condiviso anche dagli stessi cristiani orientali, particolarmente da quelli in teoria più lontani dogmaticamente, come i «monofisiti» giacobiti e armeni. Il patriarca siro Michele il Grande (1166-1199) si spinge nella sua cronaca fino a lodare i «franchi», che non avevano maltrattato il clero della sua chiesa e che «nonostante fossero d’accordo con i greci sulla duplicità della natura di Cristo… non facevano problemi su questioni di fede e non cercavano [di imporre] una formula unica per tutti i popoli cristiani, ma consideravano come cristiano chiunque adorasse la croce, senza ulteriore indagine o esame». Reciprocamente, quando nei primi anni del XII secolo il patriarca siro di Antiochia Atanasio VII scomunicò il vescovo di Edessa, i fedeli della città decisero di battezzare i loro figli nelle chiese latine, temendo che i sacramenti impartiti dai sacerdoti giacobiti avessero perso di valore, cosa che evidentemente non temevano di quelli amministrati dai «franchi»12.
7Al di là del giudizio sull’appropriatezza dell’etichetta storiografica, interessa qui sottolineare come l’esistenza di questi fenomeni di communicatio in sacris venga ricondotta da MacEvitt alla presenza di alcuni fattori determinanti, quali il pragmatismo determinato dalle varie situazioni locali e soprattutto il volontario mantenimento di un’incertezza di fondo riguardo allo status dei cristiani orientali, incarnato dal «silenzio» delle prime cronache latine delle crociate a loro riguardo e dalla scelta di utilizzare criteri linguistici, anziché religiosi, nell’evocarli13. Questa strategia sarebbe stata neutralizzata nel secolo successivo dall’arrivo di ecclesiastici europei portatori di un atteggiamento sempre più intransigente: basta confrontare l’aspra censura dei giacobiti come eretici fatta nel 1219 dal vescovo di Acri Jacques de Vitry nella sua Historia Hierosolimitana con l’amicizia che aveva invece legato quarant’anni prima il patriarca siro Michele ai suoi colleghi latini di Gerusalemme e di Antiochia14. Ma a rompere l’equilibrio della «rough tolerance» sarebbe stata per MacEvitt anche la maggiore conoscenza reciproca delle diversità, paradossalmente scaturita dai tentativi di accordo ecumenico intrapresi sotto il lungo regno dell’imperatore bizantino Manuele I Comneno (1143-1180). Gli sforzi del basileus per intavolare trattative finalizzate alla riunione delle Chiese orientali (e quindi all’espansione della propria autorità) provocarono infatti da una parte aperture ireniche e dall’altra reazioni di chiusura identitaria: ne è un esempio eccellente il dialogo avvenuto allora tra il vescovo siro Dionisios bar Salibi e il monaco Ishô‘, laddove mentre quest’ultimo si faceva propugnatore di un atteggiamento volto a negare l’esclusività dell’ortodossia di una o dell’altra Chiesa, il primo non esitava a bollare come eretici tutti gli altri gruppi cristiani, e particolarmente i greci15.
8Un processo analogo, oscillante tra la tendenza a mutuare concetti e pratiche dall’interlocutore o al contrario ad evidenziare le differenze per radicalizzare la propria diversità, è osservabile per la Chiesa armena nel periodo del Regno di Cilicia. Nel corso dell’XI secolo, infatti, sulla regione mediterranea della Cilicia (nel golfo dell’odierna Iskenderun) si era costituita una «piccola Armenia» fatta soprattutto di emigrati in fuga dalle invasioni selgiuchidi e di eredi delle deportazioni organizzate dai bizantini. Il caos successivo alla disfatta di Manzikert (1071) vide la nascita di alcuni piccoli principati armeni autonomi, spesso retti da militari che precedentemente erano stati al servizio di Bisanzio, finché la dinastia dei Rubenidi riuscì ad imporsi e a creare un dominio unitario, grazie soprattutto alla collaborazione decisiva con gli stati latini sorti in seguito alla Prima crociata16.
9Durante questo periodo la Chiesa armena spostò la sua sede in Cilicia e fu costretta a confrontarsi prima con i bizantini e poi con la Chiesa romana. Una figura centrale è in questo senso quella di Nersēs Šnorhali, fratello del kat‘ołikos Grigor III e poi kat‘ołikos lui stesso tra il 1166 e il 1173. In uno scambio epistolare con l’imperatore bizantino Manuele I e poi in una serie di incontri con il delegato di questi Theorianos, Nersēs cercò di spiegare come secondo lui armeni e greci condividessero la stessa cristologia, indipendentemente dai malintesi creati dalla definizione di Calcedonia17. Le divisioni a questo soggetto erano infatti causate più che altro da diversi modi di esprimere lo stesso concetto: che si dicesse che Cristo aveva una sola natura inconfusa, come facevano gli armeni e i giacobiti, o due nature indivisibili, come i greci e i latini, il significato era lo stesso, cioè la perfetta umanità e divinità del Salvatore18. Le differenze rituali tra le Chiese erano a quel punto di minore importanza e per mantenere buone relazioni e arrivare veramente all’unione bisognava in quibusdam indulgere, quae fidem non violant19. Posizioni analoghe erano allora tenute anche da esponenti della gerarchia siro-giacobita, come attestano alcuni scritti di al-Arfâdî e Barhebraeus20; per quanto riguarda la Chiesa armena esse non scompariranno con la morte dello Šnorhali, dato che si ritrovano non solo nel suo nipote e arcivescovo di Tarso, Nersēs di Lambron (1153-1198), ma ancora quasi cinque secoli dopo nella corrispondenza tra il kat‘ołikos Movses IV di Tat‘ew e papa Urbano VIII: nella lettera mandata dal primo al secondo il 17 agosto 1626 si può infatti leggere: «Noi non siamo eretici o scismatici, come pensate voi, ma siamo ortodossi, secondo la professione dei nostri Padri spirituali… mentre noi diciamo una natura senza confusione, voi dite due nature senza separazione. E [ugualmente] corretto è il senso di entrambe le espressioni»21.
10Proprio verso la Chiesa cattolica si indirizzò presto l’interesse della Chiesa armena di Cilicia, particolarmente dopo che i rapporti con i bizantini si furono guastati per l’intolleranza dimostrata dai successori di Manuele I e per la rivalità politica provocata dalla presenza del nuovo regno armeno. Per sopravvivere, quest’ultimo necessitava strategicamente dell’alleanza fornita dai vicini principati crociati, così come di un supporto materiale e morale da parte dell’Europa cattolica. Dopo lunghe trattative, nel 1198 il principe Lewon Mecagorc (Leone il Magnifico) riuscì ad ottenere che il papa Celestino III e l’imperatore germanico Enrico IV gli riconoscessero il titolo di re, che rimase ai suoi successori e poi alla famiglia degli Hetumidi fino alle metà del Trecento. Il prezzo da pagare era stata l’unione della Chiesa armena con quella romana, ratificata due anni prima a Tarso da un sinodo di dodici vescovi. Già in precedenza, comunque, la corrispondenza tra i papi e i kat‘ołikos sembra mostrare come i primi considerassero i secondi sostanzialmente ortodossi, limitandosi a domandare modifiche di carattere liturgico o rituale, come l’infusione dell’acqua nel calice eucaristico e la celebrazione del Natale il 25 dicembre. I contatti sempre più stretti stabiliti dopo l’unione e l’arrivo di religiosi europei (soprattutto francescani) determinarono la necessità da parte della Chiesa armena di far fronte ad una serie di questioni che in precedenza non si erano mai poste praticamente, come la coscienza del fatto che Roma intendeva il proprio primato non solo in senso onorifico (qualcosa che i kat‘ołikos avevano sempre riconosciuto), ma in modo reale e giurisdizionale, così come l’urgenza di difendere i propri usi tradizionali dalle critiche latine.
11Si ebbero così nel tempo tre diversi tipi di reazioni: innanzitutto, l’adozione più o meno cosciente di elementi occidentali nel rito – come l’introduzione a partire dal XIII secolo di una parte iniziale nella Divina Liturgia mutuata in modo chiaro dalla Messa romana, compreso il salmo 42 e la versione armena del Confiteor – e negli stessi paramenti ecclesiastici come la mitra episcopale, adottata in seguito ad un dono fatto da papa Lucio III al kat‘ołikos Grigor IV (1173-1193). Accanto ad influenze derivanti direttamente dalla pratica degli ordini religiosi occidentali (come l’uso domenicano di concludere la celebrazione con il prologo del Vangelo di Giovanni, diffuso tra gli armeni a partire dal Trecento grazie alle missioni dei Fratres Unitores nella regione del Naxiǰewan), ve ne furono anche altre non subite passivamente, ma spesso rielaborate. È il caso della formula assolutoria del sacramento della penitenza, dove la preghiera deprecativa tipica dei riti orientali (in cui cioè il sacerdote prega Dio di assolvere il penitente) venne sostituita a partire dal XV secolo da una indicativa (in cui cioè il celebrante ha un ruolo diretto nel rimettere i peccati, come nella tradizione occidentale) nella quale però persistono tuttora elementi deprecativi22. A questo tipo di influenza creativa si può accomunare il secondo tipo di reazione, ovvero il tentativo di difendere gli usi tradizionali del popolo armeno e la stessa autorevolezza e ortodossia della sua gerarchia non in opposizione a Roma, ma paradossalmente proprio in rapporto ad essa, mostrando ad esempio che alcune particolarità provenivano dagli antichi contatti tra le due Chiese. È in questo contesto ad esempio che prende vita la falsa Lettera di amore e concordia, volta a fornire una base documentaria per la leggenda dell’incontro tra san Gregorio Illuminatore e papa Silvestro e dell’alleanza tra l’imperatore Costantino e il re Tiridate; un testo destinato a nutrire a lungo la propaganda cattolica, tanto da venire stampato ancora nel XVII secolo in edizione bilingue armeno-italiana23. Infine, i contatti politici ed ecclesiali tra il mondo armeno e quello latino non incontrarono però sempre il favore di tutti, e in particolare le «innovazioni» liturgiche o i compromessi dottrinali suscitarono aspre opposizioni, concretizzatesi in una riaffermazione della propria diversità. Questo accadde non solo in Cilicia (con frequenti scontri tra la monarchia e la gerarchia ecclesiastica) ma anche e soprattutto nei monasteri della Grande Armenia, che si fecero centro della resistenza alle prime missioni degli ordini mendicanti: è il caso di Glajor, retto tra il 1284 e il 1338 dal vardapet Esayi Nč‘ec‘i, dove si formarono molti ecclesiastici decisamente avversi all’unione con la Chiesa romana24.
12Passando a considerare le relazioni tra greci e latini nel Mediterraneo, bisogna premettere che nel 1204 i territori conquistati all’Impero bizantino erano stati suddivisi tra i partecipanti alla crociata (partitio Romaniae), così che quasi tutte le coste e i principali approdi mediterranei erano in mano a nobiluomini di origine francese o italiana, se non dominio diretto della Repubblica di Venezia. Con diverse sfumature a seconda delle circostanze locali, si può dire comunque che quasi ovunque la Chiesa romana avesse accompagnato i nuovi signori nella posizione dominante, relegando quella greca ad una funzione ancillare ancorché fondamentale, dato che la vasta maggioranza dei fedeli continuava ad essere di rito greco e che non vi furono mai particolari tentativi di latinizzarli. Questo non impedì peraltro che in alcuni casi si sviluppasse un processo di integrazione delle élites locali, scavalcando gli steccati ecclesiali grazie alle cerimonie comuni e soprattutto ai matrimoni misti25.
13Sull’isola di Negroponte (Eubea) tutto il popolo partecipava alla cerimonia di benedizione dell’acqua in occasione della Teofania/ Epifania, il 6 gennaio; nel principato di Acaia (Peloponneso), i cattolici latini divennero così assidui nel partecipare alla liturgia dei greci e nell’utilizzare indiscriminatamente le loro chiese che nel 1322 papa Giovanni XXII mise per iscritto la sua indignazione a riguardo26. Ancor più significativo è il caso dell’isola di Cipro, strappata ai bizantini dal sovrano inglese Riccardo Cuor di Leone e finita in mano prima ai Templari e poi alla nobile famiglia francese dei Lusignano, già re di Gerusalemme: i vari gruppi cristiani orientali che abitavano città come Nicosia o porti mercantili come Famagosta si riunivano intorno alla devozione per alcune reliquie (come la croce del Buon Ladrone) e per i santi locali (gli antichi Barnaba, Epifanio e Ilarione ma anche i beati Jean de Montfort e Pierre Thomas, carmelitano e patriarca latino morto nel 1366), oltre a sfilare insieme in occasione di processioni volte a scongiurare epidemie o disastri naturali27. Anche qui i latini si sposavano con i greci, ricevevano da loro i sacramenti e partecipavano ai loro funerali, come denunciano alcune lettere di papa Urbano V all’arcivescovo di Nicosia (1368); ancora mezzo secolo dopo papa Martino V si lamentava dei sempre più cospicui passaggi di rito da parte di fedeli che non riconoscevano più una vera distinzione tra le due Chiese. Lo stesso valeva per il clero e i religiosi, se dobbiamo credere alla testimonianza tardoquattrocentesca del domenicano Felice Fabri, secondo il quale vicino a Stavrovouni viveva un monaco dall’identità ambigua che era ambarum ecclesiarum plebanus [parroco], graecae et latinae, et per omnia se regebat secundum utrumque ritum28.
14La vicinanza e collaborazione tra i due riti era visibile concretamente anche nell’architettura, dato che sull’isola si ritrovano cappelle latine annesse a chiese greche ed edifici sacri condivisi da entrambi i culti, con le pareti ricoperte da ritratti di donatori e benefattori sia greci che latini, o addirittura di famiglie miste. Questo genere di pratiche fu probabilmente influenzato alla fine del Duecento dall’arrivo sull’isola di esuli dalla Terra Santa riconquistata dai musulmani, che come abbiamo visto portavano con sé un’attitudine ancora più spiccata alla mescolanza e al culto comune29.
15Bisogna però chiedersi se in questi come in altri casi si trattasse effettivamente di communicatio in sacris tra appartenenti a due Chiese distinte e rivali, dato che a Cipro (come praticamente in tutti gli stati fondati dopo la Quarta crociata) la Chiesa greca venne costretta a riconoscere in modo più o meno esplicito la propria subordinazione e obbedienza al pontefice romano. Nel dominio dei Lusignano ciò avvenne tramite un compromesso, la Bulla Cypria del 1260: i greci avrebbero mantenuto i loro vescovi (ridotti però a quattro e con titoli diversi, dato che formalmente le loro diocesi erano state assegnate al clero latino e che non si concepiva che la stessa sede potesse avere più pastori30), ma essi sarebbero stati confermati dal papa e dall’arcivescovo latino, a cui dovevano prestare giuramento di fedeltà; solo il pontefice poteva deporli ed essi mantenevano peraltro la giurisdizione ordinaria sui fedeli del loro rito. Questo tuttavia non comportò modifiche nella liturgia bizantina o nella dottrina; anzi, gli unici attriti fra i fedeli furono provocati da quei religiosi greci che non si astenevano dal denunciare pubblicamente come eretica la celebrazione latina in azzimo, suscitando uno scandalo che però venne progressivamente acquietato. Per i latini, d’altro canto, l’obbedienza al papa era diventata il punto fondamentale di discrimine, molto più delle dispute dottrinali. Questa situazione non comportava per i greci né l’abbandono dei contatti con Costantinopoli, né una universale consapevolezza di avere abbandonato l’ortodossia: basti pensare che quando venne fatto notare a tre vescovi ciprioti che richiedevano la comunione con il patriarcato ecumenico il fatto che avevano prestato giuramento di fedeltà alla gerarchia latina e che comunicavano con essa in divinis (nelle processioni ad esempio), questi ultimi replicarono che era solo un atto superficiale e fatto con riserva31.
16Nell’altra grande isola del Mediterraneo, Creta, eretta in un ducato controllato dalla Repubblica di Venezia a partire dal 1211, le cose andarono inizialmente in modo diverso. La difficile conquista militare e le ricorrenti ribellioni provocarono lo stabilimento di un regime di separazione legale più rigido e soprattutto l’estromissione della gerarchia greca, pericolosa non tanto perché «scismatica», quanto perché incarnazione religiosa di un’autorità politica rivale, quella dell’Impero bizantino. Per tutta la durata del dominio veneziano si ebbe così la cancellazione dell’episcopato greco, sostituito da quattro protopapades ( «arcipreti») nominati dal Reggimento veneziano e incaricati del controllo dei sacerdoti, tranne per un gruppo di centotrenta direttamente sottomessi all’autorità dell’arcivescovo latino nell’area di Candia32.
17Anche in questo caso, però, la storiografia più recente ha messo in discussione il reale livello di segregazione attuata, così come la pretesa «purezza» del ceto dominante dell’isola rispetto alla massa dei dominati. Poiché la religione, la lingua, i costumi e l’idea di una comune ascendenza etnica sono i fattori fondamentali che anche all’epoca venivano evocati per marcare la differenza tra latini e greci, il lavoro di Sally McKee ha sottoposto ad esame critico ciascuna di queste linee di demarcazione. Se all’inizio esse erano facilmente individuabili (i greci aderivano ad una Chiesa con riti e tradizioni diverse da quella latina, all’inizio i dominatori parlavano veneziano e i sudditi autoctoni greco, questi ultimi portavano la barba e vestiti diversi, etc.), lo scorrere del tempo e la condivisione di spazi ed esperienze finirono inevitabilmente per cambiare le cose, soprattutto considerando che i coloni veneziani erano un’esigua minoranza. McKee arriva così a dimostrare che, nonostante il Senato della Serenissima continuasse a rivolgersi ai feudatari locali eredi dei colonizzatori veneti chiamandoli «carne della nostra carne», dopo neanche un secolo non era più possibile parlare di due popolazioni etnicamente distinte, soprattutto a causa dell’alto tasso di matrimoni misti33.
18Se i criteri del sangue e della lingua si rivelavano troppo ambigui, quello dell’appartenenza religiosa sembra più solido: per poter essere ammesse tra i ceti dirigenti, alcune famiglie di arconti greci si erano convertite infatti al rito latino. Analizzando i testamenti redatti nel XIV secolo, si scopre tuttavia una realtà più complessa: i feudatari latini, ad esempio, lasciavano i propri beni in eredità sia agli enti ecclesiastici appartenenti alla Chiesa romana, sia a quelli della Chiesa greca che si trovavano nei villaggi di cui erano signori. Se questo poteva essere più un segno di preoccupazione verso il benessere degli abitanti dei loro feudi che un indicatore di sensibilità religiosa personale, più significativo appare il comportamento di quelle nobildonne di origine greca che nei loro ultimi lasciti si preoccupavano di finanziare chiese e monasteri bizantini al di fuori dei loro feudi, richiedendo a volte esplicitamente di essere ricordate con rituali della tradizione orientale. A livello dei ceti popolari cittadini, si hanno esempi di testamenti che mostrano il desiderio di essere commemorati da parte di entrambe le Chiese e si sa che il culto di san Tito, quello di san Francesco e la venerazione per l’icona miracolosa della Vergine Mesopanditissa raggiunsero tutte le comunità dell’isola34.
19Dal canto suo, la stessa politica religiosa della Serenissima a Creta e negli altri domini d’oltremare ebbe una evoluzione importante, giacché a partire dalla fine del XIV secolo prese a promuovere con sempre maggiore efficacia la concordia formale tra i due gruppi, particolarmente quando il pericolo di perdere la fedeltà dei sudditi si fece più intenso e l’Unione di Firenze fornì un utile pretesto e quadro teorico in cui inserire i rapporti tra le due Chiese. Tale pretesa armonia – che nel XVI e XVII secolo arrivò a postulare anche un’uguaglianza di trattamento verso i sudditi latini e greci e la tutela delle particolarità rituali di questi ultimi – trovava la sua celebrazione pubblica nella partecipazione congiunta delle due comunità alle cerimonie e alle processioni in onore della Dominante o in occasione delle principali feste religiose, come il Corpus Domini, San Marco o San Tito35. All’interno di questa politica, Maria Georgopoulou ha inserito anche il particolare stile architettonico che si venne a creare allora a Candia, dove le autorità veneziane scelsero consapevolmente di adottare negli edifici cittadini strutture e caratteristiche di origine bizantine: in tal modo esse cercarono di favorire l’accettazione locale della Serenissima non solo come sostituta, ma come vera e propria erede dell’impero di Bisanzio36.
20Si poté assistere così allo sviluppo di forme culturalmente ibride nel campo dell’arte e dell’architettura: contro lo stereotipo della storiografia romantica e poi nazionalista che voleva come ad ogni identità etnico-religiosa corrispondesse un proprio stile (così da delimitare ad esempio in modo netto gli edifici «gotici» come prodotto dei dominatori franchi e quelli «bizantini» o orientali come prodotti locali, limitandosi al massimo a riconoscere qualche influenza dei primi sui secondi), già agli inizi del ‘900 la missione archeologica condotta a Creta da Giuseppe Gerola riconosceva come fosse impossibile «una distinzione qualsiasi fra i prodotti dell’elemento latino – cioè dei coloni veneti – e quelli della popolazione greco-indigena abitante nell’isola. Infatti la fusione fra il popolo dominante e quello dominato fu tale che gran parte di quei monumenti sono improntati ad una radicale compenetrazione ed implicata connessione dell’elemento e dello spirito latino col greco»37. Non solo esistevano chiese latine edificate sulla base di schemi prettamente bizantini, decorate con tipici soggetti agiografici orientali, così come al contrario santuari greci costruiti a spese di nobili veneti e quindi dotati di campanili e ornamenti gotici; vi erano anche «le chiese bizantine che diventano veneziane; e le chiese cattoliche che ridiventano scismatiche; come non mancano ibridi templi ove all’altare del sacerdote latino è contrapposta l’αγία τράπεζα del παπάς greco, e l’un popolo e l’altro concorde accorre ai misteri del Cristianesimo»38. Un tratto caratteristico e per noi particolarmente interessante dei territori greci sottoposti al dominio franco è infatti la presenza di chiese ufficiate in comune dai due riti sullo stesso altare o su altari separati, fino ad arrivare alla costruzione di chiese «doppie», cioè a due navate affiancate con duplice santuario, sovente comunicanti. Questa fattispecie, molto diffusa a Creta e nell’arcipelago egeo dalla fine del XV secolo, si sviluppò probabilmente a partire dall’aggiunta laterale di una navata in chiese a navata unica, allo scopo precipuo di ospitare parallelamente i due gruppi religiosi39. Anche per il periodo precedente sembra comunque di poter individuare casi di cappelle latine collegate a chiese greche, così come la presenza di spazi e altari riservati a un rito all’interno di chiese normalmente destinate ad un altro40.
21Gli studi degli ultimi decenni si sono poi concentrati sulla circolazione mediterranea di artisti e manufatti e sullo sviluppo nelle «società miste del Levante medievale» di un’arte sacra capace da scavalcare i confini di appartenenza ecclesiale41. I rapporti di imitazione, ibridazione e reimpiego agivano in entrambi i sensi: pittori latini e greci lavoravano fianco a fianco, sovente scambiandosi le clientele, le quali dal canto loro non richiedevano soltanto gli stili della propria tradizione culturale e religiosa di riferimento ma anche quelli delle altre, non senza che questo provocasse alla fine il passaggio di stilemi e soggetti iconografici da una parte all’altra. Del resto l’arte poteva funzionare anche da veicolo di propaganda religiosa, sia in senso irenico o unionista che in quello contrario, cioè polemico e identitario42.
22Gli esempi medievali fin qui ricordati non costituiscono un semplice excursus introduttivo, quanto un retroterra fondamentale per la comprensione delle dinamiche di età moderna, sia nei territori del Levante che rimasero in mano «franca» (essenzialmente veneziana) che in quelli progressivamente conquistati dagli Ottomani. La minaccia turca contribuì a spingere la Serenissima ad assecondare sempre più le esigenze dei suoi sudditi greci, evitando i conflitti confessionali e promuovendo l’armonica convivenza dei due culti: nelle Ionie le cerimonie e le processioni comuni dei due cleri in onore della Serenissima rimasero un tratto caratteristico fino all’ultimo momento di vita della Repubblica43.
23Un viaggiatore passato da Candia nel 1583 riferiva di una chiesa in cui il sacerdote latino ed il papas greco celebravano contemporaneamente alle due estremità di un altare comune, mentre a Spinalonga il nobile veneziano Luca Michiel prescrisse di erigerne una «col dividerla in due parti, per il rito greco et per il franco» . Le tensioni provocate dall’irrigidimento dottrinale del clero cattolico in età post-tridentina venivano affrontate e risolte in maniera spesso creativa: la chiesa greca del Salvatore a Ierapetra era gestita da un francescano che celebrava sull’altare greco e che aveva annesso all’edificio un piccolo ospizio per ospitarvi i frati. Quando nel 1626 il provinciale dell’ordine si accorse della cosa, intimò al religioso di cessare da quell’abitudine e soprattutto di rimuovere le icone bizantine dal templon che delimitava il presbiterio. Questo provocò la reazione dei paesani greci, particolarmente affezionati alle immagini sacre, scatenando disordini che furono risolti soltanto grazie all’intervento del provveditore generale Francesco Morosini. Questi decise di prendere spunto da quanto visto in una chiesa latina nel villaggio di Kato Episkopi, «ove anco frequentemente celebrano li Greci, con reciproca sodisfattione et gusto dell’uno e l’altro ritto, havendo l’altar maggiore fatto alla latina due porte, una per parte, che servono ad entrare nel luogo di dietro, dove vi è l’altar greco: quando celebra il latino, tutte e tre le immagini che sono sopra l’altar restano senza moversi; ma quando dicono messa li Greci, si leva dall’altar il quadro di mezo, per il qual foro poi si vede a celebrar alla greca, uscendo poi essi preti fuori d’una porta a far le sue cerimonie, per entrar nell’altra»44 (fig. 5).
24È indubbio che il passaggio dei territori del Levante dal governo franco a quello ottomano comportò un cambiamento nelle condizioni di vita dei cristiani là residenti, soprattutto per i latini, che da dominanti si ritrovarono in una posizione ancora più precaria di quella che avevano sperimentato i greci sotto di loro. Ognuno dei casi presentati, tuttavia, lasciò echi e conseguenze. Nell’arcipelago egeo le chiese «doppie» o condivise continuarono ad esistere per lungo tempo e solo nel XVIII secolo fu necessario arrivare ad una regolamentazione precisa del loro uso tramite un’attribuzione confessionale esclusiva45. La discussione sulla necessità di correggere il rito armeno nella liturgia e nel calendario ritornò centrale con il riprendere delle missioni della Controriforma, mentre l’esempio della latinizzazione attuata a partire dal XIV secolo dai Fratres Unitores costituì un’eredità pesante con cui fare i conti nei rapporti tra cattolici e apostolici. D’altro canto, la riflessione sui testi di Nersēs Šnorhali informò probabilmente lo spirito «ecumenico» insito nel carisma dell’ordine mechitarista46.
25Ma, soprattutto, è utile riflettere su come sia la communicatio in sacris di età moderna che la rough tolerance medievale nascano dall’ignoranza o dalla sottovalutazione delle divisioni dogmatiche tra cristiani orientali e latini, oltre che da un atteggiamento «pratico» nei confronti delle condizioni locali di vita delle comunità. I casi di communicatio in sacris nell’Impero ottomano sono quasi sempre giustificati da ragioni concrete e urgenti: si comunica per convenienza (sociale, lavorativa, politica, economica), per necessità (assenza di alternative) o per paura (pericolo di persecuzioni, violenza). A seconda delle circostanze di tempo e luogo, del grado di integrazione tra latini e orientali e dei diversi livelli di consapevolezza dei fedeli, la pratica può riallacciarsi ad un approccio latitudinario, tale da ritenere la comune fede in Cristo più importante delle ulteriori particolarità, o al contrario essere percepita come un’eccezione rispetto alla normale distinzione. Le motivazioni di carattere teorico più complesso, tali cioè da riflettere sull’unione fiorentina, la sostanziale cattolicità della liturgia, il fatto che le proibizioni siano di diritto ecclesiastico e non divino e quindi dispensabili, etc., si ritrovano più che altro tra quei missionari o religiosi cattolici che cercavano di giustificare un dato di fatto agli occhi di Roma, adattandosi al tipo di categorie prese in considerazione dal Sant’Uffizio. D’altro canto, come nel XIII secolo i tentativi di dialogo ecumenico o comunque di convergenza dottrinale avevano contribuito a rompere quelle ambiguità che permettevano una convivenza “incosciente”, allo stesso modo vedremo come la costruzione di un’identità confessionale orientale nettamente separata e alternativa avvenga proprio attraverso il confronto con Roma e paradossalmente con l’adozione di strumenti intellettuali e argomentazioni originari del mondo cattolico, ma utilizzati per rimarcarne la differenza. Bisogna dunque volgersi a Roma per osservare lo sviluppo di questi paradigmi.
Da Firenze a Trento
26Secondo la pratica della Chiesa antica, ad ogni diocesi corrispondeva un solo vescovo e questi era il pastore di tutti i fedeli residenti in quel territorio, a prescindere dal fatto che essi seguissero una tradizione liturgicamente e linguisticamente differente. All’interno della Chiesa cristiana che si riconosceva nei sette concili ecumenici non suscitava scandalo né imbarazzo che esistessero fedeli di lingua e rito greco sotto la giurisdizione del Patriarcato d’Occidente o viceversa: così erano esisti ad esempio per molti secoli monasteri greci a Roma e centri religiosi latini a Gerusalemme o sul monte Athos. Come già detto in precedenza, però, le discussioni attorno ad una regione contesa (la Bulgaria), lo sviluppo di una formulazione dottrinale divergente sulla processione dello Spirito Santo, l’evoluzione ecclesiologica in senso universale del patriarcato romano e infine le violenze compiute dai Normanni nel sud Italia e dai crociati in Oriente minarono progressivamente quell’unità e posero le basi per un atteggiamento nuovo e conflittuale, uno scisma più o meno «silenzioso», ma effettivo. L’ecclesiologia occidentale incentrata sul mantenimento del principio di un solo capo gerarchico, a livello generale come locale, determinò la sottomissione ad esponenti della gerarchia latina di quei fedeli greci rimasti o nuovamente finiti sotto il controllo di sovrani cattolici, come nei casi appena descritti. La sostituzione dell’episcopato greco con quello latino fu inoltre motivata dalla condizione di «scismaticità» attribuita alla Chiesa ortodossa – una pratica peraltro già utilizzata in modo del tutto analogo dalla stessa gerarchia bizantina ai tempi degli imperatori iconoclasti, quando questi avevano così giustificato l’imposizione di una ellenizzazione forzata nei territori temporaneamente conquistati in Puglia e Calabria47.
27Un tale regime ecclesiale, che è stato etichettato come «normanno-crociato», fu rimesso teoricamente in discussione soltanto nel Concilio di Firenze. Riguardo all’interpretazione di questo snodo cruciale è importante distinguere tra le premesse, le conclusioni raggiunte e infine la loro applicazione concreta. Tra le prime ha un ruolo di rilievo la particolare congiuntura politica degli anni ’30 del XV secolo, tale da necessitare da parte bizantina l’aiuto economico e militare dell’Occidente cattolico contro la minaccia ottomana e da condizionare reciprocamente la concessione di questo all’accettazione della prospettiva dell’unione con Roma. Tuttavia, diversamente dal precedente tentativo lionese del XIII secolo, il concilio apertosi a Ferrara nel 1438 e proseguito l’anno successivo a Firenze non fu una semplice imposizione di condizioni da parte romana ad una delegazione orientale. Dal punto di vista degli atti, la Chiesa greca e quella romana sottoscrissero e approvarono entrambe delle formulazioni compromissorie, anche se più spesso ambigue e tacite che esplicite, anche a causa della difficoltà di conciliare modi di argomentazione diversi, basati sulla scolastica aristotelica e sulla patristica orientale. In ogni caso, venne riconosciuto il ministero primaziale del pontefice romano, «successore di san Pietro, principale degli Apostoli, vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa», senza però sminuire il ruolo dei patriarchi orientali: «il Patriarca di Costantinopoli sia secondo dopo il santissimo Pontefice romano, e terzo quello di Alessandria, quarto quello di Antiochia e quinto quello di Gerusalemme, restando cioè salvaguardati tutti i loro privilegi e diritti» . Venne inoltre abbandonata l’impossibile pretesa con cui i latini avevano in precedenza accusato i greci di aver espunto il filioque dal Credo, quando invece era avvenuto il contrario, e si trovò un compromesso nella processione dello Spirito dal Padre attraverso il Figlio, ribadendo la legittimità della formulazione latina senza imporne però l’adozione agli orientali. Ci si accordò infine sulla validità delle due tradizioni parallele in materia liturgica e sacramentale (uso dell’azzimo o del fermentato) e su di un concetto poco definito di purgatorio48.
28Il 6 luglio 1439 venne firmato il decreto Laetentur Coeli, con cui si annunciava l’avvenuta riconciliazione delle due Chiese. Negli anni successivi lo sforzo di rendere l’unione davvero universale avrebbe visto l’arrivo di altre delegazioni orientali: gli armeni riconobbero l’unione il 22 novembre 1439, mentre il 4 febbraio 1442 fu il turno dei copti e degli abissini. Entrambi i decreti (Exsultate Deo e Cantate Domino) costituivano dei sostanziali adeguamenti alle pretese teologiche e liturgiche romane, ma rivestono un’importanza generale perché vi si trovano per la prima volta chiaramente espressi la disciplina dei sette sacramenti e il numero dei libri canonici della Bibbia. Se a queste firme si aggiungono anche quelle dei delegati giacobiti (1444), dei nestoriani e dei maroniti di Cipro (1445), si capisce come a livello ideale si potesse pensare di aver ristabilito la comunione di tutte la Chiese cristiane con la Sede Romana. In realtà i problemi cominciavano proprio allora.
29Nonostante la rilevanza che ancora oggi assume il Concilio di Firenze per le sue implicazioni ecclesiali ed ecumeniche, dal punto di vista storico ben più significativa del testo dei decreti (gli atti ufficiali latini andarono presto perduti) fu infatti la sua ricezione ed applicazione. Nel caso della cristianità non calcedonese, l’unione rimase praticamente lettera morta, anche perché la contestazione al suo sostenitore più acceso, il kat‘ołikos armeno Grigor IX, portò al ritorno della sede cattolicosale da Sis a Ēǰmiacin, originando la scissione della somma carica ecclesiastica armena in due sedi contrapposte, di cui soltanto la prima sembrò mantenere un atteggiamento favorevole a Roma. Da parte greca la reazione di rigetto fu ancora più netta: provocata dall’ostilità popolare antilatina e motivata teologicamente da alcuni prelati come Markos Eugenikos, la rottura trovò sanzione effettiva anche a livello politico ed ecclesiale con il Concilio di Costantinopoli del 1484-85 e prima ancora con la scelta da parte del nuovo signore di Costantinopoli, il sultano Mehmed II, dell’antiunionista Gennadios Scholarios come nuovo patriarca ecumenico49.
30Tuttavia, limitarsi a porre il fallimento dell’Unione soltanto sulle spalle delle Chiese orientali sarebbe una ricostruzione molto parziale. Se infatti è vero che da parte romana il concilio fiorentino venne sempre ritenuto valido e richiamato come testo di riferimento fondamentale per tutti i successivi tentativi di unione con i vari episcopati orientali, la lettura del significato del sinodo fu rapidamente stravolta a causa della politica concreta con cui i pontefici lo fecero valere nei territori sottoposti alla loro autorità. Come scrive Vittorio Peri, «era ancora fresco l’inchiostro delle firme apposte al decreto di unione, quando Eugenio IV mostrò di voler esercitare la potestà primaziale sulla Chiesa d’Oriente così come egli si sforzava di esercitarla nella Chiesa d’Occidente in quegli anni di contestazione»: non solo pretese infatti che i vescovi greci presenti condannassero sinodalmente il dissidente Markos Eugenikos, ma soprattutto caldeggiò l’elezione sul trono di Costantinopoli (appena divenuto vacante) dell’allora patriarca latino Giovanni Contarini, senza considerare in alcun modo problematico il fatto che questi non conoscesse il greco e soprattutto che la sua elezione andasse contro quei canoni e privilegi della Chiesa greca che si era appena finito di riconoscere50.
31Nulla fu fatto inoltre di fronte alla richiesta orientale di rimuovere la gerarchia latina parallela nei domini franco-veneti d’oltremare e il rapporto tra i due episcopati (nel caso in cui quello greco non fosse già stato eliminato, come invece era successo ad esempio a Creta) rimase inizialmente avvolto nell’ambiguità. Quale fosse però la direzione prevalente, appare evidente osservando ad esempio le diverse modalità di elezione del metropolita greco di Rodi nei decenni successivi all’Unione, quando l’isola era ancora sotto il controllo dell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni. Nel 1455 la scelta del prelato venne affidata al clero greco e ai rappresentanti del popolo isolano, con il Grande Maestro incaricato di ratificarla, senza fare menzione di alcun ruolo della gerarchia latina né nella scelta né nell’ordinazione; nel 1477, invece, il metropolita venne considerato come suffraganeo dell’arcivescovo latino dell’isola, dovendo da lui ricevere la conferma dell’elezione e a lui prestare giuramento di obbedienza in quanto rappresentante sull’isola della Santa Sede. Dal confronto appare evidente come in pochi anni si passasse dal considerare i due prelati come rappresentanti della stessa Chiesa su un piano di parità a sottolineare invece la subordinazione della gerarchia greca a quella latina. Tale subordinazione non era peraltro solo ecclesiale, ma anche rituale: papa Niccolò V (eletto nel 1447) rifiutò esplicitamente di acconsentire al ritorno al rito greco da parte di quei sudditi che erano stati latinizzati a forza nel periodo precedente – il passaggio dal rito greco al latino era possibile, ma non viceversa. Cominciava la lunga storia del pregiudizio che voleva i due riti entrambi legittimi, ma non equivalenti, poiché quello tradizionale della Chiesa romana rimaneva «più sicuro e migliore» (tutior, praestantior), secondo la formula poi stabilita alla metà del Settecento da papa Benedetto XIV e derivante da un’ecclesiologia che finiva per identificare la Chiesa di Roma e la sua tradizione specifica con la Chiesa cattolica (universale) tout court. Inutile dire che di tale subordinazione gerarchica e rituale non c’era traccia nel testo dei canoni fiorentini, come non vi era traccia dell’obbligo per i greci di inserire il filioque nel Credo cantato durante la divina liturgia, cosa che invece spesso veniva pretesa.
32In sostanza, nei territori franco-veneziani del Levante e nel meridione d’Italia si continuò a fare riferimento al concilio fiorentino più come paravento ideologico (tale cioè da consentire la sopravvivenza di fedeli e clero greco all’interno di stati cattolici) che come applicazione reale dei suoi decreti e delle sue intenzioni. Vedremo in seguito la particolare evoluzione di tale criterio nei possedimenti della Serenissima; per ora il caso specifico di Rodi è ancora utile ad introdurre un’altra caratteristica dell’atteggiamento pontificio verso le gerarchie orientali, ovvero la sua non linearità a seconda delle circostanze: basti pensare che la politica filellenica e anti-turca di Leone X, ad esempio, portò nel 1513 ad una parziale marcia indietro, con una bolla che specificava come il metropolita greco dell’isola non fosse suffraganeo dell’arcivescovo latino, ma a lui subordinato solo in quanto questi era anche legato papale, ribadendo però che ogni presule aveva competenza esclusiva sui fedeli del proprio rito51.
33La storia della concezione cattolica delle Chiese orientali è piena di ondeggiamenti di questo tipo, come vedremo nel dettaglio a proposito della questione della communicatio in sacris, e ciò è vero anche in generale per l’età post-tridentina. Nato per rispondere alla Riforma protestante, il Concilio di Trento si distaccò fortemente nel modo di procedere e nelle finalità dai precedenti concili ecumenici, a cui pure si richiamava: lungi dall’essere considerato una reale occasione di riunione o di dibattito tra Chiese locali in conflitto su punti dottrinali o ecclesiali, l’assise tridentina si pensò piuttosto come suprema istanza giudicatrice di una scissione non sanabile se non tramite l’adesione ad un’ortodossia e ad un’ortoprassi definite allora in modo inequivocabile e riassunte nell’obbedienza all’autorità del pontefice romano. In quest’ottica non c’era posto per le Chiese orientali: pur scegliendo consapevolmente di attribuire al concilio il titolo di «ecumenico», nessuno dei pontefici e dei padri conciliari prese realmente in considerazione l’idea di chiamare a parteciparvi dei rappresentanti greci o armeni52. Il problema dei rapporti con l’Oriente cristiano venne allora accantonato per essere ripreso successivamente, una volta pienamente formulate le condizioni necessarie alla cattolicità; ma si poneva il paradosso che tali condizioni erano state elaborate in un concilio che si diceva ecumenico, ma che tale poteva essere solo nella nuova percezione della Chiesa romana e non in quella degli orientali, per i quali al massimo poteva costituire un concilio generale della Chiesa latina. Si poneva così un implicito germe di contraddizione tra Firenze e Trento, che emerse già durante i lavori conciliari, ad esempio a proposito dello spinoso nodo del canone sul matrimonio: la formulazione tridentina dell’inscindibilità avrebbe infatti finito per pronunciare un anatema sull’antica pratica orientale delle seconde nozze in caso di adulterio, su cui l’assemblea fiorentina non si era espressa e che era rimasta in vigore nei territori del Levante controllati da stati cattolici come la Repubblica di Venezia. La soluzione trovata per risolvere l’impasse fu quella di formulare il canone in modo negativo, ovvero ponendo anatema su chiunque affermasse che la prassi latina era sbagliata, senza dire alcunché su quella greca53.
34La questione tuttavia non poteva essere rimandata per molto: nel 1565 il sinodo provinciale dei vescovi calabresi denunciava come nelle diocesi di Catanzaro e Nicastro vivessero dei sacerdoti greco-albanesi che, pur tenendo «circa il purgatorio e la processione dello Spirito Santo quelle cose che sono state definite nel Concilio di Firenze», erano sposati e ordinati da vescovi orientali inviati dal patriarca di Costantinopoli, senza il permesso degli ordinari latini e contro i decreti del concilio tridentino sui requisiti richiesti per la promozione agli ordini sacri54. Appare evidente la confusione creata dall’osservanza confliggente delle norme fiorentine e tridentine e non stupisce che in quegli stessi anni si procedesse a drastiche decisioni. Pio IV con la costituzione Romanus Pontifex (16 febbraio 1564) definì come scandalosa la pretesa di quanti osservavano «le consuetudini e i riti della Chiesa greca» di essere esclusi dalla giurisdizione degli ordinari latini e cancellò i privilegi e le esenzioni concessi da Leone X e altri pontefici, stabilendo al contrario che gli italo-greci residenti nel Reame di Napoli fossero sottoposti in tutto alla gerarchia latina locale e alle sue leggi canoniche; due anni dopo il suo successore Pio V vietava ancor più severamente la mescolanza rituale o l’intercomunione tra quei fedeli latini e bizantini che per secoli avevano convissuto nelle stesse diocesi. Il desiderio di papa Ghislieri di procedere ad una progressiva latinizzazione di quelle comunità, eliminando ogni divergenza dall’unico modello di vita cattolica accettabile, era chiaro: in una controversia con la Repubblica di Venezia a proposito dell’isola di Cipro, quando l’ambasciatore Tiepolo provò a fargli presente «quanto fosse pericoloso a questi tempi massimamente il voler fare alteration nei riti et consuetudini di greci così lungamente tollerate, alle quali il Concilio di Trento ha havuto grandissimo rispetto», il pontefice rispose sprezzantemente «che non bisognava soportar l’heresie loro sotto nome di riti et di consuetudini»55. Per quanto riguardava poi gli orientali che vivevano al di fuori degli stati cattolici, non c’era neanche da discutere: il loro dipendere da vescovi non obbedienti a Roma li faceva considerare già in partenza come «scismatici»56.
Politica culturale, «rito greco» e uniatismo
35Non tutti i prelati romani la pensavano però allo stesso modo, specialmente tra coloro che avevano una formazione umanistica (come il cardinale Sirleto) e una conoscenza effettiva della realtà orientale, come nel caso di Gaspare Viviani, vescovo della diocesi cretese di Sitia e Ierapetra. Il nuovo pontefice Gregorio XIII (1572-1585), nonostante nei suoi primi anni avesse mostrato una sensibilità analoga a quella di Pio V, progressivamente cambiò atteggiamento. Basti pensare che egli riprese a scrivere lettere al patriarca di Costantinopoli Geremia II chiamandolo venerabilis frater e scambiandosi con lui ricchi doni. Il tentativo di accordo sulla riforma del calendario appena realizzata permise anche di aprire di nuovo alla prospettiva dell’unione – e non solo con i greci: contatti diplomatici furono ristabiliti anche nel caso dei siro-giacobiti e dei copti e financo della Chiesa russa57. Senza mettere in discussione i principi tridentini (oramai l’unione della Chiesa romana e delle Chiese orientali si era trasformata in una «riduttione» delle seconde all’obbedienza della prima), il pontificato di papa Boncompagni segnava comunque un cambio di passo rispetto all’indifferenza intransigente di Pio V: i cristiani orientali erano considerati non come eretici consapevolmente refrattari delle verità cattoliche, quanto piuttosto come degli sviati in buona fede, vittima sostanzialmente della loro ignoranza (che li rendeva anche potenziali prede della propaganda protestante) e della condizione di assoggettamento politico al Turco. Dato che lo sforzo militare antiottomano si esaurì presto, restava allora la politica culturale: proprio in quegli anni essa trovò importanti realizzazioni, nel 1577 con la stampa curata dal Viviani e da Niccolò Stridonio degli «atti» superstiti del Concilio di Firenze, in un’edizione pensata esplicitamente per essere diffusa al pubblico orientale; così come con l’istituzione nel 1584 di una tipografia orientale finanziata dal cardinale Ferdinando de Medici, dalla quale uscirono negli anni successivi una traduzione in lingua araba dei vangeli, un messale maronita e la professione di fede elaborata per i cristiani orientali dal gesuita Giovanni Battista Eliano, oltre ad una serie di testi di carattere non religioso ma scientifico e didattico58. Come commentava nel 1578 l’ambasciatore veneto a Roma, appariva evidente la finalità missionaria del tutto: «[il pontefice] fa stampare libri greci cattolici, acciocché seminandosi questi fra loro, de’ quali si trovano privi, possano anco più facilmente apprendere quello che conviene per la salute delle anime».59
36L’idea per la quale l’educazione e l’adesione al cattolicesimo procedessero di pari passo soggiace anche alla fondazione a Roma di vari collegi per studenti appartenenti alle varie nazioni orientali: nel 1577 fu eretto in via del Babbuino un edificio appositamente destinato ad accogliere pueri et adolescentes graeci, nel 1584 fu la volta di un collegio maronita e di uno armeno (quest’ultimo durò solo pochi mesi per la morte del pontefice l’anno seguente, ma sin dal 1566 la chiesa di Santa Maria Egiziaca ospitava gli armeni di passaggio per la capitale). La vita pratica degli allievi di tali istituzioni rappresentava un concentrato delle ambiguità di quegli anni: il Collegio Greco, ad esempio, era stato pensato come luogo dove istruire nelle discipline sacre giovani tra i 10 e i 14 anni provenienti dal Levante, in modo tale che una volta ritornati nei loro paesi potessero contribuire a diffondere la dottrina cattolica60. Perché ciò avvenisse con successo, era essenziale che essi rimanessero «greci», conservando cioè la lingua e il rito della Chiesa bizantina, che li avrebbe resi ben accetti ai loro connazionali, ma interiorizzando al contempo la dottrina e la fede della Chiesa latina, che avrebbero a quel punto potuto diffondere «come usciti dal cavallo troiano»61. La stessa chiesa del Collegio, dedicata a Sant’Atanasio e costruita tra il 1580 e il 1583, era sì destinata all’uso liturgico bizantino, ma era in realtà bi-rituale, possedendo anche una sacrestia e alcune cappelle latine; anche la prima divina liturgia celebratavi era stata preceduta dalla consacrazione del tempio secondo il rito latino. Ma non tutto era accettabile o cristallino: gli allievi non potevano comunicarsi regolarmente sotto entrambe le specie, come invece era pratica abituale tra i greci – e soprattutto, da chi avrebbero potuto essere elevati agli ordini sacri? I divieti di Pio IV e Pio V impedivano che fossero ordinati da membri della gerarchia ortodossa (in quanto considerati scismatici), né del resto potevano esserlo dai loro nuovi ordinari legittimi: anche ammesso che un vescovo latino avesse potuto conferire l’ordine sacro usando il rito greco (come accadde in alcune occasioni, derogando al principio stabilito da papa Ghislieri circa la commistione rituale), una tale ordinazione non sarebbe mai stata considerata come valida dai fedeli greci62.
37Inoltre con il tempo l’imprecisione del termine che definiva il criterio essenziale di reclutamento – essere «greci» – finì per far entrare nel convitto anche giovani usciti da famiglie non in comunione con Roma, vale a dire battezzati da prelati obbedienti al patriarca di Costantinopoli: del resto non esisteva nessuna istituzione educativa simile nell’Impero ottomano, e nelle sue fasi iniziali il Collegio fu ben visto dagli stessi patriarchi di Costantinopoli. D’altro canto, con il tempo cominciarono ad essere accolti anche allievi provenienti sì da terre elleniche e parlanti greco, ma nati e cresciuti fino ad allora nel rito latino: ciò avvenne particolarmente dopo che a metà Seicento fu stabilita una quota di posti da assegnare a ragazzi provenienti dall’isola di Chio, dove la divisione rituale tra greci e latini aveva un carattere sostanzialmente confessionale63. I significati del termine «greco» erano vari e consentivano un certo grado di ambiguità: ciò che è certo è che sin dai primissimi anni la presunta «cattolicità» dei vari allievi provenienti da Creta o da alcune parti dell’arcipelago greco era garantita unicamente dal fatto che questi territori erano governati da una potenza cattolica, cioè la Repubblica di Venezia. In ogni caso, una volta usciti dal Collegio, gli allievi che avessero voluto intraprendere la carriera ecclesiastica avrebbero potuto farlo solo all’interno della gerarchia orientale dipendente da Costantinopoli, ovvero «scismatica»: un notevole paradosso per i criteri tridentini, e se vi fu chi mantenne la dottrina appresa a Roma anche dopo esser assurto all’episcopato, si conoscono anche molti casi di discepoli del Collegio divenuti in seguito decisi polemisti anti-latini64.
38I problemi elencati – che dopo la morte di Gregorio XIII rischiarono anche di provocare la chiusura del Collegio, malvisto da molti in curia – furono affrontati tangenzialmente in un’altra creazione di papa Boncompagni: la «Congregazione dei Greci», presieduta dal cardinale Giulio Antonio Santoro, protector totius Orientis. Creata nel 1573, temporaneamente sospesa sotto Sisto V, soltanto con il pontificato di Clemente VIII essa tornò realmente operativa: i suoi obiettivi erano quello di regolare «il governo spirituale dei Greci e degli Albanesi d’Italia e quello di elaborare per loro un provvedimento generale di riforma che da un lato si ispirasse ai decreti tridentini nell’eliminare abusi, superstizioni e scandali peculiari di queste popolazioni e, dall’altro rimanesse attento a non condannare consuetudini non condannabili solo perché difformi dal rito e dall’uso liturgico occidentale »65. Il documento da essa prodotto nel 1595, stampato e diffuso l’anno seguente con il titolo di Perbrevis instructio super aliquibus ritibus Graecorum, si occupava dunque in sostanza di regolare l’amministrazione dei sacramenti e i digiuni in quel contesto, ma ebbe in realtà un’influenza molto più vasta nel momento in cui stabiliva alcuni principi generali66.
39Il primo si riallacciava alla risposta data allora ad una petizione degli allievi del Collegio Greco, che nel 1593 avevano chiesto una dispensa papale per poter essere lecitamente ordinati anche dai vescovi orientali «scismatici». Secondo loro, ciò appariva implicito nello stesso statuto dell’istituzione a cui appartenevano, «molto favorevole a che tutti i Greci fossero ordinati da qualunque vescovo orientale, anche scismatico, sia perché non fa nessuna esplicita menzione in contrario, sia perché sembra dar loro la facoltà di comunicare in divinis con tutti i loro connazionali»67. Se agli aspiranti sacerdoti greci educati a Roma sembrava naturale che il loro futuro compito pastorale passasse dall’inquadramento nella gerarchia orientale esistente, tale non fu l’avviso del cardinal Santoro. Stendendo l’istruzione per gli italo-greci, quest’ultimo negò infatti che i vescovi privi del riconoscimento romano potessero consacrare validamente, dato che erano sì in grado di conferire l’ordine, ma non la sua «esecuzione» – una distinzione derivante da una correzione di Graziano ad un passo di Agostino, evocata peraltro stravolgendone il contesto e ignorando la prassi con cui per secoli gli ordinari latini avevano concesso lettere dimissorie per tali ordinazioni ai loro fedeli di rito greco. La soluzione trovata dal cardinale all’impasse seguente fu un’innovazione: non si sarebbe più fatto ricorso né ai vescovi della gerarchia bizantina scismatica, né ai vescovi latini, ma ad una figura inedita ed appositamente creata, quella del «vescovo ordinante». Si trattava di un vescovo di rito greco, ma solo titolare (cioè privo di diocesi) e soprattutto gerarchicamente appartenente alla Chiesa romana, la cui unica funzione era di provvedere al conferimento dell’ordine sacro ad un clero che ormai si sarebbe distinto da quello latino solo per il suo rimanere attaccato a certi usi liturgici e disciplinari particolari, essendo concepito in tutto il resto come cattolico, nel senso di romano – tanto che per l’ordinazione dei sacerdoti nel rito greco era comunque richiesto l’assenso degli ordinari latini a cui erano normalmente sottoposti68.
40Decretando la proibizione di ricevere gli ordini sacri da esponenti della gerarchia ortodossa ma autorizzando al tempo stesso gli italo-greci a mantenere la liturgia e le abitudini tradizionali, nella misura in cui esse erano state ritenute compatibili con la dottrina e la moralità stabilite dal Concilio di Trento, si sancì allora in modo definitivo la separazione tra «Chiesa» e «rito» . Quest’ultimo smetteva di essere la modalità espressiva integrale della vita religiosa di una Chiesa per diventare quasi un modo diverso di fare le stesse cose, un concetto disciplinare utilizzato per giustificare le difformità locali rispetto al modello romano (come era successo del resto progressivamente ai vari riti occidentali come l’ambrosiano, ad esempio), un insieme di tradizioni e costumi locali tollerabili nel momento in cui venivano depauperati del loro significato dottrinale ed ecclesiale: non a caso il termine ricorreva al plurale (super aliquibus ritibus Graecorum), in un’accezione che li rendeva sinonimi di «costumi e usanze», anziché di una realtà culturale dotata di senso proprio. Si trattava, in definitiva, di un reale «declassamento ecclesiologico» dei cristiani greci e albanesi d’Italia, che in poco più di un secolo erano passati dall’essere considerati prima come membri della Chiesa orientale in comunione con Roma, poi come fedeli di una Chiesa rivale e «scismatica», ed ora come semplici fedeli di rito diverso dell’unica Chiesa cattolica romana.
41All’interno di questo quadro teorico, si rese anche possibile la sussistenza canonica di gerarchie orientali cattoliche dipendenti direttamente dal Romano Pontefice e non dai patriarchi orientali. Questo avvenne nello stesso anno di redazione dell’istruzione, allorquando alcuni vescovi ruteni della Confederazione di Polonia e Lituania ruppero le relazioni con il patriarcato ecumenico sottomettendosi invece all’obbedienza del pontefice: il testo dei 33 articoli di unione stilati da un sinodo appositamente riunito a Brest fu esaminato e infine approvato a Roma nello stesso momento e dalle stesse persone che si occupavano della promulgazione dell’istruzione clementina. In entrambi i casi si trattava di salvaguardare i «riti» particolari di ciascuna comunità all’interno di un quadro aderente ai principi tridentini. Questi ultimi erano salvaguardati anche e soprattutto grazie alla professione di fede cattolica ora imposta, elaborata sotto il pontificato di Gregorio XIII e pubblicata poi proprio in appendice alla Perbrevis instructio69. Anche se l’Unione di Brest fu dovuta più all’iniziativa ecclesiastica e politica locale che alla volontà esplicita di Roma (che si trovò piuttosto posta di fronte al fatto compiuto, come peraltro in quasi tutte le altre «unioni» successive), è indubbio che si assistette allora alla prima realizzazione di quello che sarebbe divenuto il modello delle Chiese «uniati», ottenute staccando parti dell’episcopato orientale dalla loro obbedienza originaria70.
42Insomma, le decisioni di una congregazione eretta per risolvere un problema preciso – come disciplinare i greci e gli albanesi del meridione d’Italia – finirono inconsapevolmente per fornire un quadro teorico generale del modo con cui i cristiani orientali potevano essere ammessi alla comunione cattolica. Questo avveniva secondo uno schema tripartito: la loro vita religiosa veniva ridotta a «rito» (1), cioè ad un set di pratiche che potevano essere lecitamente impiegate solo se si conformavano ai criteri di ortodossia stabiliti dall’autorità romana (2) e se quanti li osservavano erano stati preliminarmente staccati dalla loro antica gerarchia e sottoposti invece più o meno direttamente al pontefice (3). Si è giustamente insistito sulle conseguenze di lunghissimo periodo di tale soluzione, rimasta quella di riferimento fino al Concilio Vaticano II, che ne modificò alcuni punti fondamentali, senza però riuscire ad eliminarne del tutto l’eredità71. Non si può negare che esso informò la pratica della Chiesa romana di età moderna in molti campi, ben al di là dei semplici fedeli pugliesi o calabresi di rito bizantino: nel 1635 l’arcidiocesi armena di Leopoli ruppe con Ēǰmiacin per unirsi a Roma e nel 1713 fu istituito nella capitale un vescovo ordinante per gli armeni cattolici in fuga dalle persecuzioni nell’Impero ottomano, tappe di un processo che culminerà nel 1742, con il riconoscimento ufficiale di un patriarcato armeno uniate, indipendente dalla giurisdizione dei kat‘ołikos72.
43E tuttavia, non bisogna esagerare né appiattire la complessità delle cose. Nel suo testo, l’istruzione clementina valeva essenzialmente a regolare i rapporti tra greci e latini in un contesto di cattolicità, vale a dire in territori controllati da potenze cattoliche, che peraltro mantenevano approcci molto diversi (la condizione degli italo-greci del regno di Napoli fu in questo senso piuttosto diversa da quella dei greci delle isole Ionie sotto controllo veneto). Diceva poco o nulla sul modo di relazionarsi con gli orientali laddove questi ultimi non fossero soggetti alla giurisdizione di un vescovo latino, ma ai loro propri prelati; si occupava in altre parole delle fasi successive all’unione con Roma, ma non della situazione allora massimamente prevalente, quella di una convivenza tra cattolici e «scismatici» nel Levante. Lasciava dunque aperte molte problematiche, non risultando affatto definitiva nel problema della communicatio in sacris, come vedremo dall’ampio dibattito analizzato nel capitolo seguente; neanche la questione del potere di giurisdizione dei prelati orientali sembra peraltro essere stata considerata completamente risolta sul piano teorico, dato che il dibattito teologico e canonistico continuò. Angelo Maria Verricelli nel suo famoso manuale di metà Seicento per la formazione dei missionari sosteneva infatti che gli scismatici notori amministravano validamente e in alcuni casi anche lecitamente i sacramenti e che Clemente VIII aveva lasciato la decisione di questo punto ai teologi. Perfino all’interno della curia romana la cosa non pareva cristallina, tanto che nel 1743 il Commissario del Sant’Uffizio poteva affermare che la Santa Sede «non ha finora fatta dichiarazione che i Scismatici in genere siano privi di giurisdizione e di esecuzione» . Che poi gli orientali andassero tutti bollati indefinitamente come «scismatici» o «eretici», era tutt’altro che pacifico: non solo quando era utile alla polemica antiprotestante si metteva in evidenza la conformità dottrinale della Chiesa greca con quella latina, ma in più occasioni si assistette anche al tentativo di alcuni autori di difendere la sostanziale ortodossia e cattolicità delle Chiese orientali, nonostante gli errori e le separazioni compiute storicamente da alcuni loro membri73.
44Infine, la stessa idea dell’unione integrale delle Chiese attraverso il ristabilimento della comunione ecclesiale con le gerarchie esistenti non venne affatto meno, né dentro alla curia (si pensi che proprio nel 1595 papa Clemente VIII trattava con il patriarca copto Gabriele per una unione che, seppur di brevissima durata, avvenne effettivamente due anni dopo), né soprattutto in molti ambienti missionari, come dimostrano i tentativi di lavorare alla conversione dei patriarchi ecumenici di Costantinopoli durante tutto il Seicento74. Ancora nel 1742, per tornare all’esempio armeno e anticipare quanto si dirà in seguito, un personaggio d’importanza fondamentale come l’abate Mechitar non nascondeva in una lettera ad un discepolo le proprie perplessità sull’opportunità del riconoscimento di un patriarcato cattolico separato dalla gerarchia armena tradizionale, qualcosa che andava contro quella speranza di un’unione vera tra le due Chiese che aveva guidato tutta la sua vita75. Ciò valeva anche dal lato ortodosso: nel caso dei ruteni, non soltanto negli articoli di Brest continuava ad essere presente l’idea di una unione per tappe di tutta la Chiesa «greca» a Roma, ma anche tra i vescovi rimasti fedeli a Costantinopoli si cercò ancora per molti anni una qualche forma di compromesso. Si pensi ad esempio al tentativo intrapreso dal metropolita di Kiev, Piotr Mohyla, estensore di quella che diverrà la principale confessione di fede ortodossa: in un memoriale sottoposto al pontefice nel 1644, pur sottolineando la differenza del concetto di unitas tridentina rispetto all’unio fiorentina (unitas excludit dualitatem, mentre l’unione permetteva di coniugare due realtà sine unibilium destructione) e rifiutando qualsiasi latinizzazione o trasformazione della Chiesa rutena in romana (unio, non mutatio quaeritur), mostrava d’altro canto un atteggiamento aperto e non confessionalmente esclusivo. Scriveva infatti che era soltanto il rito a distinguere le due Chiese, mentre essentiam vero fidei unam ab omnibus, et eandem teneri, cosicché la salvezza poteva essere ottenuta all’interno di ciascuna tradizione. Secondo Mohyla l’unico vero ostacolo all’unione era la questione legata al primato papale: proponeva dunque una ricetta di compromesso provvisoria basata sul principio della doppia fedeltà, cioè su di una dichiarazione che riconoscesse l’unione con Roma, senza però rompere l’unità ecclesiastica con il patriarcato di Costantinopoli. Soltanto un secolo dopo, tali aperture sarebbero state ritenute inconcepibili da parte ortodossa76.
45Come cercherò di dimostrare, una chiara disciplina basata su identità confessionali nette e contrapposte prese luogo nel Levante mediterraneo solo nel XVIII secolo, con la repressione sempre più severa della communicatio in sacris, la moltiplicazione e il consolidamento delle Chiese uniati, il conseguente irrigidimento ortodosso e infine la sistemazione canonica compiuta da Benedetto XIV. Per lungo tempo il Mediterraneo orientale rimase un luogo di ambiguità e incertezze. Per dimostrarlo, vale la pena soffermarsi su di un esempio concreto, non solo perché anticipa un genere di documentazione che affronteremo sistematicamente nelle parti dedicate alla convivenza religiosa tra latini e greci nell’arcipelago, ma anche perché costituisce uno dei primi esempi dei dubbi da essa prodotti di cui è possibile rintracciare l’esistenza nell’archivio del Sant’Uffizio.
L’imbarazzo di un vescovo del Levante: Chio, 1613
46Nell’estate del 1613 giungeva tra le mani del cardinal Giovanni Garsia Mellini (allora facente funzioni di segretario della Congregazione del Sant’Uffizio) una lettera scritta il 15 aprile dai «deputati dei christiani del rito latino» di Chio: l’isola, collocata di fronte alle coste turche, era abitata in grande maggioranza da greci, ma fino alla conquista ottomana del 1566 il potere di governo vi era stato esercitato dai discendenti dei coloni genovesi installatisi in età medievale, ed in particolare dalla famiglia Giustiniani77. Proprio contro un esponente di questa scrivevano i rappresentanti della comunità latina locale, lamentandosi del comportamento del domenicano Marco Giustiniani (1547-1640), dal 1604 vescovo dell’isola. Nella lettera si spiegava qual era la ragione dei cattivi rapporti tra i fedeli cattolici di Chio e il loro pastore:
Saperà dunque Vostra Signoria Illustrissima che qui è stato, et è ordinario costume che i Latini si congiongano in matrimonio con Greci; et sono stati soliti di sposarsi o alla latina nelle chiese latine, con la presenza del paroco latino, o alla greca nelle chiese greche, con la presenza del paroco greco, senza mostrare in ciò di far differenza alcuna, tanto essendo il marito latino, quanto la moglie: con che s’è conservata qui in Scio, più che in qualunche luoco di tutto Levante, la buona corrispondenza tra Greci e Latini. Hor Monsignore pretende che tutti questi matrimonii fatti alla greca siano nulli, et così li dichiara non solo privatamente con proibire alli contrahenti li sagramenti, ma ancora talvolta publicamente con bandi nelle chiese, allegando per ragione che non essendo fatti con la presenza del proprio paroco, vengono ad esser nulli secondo la dispositione del Consiglio Tridentino, perché i Greci per essere Scismatici, com’egli dice, non sono veri parochi.78
47Di più, egli interpretava la domanda abitualmente rivolta dal papas ai contraenti ( «se pretendono d’esser consorti secondo gli ordini della Santa Chiesa Orientale») come un’esplicita affermazione di scismaticità. A questa visione intransigentemente tridentina, frutto anche dell’educazione romana del Giustiniani, i deputati locali obiettavano la prassi tradizionalmente seguita sull’isola, cercando di mostrare come essa potesse adattarsi anche alle nuove disposizioni. Così, ad esempio, argomentavano che il sacerdote greco valeva comunque come parroco di uno dei due contraenti:
essendo i Greci tollerati dalla S. Sede Apostolica nelle consuetudini della Chiesa loro (né mai dichiarati apertamente per iscomunicati, né essendo tanto manifesto lo scisma loro), né sapendosi delli particolari chi sia scismatico – massime qui in Scio, dove pochissimi sono quelli Greci che non tengono la Chiesa Romana per primaria, et il suo Sommo Pontefice per capo di tutta, benché tenghino anche li loro prelati per veri, come approvati et concessi per l’antica consuetudine della Chiesa, senza che Sua Santità habbia mai dechiarato cosa alcuna apertamente contraria – pare per consequentia che non sia da tenersi i loro parochi affatto per non parochi.
48Era chiaro che si evocava in sottofondo un modo di vedere le cose ancora sostanzialmente legato al clima di unione fiorentina, come traspare dall’inciso secondo il quale anche l’espressione di «Chiesa orientale» poteva «havere buon senso et non scismatico». Ma anche nel caso in cui il Concilio di Trento avesse effettivamente inteso mutare l’atteggiamento cattolico verso gli esponenti del clero orientale (cosa negata dagli autori della lettera), rimaneva il fatto che il matrimonio era stato celebrato in una chiesa greca, cioè in un luogo al di fuori della giurisdizione dell’ordinario latino e in cui per convenzione i decreti tridentini si ritenevano come non pubblicati e quindi non vincolanti79. La lettera continuava spiegando che il vescovo Giustiniani aveva ulteriormente messo in difficoltà le relazioni tra i due gruppi religiosi dell’isola facendo convertire interamente al rito latino una chiesa dove fino ad allora erano coesistiti un bema bizantino e un altare latino, non diversamente da quanto accadeva allora frequentemente nelle Cicladi. I greci avevano allora fatto ricorso al patriarca di Costantinopoli, che per una fortunata circostanza si trovava proprio di passaggio sull’isola, «ritornato da Rodi dov’era stato confinato»: si tratta con ogni verosimiglianza di Neofito II, patriarca dal 1602 al 1603 e poi dal 1607 al 1612, quando era caduto in disgrazia, forse a causa della sua eccessiva familiarità con i missionari gesuiti da poco arrivati nella capitale ottomana e per l’ostilità del giovane patriarca di Alessandria che lo sostituì per pochi mesi, Kyrillos Loukaris80. Vista l’attitudine favorevole di Neofito alla Chiesa romana, non stupisce di trovarlo disposto ad una risoluzione amichevole della questione, ma colpiscono comunque le sue parole, così come riportate nella lettera: secondo gli autori, aveva pubblicamente detto di aver sempre avuto «gran stima de’ Latini, non facendo di loro differenza alcuna, tenendo per una l’una et l’altra Chiesa, et per rati tutti li sacramenti, et massime matrimonii fatti da suoi Greci alla latina, et che se i Latini richiedono la presenza del paroco, ancor’essi lo fanno sempre intervenire, et che sempre ha procurato che i prelati greci si deportassero amorevolmente con li loro fratelli prelati latini, come richiedeva la carità et la giustitia». In definitiva, la missiva si concludeva chiedendo una risoluzione di Roma sulla questione dell’invalidità dei matrimoni contratti alla greca, facendo trapelare i gravissimi disordini sociali che sarebbero conseguiti qualora questa fosse stata confermata.
49La risposta della Congregazione non si fece attendere, e il 26 luglio seguente il papa fece indirizzare al vescovo Giustiniani una severa ammonizione per non aver prima chiesto il parere della Sede romana in una questione così grave, imponendogli di ritrattare la sua posizione e di dismetterne gli effetti81. Lo zelo del vescovo aveva senza dubbio dato fastidio alla corte papale, specialmente in un momento in cui le relazioni con il vertice della Chiesa greca erano buone e andavano mantenute tali, non solo per le speranze legate all’apostolato, ma anche per controbilanciare la crescente influenza protestante (di cui sarà rappresentante proprio il Loukaris). Inoltre, secondo l’anonimo consultore del Sant’Uffizio che aveva allora trattato il caso, il Giustiniani si ingannava nelle sue opinioni, giacché la Chiesa romana aveva sempre ritenute valide le unioni tra greci e latini fatte secondo le consuetudini della Chiesa orientale; in generale, i sacerdotes Graecos exercentes curam animarum erano de facto tollerati dalla Chiesa romana ed esercitavano validamente le funzioni parrocchiali, così che quanti contraevano matrimonio alla loro presenza dovevano esser considerati come legitime uniti in matrimonium; i decreti del concilio tridentino non valevano infatti all’interno delle mura delle chiese greche82.
50Il vescovo, però, pur obbedendo all’istruzione ricevuta, non si diede per vinto: riteneva di aver agito legittimamente, in piena conformità a quello che aveva appreso a Roma e al comportamento dei suoi predecessori nell’episcopato, oltre che alle indicazioni fornite loro dal «cardinale alessandrino» (il nipote di Pio V, Michele Bonelli). La sua crociata contro i matrimoni non conformi ai dettami tridentini era dettata anche dal fatto che essi coprivano spesso situazioni irregolari come l’adulterio o le seconde nozze, e che i latini ricorrevano ai preti greci quando sapevano di non potersi sposare lecitamente con il consenso del vescovo: per questo motivo nei mesi passati aveva sospeso dai sacramenti sei coppie di «concubini» dell’isola. Inoltre dalle unioni miste derivava quasi sempre un passaggio anche del coniuge latino al rito greco, in esplicita contraddizione rispetto a quanto previsto dalla Perbrevis instructio di Clemente VIII, per la quale invece sarebbe dovuto avvenire il contrario83. Non solo, il vescovo affermava di avere la prova che i matrimoni misti celebrati dal clero greco implicavano la ribenedizione del contraente latino, tramite l’imposizione del crisma ( «quel untione che fanno… alli heretici quando li riconciliano con la loro Chiesa») e la menzione nella formula matrimoniale della «Chiesa della Nova Roma», come era in effetti avvenuto nel caso del matrimonio tra Giovanni Compiano e «Benù tis Martenas», di cui allegava gli atti del processo canonico84. Infine, si giustificava dell’accusa di aver voluto agire senza prima informare Roma col dire che in realtà aveva spedito mesi prima una lista di dubbi al cardinale Benedetto Giustiniani, protettore di Chio nella curia, senza ricevere risposta: con l’occasione la ripresentava85.
51La lista – che conteneva anche questioni relative alla liceità per i cristiani locali di ricorrere all’autorità del kadı turco, alla possibilità per i latini che lavoravano o convivevano con i greci di conformarsi al calendario giuliano e infine alla necessità o meno di reiterare in età adulta il sacramento della cresima, che i greci ricevevano dai semplici sacerdoti insieme al battesimo – venne a quel punto presa in considerazione da un altro gruppo di consultori del Sant’Uffizio. Questi in alcuni punti dettero effettivamente ragione a Giustiniani, stabilendo che i matrimoni misti celebrati alla presenza del sacerdote greco erano nulli e da rivalidare, poiché i cattolici di Chio erano membri delle parrocchie latine dell’isola, dove i decreti di Trento erano stati pubblicati, e quindi come tali erano inhabiles ad contrahendum matrimonium sine praesentia Parochi, senza che il papas greco potesse in alcun modo farne le veci86.
52Come appare dalla contraddizione con il primo voto dei consultori, era evidente come vi fossero delle esitazioni su tale questione, di importanza capitale vista la frequenza con cui nel Levante si ricorreva al ministro di un culto diverso da parte di quei cattolici che non potevano lecitamente sposarsi davanti al parroco (per impedimenti canonici vari, o nel caso dei matrimoni mixtae religionis). La problematica della loro validità rimase a lungo dibattuta, tra l’atteggiamento più rigido della Congregazione del Concilio e quello paradossalmente più aperto del Sant’Uffizio, finché nel XVIII secolo si impose quest’ultimo: Benedetto XIV regolò in modo definitivo la questione fissando il principio secondo il quale i matrimoni contratti tra cattolici e «scismatici», anche in violazione delle norme tridentine, erano sì illeciti, ma pienamente validi e quindi non dissolubili87.
53Tornando al caso di Chio, dello stesso genere fu la decisione adottata infine dal Sant’Uffizio nel 1614, grazie all’intervento decisivo del membro più autorevole della Congregazione, il cardinale Roberto Bellarmino. Questi sconfessò e criticò pesantemente l’ultimo voto dei teologi e finì per stendere in prima persona la risposta da indirizzare al vescovo:
La Santità di Nostro Signore nella congregatione del Sant’Offitio tenuta alli 10 di Luglio 1614 ha risoluto che si scriva al Vescovo di Scio, che li matrimonii fra Latini et Greci non si possono irritare, come invalidi, perché sono validi: ma è ben vero che il vescovo può et deve essortar i Latini che non faccino parentado con li Greci, per esser loro di altro rito et scismatici: come anco si è scritto a quelli di Pera. Di più, la Santità sua essorta il vescovo a non far novità, ma caminare per le pedate delli suoi antecessori, et però non deve movere questioni atte a turbar la pace, come è quella della cresimatione data da preti in absentia de vescovi. Attenda a governare i Latini suoi sudditi, et non si pigli fastidio de quelli, che non sono sotto la sua cura. Finalmente, gli fa intendere che studii bene i casi di conscientia, et i sacri canoni, che in essi trovarà la risposta alli suoi dubbii, senza dar fastidio alla Sacra Congregatione.88
54L’irritazione e la sbrigatività di questa risposta non nascevano dalla superfluità delle questioni poste dal vescovo Giustiniani ma al contrario dalla loro spinosità, e dal fatto che determinati snodi (ad esempio sulla giurisdizione del clero orientale o sulla necessità di ripetere la cresima) non avevano ancora avuto piena risoluzione teorica o risultavano comunque imbarazzanti. Eloquente era poi il caso di quell’aggettivo, «scismatici», vergato con un riflesso condizionato e poi cancellato, lasciando come unica qualifica l’anodino «di altro rito».
55Nel suo governo pastorale, il vescovo Giustiniani aveva dovuto scontrarsi con la locale missione gesuita, presente sin dal 1590 e composta di membri originari di Chio, autoctoni come quei domenicani che da secoli gestivano un convento sull’isola89. Con il passare degli anni, sempre più frequente si fece però l’arrivo di missionari europei, inquadrati non più solo negli ordini religiosi ma in una nuova istituzione romana, destinata a divenire determinante nella gestione dell’apostolato cattolico e dei rapporti tra i vecchi e i nuovi cattolici del Levante e i loro connazionali «scismatici».
La nuova ondata missionaria tra la Congregazione di Propaganda e il Sant’Uffizio
56L’istituzione della Congregazione de Propaganda fide il 6 gennaio 1622 rappresentò un punto di svolta fondamentale nel secolare rapporto tra le Chiese orientali e Roma, come in generale per la storia di tutte le missioni cattoliche. Non fu un evento improvviso o inatteso, ma al contrario la tardiva e meditata risposta ad esigenze che duravano da più di un secolo. Il contesto che ne rese possibile la nascita fu infatti quello dei travagli religiosi e politici del Cinquecento. Se le scoperte geografiche e l’espansione coloniale nelle Indie occidentali e orientali avevano aperto nuovi territori all’evangelizzazione, la Riforma e la spaccatura confessionale dell’Europa avevano determinato la necessità di difendere ed espandere la fede cattolica anche all’interno del vecchio continente. Di fronte alla sfida protestante, il Concilio di Trento si era preoccupato di riaffermare le tradizioni della Chiesa di Roma, ma aveva saputo anche rinnovarle, fissando dottrine e disciplinando pratiche che fino ad allora non avevano ricevuto una regolamentazione definitiva. La nuova sensibilità prodotta dalla Controriforma si tradusse in un rinnovato slancio apostolico, sia tra i pagani dei territori di recente scoperta che tra i rudes delle «indie interne», grazie anche alla nascita di nuovi importanti ordini religiosi, come i gesuiti, i cappuccini o i carmelitani scalzi. A ciò si aggiungeva – sul piano che più ci interessa – il rinnovato interesse per l’Oriente cristiano, particolarmente dopo gli sforzi unionisti del pontificato di Gregorio XIII e gli sviluppi illustrati nel paragrafo precedente, così come il lento ma inesorabile venir meno dell’ideale crociato, affiancato già in età medievale dall’approccio missionario e poi progressivamente da esso sostituito nel suo slancio vitale e nei suoi obiettivi strategici90.
57Lungo il secolo XVI non erano mancati tentativi di organizzare in modo più coerente e centralizzato le missioni cattoliche, cercando in particolare di riportare in mano al pontefice il controllo allora esercitato soprattutto dagli ordini regolari e dalle monarchie europee: ma questi sforzi fino ad allora o si erano arrestati al livello della proposta, come nel caso delle idee di Juan Bautista Vives sulla formazione di un clero indigeno, oppure avevano avuto una durata effimera, come nel caso della congregazione per le missioni creata da Clemente VIII e non sopravvissuta alla morte dell’onnipotente cardinale Giulio Antonio Santoro, o della sovrintendenza sull’azione apostolica da parte dei carmelitani scalzi durante il pontificato di Paolo V91.
58Riguardo alle circostanze storiche che riuscirono infine a determinare nel 1622 la fondazione di Propaganda, le interpretazioni rimangono contrastanti. C’è ad esempio chi ha rivendicato la centralità del contesto europeo, con la ripresa della lotta antiprotestante dopo la battaglia della Montagna Bianca (1620); ma non bisogna dimenticare che, in un breve del 24 giugno 1622 indirizzato all’arcivescovo greco-melchita di Aleppo Malâtyûs Karma, papa Gregorio XV sembrava invece affermare di aver eretto la Congregazione per il soccorso delle Chiese orientali92. Un altro aspetto, forse ancor più fondamentale, era poi quello legato alla necessità di svincolare le missioni dal legame con l’apparato coloniale messo in atto dalle corone iberiche. Il patronato (real padroado) concesso dai pontefici tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento ai re di Spagna e di Portogallo lasciava a questi ultimi il compito di organizzare e finanziare l’evangelizzazione dei territori conquistati nel Nuovo Mondo e in Asia, ma così facendo consentiva loro anche il pieno controllo della vita religiosa locale, compresa la scelta della gerarchia ecclesiastica. Tutto questo non poteva non scontrarsi alla fine con la visione post-tridentina del papato come suprema istanza giuridica, tanto più quanto emergeva anche la consapevolezza dei problemi creati dalla confusione tra azione apostolica universale e interessi politici nazionali.
59Urgeva la creazione di un’istituzione che permettesse di superare, almeno parzialmente, la contraddizione insita nello status del missionario, legato da una doppia fedeltà perché «da un lato suddito di una potenza coloniale e membro della chiesa nazionale di un paese e, dall’altro lato, rappresentante in partibus infidelium del potere spirituale universale del Pontefice romano». Questa dicotomia non riuscì mai ad essere superata fino in fondo (lo vedremo nel dettaglio nel caso dell’influenza francese sulle missioni del Levante), ma la Propaganda investì effettivamente sulla formazione e la direzione di un clero missionario fedele a Roma, grazie anche allo stabilimento nel 1627 di un convitto in Piazza di Spagna (il Collegio Urbano) destinato ad accogliere giovani di ogni lingua e paese per produrre operai apostolici «romani d’intelletto e di cuore »93.
60In ogni caso, i documenti iniziali della nuova istituzione ne delineavano con chiarezza i caratteri e il compito: nella costituzione fondativa (Inscrutabili Divinae Providentiae arcano, 22 giugno 1622) si richiamava il dovere di portare la dottrina cattolica tra i pagani, gli «Agareni» (i musulmani), i cristiani orientali separati dallo scisma e quelli del Nord Europa infettati dall’eresia riformata; per far questo il pontefice aveva approntato una congregazione di cardinali con competenza su omnia et singula negotia ad fidem in universo mundo propagandam pertinentia. Nella lettera circolare con cui veniva annunciata ai nunzi apostolici la nascita della Propaganda, si sottolineava invece la peculiarità del nuovo organismo, attraverso una distinzione delle due maniere principali di esercitare «la cura della fede cattolica»:
l’una di conservarla ne’ fedeli, costringendoli etiandio con pene a ritenerla fermamente, l’altra di spargerla e propagarla negl’infedeli; perciò due maniere di procedere sono ancora state tenute nella Chiesa santa, l’una giudiciale, onde l’officio della Santa Inquisizione si trova istituito, l’altra morale o piuttosto apostolica, onde le missioni degli operai fra i popoli, che più n’hanno bisogno, s’indirizzano del continuo.
61Quest’ultima sarebbe dovuta esser condotta in modo «soave» e senza «drizzar tribunali», in modo da tranquillizzare anche quelle potenze nei cui territori (europei o coloniali) i missionari si sarebbero trovati ad agire94.
62Questa distinzione teorica con le attività dell’altra grande congregazione romana, quel Santo Uffizio dell’Inquisizione romana e universale istituito esattamente ottant’anni prima (Licet ab initio, 1542), deve però essere sfumata e ricondotta alla realtà di un rapporto complesso ed inscindibile. Non soltanto tra l’inquisizione e la missione si ritrova infatti un legame simbolico e concettuale più stretto di quanto si potrebbe pensare95, ma nella pratica la collaborazione e il confronto tra i due organi fu fondamentale nello sforzo di giuridicizzazione dell’attività missionaria, condotto attraverso il controllo delle «facoltà» concesse ai religiosi, la supervisione della loro applicazione e la risposta ai loro «dubbi».
63In precedenza, tra il XIII e il XVI secolo, gli ordini missionari avevano ricevuto deleghe e facoltà canoniche molto ampie e indeterminate, di cui raramente era specificata la durata o l’estensione – si pensi alla bolla del 1234 con cui Gregorio IX consentiva ai francescani di baptizare infideles, convertere, absolvere et conversos, si ratio exigat, charactere clericali insignire o al più conosciuto caso moderno, quello del breve di Adriano VI che concedeva ai missionari regolari omnimodam nostram auctoritatem sotto il solo controllo dei superiori degli ordini (Exponi nobis fecisti, 1522). A partire dalla sua nascita, il Sant’Uffizio fu investito in maniera più o meno disordinata anche della regolazione delle questioni dottrinali sorte dal nuovo apostolato, esercitando tale compito in solitudine fino al 1622, quando si trovò a dover convivere con un’istituzione appositamente dedicata alla gestione degli affari missionari. I cardinali inquisitori non cedettero però mai realmente le prerogative acquisite e, dopo alcuni confronti di giurisdizione, si venne a formare una prassi che rimase sostanzialmente inalterata per tutta l’età moderna. La concessione delle facoltà missionarie (che potevano comprendere l’assoluzione dai peccati riservati come l’eresia, l’apostasia o lo scisma, così come l’amministrazione dei sacramenti al di fuori delle normali condizioni previste dal diritto canonico) fu disciplinata negli anni ’30 tramite una commissione mista composta di membri delle due congregazioni, che procedette alla stesura delle regole fondamentali e di dieci formule prefissate a seconda dei casi. Tali facoltà venivano inoltre concesse mantenendo un controllo sull’identità dei religiosi a cui erano destinate e soprattutto su base temporanea, in modo tale che, una volta scaduto il termine prefissato, il missionario fosse costretto a domandarne un rinnovo che passava tramite un esame accurato del suo operato. Se a questo si aggiunge che i superiori delle missioni erano tenuti ad inviare regolarmente dei rapporti sullo stato dei territori a loro affidati e che i vicari patriarcali e i vescovi delle comunità latine presenti nel territorio ottomano dovevano regolarmente compiere visite pastorali e ad limina, si capisce come la curia romana cercasse di raccogliere la maggior quantità possibile di informazioni sull’andamento dell’azione apostolica e sulla vita delle comunità cattoliche in Oriente96.
64All’interno di questa corrispondenza comparivano spesso incertezze ed esitazioni da parte dei missionari, con richieste di chiarimento sul comportamento da tenere in situazioni ambigue: i dubbi di carattere dottrinale (ad esempio sulla corretta amministrazione dei sacramenti e la conformità con l’ortodossia dei costumi vigenti nelle terre di missione) che raggiungevano la Propaganda venivano da questa girati per un esame più approfondito alla Congregazione competente, quella appunto della Sant’Uffizio. Qui essi erano affidati allo studio dei consultori, esperti incaricati di proporne una risoluzione attraverso un motivato parere teologico-canonico. I loro voti erano poi esposti durante le riunioni settimanali dei cardinali inquisitori (normalmente durante la feria quarta, il mercoledì) e quindi, se da questi approvati, sottoposti al Pontefice il giorno successivo durante la congregazione coram Sanctissimo: a lui spettava l’ultima parola in merito alla loro ratifica o al rimando ad un ulteriore esame. Le decisioni finali davano luogo a decreti o istruzioni, inoltrate dalla Propaganda ai missionari che avevano sollevato la questione o notificate in generale a tutti i religiosi, costituendo un precedente anche per le successive risoluzioni su materie analoghe, sulla base di un principio giurisprudenziale97 (fig. 6).
65In questa triangolazione il trasferimento delle informazioni non era neutrale, ma era piegato spesso ai rapporti di forza in campo tra le due Congregazioni e soprattutto alla dialettica tra centro e periferia, così come alle rivalità tra gli stessi ordini missionari. Se è vero che il Sant’Uffizio riuscì a mantenere la priorità del proprio ruolo nella concessione delle facoltà e nella risoluzione dei dubbi, è anche vero che riguardo a questi ultimi Propaganda non si limitava a notificarli semplicemente, ma ne poteva influenzare la risoluzione attraverso la scelta della documentazione da allegare e il modo in cui presentare il caso; d’altro canto, i principi assoluti in base ai quali lavoravano i consultori del tribunale inquisitoriale erano spesso molto lontani dal trovare applicazione diretta nelle condizioni concrete di vita dei missionari e delle comunità cristiane extra-europee. In molti casi, anzi, giungevano a Roma esplicite lamentele rispetto all’impossibilità di rispettare i decreti e le istruzioni ricevute, e alcuni religiosi arrivarono a rivendicare il primato della conoscenza pratica ottenuta “sul campo” rispetto ai ragionamenti astratti di teologi e canonisti. Nel caso del dibattito relativo al problema della communicatio in sacris tra cattolici e «scismatici», una tale dialettica è presente fin dagli inizi, addirittura in uno dei primissimi casi in cui la questione fu sottoposta all’attenzione dei cardinali. Nel 1635 questi ultimi bollarono come «erronea» la proposizione espressa dall’ex Custode di Terra Santa, padre Paolo da Lodi, secondo la quale i convertiti cattolici potevano «andare tuta conscientia alle chiese de Greci et ascoltare le loro messe, purché col cuore detestino gli errori che detesta la Santa Romana Chiesa». Tale condanna parve ingiusta sia al successore di padre Paolo, il nuovo custode Andrea d’Arco, sia al superiore dei missionari cappuccini in Egitto, Agathange de Vendôme. Questi ebbe il coraggio di far notare alla Congregazione che per giudicare in modo appropriato della questione
è necessario di havere perfetta e distincta notitia di tutte le circonstanze dei luoghi, tempi, persone, riti e altre cose le quali non possono havere i dottori di Christianità, i quali non hanno havuto la pratica di questi paesi; però mi pare che il giudicio si deve lasciare alli missionarii, i quali per innanzi hanno giudicato che non si doveva interdire tale communicatione, stando che l’opinione contraria leva via ogni modo et via e speranza di fare bene alcuno nella missione.98
66Vedremo meglio nei capitoli appositamente dedicati allo studio di tale questione (ma lo stesso identico discorso potrebbe essere fatto nel caso di altre querelles che dilaniarono allora il mondo missionario, ad esempio la controversia dei riti cinesi o malabarici) come l’interpretazione dei documenti circolanti tra Roma e le missioni subisse continuamente delle radicali forzature, in modo da confermare pregiudizi pregressi e comportamenti ritenuti inevitabili. Non solo: le stesse autorità romane per un certo periodo preferirono in effetti rimettersi al giudizio degli attori in campo, evitando di formulare pronunciamenti generali su questioni spinose e limitandosi a proibizioni generiche o più spesso ad un imbarazzato silenzio.
67Non bisogna d’altro canto immaginare che il fronte dei missionari fosse compatto ed unito nel rivendicare una posizione comune frutto dell’esperienza concreta: tutt’altro. I religiosi erano divisi da rivalità nazionali e politiche, dalla tradizionale contrapposizione tra ordini, dalla maggiore o minore intransigenza di fronte ai compromessi richiesti dalle condizioni locali, così come dall’aderenza più o meno rigida alle istruzioni romane e in particolare proprio dal loro rapporto con la Congregazione di Propaganda. È il caso della conflittualità che si venne a creare tra gli allievi del Collegio Urbano (i missionari «apostolici» per eccellenza, religiosi secolari che avevano ricevuto la loro formazione dalla Propaganda e a lei sola facevano riferimento) e gli esponenti degli ordini regolari, che spesso tendevano a prendere ordine dai propri superiori piuttosto che dai vescovi e dai vicari apostolici inviati da Roma. In un memoriale del 1678, il segretario di Propaganda Urbano Cerri constatava amaramente che vi erano «due sorti di missionari»: «alcuni che dipendono direttamente dalla Congregazione e che da Lei ricevono le facoltà, l’istruzioni e anche le provisioni; altri che vanno con privileggio delle proprie Religioni e poco o niente dipendono dalla Congregazione; i primi sono dalla Congregazione rimossi e anche castigati, ma i secondi… vivono a modo loro»99. Il riferimento polemico principale erano i gesuiti: il successo della loro attività apostolica in Oriente (di cui avevano inizialmente avuto il monopolio) e il legame preferenziale con il pontefice, espresso dal quarto voto di obbedienza, li spingeva a rivendicare una più marcata autonomia rispetto alla Congregazione: ecco allora che le questioni delicate o i dubbi venivano perlopiù risolti all’interno dell’ordine stesso, senza informare dettagliatamente Roma. Tale indipendenza, unita all’ostilità crescente suscitata dalla Compagnia di Gesù in molti ambienti curiali, contribuì a radicare un pregiudizio negativo da parte della Propaganda, che finì per sfociare in un anti-gesuitismo “istituzionale”100. Altre rivalità tradizionali nascevano poi dal conflitto per il controllo religioso ed economico delle nuove comunità di convertiti (come vedremo studiando la storia degli armeni di Costantinopoli all’inizio del XVIII secolo), o in generale da culture ed approcci missionari divergenti, come si capisce confrontando tra loro la formazione di domenicani, gesuiti, cappuccini o mechitaristi101.
68Le soluzioni pensate dal primo segretario e reale organizzatore della Propaganda, Francesco Ingoli (1622-1649), erano state di ricorrere al clero indigeno o a quello secolare, in modo da diminuire la conflittualità, aumentando contestualmente la capacità di controllo sull’azione apostolica. Se come si è detto la prima opzione riuscì solo parzialmente, grazie all’educazione fornita dal Collegio Urbano e dagli altri collegi romani (greco, maronita, etc.), la seconda si appoggiò sostanzialmente sulla nascita alla metà del secolo della Société des Missions Étrangères di Parigi, che fornì seminaristi e sacerdoti secolari, ma soprattutto vicari apostolici per l’Estremo Oriente. In questo modo si riuscì a scavalcare il padroado portoghese nelle Indie, ma al prezzo del riconoscimento di un’altra influenza, quella della Corona francese, che finanziava la Société102.
69La dipendenza della Propaganda dal sostegno materiale e umano francese divenne sempre più evidente anche nell’area geografica che più ci interessa, il Levante ottomano. Lì non esisteva un patronato istituzionalmente stabilito come nel caso dei territori coloniali delle monarchie iberiche, ma la penetrazione commerciale e diplomatica francese illustrata nel capitolo precedente rendeva indispensabile per i missionari il ricorso alla protezione dei rappresentanti del Re Cristianissimo. La stessa Congregazione, nonostante fosse conscia dei pericoli che questo comportava, soprattutto nei momenti in cui riemergevano periodicamente tendenze gallicane, accettò questo fatto, finendo anzi per proporre la protezione francese come il principale mezzo di risoluzione delle domande di aiuto economico o politico rivolte dai religiosi in difficoltà. Del resto, non c’erano alternative: per ottenere dalle autorità ottomane l’autorizzazione necessaria all’installazione di religiosi cattolici e i berat di investitura per i prelati orientali favorevoli all’unione con Roma, si doveva passare dalle arti diplomatiche dell’ambasciatore francese. Prima ancora di tutto, il sostegno materiale francese era necessario anche per i concreti collegamenti navali che permettevano a uomini e informazioni di circolare tra il Levante e Roma103. Ma come si era arrivati a questo?
Dalla crociata alla missione: la protezione francese
70Lo stabilimento delle missioni nel Levante e la contemporanea affermazione di un’ideologia politica che legava inscindibilmente successo apostolico e fortuna della monarchia francese si devono soprattutto all’instancabile azione portata avanti nei primi decenni del Seicento da François Le Clerc du Tremblay. Frate cappuccino, conosciuto in religione come «père Joseph», per più di vent’anni fu braccio destro del cardinale Richelieu, tanto da meritare un soprannome che diventerà poi proverbiale, «l’eminenza grigia» (dal colore del manto e dal titolo del suo protettore, che fino all’ultimo brigò per elevarlo al medesimo grado)104. Nobile per estrazione ed educazione, avviato sin da ragazzo ad una carriera militare, il suo ingresso nell’ordine serafico all’età di 22 anni, nel 1599, non gli aveva impedito di emergere da subito anche in quest’ambito grazie alle proprie doti intellettuali e morali: fu coadiutore e poi superiore della provincia di Tours, autore di importanti opere di carattere mistico-ascetico, fondatore insieme ad Antoinette d’Orléans-Longueville di una nuova congregazione religiosa femminile, le «filles du Calvaire» (Benedettine di Nostra Signora del Calvario).
71La passione per i Luoghi Santi si tradusse in un impegno diretto alla loro liberazione, che tra il 1616 e il 1620 determinò la produzione di numerosi pamphlet ma anche e soprattutto la tessitura di un progetto politico-militare molto ambizioso. Cresciuto in un clima politico e culturale che continuava a coltivare antichi ideali crociati, nel 1616 il cappuccino individuò in Carlo di Gonzaga, duca di Nevers, il soggetto adatto a guidare un nuovo ordine religioso votato alla lotta contro il Turco: l’Ordine della milizia cristiana. Carlo discendeva per parte di madre dalla dinastia Paleologa, e si pensava che fosse quindi legittimato ad aspirare al trono d’Oriente e che sarebbe stato sostenuto dagli stessi greci; inoltre poteva finanziare la spedizione militare e con il beneplacito del pontefice e del re di Francia le prospettive erano benaugurali. Gli anni successivi furono un turbinio di missioni diplomatiche per garantire il successo dell’operazione, dalla visita a Paolo V e ai prìncipi italiani fino alla spedizione a Madrid, mentre si armavano le galee e si preparavano battaglioni105.
72Père Joseph era però anche un uomo di stato: e quest’ultimo aspetto venne alla fine a confliggere con il piano iniziale, determinandone il fallimento e il suo reindirizzamento in tutt’altra direzione. Dopo la defenestrazione di Praga e gli eventi della Valtellina, quando fu chiaro che si prospettava all’orizzonte una nuova guerra europea, cominciò ad emergere la sostanziale contraddizione tra un progetto che vedeva al suo centro l’idea di Cristianità (guidata dalla Francia, certo, ma comunque in un quadro ancorato al mito dell’unione delle armi contro l’infedele) e la realtà di una politica che guardava agli interessi nazionali a spese dell’unità europea, minando nei fatti ciò che rendeva possibile la nuova crociata. La strategia messa in campo dal du Tremblay per conto di Richelieu dopo il 1624 giocò a sostenere i nemici di Spagna e Austria, come il protestante Gustavo Adolfo di Svezia: in questo modo la religione finiva per subordinarsi alla politica. Nei fatti, come afferma Gustave Dupront, «sa volonté à préparer la croisade n’a d’égale que son efficacité à détruire la survivance d’un monde où elle demeurait possible »106. Nel 1625 Urbano VIII approvò l’Ordine della milizia, ma nello stesso anno il duca di Nevers e il père Joseph si accordarono per un aggiornamento indefinito dell’operazione: il Gonzaga passerà ad occuparsi di Mantova e le truppe preparate per combattere il Turco finiranno ad assediare La Rochelle.
73Nacque allora un piano alternativo, coltivato negli anni precedenti: non più l’attacco militare dell’Europa unita all’Impero ottomano, ma la penetrazione insieme cattolica e francese nel Levante tramite le missioni cappuccine. A poco più di un anno dalla fondazione di Propaganda, père Joseph ne divenne il referente principale alla corte di Francia e il responsabile dello stabilimento di avamposti missionari in Anatolia e Siria: ottenne così che fosse un membro del suo ordine, Pacifique de Provins, ad essere il primo religioso cattolico a stabilirsi ufficialmente a Costantinopoli107. Nel 1625 du Tremblay fu nominato commissario apostolico e prefetto delle missioni d’Oriente e negli anni successivi contribuì a far nascere le stazioni di Chio, Aleppo, Sayda etc. Contemporaneamente, non dismetteva i panni dell’uomo di stato: nel 1629, si oppose recisamente all’invio di missionari cappuccini di nazionalità diverse da quella francese, impedendo ad esempio che il convento di Pera a Costantinopoli ospitasse religiosi veneziani dell’ordine108. Nel corso del XVII secolo la corona di Francia divenne una referente fondamentale per la Congregazione di Propaganda Fide, che si appoggiò alla sua influenza politica ed economica in innumerevoli occasioni, non soltanto nelle liti con il clero orientale o le autorità ottomane ma anche nelle dispute interne alla stessa comunità cattolica: senza il sostegno dell’ambasciatore francese, ad esempio, non sarebbe mai riuscita ad imporre il proprio controllo diretto sopra la comunità latina di Costantinopoli, che avrebbe voluto continuare a regolarsi tramite le proprie istituzioni comunitarie (la «Magnifica Comunità di Pera») anziché rispondere in tutto ad un vicario patriarcale nominato da Roma. L’effetto collaterale fu quello di accrescere in maniera esponenziale il ruolo dei rappresentanti francesi anche nelle questioni strettamente religiose, finché la Congregazione non arrivò a riconoscere anche formalmente questo stato di fatto: nel 1722 prescrisse ai superiori delle missioni nella capitale il divieto di «innovare cos’alcuna… senza il sentimento et approvazione dell’Ecc.mo Sig.r Ambasciatore di Francia »109.
74Insomma, nonostante i proclami iniziali secondo i quali i religiosi non dovevano «impacciarsi in nessuna maniera delle cose di stato» e viceversa, in realtà l’eredità del progetto di père Joseph contribuì a legare indissolubilmente la salute della religione cattolica nel Levante con quella della monarchia di Francia, con casi più o meno eclatanti di collaborazione o scontri tra consoli e missionari110. Per esaminare nel dettaglio alcuni di questi intrecci, il quadro d’osservazione ideale è la Grande Siria della seconda metà del XVII secolo. Si tratta di un contesto ricco di particolari motivi d’interesse: innanzitutto per l’importanza economica e politica del principale consolato, quello di Aleppo, stabilito sin dalla metà del Cinquecento; in secondo luogo perché, nonostante le cappelle consolari e le locali parrocchie latine fossero sotto la protezione del Re Cristianissimo, buona parte dei frati minori di Terra Santa che ne avevano cura (soprattutto a Gerusalemme) erano originari dei territori iberici e italiani, sudditi cioè di una potenza rivale; infine a causa del particolare attivismo di alcuni missionari, che condusse ad un notevole successo di apostolato tra i cristiani orientali ma anche alla nascita di scontri con le gerarchie «scismatiche» e le autorità ottomane, problemi che i consoli francesi dovettero in un modo o nell’altro affrontare111.
75Per render conto delle rivalità che potevano scatenarsi in seno al mondo cattolico, basti ricordare alcuni esempi. Nel 1661, a Gerusalemme, un pellegrino francese giunse a minacciare con la spada il padre guardiano perché un religioso di Terra Santa aveva ricordato nelle preghiere pubbliche il re di Spagna prima del re di Francia; nel 1709 il console francese di Sayda fece imbarcare a forza per l’Europa il Custode Gaetano da Palermo, a causa delle frizioni interne con gli altri membri dell’ordine, ma anche per motivi politici112. Nel 1692 l’ambasciatore Chateauneuf riferiva a corte che il console di Aleppo Chambon aveva seri motivi di dissenso con il curato francescano, dato che quest’ultimo pregava per l’imperatore ma non per il re di Francia113.
76Gelosie e rivalità erano poi una costante delle relazioni tra i diversi ordini missionari, come attesta l’estenuante conflitto tra frati minori, cappuccini e gesuiti intorno alla cura della cappella consolare di Aleppo, l’unica chiesa cattolica riconosciuta dalle autorità ottomane in città e come tale molto ambita: un giorno, riferiva il console, vi si erano trovati «sept jésuites, sept cordeliers et un capucin qui voulaient célébrer, et une matinée ne suffisait pas pour pouvoir dire tant de messes»114. In effetti, il numero di missionari cattolici presenti ad Aleppo negli anni ’80 del Seicento era cospicuo: oltre ad una ventina tra gesuiti, padri di Terra Santa e cappuccini presenti in pianta stabile, si aggiungevano frequentemente i religiosi di passaggio sulla via terrestre per le missioni di Persia o dell’Estremo Oriente. Poiché il console francese aveva quasi sempre l’onore e l’onere di accogliere i nuovi arrivati e provvedere al loro sostentamento, alla lunga questa situazione cominciò a pesare, tanto più che alcuni tra i religiosi non perdevano occasione di suscitare disordini, provocando inevitabilmente multe e ammende pecuniarie che andavano ulteriormente a gravare sulle finanze della nazione. In alcuni casi si ricorreva allora a rimedi drastici: nelle sue memorie il console d’Arvieux (1679-1686) ammetteva di aver dovuto imbarcare a forza due missionari115. Ma più spesso si era costretti a conciliare, come nel caso delle rivalità tra ordini diversi, un problema che rimase assillante per molto tempo: ancora nel 1740, l’ambasciatore de Villeneuve affermava che uno dei compiti dei rappresentanti della corona era proprio quello di cercare di tenere insieme le tante diverse opinioni e attitudini dei religiosi, nella consapevolezza che non si sarebbe mai potuti arrivare all’unione delle Chiese se i missionari non avessero cominciato per primi a dare mostra di unità116.
I missionari all’opera
77Il clero cattolico disperso nel Levante ottomano dipendeva essenzialmente dall’autorità del vicario apostolico di Costantinopoli (rappresentante di Propaganda, insignito della dignità episcopale dal 1652), del Guardiano di Terra Santa e dei prefetti dei vari ordini missionari. A loro si aggiungevano eventualmente i vescovi residenti in quelle aree dove esistevano storicamente piccole comunità latine, come nell’arcipelago greco, anche se abbiamo detto come i rapporti tra missionari e ordinari fossero normalmente piuttosto conflittuali. In queste zone e nei sobborghi di Costantinopoli i religiosi erano incaricati anche della cura pastorale dei latini sudditi dell’Impero, oltre a provvedere un po’ ovunque alle necessità spirituali dei consoli e mercanti europei117. L’attività missionaria vera e propria, invece, era rivolta essenzialmente verso i cristiani orientali, dato che l’apostolato tra i musulmani era fuori discussione (chi vi si accingeva incautamente rischiava la vita insieme ai convertiti) e che quello tra gli ebrei dava pochissimi frutti; in modo del tutto occasionale si riusciva a guadagnare alla fede cattolica qualche protestante tra i mercanti di passaggio.
78I missionari erano per lo più francesi (cappuccini e gesuiti), italiani e spagnoli (soprattutto tra i francescani della Terra Santa) o levantini, originari cioè delle comunità esistenti da tempo sulle isole greche e a Pera-Galata (particolarmente tra i domenicani). Le conoscenze linguistiche di questi ultimi comprendevano evidentemente greco e italiano, con qualcuno in grado di parlare anche in turco; ma non sempre era così, nonostante le raccomandazioni del père Joseph ai primi missionari sottolineassero sin dall’inizio l’importanza dello studio delle lingue. In Siria e Palestina sono note le lamentele dei prefetti contro la scarsa preparazione dei nuovi arrivati: nel 1656, su ventisette religiosi presenti in Terra Santa, solo due sapevano l’arabo. Lo stabilimento di scuole di lingue orientali in Europa non migliorò veramente la situazione, anche per l’ampio iato tra le versioni classiche del greco e dell’arabo presenti nelle grammatiche e la varietà dei dialetti realmente parlati nei vari contesti: soltanto l’esperienza sul campo portava a raggiungere l’eccellenza. Tra gli esempi che si possono fare, c’è quello del già citato Justinien de Neuvy, cappuccino poliglotta, ritenuto predicatore efficace nella lingua armena e capace anche di imparare sul posto il dialetto curdo parlato da un gruppo religioso fino ad allora sconosciuto, gli Yezidi118.
79Nel XVII secolo, l’apostolato cattolico nel Vicino Oriente si caratterizza per alcuni tratti comuni ad ogni contesto geografico ed ecclesiale, ma anche per alcune particolarità tipiche dei diversi ordini. Tra gli elementi ricorrenti ovunque, oltre ovviamente alla predicazione, si segnala lo stabilimento di scuole aperte ai giovani di tutte le confessioni cristiane: l’insegnamento era soprattutto un modo efficace di trasmettere la dottrina cattolica alle nuove generazioni, ma lo sforzo educativo intrapreso dai missionari veniva apprezzato dalle comunità locali. Soprattutto in una prima fase, esso era ben visto anche dallo stesso clero orientale, che ammirava la superiore preparazione intellettuale dei religiosi europei ed il fatto che questi ultimi potessero ricorrere a strumenti didattici appositamente elaborati, come catechismi, dizionari e altri volumi stampati in Europa. L’arcivescovo melchita di Aleppo Malâtyûs Karma e i vari vescovi greci dell’arcipelago egeo sono altrettanti esempi di gerarchi orientali che nella prima metà del Seicento sollecitarono le attività educative e culturali di Roma nelle loro diocesi; nel 1628 l’abate del monastero di Vatopedi pregò Urbano VIII di inviare sul Monte Athos qualcuno che potesse aprirvi una scuola, che venne effettivamente fondata e gestita da un allievo del Collegio Greco tra il 1635 e il 1641119. Particolarmente efficaci erano poi le nuove forme di devozione sviluppate nel clima della Controriforma, come processioni, quarantore o l’organizzazione del laicato in confraternite dedicate alla recita del rosario. L’apostolato passava però soprattutto dal contatto personale tra il fedele e il missionario, particolarmente attraverso la confessione e la direzione spirituale, svolta in modo più o meno clandestino nelle case dei fedeli: in quel contesto vi era anche l’occasione per sollecitare forme di introspezione e di devozione privata, grazie alla diffusione di immagini sacre o di brevi testi da meditare120.
80Ogni ordine aveva però il proprio modo particolare di radicarsi nel territorio, guadagnare nuove anime e mantenerne il controllo: grazie all’antichità e alla potenza economica del loro istituto, i frati minori di Terra Santa potevano godere delle relazioni di amicizia e collaborazione stabilite con i vertici delle comunità e con le autorità ottomane, mentre i cappuccini sfruttavano le loro conoscenze mediche per acquistarsi il favore dei capi locali e il loro aspetto ascetico per suscitare l’ammirazione del popolo121. I gesuiti rimarcavano invece l’impegno culturale, l’integrazione nella società (a differenza dei membri degli altri ordini, non portavano un abito preciso ma adottavano spesso quello dei cristiani orientali tra cui si recavano), la diffusione di pratiche devozionali particolari come gli esercizi spirituali e di strumenti didattici innovativi: uno dei più efficaci missionari nell’Anatolia orientale, Jacques Villotte, elaborò nel 1690 una specie di gioco dell’oca finalizzato alla memorizzazione dei misteri della religione cristiana122. I membri della Compagnia sembrano esser stati anche tra i più consapevoli dell’importanza della componente femminile tra i neofiti, valorizzandola: la creazione di gruppi di devote e vergini consacrate (mayrapet) tra gli armeni fu ad esempio una delle strategie di maggior successo agli inizi del XVII secolo, anche se in alcuni casi finì per suscitare scandalo non soltanto nella società ottomana (poco abituata al livello di intimità richiesto dal rapporto tra padre spirituale e devote) ma anche nelle stesse autorità cattoliche, che non vedevano di buon occhio le relazioni spirituali troppo “esclusive”123.
81I missionari avevano come validi alleati nella loro attività i libri, che un gesuita attivo a Smirne riteneva più utili degli stessi operai apostolici: «les livres ont cela par dessus les missionnaires, qu’ils pénètrent partout, annoncent sans crainte les véritez de la Foy, ne coustent guère et profitent beaucoup» . La stampa era inoltre uno strumento di cui nell’Impero ottomano fu per lungo tempo impossibile usufruire liberamente: se si escludono i brevi e più o meno clandestini tentativi di installare a Costantinopoli una tipografia armena nel 1567-69 ed una greca nel 1627 (in entrambi i casi sotto l’ombra dell’istituzione ecclesiastica, il kat‘ołikos Mik‘ayel di Sebaste e il patriarca armeno Yakob I nel primo caso, il patriarca greco Loukaris nel secondo), e poi ancora l’effimera esperienza del letterato armeno Eremia K‘ēōmiwrčean nel 1677, bisognò aspettare gli ultimi anni del XVII secolo perché le stamperie cominciassero ad apparire nella capitale ottomana. Questo non vuol dire tuttavia che nel Mediterraneo orientale non circolassero volumi e pamphlet stampati in lingue orientali, al contrario: ma erano frutto di tipografie stabilite in Europa, soprattutto in grandi città come Parigi, Amsterdam o Venezia. Se agli occhi della curia romana i volumi stampati in Olanda o Inghilterra risentivano dell’influenza protestante e più tardi dell’indipendenza intellettuale della nascente orientalistica, quelli editi nella laguna da parte delle locali comunità greche e armene godevano comunque di un’eccessiva libertà: era dunque necessario da un lato censurare o prevenire la stampa incontrollata nelle lingue orientali, dall’altro gestirne direttamente la produzione editoriale. I due fattori erano strettamente collegati, dato che anche quanti si mostravano aperti alle influenze cattoliche non esitavano a ricorrere alle tipografie dei paesi protestanti, se necessario: è il caso della Bibbia in lingua armena, della cui urgenza nel 1632 Yovhannēs Ankiwrac‘i (Giovanni Molino) aveva avvertito Roma «afin que les Arméniens… ne la fassent pas imprimer chez les Hollandais hérétiques» e che effettivamente fu stampata ad Amsterdam nel 1666124.
82Ecco così che a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo, e soprattutto dal 1626 con la fondazione della Tipografia Poliglotta di Propaganda, a Roma videro la luce numerose opere in greco, arabo, siriaco ed armeno: testi biblici, liturgici o in generale destinati all’utilizzo da parte del clero orientale (spesso anzi sollecitati e richiesti direttamente da quest’ultimo), ma anche opere didattiche, catechetiche o controversistiche. Per limitarsi ad alcuni esempi, nella prima categoria vanno inseriti il calendario gregoriano pubblicato nel 1584 in armeno, lingua in cui compaiono a partire dal 1642 numerosi messali, breviari e tropologi; in arabo è pubblicato nel 1614 un salterio, primo passo dell’opera che condurrà alla traduzione completa della Bibbia nel 1671 (opera soprattutto di eruditi maroniti); l’operazione di revisione e correzione del testo greco dell’Euchologion e dell’Horologion (e la loro traduzione in arabo per le comunità melchite), cominciata negli anni ’30 del Seicento, creò invece molte discussioni in seno alla curia romana, tanto che la loro pubblicazione si trascinò per più di un secolo125. I libri che ebbero maggiore diffusione furono però senz’altro quelli destinati ad un utilizzo pratico da parte dei missionari a contatto con i fedeli delle Chiese orientali, e in questo senso è esemplare il successo del catechismo di Roberto Bellarmino, grazie anche alla sua formulazione in sintetiche domande e risposte facili da memorizzare: la Dottrina christiana ebbe numerose edizioni, sia nella sua versione breve (ed. or. 1597, tradotta per la prima volta in greco da Leonardos Filaras nel 1616, poi in arabo nel 1613 e in armeno nel 1623) che in quella «più copiosa» (ed. or. 1598, versione araba nel 1627, in armeno nel 1630)126. Oltre ai catechismi, si segnalano anche le traduzioni di testi polemici (come le Praecipuae obiectiones di Michel Febvre, pseudonimo del già citato Justinien de Neuvy127), accanto invece ad opere di carattere più conciliatorio. Anche gli strumenti didattici come grammatiche o dizionari furono prodotti in gran quantità dalla tipografia di Propaganda, come dimostra un elenco dei fondi di magazzino stilato nel 1660, in cui costituivano circa la metà dei 12.586 volumi in arabo e siriaco indicati128.
83I religiosi comunque non erano solo utilizzatori dei testi, ma a volte anche autori in prima persona. In quel caso, le loro opere erano rivolte più al pubblico europeo che a quello orientale, come è evidente nei numerosi testi memorialistici scritti dopo il ritorno dalle missione (eredi di una lunga tradizione di letteratura odeporica e di pellegrinaggio in Terra Santa) o nelle lettere inviate direttamente dai gesuiti attivi in Oriente. Queste ultime ad un certo punto vennero raccolte ed edite, non solo a scopo divulgativo ma anche di autopromozione dell’immagine dell’ordine, suscitando controversie con gli altri missionari129. Nelle tradizionali «descrizioni» dell’Oriente un topos ricorrente era quello di elencare la varietà delle confessioni presenti e gli errori dottrinali e liturgici dei cristiani locali, fornendo contemporaneamente il materiale apologetico e controversistico necessario a correggerli. Se si tiene conto che il pubblico europeo era abituato alle polemiche interconfessionali tra cattolici e protestanti, una tale insistenza sulle deviazioni ereticali della Chiesa greca o armena avrebbe potuto riuscire controproducente: proprio durante il XVII secolo, infatti, l’erudizione cattolica si impegnò a fondo per dimostrare che sui punti fondamentali (come il valore dei sacramenti) gli orientali concordavano con Roma e non con le Chiese uscite dalla Riforma. Era un atteggiamento contraddittorio che nasceva dalla duplice considerazione con cui si guardava allora all’Oriente cristiano, da un lato erede naturale della tradizione dei Padri e quindi testimone della fede primigenia, e dall’altro luogo di decadenza e di allontanamento dalla retta pratica religiosa. Come vedremo meglio nel capitolo seguente, la soluzione allora trovata fu quella di insistere sulla corruzione dovuta all’ignoranza e all’influenza negativa di pochi prelati, piuttosto che su di un’oggettiva e sostanziale ereticità delle Chiese orientali: i missionari si presentavano allora come coloro che potevano far riscoprire agli orientali il loro stesso passato, la loro intrinseca ortodossia, liberandoli dallo strato di errori accumulatisi nel tempo130.
84Questo spiega come il testo sicuramente più stampato, richiesto e diffuso, tuttavia, rimanga la professione di fede cattolica, prima nella versione elaborata sotto Gregorio XIII131 e poi nel testo definitivo stabilito da un’apposita commissione durante il pontificato di Urbano VIII, edita a Roma da Propaganda fide a partire dal 1642, con il testo latino sulla pagina sinistra e la versione armena, araba, greca, slavonica etc. su quella destra132. Il testo della professione si basava sui contenuti dogmatici definiti dai concili di Firenze e di Trento, ma come è stato più volte osservato, da ultimo da Aurélien Girard, l’elemento centrale in esso era il giuramento finale di obbedienza finale al papa. Se la dottrina era un campo difficile da formulare e da controllare, dove l’interpretazione delle parole e dei concetti lasciava sempre margini di incertezza, l’obbedienza al romano pontefice era invece una garanzia solida e intrinseca di cattolicità, attraverso la quale era possibile risanare lo scisma, errore primigenio degli orientali e da cui dipendevano in fondo le loro successive deviazioni ereticali. Era in fondo il programma delle missioni cattoliche: prima riunire i cristiani orientali tramite la sottomissione al pontefice dei loro capi gerarchici, poi provvedere a correggere i loro «abusi» ed «errori»133.
85Il XVII secolo è dunque un’epoca in cui i missionari si affannano a raccogliere professioni di fede da tutti i principali prelati orientali a cui possono avere accesso, seguendo la prima strategia delle missioni, quella di convertire segretamente i capi ecclesiastici delle comunità in modo da portare poi progressivamente anche i fedeli (ritenuti sostanzialmente ignoranti o indifferenti all’aspetto dottrinale) all’unione. Tutto questo senza curarsi troppo delle circostanze di ottenimento (sovente mediate dall’interesse economico o politico) né del fatto che alla professione privata seguisse una pubblica scelta di campo ecclesiale. Si sprecano così i casi di vescovi e patriarchi formalmente riconciliati con la Sede romana (o che promisero la professione senza mai ratificarla), ma che in realtà continuarono a svolgere il loro compito pastorale all’interno delle gerarchie ecclesiastiche tradizionali, comunicando dunque costantemente in sacris con gli altri «scismatici ed eretici». Del resto dal punto di vista orientale non era particolarmente difficile riconoscere il primato di Roma (in senso soprattutto onorifico), ma questo non sembrava comportare la necessità di rompere con la propria tradizione ecclesiale: entrambe erano riconosciute come valide. Nel 1711 il Guardiano di Terra Santa confessava alla Propaganda come il numero dei convertiti fosse decisamente inferiore a quello propagandato, «poiché de reconciliati perfetti, non ho trovato gran numero, di reconciliati imperfetti però, molti»134. È allora che la prospettiva romana cominciò a cambiare: se fino agli ultimi decenni del Seicento questa realtà era ancora accettabile, nel XVIII secolo la disciplina del Sant’Uffizio si fece più rigida, da un lato provocando numerosi casi di coscienza e dall’altro rendendo la professione di fede cattolica un passaggio più serio e ricco di conseguenze di quanto non fosse stato in precedenza, anche per l’atteggiamento sempre più ostile delle autorità ottomane. In ogni caso, le professioni scritte di fede servirono anche per costituire un repertorio del cattolicesimo orientale, in base a cui esaminare, accogliere o rigettare le numerose suppliche o richieste che da essa provenivano a Roma135.
«Les affaires de la religion»: François Picquet e la Chiesa sira
86Finora abbiamo esaminato gli strumenti intellettuali e spirituali con cui i missionari cattolici provarono a conquistare anime tra i cristiani orientali: ma è importante rimarcare come i primi significativi successi (ottenuti nella seconda metà del XVII secolo non tanto nella comunità greca, quanto tra quella arabofona e armena) non siano stati frutto soltanto dello zelo apostolico, ma anche e soprattutto di una realtà materiale decisamente più prosaica: l’appoggio economico e politico fornito dai rappresentanti delle monarchie europee e dalla stessa Congregazione di Propaganda Fide. I lavori di Bernard Heyberger e di Molly Greene hanno messo in evidenza come il ricorso alle autorità cattoliche fosse un utile strumento per quei cristiani orientali che avessero subito danni economici, particolarmente a causa delle scorrerie degli ordini militari marittimi come i Cavalieri di Malta e di Santo Stefano: scrivere a Roma o rivolgersi al console francese era allora un’occasione per far valere il proprio statuto confessionale come motivazione per riavere indietro i beni saccheggiati dai corsari cattolici136. Ma per capire a che punto il sostegno politico e finanziario europeo potesse essere determinante nell’invogliare intere comunità ad avvicinarsi alla fede cattolica, è utile esaminare il comportamento di uno dei consoli francesi allora più attivi in questo senso.
87Il console di Aleppo François Picquet (1652-1660) è conosciuto a causa del suo zelo per la fede cattolica, che lo porterà dopo la fine del suo incarico a prendere i voti e a tornare in Oriente come vescovo in partibus di Cesaropoli e vicario apostolico di Babilonia (Baghdad), svolgendo una missione al tempo stesso diplomatica e religiosa presso lo scià di Persia e le comunità armeno-cattoliche del Naxiǰewan (1679- 1685)137. Già durante gli anni aleppini, comunque, Picquet aveva dato prova di considerare gli «affaires de la religion» come uno dei principali compiti di un console e si era impegnato in prima persona per aiutare i missionari nella conversione della locale comunità siro-giacobita. Il console era riuscito in breve tempo ad imporre la propria personalità: basti pensare che nel 1654, durante una rivolta del pascià locale contro l’autorità ottomana, Picquet era stato formalmente stabilito giudice di tutte le contese tra gli abitanti cristiani; disponeva inoltre di mezzi considerevoli138. Quando il vescovo siro di Aleppo morì, i missionari cappuccini e carmelitani pregarono il console di utilizzare la sua influenza per collocare al posto di quello un prelato di sicura fede cattolica, Andrea Akhîjân, già studente a Roma nel collegio maronita. Picquet versò ricchi donativi al patriarca Shim‘ûn perché acconsentisse alla scelta e soprattutto al fatto che il candidato fosse ordinato da un gerarca orientale cattolico, il patriarca dei maroniti: l’impresa ebbe successo e nell’agosto 1656 l’ambasciatore francese a Costantinopoli riuscì a procurare anche un berat di conferma139. Come prevedibile, però, l’elezione non fu accolta con unanime favore, anche perché il nuovo vescovo cercava di evitare di nominare durante la liturgia quei santi giacobiti che erano considerati eretici dalla Chiesa cattolica. Percepito da tutti come un estraneo, dopo meno di un anno Akhîjân dovette lasciare la città in preda ai disordini e rifugiarsi sul Monte Libano, quasi sollevato di non doversi più occupare di una popolazione che professava una fede diversa dalla sua e di un compito che lo costringeva a continui scrupoli di coscienza intorno alla communicatio in sacris140. Picquet però tenne duro e non si diede per vinto, riuscendo anzi a volgere a proprio vantaggio una delle frequenti vessazioni degli ufficiali ottomani locali contro la popolazione cristiana. Dato che durante una notte era stato commesso un omicidio nel quartiere dei siri, il pascià ne aveva approfittato per imporre a tutti loro una multa costosa, impossibile da pagare in quel momento; il console si offrì di versare lui la somma necessaria, chiedendo però in cambio che la comunità accettasse il ritorno di Akhîjân e il suo mandato pastorale, cosa che si verificò il 12 marzo 1658, dopo aver vinto anche le resistenze dello stesso vescovo141.
88Dal racconto emerge un punto che non mancò di sollevare obiezioni e perplessità allora e ancor più in seguito, ovvero il ricorso disinibito del console al denaro per accattivarsi gli animi dei fedeli e del clero orientale. Dietro ai successi apostolici delle missioni cattoliche ad Aleppo c’era (e ci sarebbe stato ancora a lungo) l’ombra dell’interesse economico, quando non della simonia e della corruzione, cosa che non mancava di creare scrupoli ai religiosi ma anche e soprattutto alle autorità romane e francesi. È vero che con il tempo, grazie alla predicazione di Akhîjân, in meno di due anni i religiosi siri «scismatici» di Aleppo passarono da essere una ventina ad uno solo, con un discreto successo anche tra la popolazione; ma come commentò alcuni anni dopo il console Laurent d’Arvieux, era stato soprattutto il sostegno di Picquet a rendere possibile tale soprendente progresso nella diffusione del cattolicesimo. Lo stesso vale per un evento ancor più sensazionale, la scalata al trono patriarcale: quando nel 1662 questo si rese vacante, Picquet e il suo immediato successore nel consolato, François Baron, utilizzarono tutte le loro risorse per ottenere che il titolo andasse proprio ad Akhîjân. Ci riuscirono, ma al prezzo di spaccare la Chiesa giacobita, una cui parte elesse un proprio rappresentante alternativo nella persona di ‘Abd al-Masîḥ, spalleggiato dal kadı di Diyarbakır. La Congregazione di Propaganda, messa davanti al fatto compiuto, non poté che prendere atto di quanto avvenuto: pochi mesi dopo il papa confermò l’elezione del primo patriarca siro cattolico pubblicamente riconosciuto come tale. Era un successo insperato, ma non mancavano le perplessità: alcuni missionari sostenevano che il diritto canonico proibiva il ricorso a donativi in cambio della conversione e la stessa Propaganda non mancò di criticare il fatto che le elemosine raccolte in Europa fossero state utilizzate per pagare i diplomi ottomani di conferma, andando in sostanza a finanziare l’amministrazione di uno stato nemico della Cristianità.
89Nella biografia (o piuttosto agiografia) di Picquet pubblicata nel 1732 da Charles-Leonce Antelmi, questo aspetto è presentato sotto le vesti virtuose della liberalità e della generosità, ma emerge comunque con chiarezza: tra regali, donativi e offerte di lavoro sembra che il console abbia sborsato più di ventimila scudi142. Ancor più scivolosa si fece poi la questione quando Picquet tornò ad Aleppo dopo esser stato ordinato vescovo, continuando a brigare per mantenere la cattolicità tra la Chiesa sira, messa in crisi dalla morte di Akhîjân nel 1677: l’elezione di un altro prelato favorevole ai missionari, Buṭrus Shahbâddîn, aggravò lo strappo con il partito «scismatico», che continuò a sostenere ‘Abd al-Masîh e, dopo la morte di questi, il suo successore Jirjis (1687-1708). A quel punto si aprì una lunga battaglia in cui ciascun pretendente cercava di conquistarsi il riconoscimento legale dell’autorità ottomana, ovviamente offrendo una somma più alta dell’avversario. Sono le lettere dello stesso Picquet a Propaganda a fare luce su tali metodi: il 26 settembre 1680 ammetteva infatti che per promuovere con successo la fede cattolica tra gli orientali «a tutti però conviene dare qualche retributione, altrimenti non si farebbe niente». Subito dopo provava a correggere il tiro: «in quanto alli Greci et Armeni, tutto consiste a guadagnar i vescovi con qualche presente, non per fargli catolici, che questa non è la strada, ma solo per obligarli a tacere et a lasciar predicare e far la dottrina christiana a quelli sacerdoti delli quali siamo sicuri». Nella stessa lettera faceva presente come il principale fattore di insicurezza per il patriarca Buṭrus fosse l’enorme quantità di debiti che questi aveva contratto per ottenere la conferma ottomana e che non era più in grado di onorare: il cappuccino Justinien de Neuvy era stato mandato in Europa anche per raccogliere elemosine che potessero aiutarlo, ma non era ancora tornato; insomma, concludeva eloquentemente, «ci vuol sempre la borsa aperta e pure la mia è quasi vuota, per tante e tante spese fatte, che non ardisco computarle»143.
90Le vicende della Chiesa sira a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo sono anche un esempio eloquente delle divisioni interne alle comunità orientali provocate dall’apostolato cattolico. In questo senso, costituiscono una buona introduzione ai fatti che analizzeremo in seguito, nel capitolo dedicato ai rapporti tra armeni cattolici ed apostolici a Costantinopoli e nell’Anatolia orientale. Non solo in entrambi i casi emerge come centrale il ruolo dei rappresentanti della corona francese (il console Picquet in questo caso, l’ambasciatore Charles de Ferriol nell’altro), ma negli scontri tra siri cattolici e giacobiti è particolarmente interessante il ricorso ad una serie di argomentazioni che diventeranno poi caratteristiche della reazione ad ogni tentativo unionista condotto da parte cattolica tra le gerarchie orientali. Le accuse principali portate dai partigiani di ‘Abd al-Masîḥ e Jirjis contro quelli di Akhîjân e Buṭrus Shahbâddîn erano legate al fatto che questi ultimi non sarebbero stati veramente siri, dato che seguivano le indicazioni dei missionari latini, si appoggiavano in caso di necessità alla gerarchia maronita e non rispettavano nella sua integrità la tradizione ecclesiale siriaca, come dimostrava l’alterazione della liturgia in modo da renderla conforme alle esigenze di Roma. In un hüccet (certificato, documento notarile) registrato davanti al tribunale del kadı di Aleppo, il patriarca Buṭrus è accusato di non voler menzionare nella liturgia Dioscoro e Barsauma, cioè i santi considerati eretici da Roma144. Si insinuava inoltre che i suoi sostenitori si fossero fatti «franchi» (ifranj, firanj, frenk), cioè appunto europei: questo termine, che del resto aveva una lunga tradizione di uso polemico nelle dispute tra greci e latini, aveva l’effetto di presentare i convertiti al cattolicesimo essenzialmente come degli stranieri rispetto alla loro comunità d’origine, aggiungendovi però un sovrappiù politico. Come si è detto, nell’Impero ottomano il termine «franchi» si applicava agli europei residenti temporaneamente sul suolo ottomano (müste’min) o ai levantini loro discendenti, assimilati ai primi perché, pur essendo sudditi del sultano, in molti casi godevano della protezione delle potenze occidentali o comunque cercavano di ottenerla. Appariva dunque chiara la volontà di concepire la conversione come una forma di tradimento o, nel migliore dei casi, di duplice ma incompatibile fedeltà. In un altro hüccet contenente le lamentele dei giacobiti contro Shahbâddîn, questo aspetto emerge con chiarezza: i querelanti affermavano che il patriarca aveva introdotto delle novità nel rito e nella fede dei siri e che consigliava i fedeli di pregare per il pontefice romano e non per il «Servitore delle due città di Mecca e Medina» (cioè il sultano), seminando così la discordia all’interno della comunità145. Anche il console Laurent d’Arvieux racconta che i giacobiti erano scesi in piazza contro il patriarca e contro i missionari, urlando che questi ultimi volevano sottrarre i fedeli all’obbedienza del Gran Signore per metterli sotto quella del papa, nemico degli Ottomani146. Tali accuse erano certo strumentali, ma avevano efficacia perché si fondavano su alcuni elementi reali, come il fatto di dipendere religiosamente da Roma, un’autorità esterna e rivale, ed economicamente dai consoli francesi, rappresentanti di un altro regno.
91Inizialmente il tentativo della Chiesa siro-giacobita di sottolineare i pericoli politici insiti nell’apostolato cattolico non si rivelò particolarmente efficace, dato che le autorità ottomane gestirono la scelta tra i candidati rivali al trono patriarcale sulla base di motivazioni essenzialmente economiche, continuando a considerare per lo più con indifferenza le divisioni confessionali tra sudditi ugualmente infedeli. In questo contesto il ruolo giocato dai rappresentanti delle potenze europee era dunque fondamentale, nel momento in cui esse potevano porre sul piatto della bilancia offerte in denaro e alleanze politiche in cambio del favore verso i missionari e le gerarchie orientali a loro legate. Ecco così che ad ogni deposizione del patriarca Buṭrus da parte dei fedeli o del clero giacobita, seguiva una sua reinstallazione ottenuta grazie ai buoni uffici del console francese di Aleppo o dell’ambasciatore alla Porta147.
92A partire dal 1695, tuttavia, le cose cambiarono. Come si è accennato nella discussione sul termine millet, l’andamento negativo della guerra contro la Lega Santa (con la perdita di numerosi territori nei Balcani, anche a causa della defezione dei cristiani locali), l’occupazione veneziana dell’isola di Chio grazie al sostegno della locale popolazione latina e la politica anti-missionaria condotta dallo şeyhülislam Feyzullah Efendi provocarono una svolta nell’atteggiamento del governo ottomano. Sotto il regno di Mustafa II e dei suoi successori, cominciarono ad essere emanati periodicamente comandi (hatt-ı şerif) che bandivano l’attività di proselitismo cattolico tra i fedeli delle Chiese orientali e intimavano a questi ultimi di ritornare al loro antico rito e all’obbedienza verso le gerarchie riconosciute dal sultano148. L’accusa di essere «franchi» divenne allora molto più gravida di conseguenze, divenendo con gli anni il principale strumento con cui gli esponenti delle diverse Chiese orientali cercarono di controbattere all’apostolato cattolico. Nel caso dei melchiti, ad esempio, quando nel 1724 i cattolici di Aleppo riuscirono ad eleggersi un patriarca nella persona di Sarufîm Ṭânâs, spaccando la Chiesa di Antiochia, il patriarca di Costantinopoli Geremia e altri metropoliti ortodossi ottennero dal sultano un comando che imputava agli aleppini di aver abbracciato la religione dei «franchi», allontanando i fedeli dal loro rito e dai loro obblighi, portando il disordine e la disobbedienza nella comunità; quanto al patriarca eletto, i prelati affermavano che Sarufîm non era davvero un «greco», ma un «franco» che pervertiva i sudditi ottomani149.
93Per quanto riguarda la Chiesa sira, Shahbâddîn rimase in esilio fino al 1700: la sua stella sembrò tornare in auge grazie all’intercessione dell’imperatore asburgico che, pressato da Propaganda Fide, pretese di inserire la reinstallazione del prelato tra le clausole del trattato di pace allora concluso con la Porta. Ma si trattava soltanto di una vittoria effimera: nell’estate del 1701 arrivò ad Aleppo un inviato da Costantinopoli «con un commandamento del Gran Visir per ricercare quelli tra gli christiani ch’erano Franchi, come che questo nome di Franco volesse dire ribello al Gran Signore»150. Il patriarca e i principali esponenti del clero cattolico orientale furono arrestati dai giannizzeri, bastonati e condotti in catene nel castello di Adana; Shahbâddîn vi rimase più di un anno, morendo infine il 18 novembre 1702, forse avvelenato. Con lui morì allora la gerarchia della Chiesa sirooccidentale fedele a Roma: i siri cattolici restarono senza pastore legittimo per ottant’anni, ritornando perlopiù all’obbedienza dei vescovi e dei patriarchi «scismatici» riconosciuti dal sultano. Soltanto nel 1783 con l’elezione di Mîkhâ’îl Jarweh si arrivò ad avere un cattolico sul trono di Antiochia, provocando una nuova e questa volta duratura spaccatura nella Chiesa sira tra cattolici e giacobiti151.
94Le conseguenze del cambio di atteggiamento descritto non esitarono ad avere ripercussioni su tutte le comunità orientali: quando fu chiaro che missionari e consoli non avevano più i margini di azione di un tempo, anche i rapporti tra i convertiti e coloro che avrebbero dovuto difenderli si guastarono gravemente. Il 20 giugno 1710 i rappresentanti delle quattro «nazioni» orientali di Aleppo (greci, armeni, siri e maroniti) indirizzarono al console francese un aspro memoriale in cui lamentavano di essere stati abbandonati dai religiosi cattolici in mezzo alle difficoltà e, al colmo dell’esasperazione, minacciavano di denunciarli alle autorità152. Ciò nonostante, le comunità cattoliche di Siria ed Egitto sopravvissero, riuscendo anzi tra il 1730 il 1750 a consolidarsi nel numero e nell’organizzazione: il patriarcato armeno cattolico di Cilicia venne fondato nel 1740 e riconosciuto da Roma nel 1742, quello melchita risaliva al 1724 ma la comunità principale di Aleppo si strutturò definitivamente tra il 1736 e il 1746, durante la residenza del vescovo Maksîmûs al-Ḥakîm. In entrambi i casi, tuttavia, i vertici supremi delle due Chiese dovettero comunque vivere in esilio sul monte Libano, protetti dagli sceicchi maroniti e drusi contro le periodiche persecuzioni delle autorità ottomane e gli scontri con le gerarchie rivali. I sudditi cattolici dell’Impero ottomano, e quelli armeni di Costantinopoli e dell’Anatolia in particolare, dovettero aspettare ancora a lungo prima di trovare un riconoscimento che li mettesse al riparo dalle violenze e dalle contestazioni153.
Le conseguenze dell’apostolato: i cristiani orientali tra influenze cattoliche e reazioni identitarie
95Per concludere questo affresco generale, è necessario passare dalla prospettiva romanocentrica dei paragrafi precedenti ad una che prenda in considerazione anche l’agency dei cristiani orientali: nel confronto con il mondo cattolico, essa si caratterizza come una mescolanza di elementi di imitazione e reazione, sia tra coloro che scelsero l’unione con Roma, sia tra quanti la rigettarono.
96Tra i primi, è inevitabile cominciare da quanti avevano studiato in quei collegi della Città Eterna che abbiamo in precedenza menzionato. Non sempre il loro percorso fu quello auspicato: molti allievi soffrivano lo sradicamento dai propri paesi d’origine e la rigida disciplina, tanto da partirsene prima della fine degli studi. Altri, specie i più brillanti, finirono per rimanere in Europa come membri di ordini religiosi o impiegati di curia (uno dei casi di maggior successo è senza dubbio quello dell’erudito maronita Giuseppe Assemani, divenuto prefetto della Biblioteca Vaticana e consulente del Sant’Uffizio per le questioni orientali): in questo caso essi però adottarono quasi invariabilmente il rito latino. Quanti tornarono in patria sovente faticarono ad inserirsi nella società, non trovando una parrocchia in cui incardinarsi e intrattenendo rapporti conflittuali sia con la gerarchia locale «scismatica» (come è immaginabile), sia con i prelati cattolici che non li conoscevano. Alcuni abbandonarono la vita religiosa, altri cercarono di perseguirla nella Chiesa rivale, altri ancora scelsero allora di integrarsi nel clero latino: eloquente il caso del melchita ‘Abdallâh ibn Dâwûd che, tornato in Siria dopo gli studi al Collegio Urbano, non riuscì a farsi ordinare dal patriarca ed entrò quindi tra i carmelitani scalzi con il nome di David di San Carlo, facendo carriera fino ad essere nominato visitatore apostolico di Costantinopoli (avremo modo di leggere le sue relazioni più avanti)154. Vi furono però anche quelli che rimasero fedeli al rito d’origine e decisero di votarsi al pericoloso compito dell’apostolato tra i propri connazionali, rischiando spesso l’arresto, in quanto privi della condizione privilegiata dei loro colleghi europei: è la sorte tipica dei religiosi armeni cattolici attivi a Costantinopoli all’inizio del XVIII secolo.
97Accanto a questi allievi di Roma, si assiste tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento anche alla nascita di ordini religiosi orientali riformati. Modellati sulle costituzioni monastiche occidentali e sull’esperienza missionaria europea (della Compagnia di Gesù, in particolare), questi istituti erano però gestiti direttamente da orientali e da essi unicamente composti: si ebbero così tra i maroniti i monaci libanesi, tra i melchiti i basiliani shuwairiti e salvatoriani, tra gli armeni gli antoniani e soprattutto i mechitaristi. Tali nuove congregazioni ottennero un notevole successo e diventarono in alcuni casi fondamentali, sia nella preservazione delle comunità cattoliche del Levante che soprattutto nella loro preparazione culturale e religiosa: basti pensare alla produzione a stampa del monastero libanese di Shuwayr (1733) e di quello mechitarista a Venezia (prima con la tipografia di Antonio Bortoli e poi con quella dello stesso monastero di San Lazzaro), che realizzò opere il cui valore venne riconosciuto e apprezzato anche dagli «scismatici »155. I nuovi ordini religiosi furono determinanti nella formazione e introiezione di una coscienza confessionale cattolica e orientale al tempo stesso, nel momento in cui la loro azione si posizionava a cavallo tra l’aderenza al modello tridentino e la rivendicazione di un’identità alternativa rispetto ai missionari latini, con cui entrarono spesso in concorrenza156. Nel 1715, ad esempio, esplose un conflitto tra i maroniti e i gesuiti di Aleppo, con i secondi a negare ai primi la facoltà di poter ascoltare lecitamente le confessioni di greci, armeni, siri e caldei, nell’evidente tentativo di riservarsi in esclusiva tale funzione; si aggiungevano poi una serie di critiche all’organizzazione locale dei cristiani orientali, contestando ad esempio il funzionamento di una confraternita del rosario o la stessa canonizzazione di san Marone. Il Sant’Uffizio decretò che Maronitas non esse inquietandos, ma la questione si ripeté in Egitto nel 1762 per altre comunità, mentre le tensioni con i missionari (particolarmente i padri di Terra Santa) divenivano sempre più forti157. Una delle cause principali ruotava intorno alla questione dei latinizantes, ovvero quei fedeli che nel corso del tempo erano passati al rito latino in tutto o in parte, ad esempio nell’osservanza del calendario e dei digiuni o nella ricezione dell’eucarestia in azzimo: essi erano così finiti sotto il controllo pastorale dei francescani, ma il ritorno al loro rito d’origine veniva ora rivendicato a gran voce dalle nuove gerarchie orientali cattoliche158.
98Nei primi anni del secolo, peraltro, anche queste ultime avevano in alcuni casi spinto per certe forme di latinizzazione, dato che lo zelo di mostrarsi il più possibile conformi all’ortodossia tridentina aveva portato a compiere passi azzardati e criticati dalla stessa Roma. Aftîmyûs Ṣayfî, arcivescovo melchita di Tiro e Sidone, nel 1716 informava ad esempio la Congregazione di Propaganda di «aver egli levato dalla Greca Liturgia alcune orazioni posteriori alla Consacrazione, per togliere dal suo popolo l’errore con cui si stima farsi con queste la transustanziazione solamente» e di aver «levato totalmente l’uso dell’acqua calda [lo zeon] solita mettersi da’ Greci nel Vino consecrato», aggiungendo poi tutta una lista di altri interventi contro la tradizione liturgica e disciplinare bizantina, dalla concessione della possibilità di celebrare più volte sullo stesso altare a quella di poter mangiare pesce in Quaresima, fino all’ammissibilità del matrimonio anche nei gradi di parentela proibiti dai greci e accettati invece dalla Chiesa latina159. Anche se il vescovo giustificava il suo intervento pretendendo di ancorarlo nell’antica prassi della Chiesa prima delle innovazioni introdotte dagli «scismatici», agli occhi di Roma in questo caso si andava oltre quella «correzione degli abusi» con cui in passato si erano giustificati gli interventi di «cattolicizzazione» dei riti orientali: era un vero e proprio stravolgimento del rito, un’inaccettabile mescolanza, non dissimile da quanto avveniva allora presso alcune comunità armene e melchite160. La cosa peggiore era che parte dei fedeli ne approfittava per giostrarsi tra le due osservanze a seconda della necessità: secondo una relazione del 1719, i maroniti di Gerusalemme «vogliono osservare il loro rito, quando tutte le altre nazioni orientali che professano la fede cattolica in Gierusalemme vivono secondo il rito latino, il che cagiona appresso li scismatici ammirazione e scandalo»; tuttavia, «i medesimi Maroniti nelle cose loro favorevoli dicono d’esser Latini», ad esempio nella disciplina alimentare e matrimoniale, decisamente più elastica161.
99Tali parziali latinizzazioni inasprivano enormemente i rapporti con le gerarchie ortodosse o gregoriane: descrivendo lo scoppio di violenze interconfessionali agli inizi del secolo XVIII, il visitatore apostolico David di San Carlo ne individuava l’origine nell’eccessiva facilità con cui i missionari dispensavano i convertiti dai digiuni tradizionali e promuovevano modifiche liturgiche, «il che ha reso sommamente odiosi alli eretici li cattolici come destruttori del proprio rito»162. Nell’ottica di alcuni missionari (ma anche di Aftîmyûs Ṣayfî, come abbiamo visto) quelle modifiche erano necessarie per stabilire un principio di determinazione confessionale all’interno di una situazione altrimenti confusa: nel 1715, solo un anno prima della lettera del vescovo di Tiro e Sidone, il custode cappuccino Doroteo della Trinità aveva scritto a Roma riferendo che i cristiani di Damasco «ignorando la natura dello scisma, indifferentemente e secondo l’occasione che si li presenta ricevono i sacramenti or in Rito Latino, ora in Rito Greco, come che niente importi il riceversi or nell’uno or nell’altro rito»163.
100Sollecitata dalle gerarchie orientali cattoliche, Roma cercò di combattere e limitare il fenomeno della latinizzazione, ma con scarsi risultati: anche il pontefice che più si impegnò per regolare la questione, Benedetto XIV, nelle stesse lettere encicliche in cui raccomandava il rispetto dei riti orientali lasciava però trasparire in modo evidente una concezione di superiorità del rito latino164. D’altro canto, in questo ed altri casi i fedeli e il clero orientali cattolici impararono ad utilizzare il riferimento a Roma in modo da garantirsi non solo il rispetto di una propria identità specifica, ma anche l’acquisto di un certo margine di autonomia e di centralizzazione interna: ad esempio, è anche grazie al modello ecclesiale piramidale esportato da Roma se i patriarchi orientali cattolici riuscirono ad espandere notevolmente la propria autorità in seno alle comunità di cui si trovarono a capo. In generale, la stessa costruzione identitaria delle Chiese orientali cattoliche si venne a definire in un rapporto allo stesso tempo mimetico e antagonistico rispetto all’influenza romana. Come ha mostrato Aurélien Girard, non soltanto il riferimento a Roma permise ad alcune Chiese di distinguersi più chiaramente, ad esempio con il tentativo della gerarchia maronita di presentare la propria «perpetua cattolicità» rispetto alle altre comunità orientali cattoliche; ma il sapere orientalistico elaborato a Roma con il contributo degli stessi orientali fu determinante anche nell’elaborazione di quella stessa «invenzione della tradizione» necessaria per fissare i caratteri liturgici e storici propri di ogni Chiesa, sancendone così la differenza sia rispetto alle controparti «eretiche e scismatiche» che alla tradizione occidentale165.
101La stessa dialettica tra imitazione e reazione vale anche, in proporzioni rovesciate, nelle Chiese che rifiutarono allora la propaganda cattolica. Per quanto riguarda la Chiesa ortodossa, nel Cinque e Seicento si osserva una forte influenza della teologia scolastica e delle forme controriformistiche di catechesi ed omiletica non solo nei settori della gerarchia più aperti all’operato dei missionari, ma anche tra quegli esponenti che comunemente si definiscono «anti-latini». Le ragioni fondamentali furono non solo l’assenza di scuole e istituti di formazione religiosa nei territori ottomani, che costringeva quanti desiderassero studiare a ricorrere ai collegi e alle università europee (da Roma a Padova a Oxford), ma anche la necessità di far fronte alle influenze calviniste e anglicane, striscianti per buona parte del XVII secolo e momentaneamente al vertice dell’istituzione ecclesiastica durante i diversi passaggi sul trono patriarcale di Kyrillos Loukaris, tra il 1623 e il 1638. Già in precedenza, nelle risposte del patriarca di Costantinopoli Geremia II Tranos alle lettere con cui i teologi luterani di Tübingen avevano provato ad avviare un dialogo dottrinale (1574- 1581), si nota nella formulazione delle teologia sacramentale della Chiesa greca un ricorso a termini e concetti di derivazione tomista. Lo stesso accade in un’opera di un contemporaneo del patriarca, il metropolita di Filadelfia Gavriil Seviros: anche se questi è giustamente ricordato come uno strenuo difensore del rito bizantino contro i polemisti cattolici e come l’autore di un trattato sulle cinque differenze fondamentali tra la Chiesa latina e la Chiesa greca, nel suo trattato sui sacramenti utilizza le categorie di forma e materia e il termine «transustanziazione» (metousiosis), seguendo l’insegnamento di Tommaso, delle cui opere possedeva una copia personale166.
102Meletios Pigas, patriarca d’Alessandria tra il 1590 e il 1601, criticò violentemente l’Unione di Brest e la riforma del calendario promossa da Gregorio XIII, insieme ad altri punti di carattere dottrinale; nelle sue opere si rivela però contrario agli insegnamenti di Gregorio Palamas e a suo agio invece con la tradizione occidentale, preoccupandosi ad esempio di difendere l’ «ortodossia» di Agostino in una delle sue opere più conosciute, il catechismo scritto in greco volgare e pubblicato nel 1596 a Vilnius (Ὀρθόδοξος διδασκαλία). Georgios Koressios (post 1566- 1660), polemista tanto anticattolico quanto antiprotestante, dimostra una conoscenza approfondita dei padri della Chiesa latini e della scolastica medievale e moderna (da Alberto Magno a Guglielmo di Occam, da Pietro Lombardo a Bellarmino), tenendo posizioni evidentemente tomiste anche sulla giustificazione e la grazia. Se il teologo di riferimento di Loukaris, Theofilos Korydalleus, rifiutava l’alleanza di filosofia e teologia tipica della scolastica e proponeva invece una forma di neo-aristotelismo in sé autonomo, il metodo scolastico fu difeso ed impiegato da Nikolaos Koursoulas (1602-1652): quest’ultimo fu autore di un manuale di teologia organizzato per questioni, obiezioni e risposte in cui si difendeva anche la dottrina dell’immacolata concezione della Vergine167.
103Il più esplicito avversario di Loukaris fu però il cretese Meletios Syrigos, che come Koressios doveva molto alla teologia bellarminiana e che elaborò una refutazione punto per punto della Confessione di fede protestante del patriarca, difendendo in particolare il termine di transustanziazione168. Quest’ultimo è ugualmente impiegato, assieme a molti altri concetti «cattolici», nella Confessione scritta intorno al 1640 dal metropolita di Kiev Piotr Mohyla (in carica dal 1633 al 1646). Mohyla rappresenta il punto più alto dell’influenza latina nell’elaborazione teologica ortodossa dell’epoca: nell’accademia di Kiev da lui diretta, del resto, gli insegnamenti avvenivano in latino e sulla base di strumenti didattici e catechetici elaborati originariamente da Roma169; nella versione originaria della sua Confessio Orthodoxa (scritta appunto in latino) si potevano trovare accenni all’esistenza di un luogo purgatorio o al fatto che la consacrazione avvenisse con le parole dell’istituzione e non al momento dell’epiclesi, uno degli elementi tradizionali di controversia. Syrigos intervenne correggendo parzialmente questi punti e in tal forma la confessione di fede venne ufficialmente adottata dalla Chiesa ortodossa nel sinodo di Jassy del 1642170.
104La tendenza a confrontarsi con la Chiesa romana utilizzando i suoi stessi strumenti non cessò neanche nei decenni a cavallo tra Sei e Settecento, quando la polemica confessionale si fece più aspra, anche a causa della progressiva separazione tra cattolici e ortodossi dovuta alle proibizioni della communicatio in sacris e al clima che porterà allo scisma nel patriarcato d’Antiochia (1724). Figure come i patriarchi di Gerusalemme Dositeo II (1669-1707) e Crisanto (1707-1731) si rivelano molto interessanti, nella misura in cui la loro azione (soprattutto quella del primo) fu determinante nella creazione di una faglia confessionale più netta e nell’elaborazione di una controversistica a stampa di carattere «ortodosso». Anche nel loro caso il confronto fu duplice, dovendo rifiutare allo stesso tempo le influenze cattoliche e protestanti: esemplificativa è la prefazione fatta da Dositeo all’edizione del 1699 della Confessio Orthodoxa, in cui si affermava che il XVI secolo aveva visto la nascita di quattro bestie dell’Apocalisse – Lutero, Calvino, il nuovo calendario e i gesuiti171. La risposta del patriarca all’apostolato cattolico sfociò nella pubblicazione di una trilogia: Tomo della riconciliazione (Τόμος καταλλαγής, Jassy, 1692), Tomo dell’amore (Τόμος αγάπης, Jassy, 1698) e Tomo della gioia (Τόμος χαράς, Râmnic, 1705). Si tratta di una silloge di testi molto polemici composti tra il XIV e il XVII secolo (tra cui alcune delle opere fin qui citate), che causò forte preoccupazione tra i missionari, anche se i suoi destinatari rimanevano i chierici e i prelati, più che i semplici fedeli; vi si ritrova inoltre una difesa dell’esicasmo e della tradizione palamita contro le accuse dei missionari europei.
105Anche nelle opere del Latinomastix ( «flagello dei Latini», come venne soprannominato il patriarca), è però possibile rintracciare la persistenza di elementi di origine cattolica e che in seguito verranno censurati o smussati: nella confessione di fede ortodossa da lui redatta al termine del Concilio di Gerusalemme del 1672 si ritrovano ancora una volta la transustanziazione, il purgatorio, la distinzione tra materia e accidenti, etc.172 Vedremo più avanti, nel capitolo dedicato alle isole Ionie, le influenze latine presenti nelle opere di controversisti come Ilias Miniatis e Nikolaos Voulgaris; qui basti ricordare come la conoscenza della letteratura religiosa europea non venne meno nel corso del XVIII secolo e continuò ad alimentare quella orientale, non solo in modo polemico. Makarios di Corinto e Nikodimos del monte Athos ( «Nicodemo Agiorita»), figure determinanti per la rinascita spirituale incentrata attorno al movimento dei Kollyvades e alla raccolta della Filokalia, promossero ad esempio la pubblicazione di testi in cui confluivano opere classiche della tradizione occidentale, come il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli (1796) e gli stessi esercizi spirituali di Ignazio di Loyola nella versione di Giovanni Pietro Pinamonti173.
106Tutte le influenze fin qui menzionate non vanno interpretate nel senso di una subalternità o addirittura «degenerazione» dell’identità religiosa greco-ortodossa, come spesso la storiografia più confessionale o nazionalista ha fatto e continua a fare, impiegando termini come «pseudomorfosi»: in realtà, si tratta in molti casi dell’utilizzo di concetti o termini di origine cattolica all’interno di polemiche in cui essi potevano tornare utili per meglio definire le posizioni dottrinali dell’Oriente cristiano, ad esempio nel confronto con i protestanti. In una certa misura, si può anzi dire che il confronto della Chiesa greca con il modello cattolico tridentino è stato un passaggio fondamentale nella precisa delimitazione dell’identità confessionale ortodossa, non soltanto per reazione e rigetto, ma anche tramite l’adozione di quegli utensili culturali inventati dalla Controriforma. La diffusione anche in ambito orientale di catechismi e di manuali per prepararsi alla confessione o all’esame di coscienza è uno degli esempi più chiari di questa tendenza174. Essi furono tra gli strumenti più importanti della confessionalizzazione ortodossa, ma con il passare del tempo le fonti cattoliche di tali opere vennero rigettate o volutamente dimenticate, con effetti a volte stranianti: il già ricordato Nicodemo Agiorita lodava ad esempio l’opera di Chrysanthos Notaras e condannava quella di Neofytos Rodinos (in quanto unito a Roma), anche se il secondo era stato il probabile modello del primo e il suo manuale sulla confessione era stato ripubblicato anche dal patriarca di Costantinopoli Callinico III175.
107Discorsi analoghi si possono fare in un certo senso anche per la Chiesa armena: la maggior parte delle opere in lingua armena pubblicate in Europa durante il XVII secolo risentono di influenze cattoliche più meno dirette, come nel caso dell’edizione della Bibbia nel 1666: abbiamo ricordato la diffidenza di Roma verso il fatto che essa fosse stata stampata ad Amsterdam senza essere una traduzione diretta della Vulgata, ma il promotore dell’opera, il vescovo Oskan Erewanc’i, si preoccupò comunque di inserirvi anche i libri dell’Antico Testamento che non facevano parte del canone tradizionale armeno ma di quello tridentino, e in numerose lettere al pontefice romano provò a convincerlo della cattolicità del risultato. Oskan, che in gioventù aveva avuto contatti con il missionario domenicano Paolo Piromalli, svolse allora un ruolo importante di mediazione culturale tra l’Armenia e la cultura latina moderna. Bisogna inoltre ricordare come molte delle principali opere linguistiche e storiche furono realizzate da armeni cattolici, inizialmente dagli allievi dei collegi romani e poi soprattutto dai mechitaristi di Venezia: Awetik‘ean, Č‘amč‘ean, etc. D’altro canto, vi furono anche autori che rigettarono esplicitamente l’influenza cattolica, come il letterato Eremia Č‘ēlēpi K‘ēōmiwrčean (autore della mappa già ricordata e paradossalmente fratello di un famoso martire cattolico, Komitas) o il vardapet e vescovo di Nuova Giulfa Step‘anos, compagno di studi di Oskan Erewanc‘i ma a differenza di questi in aperta polemica con i missionari, come dimostrano le opere da lui stampate nella tipografia del monastero di Surb P‘rkič‘ tra il 1687 e il 1688176.
108Anche dal punto di vista delle relazioni diplomatiche tra le due gerarchie, i rapporti furono ambivalenti, come dimostra il lungo cattolicosato di Yakob IV (1655-1680). Da parte sua vi furono infatti proteste per quanto stava avvenendo a Leopoli, dove dopo il 1626 la comunità armena locale subì una «cattolicizzazione» più o meno coatta sotto l’episcopato di Mikołaj Torosowicz. La cosa suscitò reazioni preoccupate particolarmente a Costantinopoli, spingendo il patriarca Grigor Kesarac‘i a costituire un primo gruppo esplicitamente anti-cattolico. D’altro canto, il kat‘ołikos cercò di mantenere buone relazioni con la corte papale, lasciando aleggiare l’ipotesi di una unione formale in cambio dell’appoggio europeo contro gli Ottomani nel contesto della guerra di Candia: l’obiettivo era quello di organizzare operazioni militari congiunte tra la Persia (nella cui ombra stava allora Ēǰmiacin), la Polonia e l’Impero, nella speranza di liberare dal «giogo ottomano» gli armeni dell’Anatolia orientale. Il fallimento di questa ipotesi e la propaganda sempre più aggressiva dei missionari cattolici contribuirono al cambio di atteggiamento dei suoi successori sul trono cattolicosale: Alek‘sandr IJ̌ułayec‘i (1706-1714) fu infatti autore in prima persona di almeno due testi esplicitamente anticattolici177.
109Il luogo che fu allora al centro delle controversie confessionali tra cattolici e gregoriani, il sobborgo di Isfahan denominato Nuova Giulfa (Nor J̌uła), fu comunque caratterizzato da una notevole presenza europea, non solo missionaria ma commerciale, cosa che ebbe rilevanti ripercussioni sull’architettura e lo stile decorativo delle principali chiese armene del borgo. La cattedrale del Santissimo Salvatore (Surb Amenap‘rkič‘ vank‘), ad esempio, colpisce ancora oggi perché ricoperta al suo interno da un ciclo di affreschi di chiara matrice occidentale, in particolare fiamminga: l’origine iconografica è da ricercarsi nelle incisioni di Christoffel van Sichem, utilizzate nella Bibbia di Oskan, o più probabilmente nei suoi prototipi178(fig. 7).
110Si tratta di una notevole rottura con il tradizionale allestimento delle chiese armene, ma non è un caso isolato a Nuova Giulfa: nella chiesa di Surb Bet‘łehem (decorata tra il 1630 e il 1650) si conservano infatti alcuni affreschi opera di Minas, un vardapet-pittore che, secondo il racconto dello storico armeno Aṙak‘el Dawrižec‘i, si era formato alla scuola di un maestro europeo ad Aleppo179. Nelle pitture murali sono visibili chiare influenze europee, non solo nell’uso della prospettiva o del chiaroscuro, ma anche dal punto di vista iconografico: Amy Landau ha dimostrato in modo convincente la loro filiazione dalle incisioni dei fratelli Collaert e Wierix, contenute nell’opera Evangelicae Historiae Imagines del gesuita Jerónimo Nadal (Anversa, 1593), un’opera probabilmente adoperata dai missionari180 (fig. 8). È da notare come gli affreschi europeizzanti della cattedrale furono pubblicamente difesi alla presenza dello shah da Yovhannēs Mrk‘uz, conosciuto peraltro come polemista anticattolico, autore di un «Libro-raccolta contro i diofisiti» e di un «Libro compendioso della fede vera e autentica» in cui controbatteva all’apostolato dei missionari181.
111All’inizio del capitolo abbiamo avuto modo di evocare come l’arte e l’architettura religiosa si rivelino un utile campo d’indagine per i fenomeni di ibridazione culturale: ciò non vale solo per l’epoca medievale, ma anche per quella moderna. Nel XVII e soprattutto XVIII secolo si assiste nel bacino del Mediterraneo alla comparsa di influenze occidentali nelle tecniche, nell’iconografia e nelle finalità dell’arte sacra dei cristiani orientali. In Siria e Palestina, dove anche per via del contesto islamico la produzione di icone era quasi inesistente e limitata per lo più all’importazione di icone di produzione cretese, l’arrivo dei missionari e dei mercanti europei comportò la diffusione di immagini di devozione privata, la diffusione di ritratti di autorità (l’onnipresente Luigi XIV nelle cappelle consolari e nelle stesse chiese maronite) e la circolazione di stampe o libri illustrati. Questo stimolò la rinascita di una produzione locale dotata di proprie caratteristiche, fenomeno che accompagnò il contemporaneo emergere dell’identità confessionale cattolica melchita. Nel 1737, ad esempio, il vescovo di Aleppo Maksîmûs al-Hakîm commissionò un’icona dove Cristo e Giovanni Battista sono raffigurati secondo gli stilemi classici dell’arte bizantina, ma tra di loro compare un’enorme ostia consacrata che nel ricordare un miracolo eucaristico recentemente avvenuto riporta alla mente anche quello di Bolsena all’origine del Corpus Domini. Il patriarca maronita Ist ifân al-Duwayhî (1670-1704) fece dipingere nella chiesa di Qannubîn un affresco con l’incoronazione della Vergine, un tema occidentale realizzato in base a modelli europei ma per mano di un pittore locale abituato invece allo stile bizantino, come si evince dalle incertezze e da alcuni particolari. Le influenze occidentali sono ancor più visibili nelle opere di Ḥananiya Jirjis al-Muṣawwir (che nel 1759 realizzò una «Vergine del Rosario», iconografia diffusa proprio dai missionari, e fu anche l’autore di un’Immacolata Concezione circondata da scene tratte dall’inno Akathistos) per poi trovare piena realizzazione nel lavoro di «Michele il Cretese»182.
112Ma non è solo questione di prestiti o di influenze passive, tutt’altro: l’incontro della tradizione bizantina con la pittura barocca italiana o le incisioni fiamminghe ha una grande influenza sull’arte religiosa in tutto il bacino del Mediterraneo orientale, producendo il più delle volte una sintesi inedita e feconda. In essa gli elementi orientali e occidentali convivono insieme e si prestano ad utilizzi non solamente di propaganda cattolica, ma a volte, paradossalmente, anche di reazione identitaria ortodossa. È il caso dell’arte religiosa che si sviluppa nelle isole Ionie, dove – come vedremo nel dettaglio in seguito – artisti come Michail Damaskinos, Emmanouil Tzanes e Konstantinos Kontaris seppero utilizzare le novità tecniche e iconografiche della pittura europea per creare prodotti culturali autonomi e a volte esplicitamente critici verso il cattolicesimo183. Nell’arte, come nella produzione teologica e in generale nella vita religiosa, l’incontro con Roma non produsse soltanto «latinizzazioni», ma anche reazioni capaci di ritorcere gli strumenti culturali unionisti in favore della difesa dell’Ortodossia orientale.
Notes de bas de page
1 J. Richard, La papauté et les missions d’Orient au Moyen Age (XIIIe-XVe siècle), Roma, 1977; C. Rouxpetel, L’Occident au miroir de l’Orient chrétien. Cilicie, Syrie, Palestine et Égypte (XIIe-XIVe siècle), Roma, 2015.
2 F. Braudel, La Méditerranée et le Monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Parigi, 1949; P. Horden, N. Purcell, The Corrupting Sea: A Study of Mediterranean History, Londra, 2000. Sintetizzando, si può dire che Braudel contrappose al tradizionale studio delle interazioni e degli scontri tra le diverse realtà umane nel Mediterraneo un tentativo di analisi «ecologica» tale da sottolineare anche gli elementi di unità sulla lunga durata, particolarmente dal punto di vista economico e ambientale. Horden e Purcell propongono in sostanza di superare tale dicotomia analizzando i rapporti di «connettività» tra le varie micro-regioni di cui lo spazio mediterraneo sarebbe composto. Per il dibattito innescato e ulteriori riflessioni, cfr. W.V. Harris (a cura di), Rethinking the Mediterranean, Oxford, 2005.
3 Si veda l’utile introduzione al volume curato da A.A. Husain, K.E. Fleming, A Faithful Sea: The Religious Cultures of the Mediterranean, 1200-1700, Oxford, 2007, che mette in luce i limiti della storiografia nel produrre studi effettivamente incentrati sull’interconnessione delle culture religiose del Mediterraneo. La bibliografia su questi «incontri medievali» è in ogni caso sterminata: per fare solo alcuni esempi tra i tanti, concentrandosi soprattutto sul Mediterraneo orientale, cfr. V.P. Goss, C. Bornstein (a cura di), The Meeting of Two Worlds. Cultural Exchange between East and West during the Period of the Crusades, Kalamazoo (MI), 1986; B. Arbel (a cura di), Intercultural Contacts in the Medieval Mediterranean. Essays in Honour of David Jacoby, Londra, 1996; J. Herrin, G. Saint-Guillain (a cura di), Identities and Allegiances in the Eastern Mediterranean after 1204, Farnham, 2010; J. Harris, C. Holmes, E. Russell (a cura di), Byzantines, Latins, and Turks in the Eastern Mediterranean World after 1150, Oxford, 2012. Una delle rassegne più recenti sullo stato degli studi si trova nell’introduzione di A. Iafrate, The Wandering Throne of Solomon: Objects and Tales of Kingship in the Medieval Mediterranean, Leida-Boston, 2016.
4 Oltre al seminale lavoro di F.W. Hasluck per i Balcani, Christianity and Islam under the Sultans, Oxford, 1929, si vedano gli studi recentemente dedicati al Levante: B.Z. Kedar, Convergences of Oriental Christian, Muslim and Frankish Worshippers: The Case of Saydnaya and the Knights Templar, in Z. Hunyadi, J. Laszlovszky (a cura di), The Crusades and the Military Orders. Expanding the Frontiers of Medieval Latin Christianity, Budapest, 2001, p. 89-100; O. Limor, Sharing Sacred Space: Holy Places in Jerusalem Between Christianity, Judaism and Islam, in I. Shagrir, R. Ellenblum, J. Riley-Smith (a cura di), In Laudem Hierosolymitani. Studies in Crusades and Medieval Culture in Honour of Benjamin Z. Kedar, Aldershot-Burlington, 2007, p. 219-231. Sul lungo periodo, cfr. D. Albera, M. Couroucli (a cura di), Sharing Sacred Spaces in the Mediterranean: Christians, Muslims and Jews at Shrines and Sanctuaries, Bloomington, 2012.
5 «The radically other is merely other; the proximate other is problematic, and hence of supreme interest» (J.Z. Smith, What a Difference a Difference Makes, in J. Neusner, E.S. Frerichs (a cura di), “To See Ourselves as Others See Us”: Christians, Jews, “Others” in Late Antiquity, Chico, 1985, p. 3-48: p. 5).
6 S. Runciman, A History of the Crusades, Cambridge, 1951, vol. 3, p. 474.
7 J. Prawer, The Latin Kingdom of Jerusalem. European Colonialism in the Middle Ages, New York, 1972; Id., The Roots of Medieval Colonialism, in Goss (a cura di), The Meeting of Two World, cit., p. 23-38. Si vedano le critiche mosse da C. MacEvitt, The Crusades and the Christian World of the East: Rough Tolerance, Philadelphia, 2008, «Introduction».
8 In generale, sul superamento dei confini etnici, religiosi e culturali cfr. ora S.A. Epstein, Purity Lost: Transgressing Boundaries in the Eastern Mediterranean, 1000- 1400, Baltimora, 2006. La storiografia sui rapporti culturali tra «greci» e «latini» ha subito un’evoluzione costante in seguito alla comparsa del volume di studi curato da B. Arbel, B. Hamilton, D. Jacoby (a cura di), Latins and Greeks in the Eastern Mediterranean after 1204, Londra, 1989; per alcune questioni teoriche e una rassegna recente, si vedano ora l’introduzione e il saggio di Catherine Holmes nel volume Byzantines, Latins, and Turks in the Eastern Mediterranean World, cit.
9 MacEvitt, The Crusades and the Christian World, cit.
10 Ibid., p. 22, 95-96, 113-115, 124-133. Cfr. anche A. Jotischky, Perfection of Solitude: Hermits and Monks in the Crusader States, University Park (PA), 1995, p. 90-92.
11 MacEvitt, The Crusades and the Christian World of the East, cit., p. 21: «“Rough tolerance”, as we might call it, is not the equivalent of modern concepts of multi-culturalism, in part because it was not an ideology but a practice. I use the term “tolerance” because the practices of rough tolerance allowed the coexistence of diverse religious and ethnic communities without the legal or social structures of control or domination that were emerging in contemporary Latin Europe; it was “rough” because political power rested largely in the hands of the new Frankish aristocracy, who employed it against indigenous communities as they felt necessary. […] Franks and other who engaged in rough tolerance were not doing so because they believed it to be a virtuous quality… we cannot be certain whether it is tolerance or indifference we are discussing. All we can say is that the Frankish aristocracy allowed conducts and beliefs that would have been unacceptable in Christian Europe».
12 Ibid., p. 134, 162; Michele il Siro, Chronique de Michel le Syrien, patriarche jacobite d’Antioche (1166-1199), ed. J.-B. Chabot, 4 vol., Parigi, Ernest Leroux, 1899-1910: vol. 3, p. 212-213, 222.
13 «The language of heresy never became a frame for characterizing indigenous Christians, nor a way to appeal for support from Latin Europe. Instead, over the following decades the Franks backed away from acquiring explicit theological and cultural knowledge about local communities, and refused, at least textually, to make them objects of categorization, investigation, or study. Thus, regarding local Christian communities, the Frankish regime was one of silence. Instead of categorizing them by language, customs and religion or law, as was the most common way to qualify difference, the Franks only recognized linguistic differences, thus obscuring the theological divisions through which the communities themselves articulated their identity» (MacEvitt, The Crusades, cit., p. 101-102).
14 Ibid., p. 104, 168-169; J. de Vitry, Historia Hierosolimitana, in J. Bongars (ed.), Gesta Dei per Francos, Hannover, Typis Wechelianis apud haeredes Johannis Aubrii, 1611, p. 1089 e sg.
15 Cfr. H. Teule, “It Is Not Right to Call Ourselves Orthodox and the Others Heretics”: Ecumenical Attitudes in the Jacobite Church in the Time of the Crusades, in K. Ciggaar, H. Teule (a cura di), East and West in the Crusader States, II. Context-Contacts-Confrontations, Lovanio, 1999, p. 13-28 (p. 16-19)
16 Sulla Cilicia armena sono fondamentali gli studi di C. Mutafian, a partire dal classico La Cilicie au carrefour des empires, 2 vol., Parigi, 1988, fino al più recente L’Arménie du Levant (XIe-XIVe siècle), 2 vol., Parigi, 2012; cfr. anche G. Dédéyan, Les Arméniens entre Grecs, Musulmans et Croisés: étude sur les pouvoirs arméniens dans le Proche-Orient méditerranéen (1068-1150), 2 vol., Lisbona, 2003.
17 B.L. Zekiyan, Un dialogue œcuménique au XIIe siècle: les pourparlers entre le catholicos St. Nersès Šnorhali et le légat impérial Théorianos en vue de l’union des Églises arménienne et byzantine, in Actes du XVe Congrès International d’Études Byzantines-Athènes, Septembre 1976, t. IV, Atene, 1980, p. 420-441; G. Dédéyan, Le rôle complémentaire des fréres Pahlawuni Grigor III, catholicos, et saint Nersēs Šnorhali, coadjuteur, dans le rapprochement avec les Latins, à l’époque de la chut d’Édesse (v. 1139-v. 1150), in Revue des études arméniennes, 23, 1992, p. 237-252.
18 Itaque sive dicatur una natura ob indissolubilem et inseparabile unionem, non autem ob confusionem; sive duae naturae quia sunt inconfusae et inalterabiles, non ob divisionem: utrumque est intra orthodoxiae limites (Nersēs IV Šnorhali, Sancti Nersetis Clajensis Armenorum Catholici Opera, ed. G. Cappelletti, Venezia, typis PP. Mekhitaristarum, 1833, vol. 1, ep. IV, p. 183). Per una traduzione moderna, si veda ora l’edizione francese curata da I. Augé, Églises en dialogue: Arméniens et Byzantins dans la seconde moitié du XIIe siècle, Lovanio, 2011, p. 103-104.
19 Cfr. Theorianus, Theoriani Disputatio secunda cum Nersete Patriarcha Generali Armenorum, in Patrologiae cursus completus ... series Graeca, ed. J.-P. Migne, vol. 133, Parigi, J.P. Migne, 1864, col. 212-298: col. 271.
20 Cfr. Teule, “It Is Not Right to Call Ourselves Orthodox”, cit., p. 14-15, 21-22.
21 APF, SOCG, vol. 181, c. 98r (originale armeno) e c. 88r-100r (traduzione latina): Non haeretici sumus, vel schismatici, sicuti existimatis, sed fideles sumus iuxta professionem spiritualium Patrum nostrorum; et excomunicamus nominatim omnes haereticos, Arium, Macedonium, Nestorium et Eutichen et concordes eorum. Quoniam unam dicimus natura Christi, sicuti existimatis quod Eutichis est, sed ponimus in illa: sine destructione; nisi dicatur sine destructione, erit maledictum schisma; sicut vos dicitis duas naturas, quod est Nestorii, sed dicitis: inseparabiles, et nisi dicatur sine separatione in duobus naturis, erit pessimum schisma. Sed nos dicimus unam naturam sine destructione, et vos dicitis duas naturas sine separatione: et uterque sermo… est et rectus.
22 Un altro caso particolare di adattamento creativo è quello relativo alla formula di ordinazione sacerdotale, studiata recentemente da C. Gugerotti, La liturgia armena delle ordinazioni e l’epoca Ciliciana. Esiti rituali di una teologia di comunione tra Chiese, Roma, 2001. Bisogna evitare di credere ogni somiglianza o coincidenza nei due riti come frutto di influenza diretta o prestito: basti pensare che la proclamazione del credo niceno dopo la liturgia della Parola, elemento comune solo al rito latino e armeno, compare nel primo soltanto dopo l’XI secolo, mentre è presente nel secondo a partire dall’VIII (quindi il rapporto, peraltro inesistente, semmai dovrebbe essere rovesciato); ugualmente, il fatto che le due Chiese siano le uniche a celebrare con il pane azzimo non prova alcun legame diretto, dato che non vi è alcuna prova che gli armeni abbiano mai fatto ricorso al pane fermentato e anzi vi sono attestazioni in senso contrario precedenti ai rapporti con i latini. Cfr. D. Findikyan, L’influsso latino sulla liturgia armena, in Mutafian (a cura di), Roma-Armenia, cit., p. 340-344; G. Winkler, The Political Influence of the Holy See on Armenia and its Liturgy, in J. Vellam (a cura di), The Romanization Tendency, Kottayam, 1975, p. 110-125; Ead., Armenia and the Gradual Decline of its Traditional Liturgical Practices as a Result of the Expanding Influence of the Holy See from the 11th to the 14th Century, in Liturgie d’église particulière et liturgie d’église universelle, Roma, 1976, p. 329-368.
23 Lo studio più recente sulla genesi del documento, che ne provvede anche una traduzione integrale, è quello di Z. Pogossian (ed.), The Letter of Love and Concord: A Revised Diplomatic Edition with Historical and Textual Comments and English Translation, Leida, Brill, 2010. La Lettera dell’amicitia e dell’unione di Costantino gran Cesare e di S. Silvestro sommo pontefice, e di Tridate Re dell’Armenia, e di S. Gregorio Illuminatore della Nazione Armena, scritta nell’anno del Signore 316 fu pubblicata a Venezia, appresso Michiel’Angelo Barboni, 1683 (trad. Yovhannēs Kostandnupolsec‘i): cfr. R.H. Kévorkian, Catalogue des «incunables» arméniens (1511/1695) ou Chronique de l’imprimerie arménienne, Ginevra, 1986, p. XIX, 146, 170.
24 Cfr. L. Zakarian, Un artista anti-unitore del XIV secolo, in Mutafian (a cura di), Roma-Armenia, cit., p. 176-182.
25 In generale, si vedano l’opera classica di F. Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Age. Le développement et l’exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Parigi, 1972 (1° ed. 1959), la raccolta di studi curata da Arbel, Hamilton, Jacoby (a cura di), Latins and Greeks in the Eastern Mediterranean, cit. e i lavori di P. Lock, The Franks in the Aegean, 1204-1500, Londra-New York 1995 e M. Angold, The Fourth Crusade: Event and Context, New York, 2003; N.I. Tsougarakis, P. Lock (a cura di), A Companion to Latin Greece, Leida, 2015 (cfr. soprattutto il saggio di N. Coursolas, The Latin and Greek Churches in Former Byzantine Lands under Latin Rule, p. 145-184).
26 I casi sono segnalati nell’articolo di M. Mersch, Churches as “Shared Spaces” in the Eastern Mediterranean (Fourteenth to Fifteenth Centuries), in G. Christ et al. (a cura di), Union in Separation. Diasporic Groups and Identities in the Eastern Mediterranean (1100-1800), Roma, 2015, p. 461-484.
27 M. Olympios, Shared devotions: non-Latin responses to Latin sainthood in late medieval Cyprus, in Journal of Medieval History, 39-3, 2013, p. 321-341; M. Bacci, Pratica artistica e scambi culturali nel Levante dopo le crociate, in A.C. Quintavalle (a cura di), Medioevo: immagine e racconto. Atti del convegno internazionale di studi (Parma 2000), Milano, 2003, p. 494-510 (che cita ad esempio la descrizione data da Philippe de Mezières di una processione comune a Famagosta contro il pericolo della peste: «vi erano Greci, Armeni, Nestoriani, Giacobiti, Georgiani, Nubiani, Etiopi e molti altri cristiani, ciascuno dei quali si differenziava per rito e per lingua, e vi erano ancora i Latini e i Giudei»).
28 Nam dominicis diebus celebrabat primo Missam in ecclesia latina, et conficiebat more occidentalium in azymo. Illo officio finito transibat ad ecclesiam graecam, et more orientalium conficiebat in fermentato (F. Fabri, Fratris Felicis Fabri Evagatorium in Terrae Sanctae, Arabiae et Egypti Peregrinationem, ed. C.D. Hassler, vol. 1, Stoccarda, sumptibus societatis litterariae Stuttgardiensis, 1843, p. 176-177).
29 Cfr. Mersch, Churches as “Shared Spaces”, cit. e G. Schryver, Monuments of Identity: Latin, Greek, Frank and Cypriot?, in S. Fourrier, G. Grivaud (a cura di), Identités croisées en un milieu méditerranéen: le cas de Chypre, Mont-Saint-Aignan, 2006, p. 385-405
30 L’idea che non ci potesse essere più di un vescovo per diocesi, a prescindere dal rito, era stata formulata con chiarezza da Innocenzo III, a sua volta riprendendo il principio «un solo vescovo per ogni città» contenuto nel Concilio di Nicea: A. Andrea, Innocent III and the Byzantine Rite: 1198-1216, in A. Laiou (a cura di), Urbs Capta: The Fourth Crusade and Its Consequences, Parigi, 2005, p. 111-122. Questo principio informò a lungo le politiche ecclesiastiche della Francocrazia.
31 C. Schabel, Religion, cit., p. 157-218 ( «In short, rather than abolishing the independence and rights of the Greek clergy, the Bulla Cypria guaranteed the existence of a separate, partially independent but also subordinate Greek ecclesiastical hierarchy after 1260»; «once the Greeks accepted the oath and stopped calling the Latins heretic, the Latins stopped asking, and the remainder of the Greek beliefs were tolerated»: p. 204, 198).
32 N.B. Tomadakis, La politica religiosa di Venezia a Creta verso i Cretesi ortodossi dal XIII al XV secolo, in A. Pertusi (a cura di), Venezia e il Levante fino al secolo XV, Firenze, 1973, vol. 1, p. 783-800.
33 S. McKee, Uncommon Dominion: Venetian Crete and the Myth of Ethnic Purity, Philadelphia, 2000, p. 99: «the feudatory group was not uniformly “Latin” in any way corresponding to what could be called objective. The ambiguity of the commoners’ ethnicity in the sources reveals a degree of acculturation in daily life that must have made it impossible to distinguish reliably and consistently between Latins and Greeks by sight and sound». Cfr. anche C. Maltezou, The Historical and Social Context, in D. Holton (a cura di), Literature and Society in Renaissance Crete, Cambridge, 1991, p. 17-48 (p. 32-35). Anche a metà Trecento, nonostante le rafforzate richieste da parte dell’oligarchia veneziana di escludere i figli bastardi e i greci dal governo dell’isola, sette famiglie greche riuscirono ad ottenere posti nel Gran Consiglio e addirittura nel Senato di Candia.
34 Cfr. McKee, Uncommon Dominion, cit., p. 107-115; M. Georgopoulou, Venice’s Mediterranean Colonies: Architecture and Urbanism, Cambdrige, 2001, p. 217-223.
35 A. Papadaki, Cerimonie religiose e laiche nell’isola di Creta durante il dominio veneziano, Spoleto, 2005. Nella relazione del provveditore Benedetto Moro del 1602, oltre a descrivere diversi episodi di communicatio in sacris, si ritrova anche una decisa affermazione della necessità di impedire che i «predicatori latini parlino nelli pulpiti cose contrarie al rito greco»: S.G. Spanakis [Σπανάκης], Μνημεία Κρητικής Ιστορίας, Herakleion, 1940-1976, vol. 4, p. 82-88; in generale, E. Tea, Saggio sulla storia religiosa di Candia dal 1590 al 1630, Venezia, 1913.
36 M. Georgopoulou, Late Medieval Crete and Venice: An Appropriation of Byzantine Heritage, in The Art Bulletin, 77-3, 1995, p. 479-496; Ead., Venice’s Mediterranean Colonies, cit., p. 3: «While in most instances of modern colonization there is a violent imposition of the “national” traditions of the metropole, which overtake the local heritage of each colony, the Venetian colonies exemplify a different pattern: an exchange of cultural forms that allowed the colonizers to maintain a smooth transition from the former Byzantine to the new Venetian hegemony».
37 G. Gerola, Monumenti veneti dell’isola di Creta, 4 vol., Venezia, 1905-1932: vol. 1 (1905), p. XIII.
38 Ibid.
39 O. Gratziou, Evidenziare la diversità: chiese doppie nella Creta veneziana, in C. Maltezou, A. Tzavara, D. Vlassi (a cura di), I Greci durante la venetocrazia: uomini, spazio, idee (XIII-XVIII sec.), Venezia, 2009, p. 757-763; E. Arvaniti, Double-Identity Churches on the Greek Islands under the Venetians: Orthodox and Catholic sharing Churches (Fifteenth to Eighteenth Centuries), in T. Stauning Willert, L. Molokotos-Liederman, Innovation in the Orthodox Christian Tradition, Farnham, 2012, p. 53-72.
40 Non bisogna tuttavia associare automaticamente la presenza di più altari in una chiesa greca alla coesistenza rituale, dato che vi sono prove della possibilità di avere altari laterali e cappelle private anche all’interno di chiese greche; tuttavia, «coexistence of both rites in the same building could and eventually did occur», anche se gli spazi propri a ciascun rito erano solitamente delimitati (Olympios, Shared devotions, cit., p. 7-8; Mersch, Churches as “Shared Spaces”, cit.). Sul fenomeno delle chiese doppie nelle Cicladi, cfr. G. Dimitrokallis [Δημητροκάλλης], Παραδοσιακή ναοδομία στην Τήνο, Atene, 2004, p. 31-57 e infra, p. 202, 221-222.
41 Si veda il saggio di M. Bacci, L’arte della società miste del Levante medievale: tradizioni storiografiche a confronto, in A.C. Quintavalle (a cura di), Medioevo: arte e storia, Milano, 2008, p. 339-354. Tra i molti lavori di Bacci su questo argomento, si segnala anche la sintesi L’arte: circolazione di modelli e interazioni culturali, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, vol. 9: Strutture, preminenze, lessici comuni, a cura di S. Carocci, Roma 2007, p. 581-632.
42 Tra i tanti studi, cfr. ad esempio quello di D. Triantafyllopoulos [Τριανταφυλλόπουλος], Θρησκευτικοί ανταγωνισμοί στο πεδίο της θρησκευτικής τέχνης. Η περίπτωση των Ιονίων νήσων (13ος-18ος), ora in Id., Μελέτες για τη Μεταβυζαντινή Ζωγραφική, ενετοκρατούμενη και τουρκοκρατούμενη Ελλάδα και Κύπρος, Atene, 2002, p. 231-253.
43 Vedi più avanti l’analisi dettagliata di questo fenomeno nel capitolo dedicato alle isole Ionie.
44 La citazione viene dal dispaccio dei provveditori da Candia, 27 maggio 1627: cfr. Gerola, Monumenti veneti, cit., vol. 2, p. 13-14; sul caso di Ierapetra si veda ora l’accurata ricostruzione di A. Papadaki [Παπαδάκη], Η συνύπαρξη των δύο δογμάτων και η διαμάχη για τον ναό του Σωτήρα στην Ιεράπετρα (1626-1627), in O. Gratziou, C. Loukos (a cura di), Ψηφίδες. Μελέτες ιστορίας, αρχαιολογίας και τέχνης στη μνήμη της Στέλλας Παπαδάκη-Oekland, Heraklion, 2009, p. 229-243.
45 Cfr. infra, capitolo 4.
46 B.L. Zekiyan, Riflessioni preliminari sulla spiritualità armena. Una cristianità di “frontiera”: martyria ed apertura all’oikumene, in Orientalia Christiana Periodica, 61, 1995, p. 333-365; Id., La visione di Mechitar del mondo e della Chiesa: una ‘Weltanschauung’ tra teologia e umanesimo, in B.L. Zekiyan, A. Ferrari (a cura di), Gli Armeni a Venezia. Dagli Sceriman a Mechitar: il momento culminante di una consuetudine millenaria, Venezia, 2004, p. 177-200; cfr. infra, p. 386-388.
47 Lo studio dell’evoluzione dell’atteggiamento con cui la Chiesa di Roma ha guardato agli orientali, ed in particolare alla Chiesa greca, è stato l’oggetto di numerosi lavori di V. Peri: si farà dunque spesso ricorso ad essi, a partire dal saggio L’unione della Chiesa orientale con Roma. Il moderno regime canonico nel suo sviluppo storico, in Aevum, 58-3, 1984, p. 439-498.
48 Sul Concilio di Firenze, si vedano ancora gli studi classici di D.J. Geanakoplos, The Council of Florence (1438-1439) and the Problem of Union between the Greek and Latin Churches, in Church History, 24, 1955, p. 324-346 e J. Gill, The Council of Florence, Cambridge, 1959; quest’ultimo autore è anche il curatore dell’edizione moderna dei decreti (Quae supersunt actorum Graecorum Concilii Florentini necnon descriptionis cuiusdam, Roma, Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, 1953), su cui sono condotte le traduzioni italiane citate nel testo, prese dal saggio di V. Peri, La lettura del concilio di Firenze nella prospettiva unionistica romana, in Id., Da Oriente e da Occidente. Le Chiese cristiane dall’Impero romano all’Europa moderna, a cura di M. Ferrari, Roma-Padova, 2002, vol. I, p. 375-96 (p. 380-382). In generale, cfr. Blanchet, La question de l’Union des Églises, cit.
49 Quest’ultimo, peraltro, aveva vissuto un repentino e radicale cambio di idee, visto che invece durante il Concilio era stato uno dei più entusiasti sostenitori dell’Unione: sulla sua figura, cfr. ora M.-H. Blanchet, Georges-Gennadios Scholarios (vers 1400-vers 1472): un intellectuel orthodoxe face à la disparition de l’Empire byzantin, Parigi, 2008. Su Eugenikos, cfr. C.N. Tsirpanlis, Mark Eugenicus and the Council of Florence: a historical re-evaluation of his personality, Salonicco, 1974. Sulla inadeguatezza della categoria storica di «antiunionista», insieme ad una visione di più ampio respiro e profondità critica di quella che si è qui potuta impiegare, cfr. E. Morini, L’Union vue par les «antiunionistes». L’orthodoxie ecclésiologique et l’incohérence de l’orthodoxie de Lyon à Florence, in M.-H. Blanchet, F. Gabriel (a cura di), Réduire le schisme? Ecclésiologies et politiques de l’Union entre Orient et Occident (XIIIe-XVIIIe siècles), Parigi, 2013, p. 13-39.
50 Peri, La lettura del concilio di Firenze, cit., p. 384-389.
51 Cfr. Z.N. Tsirpanlis, Il decreto fiorentino d’unione e la sua applicazione nell’arcipelago greco. Il caso di Creta e di Rodi, in Thesaurismata, 21, 1991, p. 43-73; non diversamente si comportò con i fedeli greci di Venezia, a cui consentì l’erezione di una chiesa nella città lagunare e l’indipendenza dall’ordinario latino, sottomettendoli direttamente alla propria autorità.
52 Il 29 gennaio 1546, quando un anonimo padre conciliare propose di invitare anche rappresentanti armeni o etiopi, la cosa sembrò talmente assurda ut tota pene synodus in risum erumperet: V. Peri, Trento: un concilio tutto occidentale, in Da Oriente a Occidente, cit., vol. 1, p. 397-459, p. 410, originariamente edito in A. Melloni et al. (a cura di), Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, Bologna, 1996, p. 213-277.
53 Per una ripresa recente del tema, ricollegata all’attuale discussione interna alla Chiesa cattolica, cfr. G. Pani, Matrimonio e “seconde nozze” al Concilio di Trento, in La Civiltà Cattolica, 4-3, 2014, p. 19-32.
54 V. Peri, Chiesa latina e Chiesa greca nell’Italia postridentina (1564-1596), in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, Atti del Convegno Storico Interecclesiale (Bari, 30 Apr.-4 Magg. 1969), 3 vol., Padova 1973, vol. I, p. 271-469: p. 432-433. In realtà i fedeli di origine greca e albanese del meridione d’Italia erano stati fino ad allora sotto la cura pastorale di un metropolita dipendente non da Costantinopoli, ma dall’arcivescovo di Ohrid, che si attribuiva un’autonomia di carattere patriarcale.
55 E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Bari 2007, p. 105. Il giudizio negativo su ogni tipo di difformità disciplinare rispetto al modello latino tridentino era giustificata in buona parte dalla forma mentis del pontefice, che proiettava allora sui greci le preoccupazioni nate dal confronto con i protestanti.
56 Per la prima volta si «introduceva nella discussione la concezione che [a prescindere dalla dottrina professata] ogni Chiesa sottratta al pieno e immediato esercizio giurisdizionale e canonico del primato pontificio, nelle forme storiche da esso assunte in Oriente, perdeva la sua stessa natura ecclesiale e la possibilità di comunicare agli uomini i mezzi della salvezza» (Peri, Trento: un concilio tutto occidentale, cit., p. 443-444).
57 La trattativa intorno all’adozione del calendario riformato è ricostruita nel dettaglio da V. Peri, Due date un’unica Pasqua. Le origini della moderna disparità liturgica in una trattativa ecumenica tra Roma e Costantinopoli (1582-84), Milano, 1967. Nonostante un’apparente disponibilità iniziale, Geremia II si mostrò in seguito più esitante ed infine contrario all’adozione del calendario riformato; la chiesa di Costantinopoli condannò ufficialmente il calendario gregoriano nel 1593, quando ormai il patriarca era stato arrestato e deposto dalle autorità ottomane, forse anche con il pretesto dei suoi troppo stretti rapporti con Roma.
58 V. Peri, Ricerche sull’Editio princeps degli atti greci del concilio di Firenze, Città del Vaticano, 1975; S. Fani, M. Farina (a cura di), Le vie delle lettere: la Tipografia medicea tra Roma e l’Oriente, Firenze, 2012. Per un’idea del clima cultuale del pontificato di Gregorio XIII, si veda il progetto unionistico espresso nel «Discorso sopra l’aiuto spirituale et ridottione della Grecia alla Santità di Gregorio Papa XIII», memoriale opera del gesuita Domenico Traiani, pubblicato da W. Van Heteren, Breve discorso sopra l’aiuto spirituale e ridottione di Grecia (dal P.J.D. Trajani S.J.), in Bessarione, 7-68, 1902, p. 174-187; 7-69, 1902, p. 287-291.
59 Si veda la relazione di Antonio Tiepolo in E. Alberi, Le Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, 15 vol., Firenze, Società editrice fiorentina, 1839-1863: vol. 10 (ser. II, t. IV), Firenze, 1857, p. 266.
60 Sul Collegio Greco, si vedano A. Fyrigos (a cura di), Il Collegio greco di Roma. Ricerche sugli alunni, la direzione, l’attività, Roma, 1983 e Z.N. Tsirpanlis [Τσιρπανλής], Το Ελληνικό Κολλέγιο της Ρώμης και οι μαθητές του (1576-1700), Salonicco, 1980. Ho ripreso e approfondito parte delle considerazioni che seguono in C. Santus, Tra la chiesa di Sant’Atanasio e il Sant’Uffizio: note sulla presenza greca a Roma in età moderna, in A. Molnàr, G. Pizzorusso, M. Sanfilippo (a cura di), Chiese e Nationes a Roma: dalla Scandinavia ai Balcani. Secoli XV-XVIII, Roma, 2017, p. 193-223.
61 La citazione viene dal memoriale «Dell’institutione del Collegio Greco eretto dalla Santità di Nostro Signore Gregorio XIII» che contiene il programma educativo dell’istituto e che è stato pubblicato in appendice al saggio di V. Peri, Inizi e finalità ecumeniche del Collegio greco in Roma, in Aevum, 44, 1970, p. 1-71: p. 53-55; la metafora era già stata utilizzata nel memoriale di Traiani del 1575.
62 Per quanto riguarda alcuni esempi in cui ciò avvenne, ho trovato due casi in cui l’arcivescovo latino di Corfù conferì l’ordine sacro secondo il rito bizantino: nel 1621, quando alla richiesta di un nobile greco di poter essere ordinato da un vescovo scismatico si rispose da Roma comandando di ricevere l’ordinazione piuttosto da monsignor Bragadin di Corfù, quia ordinationis validitas non dependet a ritu, sed a charactere Episcopali; e ancora nel 1740 (!), quando proprio un allievo del Collegio Greco fu ordinato da mons. Baldassarre Remondini, che «in tale circostanza, non solo vestì i paramenti sacri della Chiesa Orientale, ma eziandio fece la consacrazione secondo il cerimoniale della medesima Chiesa» (cfr. ACDF, SO, St. St., QQ 3 l, fasc. 8, voto del commissario del Sant’Uffizio; e infra, p. 291).
63 Il testamento di Leone Allacci aveva istituito come erede il Collegio Greco purchè accogliesse ogni anno tre convittori «di Scio, nati da parenti Greci, battezzati in greco»: ma quasi la metà degli accolti tra il 1669 e il 1837 furono in realtà dei greci etnici di rito latino. Si vedano A. Fyrigos, Accezioni del termine ‘greco’ nei secoli XVI-XVIII, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, 44, 1990, p. 201-215 e Id., Considerazioni sulla preparazione culturale e attività pastorale di Joannes De Camillis da Chios, futuro vescovo di Munkács (1641- 1706), in T. Véghseő (a cura di), Da Roma in Hungaria. Atti del convegno nel terzo centenario della morte di Giovanni Giuseppe De Camillis, vescovo di Munkács/Mukačevo (1689-1706), Nyíregyháza, 2009, p. 39-97: p. 59-63.
64 Per alcuni esempi di ex allievi del Collegio destinati a rivestire ruoli importanti nella gerarchia ortodossa, si pensi ai vescovi Nikiforos Melissinos, Ieremias Varvarigos e Paisios Ligaridis, ma anche ad Alexandros Mavrokordatos (1636-1709), futuro grande dragomanno dell’Impero ottomano.
65 L’attività della Congregazione è stata ricostruita nei dettagli da V. Peri, Chiesa romana e «rito» greco: G. A. Santoro e la Congregazione dei Greci (1566-1596), Brescia, 1975 (la citazione è a p. 78-79).
66 Perbrevis Instructio super aliquibus ritibus Graecorum ad RR. PP. DD. Episcopos Latinos, in quorum civitatibus vel dioecesibus Greci vel Albanenses Graeco ritu viventes degunt, Roma, apud Impressores Camerales, 1596.
67 Videtur enim valde favorabilis Graecis omnibus ordinandis a quocumque atque etiam ab Orientalibus episcopis licet schismaticis, tum quia nulla fit expressa mentio in contrarium tum etiam quia iisdem dari videtur facultas communicandi in divinis cum omnibus suae nationis (APF, Miscellanee diverse, vol. 21, c. 266r; edito in Peri, Inizi e finalità ecumeniche, cit., p. 63). Sulla communicatio in sacris nel contesto del Collegio Greco, cfr. M. Foscolos, Un documento cattolico del secolo XVIII sulla Communicatio in Sacris e sulla giurisdizione dei Vescovi ortodossi, in Euntes Docete, 24, 1971, p. 112-126.
68 Peri, Chiesa romana e «rito» greco, cit., p. 177-205; M. Foscolos, I vescovi ordinanti per il rito greco a Roma, in Fyrigos (a cura di), Il Collegio Greco, cit., p. 289-302.
69 Sulle professioni di fede, cfr. infra, p. 146-147.
70 Cfr. L. Tatarenko, La naissance de l’Union de Brest, in Cahiers du monde russe, 46, 2005, p. 345-354 e la bibliografia ivi citata.
71 Peri, Chiesa romana e «rito» greco, cit., p. 192. Nonostante il Concilio Vaticano II abbia sostanzialmente riconosciuto il potere di giurisdizione delle gerarchie orientali separate, in calce alla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (1964) fu aggiunto una nota esplicativa che recitava: Sine communione hierarchica munus sacramentale-ontologicum, quod distinguendum est ab aspectu canonico-iuridico, exerceri non potest. Commissio autem censuit non intrandum esse in quaestiones de liceitate et validitate, quae relinquuntur disceptationi theologorum, in specie quod attinet ad potestatem quae de facto apud Orientales seiunctos exercetur, et de cuius explicatione variae exstant sententiae (Enchiridion vaticanum, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1993, vol. 1: Documenti del Concilio Vaticano II, 1962-1965, §§ 284-456, «Nota explicativa praevia»).
72 G. Petrowicz, L’Unione degli armeni di Polonia con la Santa Sede: 1626-1686, Roma 1950; G. Aral, Gli Armeni a Roma, in Mutafian (a cura di), Roma-Armenia, cit., p. 334-336; cfr. APF, Ospizi, Ospizio degli Armeni in S. Biagio, c. 190r ( «Serie dei vescovi ordinanti armeni residenti in S. M. Egiziaca ed oggi in S. Biaggio»).
73 A.M. Verricelli, Quaestiones morales… seu Tractatus de apostolicis missionibus, Venezia, apud Franciscum Baba, 1656, quaestio CLXIX, p. 492-493; ACDF, SO, St. St., M 3 b, c. 68rv, riassunto del voto di Luigi Maria Lucini. Per un’analisi più approfondita, cfr. infra, capitolo 3, e in generale A. Girard, Le christianisme oriental, cit.
74 V. Buri, L’Unione della Chiesa copta con Roma sotto Clemente VIII, Roma 1931; sui rapporti tra i pontefici romani e i patriarchi di Costantinopoli si veda G. Hofmann, Griechische Patriarchen und Römische Papsten, vol. 5: Die Patriarchen Meletios Pegas, Neophytos II, Timotheos II, Roma, 1932, p. 249-276; C.A. Frazee, Catholics and Sultans. The Church and the Ottoman Empire (1453-1923), Londra-New York, 1983.
75 Vedi infra, p. 388. Cfr. Abagian, 1991, p. 474; B.L. Zekiyan, La formazione e gli sviluppi tra gli armeni di correnti ecclesiali simpatizzanti per la comunione romana: spunti per una rilettura delle dinamiche storiche, in V. Ruggieri, L. Pieralli (a cura di), Eukosmia: studi miscellanei per il 75° di Vincenzo Poggi S.J., Soveria Mannelli, 2002, p. 643-664: p. 655.
76 Cfr. A.G. Welykyj, Un progetto anonimo di Pietro Mohyla sull’unione delle Chiese nell’anno 1645, in Mélanges Eugène Tisserant, vol. 3, Città del Vaticano, 1964, p. 467-473; W. Hryniewicz, The Challenge of Our Hope: Christian Faith in Dialogue, Washington, 2007, p. 243-252; L. Tatarenko, Les projets unionistes dans la métropole de Kiev, in M.-H. Blanchet, F. Gabriel (a cura di), Réduire le schisme?, cit., p. 101-113.
77 P. Argenti, Chius vincta: or the Occupation of Chios by the Turks, 1566, and their administration of the island, 1566-1912, Cambridge, 1941; G. Hofmann, Vescovadi cattolici della Grecia, vol. 1: Chios, Roma, 1934.
78 ACDF, SO, Dubia de Matrimonio 1603-1722, fasc. II, c. 9r-10v (corsivo mio). Il testo del «monitorio» con cui il vescovo aveva pubblicamente definito come «irriti e nulli» i matrimoni contratti in modo difforme «alli decreti et terminationi del Sacro Concilio di Trento de reformatione Matrimonii sessione vigesima quarta, capitulo primo» è riportato alla c. 16rv. Il decreto a cui si fa riferimento è il celebre Tametsi del 1563, che entrava in vigore dopo 30 giorni dalla data della sua notificazione pubblica.
79 «… essendo tal matrimonio contratto dentro le mura delle chiese greche, le quali secondo l’antichissimo uso di queste parti sono reputate affatto esenti dalla giurisditione de prelati latini, et così intendendosi per luochi extra parochiam Latinorum, et dentro esse chiese non s’intendendo per consequentia né publicato né accetato il decreto del Consiglio della nullità de’ matrimonii senza la presenza del paroco» (ibid., c. 9v). Durante il XVII secolo vi furono dispute sulla validità del Tametsi anche per quanto riguardava le parrocchie latine di Costantinopoli, dato che non vi erano prove definitive della sua pubblicazione nella capitale: L. Binz, Latin Missionaries and Catholics in Constantinople 1650-1760: Between local and religious culture and confessional determination, tesi di dottorato, European University Institute, Fiesole, 2013, cap. 6 (p. 156).
80 Loukaris durò solo ventuno giorni, prima che anche egli fosse allontanato dal trono patriarcale, affidato allora per otto anni a Timoteo II (novembre 1612-1620): quest’ultimo, amico di Neofito e come lui in buoni rapporti con i gesuiti, lo richiamò dall’esilio e in questo momento deve essere collocato il passaggio dell’ex patriarca a Chio. Cfr. Slot, Archipelagus turbatus, cit., p. 130; Frazee, Catholics and Sultans, cit., p. 82-83.
81 Die 26 Iulii 1613 Sanctissimus mandavit scribi episcopo Chii, qui declaravit nulla Matrimonia contracta inter Graecos, et Latinos coram Parocho Graeco cum admonitione, quod in re tam gravi executus fuit non prius certiorata S. Sede, ob id suspendat in praeteritum et futurum effectum praedictae declarationis, eiusque executionem, et certioret quae sibi occurrunt (ACDF, SO, Dubia de Matrimonio 1603-1722, fasc. II, c. 9r, 32rv).
82 Ibid., c. 33v. Il voto è anonimo e senza data.
83 Maritus Latinus uxoris Graecae ritum non sequatur. Latina uxor non sequatur ritum mariti Graeci. Graeca vero uxor sequatur ritum mariti Latini. Quod si id fieri non possit, quisque coniugum in suo ritu, catholico tamen, manere permittatur. Prolis sequatur patris ritum, nisi praevaluerit mater latina (Bullarium pontificium S. C. de Propaganda Fide, vol. 1, Roma, typis Collegii Urbani, 1839, p. 1-4: p. 2).
84 ACDF, SO, Dubia de Matrimonio 1603-1722, fasc. II, c. 20r-23v (12 febbraio 1609). Secondo Giovani Compiano, il metropolita dell’isola gli aveva «domandato s’io voglio sposarmi alla greca, et viver alla greca, et io presupponendo esser tanto il ritto greco quanto il ritto latino, risposi: son contento, ma poi havendomi ditto s’io son contento di farmi di novo batizzare, et ungere con l’oglio santo, io risposi: che parole son queste? e sdegnato in colera me n’andai via, e di poi persuaso dalli parenti della giovane, mi fecero ritornare, dicendomi detto Metropolita che non m’havea di far altro ch’una croce in fronte, et chiamato detto prete l’ha ordinato che mi facci detta croce, il che è seguito nella chiesa di S. Anargiri avanti che mi sia sposato, e detta croce s’è fatta da certo oglio ch’havea detto prete dentro in una cana, e con un legnetto l’ha cavato, e mi fece quatro croci uno in fronte, altri duoi nelle masche et altro nel mento, et anche m’ha unto in le giontore d’ambedue le mani con detto oglio, e poi fatta la promessione della dotte, andassimo in casa e mi fui sposato, e benedetto» . Sempre secondo il Compiano, la formula matrimoniale lo aveva indotto all’errore: «Ti piace pigliar per vostra leggitima moglie Benù secondo comanda la Chiesa della nova Roma?, il che mi domandò tre volte, com’alla giovane, et io presuponendo che mi diceva per la Santa Chiesa Romana, resposi de sì» .
85 Ibid., c. 41r-43v.
86 Ibid., c. 44v, 45r-47r (il voto dei consultori, tra cui l’arcivescovo e primate irlandese Peter Lombard, è presentato in congregazione il 13 maggio 1614).
87 Cfr. P. Scaramella, I dubbi sul sacramento del matrimonio e la questione dei matrimoni misti nella casistica delle congregazioni romane (sec. XVI-XVIII), in Broggio, de Castelnau-L’Estoile, Pizzorusso (a cura di), Administrer les sacrements, cit., p. 75-94. Esempi di casi in cui il Sant’Uffizio discusse sulla validità delle unioni si ritrovano nelle filze dedicate ai dubia sul matrimonio: cfr. ad esempio ACDF, SO, Dubia de Matrimonio 1603-1722, fasc. II, V, VI, XVII, XXV, XXXVI, XLI, etc. La dichiarazione benedettina sulla validità dei matrimoni tra cattolici e protestanti è del 1741, mentre la lettera che invitava ad applicare lo stesso principio agli «scismatici» orientali risale al 1754; nonostante fosse stato il destinatario di quest’ultima, il vicario patriarcale di Costantinopoli Biagio Paoli pochi anni dopo si credeva ancora in potere di dichiarare nulli i matrimoni misti: Binz, Latin Missionaries and Catholics in Constantinople, cit., p. 169-180. Per il caso specifico dei matrimoni tra greci e latini delle isole egee, cfr. infra, p. 219-221; per l’intervento di Benedetto XIV, cfr. p. 419-420.
88 ACDF, SO, Dubia de Matrimonio 1603-1722, fasc. II, c. 49r, 54rv. Nella stessa occasione, Bellarmino intervenne anche per mitigare il parere dei consultori su altri punti, ad esempio circa la validità della cresima: G. Hofmann, Il beato Bellarmino e gli Orientali, in Orientalia Christiana, 8-6, 1927, p. 261-307 (p. 267-269). Al momento di trasmttere la lettera del cardinale al Giustiniani, la burocrazia di Propaganda deve aver giudicato più opportuno mitigarne la chiusura aspra, evitando di menzionare il «fastidio» recato e inserendo al contrario una nota positiva circa lo «zelo, et vigilanza» mostrate dal vescovo, pur ricordandogli «che conviene, con quelli che non sono suoi sudditi, caminare con stile diverso di quello che si fa con li sudditi» (si veda la copia della lettera finale in: ACDF, SO, Dubia Varia 1570-1668, fasc. VII).
89 É. Legrand (ed.), Relation de l’establissement des PP. de la Compagnie de Jésus en Levant, Parigi, Maisonneuve, 1869, p. 9 e sg. Nelle sue lettere il vescovo Giustiniani accusava i gesuiti di tollerare che i latini seguissero il calendario dei greci e celebrassero con loro le festività e i digiuni, di ritenere validi e legittimi i matrimoni celebrati davanti al prete greco e di consentire il ricorso ai tribunali turchi e al prestito a interesse.
90 Sulla figura del missionario nel nuovo clima della Controriforma, cfr. A. Prosperi, Il missionario, in R. Villari (a cura di), L’uomo barocco, Roma-Bari, 1991, p. 179-218 e Id., Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, 1996.
91 J.B. Vives (1545-1632), parente del più celebre umanista Juan Luis, in seguito riuscirà a vedere realizzato il proprio ideale grazie alla fondazione del Collegio Urbano: G. Piras, La Congregazione e il Collegio di Propaganda Fide di J.B. Vives, G. Leonardi e M. de Funes, Roma, 1976; sul card. Santoro, si veda J. Krajcar (ed.), Cardinal Giulio Antonio Santoro and the Christian East: Santoro’s Audiences and Consistorial Acts, Roma, 1966; sui carmelitani e le missioni, cfr. G. Pizzorusso, Il papato e le missioni extra-europee nell’epoca di Paolo V. Una prospettiva di sintesi, in A. Koller (a cura di), Die Außenbeziehungen des Römischen Kurie unter Paul V. (1605-1621), Tubinga, 2008, p. 367-390. In generale, cfr. J. Metzler, Foundation of the Congregation “de Propaganda Fide” by Gregory XV, in Id. (a cura di), Sacrae Congregationis de Propaganda Fide Memoria Rerum, Roma-Friburgo-Vienna, 1971-1976, vol. I/1, p. 79-111.
92 J. Metzler, Orientation, programme et premières décisions (1622-1649), in Id. (a cura di), Sacrae Congregationis de Propaganda Fide Memoria Rerum, cit., vol. I/1, p. 146-196; E. Sastre Santos, La fundación de Propaganda Fide (1622) en el contexto de la guerra de los Treinta Años (1618-1648), in Commentarium pro religiosis et missionariis, 83, 2002, p. 231-261; per una prospettiva storiografica generale, cfr. G. Pizzorusso, La congregazione pontificia de Propaganda Fide nel XVII secolo: missioni, geopolitica, colonialismo, in M.A. Visceglia (a cura di), Papato e politica internazionale nella prima età moderna, Roma, 2013, p. 149-172. Il breve di papa Ludovisi è conservato alla Bibliothèque Nationale de France, Manuscrit français 16158, c. 17r-18v.
93 Le citazioni vengono da: G. Pizzorusso, La congregazione romana “de Propaganda fide” e la duplice fedeltà dei missionari tra monarchie coloniali e universalismo pontificio (XVII secolo), in M. Rivero Rodriguez, La doble lealtad: entre el servicio al rey y la obligación a la Iglesia, numero speciale di Los Libros de la Corte, 6, 2014, p. 228-241; sul Collegio Urbano, cfr. G. Pizzorusso, I satelliti di Propaganda Fide: il Collegio Urbano e la Tipografia poliglotta. Note di ricerca su due istituzioni culturali romane nel XVII secolo, in MEFRIM, 116-2, 2004, p. 471-498.
94 La costituzione è edita in Bullarium pontificium, cit., vol. 1, p. 26-30; la lettera del 15 gennaio 1622 si può leggere in versione italiana in Metzler (a cura di), Sacrae Congregationis de Propaganda Fide Memoria Rerum, cit., vol. III/2, p. 656-658.
95 Si veda il lavoro fondamentale di A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit.
96 Sulle facoltà, cfr. G. Pizzorusso, I dubbi sui sacramenti dalle missioni ‘ad infideles’: percorsi nelle burocrazie di Curia”, in Broggio, de Castelnau-L’Estoile, Pizzorusso (a cura di), Administrer les sacrements, cit., p. 39-61 (p. 40-44). Più nel dettaglio, si veda S.M. Paventi, Congregazione Urbaniana super facultatibus missionariorum, in Studia missionalia, 7, 1952, p. 217-240, che ricostruisce l’attività della commissione incaricata di redigere le regole e le formule, a seconda della condizione dei soggetti destinatari (religiosi semplici, prefetti apostolici, vescovi) e soprattutto dei luoghi (distanti o vicini da Roma, con libertà o meno di professare la fede cattolica, etc.). Sui limiti della raccolta di informazioni di Propaganda rispetto a sistemi più efficienti e strutturati (come quello della Compagnia di Gesù), cfr. M. Friedrich, Der lange Arm Roms? Globale Verwaltung und Kommunikation im Jesuitenorden 1540-1773, Francoforte-New York, 2011, p. 111-112.
97 G. Pizzorusso, I dubbi sui sacramenti dalle missioni, cit.; Id., Le fonti del Sant’Uffizio per la storia delle missioni e dei rapporti con Propaganda Fide, in A dieci anni dall’apertura dell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede: storia e archivi dell’Inquisizione. Atti del convegno, Roma, 21-23 febbraio 2008, Roma, 2011, p. 393-423; C. Santus, Les papiers des consulteurs, cit.
98 APF, SOCG, vol. 107, c. 227 e sg., lettera del 6 luglio 1637, corsivo mio; la lettera è edita in I. da Seggiano, Documenti inediti sull’apostolato dei minori cappuccini nel Vicino Oriente (1623-1683), in Collectanea Franciscana, 18, 1948, p. 118-244: p. 143-156. La denuncia da cui il caso prese le mosse e la risposta della Congregazione sono edite in L. Lemmens (ed.), Acta S. Congregationis de Propaganda Fide pro Terra Sancta. Parte I (1622-1720), Quaracchi, Collegio di S. Bonaventura, 1921 (Biblioteca Bio-Bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente Francescano, II Serie – Documenti, tomo I), p. 89-90. Sulla vicenda, cfr. anche F. Coccopalmerio, La partecipazione degli acattolici, cit., p. 49-52; A. Hamilton, The Copts and the West, cit., p. 78-79.
99 APF, Miscellanee Varie, XI, Relazione di Mons.gr Urbano Cerri alla Santità di N.S.P.P. Innocenzo XI dello stato di Propaganda Fide, c. 176v-177r; G. Pizzorusso, La Congregazione “de Propaganda Fide” e gli ordini religiosi: conflittualità nel mondo delle missioni del XVII secolo, in M.C. Giannini (a cura di), Religione, conflittualità e cultura. Il clero regolare maschile nell’Europa d’antico regime, numero monografico di Cheiron, 43-44, 2005, p. 197-240.
100 Sempre Pizzorusso cerca di precisare meglio i termini della questione (che vide la sua manifestazione più evidente con gli attacchi alla pratica dell’accomodatio gesuitica in Estremo Oriente) nel saggio Le pape rouge et le pape noir. Aux origines des conflits entre la Congrégation “de Propaganda Fide” et la Compagnie de Jésus au XVIIe siècle, in P.-A. Fabre, C. Maire (a cura di), Les Antijésuites. Discours, figures et lieux de l’antijésuitisme à l’époque moderne, Rennes, 2010, p. 539-561. Anche i missionari gesuiti inviavano comunque alla Congregazione periodici rapporti informativi.
101 Cfr. infra, capitoli 3 e 7.
102 H. de Chappoulie, Aux origines d’une Église. Rome et les missions d’Indochine au XVIIe siècle, 2 vol., Parigi, 1943-1948; G. Pizzorusso, Il padroado régio portoghese nella dimensione ‘globale’ della Chiesa romana. Note storico-documentarie con particolare riferimento al Seicento, in G. Pizzorusso, G. Platania, M. Sanfilippo (a cura di), Gli archivi della Santa Sede come fonte per la storia del Portogallo in età moderna. Studi in memoria di Carmen Radulet, Viterbo, 2012, p. 177- 219.
103 A. Girard, Entre croisade et politique culturelle au Levant: Rome et l’union des chrétiens syriens (première moitié du XVIIe siècle), in Visceglia (a cura di), Papato e politica internazionale, cit., p. 419-437; Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 267-271.
104 Il père Joseph morì infatti per un colpo apoplettico nel 1638, poco prima che Urbano VIII potesse infine nominarlo cardinale. Su di lui ed il suo progetto, si vedano B. Pierre, Le Père Joseph. L’Eminence grise de Richelieu, Parigi, 2007 e Id., Le père Joseph, l’empire Ottoman et la Méditerranée au début du XVIIe siècle, in Cahiers de la Méditerranée, 71, 2005, p. 85-102; T.G. Djuvara, Cent projets de partage de la Turquie (1281-1913), Parigi, 1914, p. 190-198.
105 Sulla persistenza e le trasformazioni in età moderna dell’idea di crociata, si veda A. Dupront, Le mythe de croisade, Parigi, 1997 (che dedica al progetto della milizia cristiana le p. 399-413 del primo volume) e il recente lavoro di G. Poumarède, Pour en finir avec la Croisade. Mythes et réalités de la lutte contre les Turcs aux XVIe et XVIIe siècles, Parigi, 2006. Cfr. anche A. Girard, Entre croisade et politique culturelle, cit.; A. Boltanski, Les Ducs de Nevers et l’État royal. Genèse d’un compromis (ca. 1550-ca. 1600), Ginevra, 2006.
106 Dupront, Le mythe de croisade, cit., p. 406
107 E. Borromeo, Pacifique de Provins, in F. Pouillon (a cura di), Dictionaire des orientalistes de langue française, Parigi, 2008, p. 734-735; G. de Vaumas, L’éveil missionnaire de la France (d’Henri IV à la fondation du Séminaire des Missions étrangères), Lione, 1942.
108 Pizzorusso, La Congregazione “de Propaganda Fide” e gli ordini religiosi, cit., p. 224-229. Sulla nascita e lo sviluppo delle missioni cappuccine nel Levante si veda I. da Seggiano, L’opera dei Cappuccini per l’unione dei Cristiani nel Vicino Oriente durante il secolo XVII, Roma, 1962.
109 L. Binz, Latin Missionaries and Catholics in Constantinople, cit., p. 125-127, 242-243 (la citazione viene da un’istruzione del 27 novembre 1722, conservata in APF, SC, Romania, vol. 5, c. 556r). Sulla comunità latina di Pera, si vedano il classico A. Belin, Histoire de la Latinité de Constantinople, Parigi, A. Picard et fils, 1894 e il volume di R. Marmara, La communauté Levantine de Constantinople. De l’Empire Byzantin à la République Turque, Istanbul, 2012.
110 B. Pierre parla «d’une véritable religion royale»: «les Capucins devenaient donc des véritables agents diplomatiques de Louis XIII, prenant ainsi le relais de l’Éminence grise» (Le père Joseph, l’empire Ottoman, cit.).
111 Sulla presenza francese ad Aleppo, oltre ai già citati lavori di Heyberger e Masters, molto utile è il volume curato da H.I. El-Mudarris, O. Salmon (ed.), Le Consulat de France à Alep au XVIIe siècle: Journal de Louis Gédoyn, Vie de François Picquet, Mémoires de Laurent d’Arvieux, Aleppo, Ray Publishing, 2009.
112 Cfr. Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 244-245.
113 AN, AE, B/I, vol. 381, c. 200 e sg., lettera di Chateauneuf a Pontchartrain, 17 giugno 1692. L’anno seguente l’ambasciatore passò alle minacce concrete ( «Je feray sçavoir au Supérieur des Cordeliers de Jérusalem que s’il n’oblige ses Religieux de prier pour le Roy, Sa Majesté leur ostera les cures qu’ils deservent»), cosa che alla fine ottenne l’effetto sperato: vol. 381, c. 291v, 361 e sg., lettere del 17 aprile e 13 novembre 1693.
114 L. d’Arvieux, Mémoires du Chevalier d’Arvieux, envoyé extraordinaire du Roy à la Porte, consul d’Alep…, ed. J.-B. Labat, 6 vol., Parigi, chez Charles-Jean-Baptiste Delespine le fils, 1735: vol. 6, p. 12-13.
115 Ibid., p. 59-60; sul D’Arvieux e le sue memorie, si vedano anche i lavori di M. Hossain, The authenticity of the Mémoires of the Chevalier d’Arvieux, in Arab Historical Review for Ottoman Studies, 7-8, 1992, p. 71-101; Ead., The Lebaudy manuscript of the Mémoires of the chevalier d’Arvieux: the question of authenticity revisited, in Revue d’histoire maghrébine, 85-86, 1997, p. 103-117.
116 Secondo il suo parere, un rimedio possibile alle liti e agli scandali prodotti dalla rivalità tra i missionari era quello di impedire che in uno scalo consolare ci fosse più di un solo ordine religioso alla volta, ma ne riconosceva l’irrealizzabilità: «Mémoire du Marquis de Villeneuve sur les affaires de la religion», 1740, in A. Rabbath (ed.), Documents inédits pour servir à l’histoire du christianisme en Orient, vol. 2, Parigi-Londra-Lipsia, Picard et fils-Luzac & Co.-Otto Harassowitz, 1910, p. 561-578.
117 L. Binz, Latin Missionaries and Catholics in Constantinople, cit.; G. Hofmann, Il vicariato apostolico di Costantinopoli, 1453-1830, Roma, 1935.
118 APF, SOCG, vol. 423, c. 187r: Justinianus a Novovico quinque abhinc annis cum dimidio, possidet Armenam, Arabicam, intelligit Curdicam, iamque Turcicae vacat; vol. 239, c. 23r-35v ( «4 luglio 1668 – Relatione della Missione de Capucini di Aleppo nel paese de Iezidini scritta dal P.re Gio. Battista di S. Agnano Sup.re della detta Missione»). Sulle competenze linguistiche, cfr. Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 285-302; I. da Seggiano, Documenti inediti, cit., p. 127-131 (1948).
119 P. Grigoriou [Γρηγορίου], Σχέσεις Καθολικών και Ορθοδόξων, Atene, 1958, p. 167-168; per la storia dei rapporti tra Roma e l’Athos, cfr. G. Hofmann, Rom und der Athos, Roma, 1954. Sull’atteggiamento dei vescovi greci dell’arcipelago, cfr. infra, cap. 4; su Malâtyûs Karma, cfr. Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 392-393.
120 B. Heyberger, Morale et confession chez les melkites d’Alep d’après une liste de péchés (fin XVIIe siècle), in G. Gobillot, M.-T. Urvoy (a cura di), L’Orient chrétien dans l’empire musulman. Hommage au professeur Gérard Troupeau, Parigi, 2005, p. 283-306.
121 Il 20 luglio del 1667 il superiore dei cappuccini Jean Baptiste de Saint-Aignan scrive da Diyarbakır che non si può «descrivere la moltitudine di popolo che è venuta alla casa dove siamo alloggiati per essere medicati [...] il numero dei malati è stato di duecento persone al giorno» (I. da Seggiano, L’opera dei Cappuccini, cit., p. 261); secondo Justinien de Neuvy, la medicina è anche necessaria «per poter battezzare i Figliuoli moribondi de’ Turchi, e degli Hebrei sotto pretesto di dar loro rimedij humani», mentre «la sola presenza d’un Capuccino, il qual habbia un esteriore divoto, e mortificato, ha forza di fare altrettanto, e maggior bene tra’ Popoli Orientali, quanto potrebbe tra’ Cattolici operare co’ suoi sermoni un fervoroso Predicatore» (M. Febvre [J. de Neuvy], Teatro della Turchia dove si rappresentano i disordini di essa, il genio, la natura, et i costumi di quattordici nazioni, che l’habitano…, Venezia, per Steffano Curti, 1684, p. 418-423; 1° ed. Milano, 1681).
122 Villotte [e N. Frizon], Voyages d’un missionaire de la Compagnie de Jésus en Turquie, en Perse, en Armenie, en Arabie et en Barbarie, Parigi, chez Jacques Vincent, 1730, p. 204-206: «ce jeu est composé de quarante-six ronds, qui se suivent en figure spirale, tracez sur une feuille de grand papier; chaque rond contient une emblème ou devise qui exprime un mystère, ou une des grandes véritez de notre Religion; ensorte que tous les points de la Doctrine Chrétienne les plus essentiels se trouvent expliquez… d’une manière également utile et agréable». Cfr. anche le lettere in cui lo stesso Villotte afferma di aver fatto stampare a Parigi una «doctrine chrétienne expliquée par emblèmes», seguita d’una «explication arménienne» (ARSI, Gallia, vol. 104, c. 245r, 6 luglio 1693; Gallia, vol. 113, c. 23r, 16 luglio 1693). Il primo catechismo illustrato è quello realizzato nel 1587 da G.B. Eliano, Dottrina christiana nella quale si contengono li principali misteri della nostra fede rappresentati con figure per istruttione degl’idioti e di quelli che non sanno leggere, Roma, nella stamperia di Vincenzo Accolti in Borgo, 1587. Nella Collezione Minutelli della Biblioteca Labronica si conserva un Catechismo armeno figurato (foglio a stampa illustrato) che nonostante l’attribuzione a Roberto Bellarmino e la data presunta (1670), sembra corrispondere proprio all’incisione di Villotte: cfr. A. Prosperi (a cura di), Livorno 1606-1806: Luogo di incontro tra popoli e culture, Torino, 2009, tav. 43.
123 Cfr. ad esempio il gruppo delle penitenti di Pierre Ricard a Costantinopoli: APCP, ms. 1261, 14 novembre 1714, p. 112-113; sul rapporto tra missionari e devote, cfr. B. Heyberger, Individualism and Political Modernity: Devout Catholic Women in Aleppo and Lebanon. Between the Seventeenth and the Nineteenth Centuries, in A. Sonbol (a cura di), Beyond the Exotic. Women’s histories in Islamic Societies, New York, 2005, p. 71-85; B. Heyberger, Hindiyya, mystique et criminelle (1720-1798), Parigi, 2001.
124 R.H. Kévorkian, Livre missionnaire et enseignement catholique chez les Arméniens entre 1583 et 1700, in Revue des études arméniennes, 17, 1983, p. 589-599; per il contesto arabofono, cfr. B. Heyberger, Livres et pratique de la lecture chez les chrétiens (Syrie, Liban), XVIIe-XVIIIe siècles, in Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, 87-88, 1999, p. 209-223. Come esempio di censura si può citare il controllo sempre più stretto esercitato dalla Propaganda sull’attività della principale tipografia armena del XVII secolo, Surb Ēǰmiacin e Surb Sargis Zōravar (gestita dal vescovo Oskan Erewanc’i e poi da Sołomon Lewonean), specialmente dopo il suo trasferimento da Amsterdam a Livorno e poi infine Marsiglia, dove fu addirittura ogggetto di un procedimento per eresia che ne sospese l’attività tra il 1676 e il 1683. La ritroveremo a Costantinopoli, controllata dai missionari e coinvolta nella polemiche interconfessionali nella locale comunità armena: cfr. infra, p. 322.
125 Tōmar Grigorieann [sic] Yawitenakan [Calendario gregoriano perpetuo], trad. Yovhannēs Terznc‘i e Sult‘anšah T‘oxat‘c‘i, Roma, ex Typographia Dominici Basae, 1584; Ordo divinae missae Armenorum / Pataragatetr, trad. Yovhannēs Ankiwrac‘i, Roma, typis et expensis Sacrae Cong. Propag. Fidei, 1642; Lyturgia armena / Xorhrdatetr pataragin hayoc‘, ed. Barseł Kostandnupolsec‘i, Roma, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, 1677; Liber psalmorum Davidis Regis, et prophetae. Ex Arabico idiomate in Latinum translatus, a Victorio Scialac Accurensi & Gabriele Sionita Edeniensi Maronitis, trad. Naṣrallâh Shalaq al-‘Aqûrî e Jibra’îl al-Ṣahyunî, Roma, ex Typographia Savariana, 1614; Biblia Sacra Arabica Sacrae Congregationis de Propaganda Fide jussu edita ad usum Ecclesiarum Orientalium additis e regione Bibliis Latinis Vulgatis, Roma, typis eiusdem Sacrae Congregat. de Propaganda Fide, 1671. Per queste opere e quelle citate alle note successive, cfr. Kévorkian, Catalogue des «incunables» arméniens, cit.; É. Legrand, Bibliographie hellénique ou description raisonnée des ouvrages publiés par des Grecs au XVIIe siècle, 5 vol., Parigi, 1894-1903; A. Girard, Le christianisme oriental, cit., p. 425-454.
126 R. Bellarmino, Διδασκαλία Χριστιανική της αγίας του Θεού Ρωμαϊκής και Καθολικής Εκκλησίας, Roma, typis Sacrae Cong. de Prop. Fide, 1616; per le altre versioni, cfr. gli studi citati alla nota precedente.
127 M. Febvre [J. de Neuvy], Praecipuae obiectiones, cit.; Id., Kitâb yashtamil ‘alâ ajwâba ahl al-kanisa al-muqaddasa al-qâtûlîqiyya al-jâmi‘a al-rusûliyya li-i‘tirâdât al-muslimîn wa-l-yahûd wa-l-harâtiqa zid al-qâtûlîqiyyîn, Roma 1680; una traduzione armena apparve nel 1681 con lo stesso frontespizio dell’edizione latina.
128 Heyberger, Livres et pratique de la lecture, cit. Le opere più presenti erano la Fabrica, overo dittionario della lingua volgare Arabica et Italiana di Domenico Germano da Silesia (Roma, nella stampa della Sac. Congreg. de Propag. Fede, 1636) e il Thesaurus Arabico-Syro-Latinus di Tomaso Obicini (Roma, typis Sac. Congregationis de Propaganda fide, 1636), oltre ad opere di carattere conciliativo, come la già ricordata edizione greca degli atti del Concilio di Firenze, la Concordia Armenorum cum S. R. Eccl. et declaratio articulorum septem (Roma, excudebat Steph. Paulinus, 1623) e soprattutto l’opus magnus di Clemente Galano, Conciliationis Ecclesiae Armenae cum Romana ex ipsis Armenorum Patrum, et Doctorum testimoniis, in duas partes, historialem & controuersialem diuisae, Roma, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, 1650-1661 (vedi meglio infra, p. 176).
129 La prima raccolta sistematica apparve a Parigi nel 1703 con il titolo Lettres édifiantes et curieuses, écrites des Missions Etrangères par quelques Missionnaires de la Compagnie de Jésus, ma già in precedenza alcune delle relazioni dei missionari erano comparse inserite in varie altre opere a stampa. Nel conflitto che oppose agli inizi del secolo i cappuccini e i gesuiti di Costantinopoli, il padre guardiano dei primi accusò i membri della Compagnia di non essere veramente interessati a pacificare le relazioni tra armeni cattolici e gregoriani per via de «l’occasion que ce schisme leur fournit de donner au public des relations dans lesquelles ils insèrent ce qui leur plaît, sans crainte de contradiction, où il se font un honneur infini de travaux auxquels il ne leur paraît point de coopérateurs» (APCP, ms. 1261, lettera del 29 dicembre 1706, p. 60).
130 Un buon esempio, sin dal titolo, è M. Nau, Ecclesiae Romanae Graecaeque vera effigies ex variis tum recentibus, tum antiquis monumentis singulari fide expressa Romanis Graecisque exhibita, quo intellegant admirabilem utriusque consensionem, et in tanta matrum concordia nefas esse pugnare et odisse inter sese ingenti damno liberos, Parigi, apud Gabrielem Martinum, 1680: su questa tematica sono importanti le riflessioni di A. Girard, Le christianisme oriental, cit., p. 93-94 e p. 742.
131 Professio orthodoxae fidei a Graecis facienda iussu Sanctissimi Domini Nostri Gregorii Papae XIII edita / Ομολογία της Ορθοδόξου πίστεως υπό των Γραικών ποιηθησομένη, Roma, apud Franciscum Zanettum, 1582; Brevis Orthodoxae Fidei professio, quae ex praescripto Sanctae Sedis Apostolicae an Orientalibus ad sacrosanctae Romanae Ecclesiae unitatem venientibus facienda proponitur, stampata in lingua araba dalla Tipografia orientale medicea nel 1595, tradotta l’anno successiva in armeno; una versione in armeno era già uscita nel 1584 presso i tipi di Domenico Basa.
132 Professio orthodoxae fidei ab Orientalibus facienda. Iussu SS. D. N. Urbani VIII edita, Roma, typis & impensis Sacr. Congreg. de Propag. Fide, 1642 e seguenti.
133 A. Girard, Comment reconnaître un chrétien oriental vraiment catholique? Élaboration et usages de la profession de foi pour les Orientaux à Rome (XVIe-XVIIIe siècles), in M.-H. Blanchet, F. Gabriel (a cura di), L’Union à l’épreuve du formulaire. Professions de foi entre Églises d’Orient et d’Occident (XIIIe-XVIIIe siècles), Lovanio, 2016, p. 235-258.
134 APF, SOCG, vol. 587, c. 252r-257v (3 dicembre 1711); Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 388.
135 Analizzo questi repertori in Santus, Tra la chiesa di Sant’Atanasio e il Sant’Uffizio, cit. e in un progetto attualmente in corso volto a costruire un database prosopografico di tutti i cristiani orientali che professarono la fede cattolica in Roma nel periodo 1650-1800.
136 B. Heyberger, Sécurité et insécurité: les chrétiens de Syrie dans l’espace méditerranéen (XVIIe-XVIIIe siècles), in M. Anastassiadou, B. Heyberger (a cura di), Figures anonymes et figures d’élite: pour une anatomie de l’Homo ottomanicus, Istanbul, 1999, p. 147-163; M. Greene, Catholic Pirates and Greek Merchants. A Maritime History of the Mediterranean, Princeton, 2010.
137 Su Picquet, si veda l’introduzione di Salmon, El-Mudarris (a cura di), Le Consulat de France, cit.; cfr. anche G. Goyau, Un précurseur: François Picquet, consul de Louis XIV en Alep et évêque de Babylone, Parigi, 1942, che non ho potuto vedere.
138 Cfr. [C.-L. Antelmi], La vie de messire François Picquet, consul de France et de Hollande à Alep, Parigi, chez la veuve Mergé, 1732, p. 29.
139 Simile sembra essere stata anche la procedura di elezione di un altro prelato, Timoteo Gaṙnuk (o Agnellini come era conosciuto in Italia), nonostante essa non fosse canonicamente accettabile dal punto di vista della chiesa sira: B. Heyberger, La carriera mancata di un ecclesiastico orientale in Italia: Timoteo Karnush, arcivescovo siriano cattolico di Mardîn, in Incontri Mediterranei, 2, 2002, p. 9-16.
140 Il 28 febbraio 1657 lo stesso Akhîjân aveva scritto al papa per notificargli la propria difficoltà a conciliare i propri doveri di arcivescovo siro e di cattolico, enumerando tutte le occasioni in cui il ruolo gerarchico lo vedeva costretto ad assistere o a compiere in prima persona atti e riti di dubbia ortodossia: cfr. ACDF, SO, St. St., M 3 l, fasc. 1, c. n. n.; QQ 2 c, fasc. 9, c. 53-90; Dubia Varia 1570- 1668, fasc. 22 (1657). Si veda il caso nel repertorio in Appendice online, 1658.
141 [Antelmi], La vie de messire François Picquet, loc. cit.; sull’apostolato cattolico tra i siro-giacobiti e le vicende di quegli anni, cfr. J. Joseph, Muslim-Christian Relations and Inter-Christian Rivalries in the Middle East: The Case of the Jacobites in an Age of Transition, Albany (NY), 1983, capitolo 3.
142 [Antelmi], La vie de messire François Picquet, cit., p. 56, 78-79.
143 APF, SOCG, vol. 481, c. 7r-12v; Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 261. Scrivendo anni dopo le sue memorie, il console d’Arvieux non si risparmiava alcune frecciate al suo predecessore e ai missionari: «ils devoient s’être apperçus mil fois que les Suriens n’étoient Catholique que par intérêt, et seulement autant de temps qu’ils étoient en état de leur fournir de quoi subsister commodément» (Mémoires du Chevalier d’Arvieux, cit., vol. 6, p. 56-57).
144 APCP, Constantinople (Saint-Louis de Pera), série U, doc. 39 (20 ramazan 1106 = aprile 1695).
145 Ibid., série R, doc. 29 (12 recep 1107 = febbraio 1696). Sul termine, si veda in generale I. Feodorov, Les Firanǧ – Francs, Européens ou catholiques? Témoignage d’un chrétien syrien du XVIIe siècle, in Orientalia Christiana Periodica, 82, 2016, p. 179-210.
146 Mémoires du Chevalier d’Arvieux, cit., vol. 6, p. 57.
147 Basti pensare che uno di tali ritorni sul trono patriarcale fu giustificato col fatto che il patriarca Jirjis aveva insultato Luigi XIV durante una disputa con i missionari davanti al kadı: AN, AE, B/I, vol. 381, c. 333v-334r (lettera del 18 settembre 1693); cfr. anche 267rv (23 maggio), 325v-326r (10 agosto), 452rv (21 settembre). Un quadro complessivo degli eventi legati alle rivalità interne alla Chiesa sira è visibile grazie al diario tenuto dai carmelitani scalzi di Aleppo a partire dal 1669 e pubblicato in ampi stralci da Rabbath (ed.), Documents inédits, cit., vol. 2, p. 1-56; cfr. anche alle p. 108-122 del primo volume l’edizioni dei documenti conservati negli archivi francesi relativi alle persecuzioni dei siri cattolici.
148 Gli archivi diplomatici francesi conservano varie copie tradotte di questi comandi: cfr. per esempio AN, AE, B/I, vol. 382, c. 240r (15 rebiülevvel 1107, «c’est à dire à la fin du mois de Mai 1695»); vol. 384, c. 102r-106v (fine del mese di safer 1114, incluso in una lettera dell’8 ottobre 1702); vol. 386, c. n. n. (ottobre 1710); CADN, Constantinople, série A (fonds Saint-Priest), vol. 261, pièces 7-8 (1725).
149 CADN, Constantinople, série A (fonds Saint-Priest), vol. 262, c. 210v: «Commandement adressé au vezier Emir-Hag et Pacha de Damas, au Pacha Beyler-Bey d’Alep, au Pacha Beyler-Bey de Tripoli de Syrie, au Mutesellim de Seyde et au Dizdars de la forteresse de Lemnos… Donnée à la ville de Constantinople la bien gardée au commencement de la lune de Rebiul-Evvel l’an de l’Egire 1137, qui revient au mois de novembre 1724».
150 Rabbath (ed.), Documents inédits, cit., vol. 2, p. 36.
151 Joseph, Muslim-Christian Relations, cit., p. 46 e sg.
152 APCP, Constantinople (Saint-Louis de Pera), ms. 1322, c. 6r, edito da R. Kévorkian, Documents d’archives français sur le Patriarcat arménien de Constantinople (1701-1714), in Revue des études arméniennes, 19, 1985, p. 333-371, p. 365; cfr. anche Heyberger, Les Chrétiens, cit., p. 368-369.
153 Nel 1741 fu stabilito anche un vicariato apostolico per i cattolici copti, che riuscirono ad avere un patriarca solo nel 1824. Una serie di patriarchi caldei cattolici esisteva invece già dal 1681. In ogni caso, nessun prelato cattolico indipendente dalle gerarchie orientali fu formalmente riconosciuto dall’autorità ottomana prima della fondazione del millet cattolico nel 1831: cfr. infra, capitolo 6.
154 Heyberger, Les Chrétiens, cit., p. 405-431 (p. 420-421); G. Hofmann, Il vicariato apostolico di Costantinopoli 1453-1830, Roma, 1935, p. 78-83.
155 Cfr. C. Walbiner, Monastic Reading and Learning in Eighteenth-Century Bilâd al-Shâm: Some Evidence from the Monastery of al-Shuwayr (Mount Lebanon), in Arabica, 51-4, 2004, p. 462-477; Girard, Le christianisme oriental, cit., cap. 12; R.H. Kévorkian, Les imprimés arméniens: 1701-1850, Parigi, 1989, p. 31-54 (Catalogue de la Bibliothèque Nationale de France).
156 Per un caso ben conosciuto di conflitto tra ordini orientali e missionari europei (soprattutto gesuiti), ma anche all’interno delle nuove congregazioni orientali (ad esempio tra aleppini e libanesi), cfr. Heyberger, Hindiyya, cit.
157 ACDF, SO, St. St., QQ 2 b, fasc. 5; QQ 3 l, fasc. 14; H 7 c, c. n. n.; Doctrinalia, vol. 4, fasc. 9, c. 73r-88v (voto del commissario del Sant’Uffizio); APF, Biglietti del S. Offizio 1711-1720, c. 312-321; Fondo Vienna 56, c. 310v-325v.
158 Cfr. Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 446-448, 487-494, 543-548, dove per quanto riguarda la Siria si rintracciano i principali fattori di «latinizzazione» nella diffusione del terz’ordine francescano ad Aleppo e nell’opera dell’influente padre Tomaso Diaz de Campaya a Damasco; la questione continuò ad esacerbare i rapporti tra orientali e padri di Terra Santa fino alla metà del secolo. Non molto diversamente era accaduto con gli armeni latinizzati del Naxiǰewan, che portarono i loro costumi nella diaspora: cfr. A. Checchi, Nazione armena e rito armeno: alcune questioni relative a Livorno nel XVIII secolo, in Mutafian (a cura di), Roma-Armena, cit., p. 329-331.
159 La relazione del vescovo (che domandava l’opinione di Roma sulla correttezza del proprio operato) fu esaminata dal Sant’Uffizio tra il 6 e il 20 febbraio 1716; con una lettera del 24 aprile fu notificata a Sayfî «la risoluzione di tutti i riferiti suoi dubbj, che fu in omnibus contraria al di lui sentimento, disapprovò nello stesso tempo la sua condotta, perché avanti di procedere alle variazioni ed innovazioni de i detti riti, già approvati dalla Santa Sede, e specialmente nei concili Fiorentino e Lateranense, non avesse consultato l’oracolo delle medesima Santa Sede» (ACDF, SO, Doctrinalia, vol. 4, fasc. 10; Dubia Varia 1708-1730, fasc. 10, c. 78r-139v; St. St., QQ 3 l, fasc. 24; H 7 c, c. n .n.).
160 Nel 1720 i consultori dovettero decidere come valutare il comportamento dei cattolici armeni di Tokat, che «circa l’osservanza dell’astinenze, vigilie, digiuni e celebrationi della Pasqua e di tutte l’altre Feste di precetto pratticano lo stile della Chiesa Romana, il che fa la maggior parte de medemi e quasi tutti nell’Oriente, havendo essi abbandonato lo stile della propria Chiesa nationale schismatica» (ACDF, SO, Doctrinalia, vol. 4, c. 479r-498r; St. St., QQ 3 l, fasc. 23); l’anno successivo i missionari di Damasco consultavano le congregazioni romane a proposito della «consuetudine invalsa in quella città da circa un secolo di comunicare i greci cattolici loro discepoli in azzimo, per la mancanza o scarsità di sacerdoti greci cattolici e per estirpare in loro il pregiudizio contrario all’uso latino» (ACDF, SO, Dubia de Eucharistia 1603-1788, fasc. XXV, c. 417-426). Sulla «correzione» dei riti orientali, cfr. A. Girard, Nihil esse innovandum? Maintien des rites orientaux et négociation de l’Union des Églises orientales avec Rome (fin XVIe-mi-XVIIIe s.), in Blanchet, Gabriel (a cura di), Réduire le schisme?, cit., p. 337-352.
161 Cfr. la relazione del Guardiano di Gerusalemme Giuseppe Maria di Perugia (APF, SOCG, vol. 624, congregazione generale del 7 maggio 1720) pubblicata da Lemmens (ed.), Acta S. Congregationis de Propaganda Fide pro Terra Sancta. Parte I (1622-1720), cit., p. 357-358. Sui digiuni e la disciplina alimentare, cfr. B. Heyberger, Les transformations du jeûne chez les chrétiens orientaux, in C. Mayeur-Jaouen, B. Heyberger (a cura di), Le corps et le sacré en Orient musulman, numero monografico della Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, 113-114, 2006, p. 267-285.
162 «… onde supplica l’Eminenze Vostre che si degnino di proibire a tutti li sacerdoti cattolici, sotto pena anco di scommunica riservata a Nostro Signore, il concedere in avvenire simili dispense e l’alterare anco in cose leggierissime i riti di ciascheduna nazione» (APF, CP, vol. 75, c. 233rv, congregazione generale del 31 gennaio 1702).
163 I dubbi sull’accettabilità di tale communicatio in sacris furono trasmessi dalla Propaganda al Sant’Uffizio il 22 giugno 1715 e decisi in congregazione il 22 giugno: ACDF, SO, St. St., QQ 2 l, fasc. 13, c. 116-137 e H 7 c, c. n. n.
164 Cum latinus ritus id sit, quo utitur Sancta Romana Ecclesia, quae mater est et magistra aliarum ecclesiarum, reliquis omnibus ritibus praeferri debet (Benedetto XIV, Allatae Sunt, 1755, in R. De Martinis (ed.), Iuris pontificii, cit., p. 605). Cfr. M.T. Fattori, Benedict XIV and His Sacramental Polity on the Eastern Churches (1740-1758), in Nicolaus-Rivista di teologia ecumenico-patristica, 39, 2012, p. 117-144.
165 Cfr. A. Girard, Le christianisme oriental, cit., p. 634-635, dove si specifica tra l’altro come la costruzione dell’identità confessionale tra i melchiti spingesse alcuni cattolici orientali a mostrare un atteggiamento molto più severo dei missionari verso i fedeli e il clero ortodossi, attribuendo loro non solo la qualifica di «scismatici» ma anche quella di «eretici», termine che gli europei avevano invece impiegato con cautela per le ragioni sopra ricordate di unità nella fede contro i protestanti. Cfr. anche Id., Quand les «grecs-catholiques» dénonçaient les «grecs-orthodoxes»: la controverse confessionnelle au Proche-Orient arabe après le schisme de 1724, in C. Bernat, H. Bost (a cura di), Discours et représentations du différend confessionnel à l’époque moderne, Turnhout, 2012, p. 157-170.
166 G. Seviros [Σεβήρος], Συνταγμάτιον περί των αγίων και ιερών Μυστηρίων, Venezia, παρά Νικολάω Γλυκεί τω εξ Ιωαννίνων, 1600; cfr. M. Plested, Orthodox readings of Aquinas, Oxford, 2012, p. 145-146; M. Jugie, Un théologien grec du XVIe siècle, Gabriel Sévère et les divergences entre les deux Églises, in Echos d’Orient, 99, 1913, p. 97-108. Ciò non toglie che brani di un’opera di Seviros, Έκθεσις κατά των αμαθών λεγόντων και παρανόμως διδασκόντων, ότι ημείς οι της Ανατολικής Εκκλησίας γνήσιοι και ορθόδοξοι παίδες εσμέν σχυσματικοί παρά της αγίας και καθόλου Εκκλησίας, in N. Metaxas [Μεταξάς] (ed.), Του Μακαριωτάτου πατρός ημών Μελετίου Αρχιεπισκόπου Αλεξανδρεία… Περί της Αρχής του Πάπα ως εν είδει επιστολών…, Costantinopoli, s.e., 1627, fossero utilizzati ad inizio Settecento dalla propaganda anticattolica di matrice protestante: nelle lettere dei missionari di Aleppo si trovano infatti numerosi riferimenti alla traduzione in arabo fatta da un mercante inglese di nome «Chairman» (Rowland Sherman) con l’aiuto di Ilyâs ibn Fakhr: Girard, Le christianisme oriental, p. 636 e passim.
167 Cfr. soprattutto Plested, Orthodox readings of Aquinas, cit., p. 148-156 e G. Podskalsky, Griechische Theologie in der Zeit der Türkenherrschaft (1453-1821), Monaco, 1988, p. 128-135, 183-190, 242-244. La Σύνοψις της ιεράς θεολογίας di Koursoulas fu pubblicata solo nel 1862 a Zante: Legrand, Bibliographie hellénique, cit., vol. 5, p. 263-264.
168 M. Syrigos [Συρίγος], Του μακαρίτου Μελετίου Συρίγου… Κατά των καλβινικών κεφαλαίων, και ερωτήσεων Κυρίλλου του Λουκάρεως, Αντίρρησις…, Bucarest, s.e., 1690 (ma composto tra il novembre 1638 e il novembre 1640): Legrand, Bibliographie hellénique, cit., vol. 2, p. 458-459; Podskalsky, Griechische Theologie, cit., p. 208-209. La confessione di fede di Loukaris apparve nel 1629 a Ginevra in latino, venendo tradotta in greco nel 1633 e condannata definitivamente nel 1672 dal Concilio di Gerusalemme.
169 Il latino fu impiegato come lingua dell’educazione anche nelle accademie russe di Mosca, San Pietroburgo e Kazan nel XVIII secolo, in seguito ai tentativi occidentalizzatori di Pietro il Grande e Caterina: A. Sydorenko, The Kievan Academy in the Seventeenth Century, Ottawa, 1977; L. Charipova, Latin Books and the Eastern Orthodox Clerical Elite in Kiev, 1632-1780, Manchester, 2006; J.L. Black, Citizens for the Fatherland: Education, Educators, and Pedagogical Ideals in Eighteenth Century Russia, New York, 1979.
170 T. Ware, Eustratios Argenti: A Study of the Greek Church under Turkish Rule, Oxford, 1964, p. 11-13.
171 Legrand, Bibliographie hellénique, cit., vol. 3, p. 68-69.
172 N. Russell, From the “Shield of Orthodoxy” to the “Tome of Joy”: The Anti-Western Stance of Dositheos II of Jerusalem (1641-1707), in G. Demacopoulos, A. Papanikolaou (a cura di), Orthodox Constructions of the West, New York, 2013, p. 71-82; Plested, Orthodox readings of Aquinas, cit., p. 156-158; Ware, Eustratios Argenti, cit., p. 13-14.
173 E. Citterio, Nicodemo Agiorita, in C.G. Conticello, V. Conticello (a cura di), La théologie byzantine et sa tradition, vol. 2, Turnhout, 2002, p. 905-997 (p. 943 e sg.); Plested, Orthodox readings, cit., p. 167-168.
174 Cfr. V. Tsakiris, Die gedruckten griechischen Beichtbücher zur Zeit der Türkenherrschaft. Ihr kirchenpolitischer Entstehungszusammenhang und ihre Quellen, Berlino-New York, 2009 e la recensione di B. Heyberger per la Revue d’Histoire Ecclésiastique, 105-2, 2010, p. 504-507.
175 N. Rodinos [Ροδινός], Νεοφύτου Ροδινού περί εξομολογήσεως…, Roma, nella Stampa della S. Congr. de Propag. Fide, 1630: Legrand, Bibliographie Hellénique, cit., vol. 1, p. 275-277; Podskalsky, Griechische Theologie, cit., p. 203. Su Rodinos, cfr. A. Brunello, Neofito Rodinò missionario e scrittore ecclesiastico greco del secolo XVII, in Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, 5, 1951, p. 148-219: p. 211-212.
176 P. Lucca, Le edizioni a stampa della Bibbia armena (secc. XVI-XIX), in C. Baffioni et al. (a cura di), Bibbia e Corano. Edizioni e ricezioni, Roma, 2016, p. 81-98; A. Orengo, Gli scambi culturali armeno-italiani (XV-XVIII sec.), in Mutafian (a cura di), Roma-Armenia, cit., p. 256-260, 258; Kévorkian, Catalogue des «incunables» arméniens (1511/1695), cit., p. 122-124.
177 G. Petrowicz, L’unione degli Armeni di Polonia, cit.; R.H. Kévorkian, La Chiesa armena, il Vaticano e il movimento armeno di emancipazione nei secoli XVI-XVII, in Mutafian (a cura di), Roma-Armenia, cit., p. 312-315; per la figura di Alek‘sandr e il contesto storico, cfr. V.S. Ghougassian, The Emergence of the Armenian Diocese of New Julfa in the Seventeenth Century, Atlanta, 1988.
178 T.S. Ross Boase, A Seventeenth Century Typological Cycle of Paintings in the Armenian Cathedral of Julfa, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 13-3/4, 1950, p. 323-27; J. Carswell, New Julfa. The Armenian Churches and Other Buildings, Oxford, 1968. Amy Landau sostiene che il modello iconografico sia non tanto la Bibbia di Oskan, quanto le sue fonti iconografiche, cioè le incisioni contenute nelle opere del gesuita Jerónimo Nadal: A.S. Landau, Reconfiguring the Northern European Print to Depict Sacred History at the Persian Court, in T. Dacosta Kaufmann, M. North (a cura di), Mediating Netherlandish art and material culture in Asia, Amsterdam 2014, p. 65-82 e infra, nota 180.
179 Il cappuccino Michel Febvre (Justinien de Neuvy) riferice di due episodi in cui la comunità armena di Aleppo si trovò a che fare con dipinti religiosi di origine europea, ridicolizzando il loro tentativo di renderli più conformi alla tradizione, ad esempio aggiungendo un braccio ad un Gesù bambino visto di profilo: Heyberger, Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 449.
180 A.S. Landau, European Religious Iconography in Safavid Iran: Decoration and Patronage of Meydani Bet‘ghehem (Bethlehem of the Maydan), in W. Floor, E. Herzig (a cura di), Iran and the World in the Safavid Age, Londra, 2012, p. 425-446; A. Landau, T.M. Van Lint, Armenian Merchant Patronage of New Julfa’s Sacred Spaces, in M. Gharipour (a cura di), Sacred Precincts: Non-Muslim Sites in Islamic Territories, Leida, 2015, p. 308-333.
181 Y. Mrk‘uz, Girk‘ hamaṙōt vasn iskapēs ew čšmarit Hawatoy (Libro compendioso della fede vera e autentica), Nuova Giulfa (Isfahan), Surb P‘rkič‘, 1688; Id., Girk‘ žołovacoy ənddem erkabnakac‘ (Libro-raccolta contro i diofisiti), Nuova Giulfa (Isfahan), Surb P‘rkič‘, 1688. Le opere sono presentate e descritte da Kévorkian, Catalogue des incunables, cit., p. 122-124. La discussione tra Shah Soleyman (1666-1694) e Mrk‘uz è riportata dallo storico armeno del XVIII secolo Xač‘atur J̌ułayec‘i (Landau, European Religious Iconography, cit., p. 425-426).
182 Icônes melkites: exposition organisée par le Musée Nicolas Sursock du 16 mai au 15 juin 1969, Beirut, 1969, figg. 28-30, p. 168-171 (alle p. 95-126 un saggio di S. Agémian in cui si afferma «l’on ne retrouve nulle part ailleurs un tel mélange d’éléments catholiques et d’interprétation orientale, plaqués sur l’ancien fond byzantin»); B. Heyberger, Entre Byzance et Rome: l’image et le sacré au Proche-Orient au XVIIe siècle, in Histoire, économie et société, 4, 1989, p. 527-550; Id., Les Chrétiens du Proche-Orient, cit., p. 483 e figg. 3-4; Id., De l’image religieuse à l’image profane? L’essor de l’image chez les chrétiens de Syrie et du Liban, in B. Heyberger, S. Naef (a cura di), La multiplication des images en pays d’Islam: de l’estampe à la télévision (XVIIe-XXIe s.), Würzburg, 2003, p. 31-56.
183 Cfr. infra, p. 296-302.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
De la « Cité de Dieu » au « Palais du Pape »
Les résidences pontificales dans la seconde moitié du XIIIe siècle (1254-1304)
Pierre-Yves Le Pogam
2005
L’« Incastellamento » en Italie centrale
Pouvoirs, territoire et peuplement dans la vallée du Turano au Moyen Âge
Étienne Hubert
2002
La Circulation des biens à Venise
Stratégies patrimoniales et marché immobilier (1600-1750)
Jean-François Chauvard
2005
La Curie romaine de Pie IX à Pie X
Le gouvernement central de l’Église et la fin des États pontificaux
François Jankowiak
2007
Rhétorique du pouvoir médiéval
Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européen (XIIIe-XVe siècles)
Benoît Grévin
2008
Les régimes de santé au Moyen Âge
Naissance et diffusion d’une écriture médicale en Italie et en France (XIIIe- XVe siècle)
Marilyn Nicoud
2007
Rome, ville technique (1870-1925)
Une modernisation conflictuelle de l’espace urbain
Denis Bocquet
2007