Pratiche e norme di comportamento nella diplomazia italiana : i carteggi di Napoli, Firenze, Milano, Mantova e Ferrara tra fine XIV e fine XV secolo1
Texte intégral
Introduzione (I.L.)
1Le origini di una diplomazia permanente e l’emergere di ambasciatori residenti sono stati sovente associati dagli storici europei fra Otto e Novecento alla crescita degli stati rinascimentali in Italia : la consistenza e la razionalità di tali sviluppi sono state spesso esagerate nel tentativo di rinvenire una continuità fra le pratiche diplomatiche tardomedievali e quelle degli stati nazionali ottocenteschi2. A partire dagli studi più sistematici e accurati di Garrett Mattingly negli anni Cinquanta del secolo scorso, una nuova generazione di studiosi, pur continuando a guardare all’insorgere delle ambasciate permanenti come all’elemento chiave della transizione dalla diplomazia medievale a quella di età moderna e contemporanea, ha iniziato a sottolineare come questo processo sia stato assai più sfumato3. Iniziative sempre più sistematiche e consistenti di edizione delle fonti diplomatiche4 e un’attenzione più fine ai meccanismi del potere e della legittimazione nel contesto del sistema degli stati italiani hanno permesso agli studiosi a partire dagli anni Settanta di elaborare un approccio allo studio della diplomazia italiana tardomedievale e protomoderna al tempo stesso più problematico e innovativo. Riccardo Fubini ha sottolineato come la necessità di legittimazione interna ed esterna dei nuovi governi italiani quattrocenteschi abbia causato un mutamento sostanziale nella natura della carica di ambasciatore, trasformando il nunzio o procuratore medievale in un ufficiale pubblico non più limitato da uno stretto mandato, ma profondamente e personalmente coinvolto nella conservazione dello stato per conto del quale agisce in missioni sia temporanee, sia prolungate per mediare conflitti, ottenere la pace, raccogliere informazioni e rafforzare il ruolo istituzionale del proprio governo5. La prosopografia degli agenti diplomatici ha rivelato il profondo legame fra le cancellerie centrali – vale a dire il cuore dell’azione e della decisione politica – e la diplomazia6, e l’analisi delle relazioni simbiotiche su cui si regge l’equilibrio politico della penisola nel Quattrocento ha mostrato la complementarità strutturale fra guerra e diplomazia7. Le ricerche più recenti infine si sono concentrate sulle reti di comunicazione, sul tema cruciale della raccolta dell’informazione politica, sulle pratiche del negoziato e sul sofisticato equilibrio fra scritto e orale in un « mundo de carta » in cui le lettere diplomatiche rappresentano la parte più consistente ed eloquente di un complesso crescente di scritture pubbliche8. Un’attenzione più capillare alla cronologia e un più ampio ventaglio di casi analizzati hanno ampliato i percorsi possibili della ricerca, offrendo agli studiosi della diplomazia italiana tardomedievale e protomoderna un campo aperto di indagine senza smentirne l’originalità, ma svincolandola dal solo affermarsi delle ambascerie permanenti a partire dall’età della pace di Lodi.
2Così una cronologia più sensibile ha retrodatato i tempi di trasformazione delle pratiche quattrocentesche al secondo Trecento, e insieme testimoniato della relativa flessibilità del sistema diplomatico peninsulare sin alla fine del Quattrocento se non al primo Cinquecento, mettendo in luce insieme la non linearità del processo e i suoi ritmi ineguali. Analogamente, pratiche e linguaggi diplomatici, lungi dal seguire un ipotetico percorso evolutivo univoco, mostrano il lento costruirsi di un quadro assai più frammentato. Non solo i ritmi della trasformazione sono diversi e irregolari, e l’origine delle pratiche diplomatiche tardoquattrocentesche è molteplice, ma le strategie diplomatiche variano a seconda dei contesti, alternando circuiti pubblici a reti dinastiche, militari, ecclesiastiche, e privilegiando di volta in volta o contemporaneamente il ricorso a figure diverse. Infine, la pratica diplomatica viene trasformandosi : l’urgenza di risolvere un conflitto o di stringere un’alleanza si mescola con l’esigenza crescente di costruire una rete comunicativa il cui fine principale è la circolazione dell’informazione nel contesto di un linguaggio politico comune e condiviso.
3Quest’ultima necessità, la raccolta dell’informazione, è alla base dell’innegabile, esponenziale moltiplicarsi delle fonti diplomatiche nel corso del Quattrocento : missive e responsive, istruzioni, relazioni conclusive, libri di nomine, quaternelli di spese e libri di cavalcate, itinerari e memorie di viaggio, registrazioni infine di dibattiti consiliari in materia diplomatica si moltiplicano in proporzioni diverse a seconda della struttura costituzionale degli stati e delle modalità e della casualità della conservazione documentaria, ma raggiungono un picco intorno agli anni 1450/70, continuando poi regolarmente a crescere nonostante le differenze regionali e le fluttuazioni occasionali. Prima di questi decenni possiamo trovare qua e là gruppi anche considerevoli di documenti, ma nonostante il loro significato individuale talora anche altissimo, non possiamo contare su di una base omogenea per ricerche sistematiche9.
4Nel nostro comune contributo, queste fonti, di diversa consistenza a seconda del contesto statuale di volta in volta considerato, verranno vagliate alla ricerca del potenziale decantare in regola – per quanto informale – di pratiche diplomatiche sempre più condivise e diffuse. I singoli capitoli in cui si articola il saggio ruotano, pur nella varietà delle impostazioni, attorno a una serie di elementi comuni : il panorama delle fonti, la peculiarità del contesto, il rapporto fra la pratica e le eventuali norme generali, la fisionomia dell’ambasciatore e i suoi comportamenti, i linguaggi utilizzati. L’attenzione verterà in particolare sul secondo Quattrocento : in questi decenni infatti alla maggiore ricchezza e alla più evidente eloquenza dei testi corrisponde una crescente consapevolezza del mutamento delle pratiche, pur nella loro innegabile e prolungata concretezza. Alla ormai sofisticata consapevolezza operativa della varietà degli strumenti a disposizione di diplomatici sempre più ‘politici’ non sembra infatti corrispondere in modo uniforme e progressivo altrettanta consapevolezza teorica.
L’ambasciatore napoletano tra diligentia e prudentia (1458-94) (F.S.)
5Benché fosse al centro delle relazioni diplomatiche europee, per la sua importanza e in quanto posta in gioco nei conflitti angioino-aragonesi tra XIV e XV secolo, il regno di Napoli non è stato molto studiato dal punto di vista della storia della diplomazia, tanto che mancano – ad esempio – repertori di ambasciatori e di missioni diplomatiche, salvo qualche eccezione10. Non abbiamo del resto fonti interne come regolamenti delle missioni, cerimoniali, registri per la gestione archivistica delle ambascerie, trattati sull’ambasciatore, mentre non sono poche – tutto sommato – le corrispondenze edite, occasionalmente anche all’interno di edizioni dedicate a diplomatici italiani residenti a Napoli nella seconda metà del Quattrocento11. In particolare, disponiamo di alcuni corpora omogenei di lettere e istruzioni di Ferrante I d’Aragona, re di Napoli (1458-94), per gli anni 1458-60, 1467-68, 1478-95, 1486-88, 1491-94 e per un totale di circa 139 istruzioni e oltre 1600 lettere12.
6Al fine di individuare virtù e modelli di comportamento degli ambasciatori napoletani, abbiamo effettuato su questa documentazione uno spoglio lessicale sistematico, classificando parole ed espressioni in quattro ambiti, ricavati empiricamente dal De officio legati di Ottaviano Maggi (1566) : la condizione dell’ambasciatore (la sua nobilitas) ; le virtù (virtutes et ornamenta) ; le competenze (giuridiche, retoriche, linguistiche : artes et doctrinae) ; le regole di comportamento nei confronti del proprio signore e della corte ospitante (quest’ambito è quello che in senso proprio configura l’officium dell’ambasciatore)13.
7Paragonate a quelle di altri stati italiani, le istruzioni e le lettere di Ferrante appaiono ricche di indicazioni morali e comportamentali, più parche invece di quelle tecnico-cancelleresche (la separazione delle informazioni in diverse lettere, l’uso della cifra, frequente è invece l’esortazione a scrivere spesso14), le une e le altre concentrate nelle parti iniziali e finali dei documenti. Nella quotidianità della corrispondenza, i segretari del re tracciano, pur frammentariamente e in relazione a questioni specifiche, un profilo abbastanza chiaro di « tucte quelle bone et digne parte che se recercano in uno dignissimo ambasciatore »15, sia attraverso raccomandazioni esplicite, sia formulando un giudizio sull’operato dell’ambasciatore (« havemo inteso et ne piace… », « Molto restamo contenti… », « Laudamo… »16), accompagnato talvolta dalla prospettiva di una futura remunerazione17.
8La condizione dell’ambasciatore è richiamata raramente, quando l’importanza della missione rende necessario scegliere un inviato di alto rango, eminente per dignità :
Havemo a ciò facta electione de vui, sì per el respecto della sufficentia, sì etiam per la dignità di vostra persona18.
Havimo facta electione de la persona vostra, parendone, per la dignità de quella et per le altre bone parte che in essa sono, che optimamente serà satisfacto al bisogno. Volimo dunque che ... partate degnamente ... Denique in quanto sarà necessario fare et dire ve governarite come confidiamo in la prudentia et bone manere et practica vostra19.
9Inderogabile è che l’inviato sia persona sufficiente e idonea, in possesso di virtù o – ancor più genericamente – bone parte20. Oltre alle ovvie integrità e fedeltà (fede, sincerità)21, oltre alla devozione per il sovrano (amore, affectione, benivolentia, devotione, sapimo quanto ne amati)22, due sono le qualità fondamentali : la diligentia (sollicitudine, studio, il contrario è negligentia) nel mettere in esecuzione gli ordini regi (raccolta informazioni, tenuta della corrispondenza)23 e la prudentia nella conduzione delle trattative24. Più raro, e forse legato a una cronologia tarda, è il richiamo alla discretione25. Per esemplificare i contesti in cui occorrono questi esempi riportiamo due passi tra i tanti possibili :
Elessimo vui fra tucti li altri nostri acostati per mandareve nostro ambaxatore in Roma et tractare cose, in che va tucto lo stato nostro, como quello che sapimo quanto ni amati et quanto faressevo per servitio et honore nostro, et perçò deveti ancora credere che, essendo nui certi de la fide et benivolencia vostra, non devemo postergare lo vostro honore, lo quale, stando maxime loco, unde representate la persona nostra e lo proprio honore nostro. […] Attendite a lo nostro servicio con quella diligencia che sempre havite facto […], havimo conoscuta la vostra sincerità et la vostra vertù26.
Ve incaricamo molto voliati a questo ponere ogni vostro studio et diligentia [...] A voi convene conservarve molto cautamente et cavare quello megliore fructo porriti dalla sanctità del nostro signore. Al che non donarimo altra instructione per cognoscerve prudenti et fideli, etiam perché seria difficile mectere lege alle cose incerte. Governativi como in vui speramo [...] tamen remectimo tucto alla prudencia e fede vostra27.
10Non è necessario sottolineare l’importanza del concetto di prudenza, oggetto di riflessioni complesse nella storia e storiografia sul pensiero politico. Quello che va aggiunto è che nelle lettere e istruzioni di Ferrante diligenza e prudenza sono generalmente accompagnate da un altro termine, come se le dittologie che ne risultano consentissero di meglio precisare tali qualità, in relazione al contesto e all’ambasciatore.
11Le dittologie, del resto frequenti nelle scritture diplomatiche, comprendono lemmi attinenti alle competenze dell’inviato e al comportamento da seguire, gli altri due ambiti della nostra classificazione. Ecco che abbiamo non solo un rafforzamento di diligentia con studio e sollicitudine, ma anche ovviamente diligentia et prudentia (prudencia et sollecitudine), e – ancora – prudencia et doctrina, peritia et prudentia, sagacità et prudentia, prudentia et bon consiglio, con riferimento alle competenze giuridiche e alle qualità intellettuali, oppure, questa volta in una terna, prudentia, fede et practica, con un ragionevole riferimento all’esperienza professionale28.
12Diligenza e prudenza sono in verità virtù richieste a tutti gli interlocutori epistolari di Ferrante : diligente dev’essere un commissario incaricato di recuperare i cavalli sottratti agli allevamenti della Corona, diligente un plenipotenziario del re nella città di Ariano, diligente l’erede al trono, Alfonso duca di Calabria, diligente il re stesso29. La prudenza è accoppiata alle più varie qualità, in relazione al destinatario : virilità e strenuità dei capitani, integrità degli ufficiali del fisco, magnanimità del pontefice, experientia (e la sapientia che ne deriva) di chi governa gli uomini perché è a capo di un esercito o di uno stato : Federico da Montefeltro, i governi fiorentino e veneziano30. Si leggano al riguardo le raccomandazioni del sovrano a Orso Orsini, al seguito di Alfonso duca di Calabria (1467) :
Non è necessario donarve altra instructione, essendo vui de l’intellecto et discrectione che site, et presertim che non è possibile né expediente omne cosa mettere in instructione. Et perciò qui donarimo solum quelle cose ne pareno essere a proposito de quello se have ad fare per lo illustrissimo duca de Calabria nostro figlio et senza scandalo se possano notare per scriptura. Le altre cose remectimo a la relacione vostra, a la quale serà sempre data quella fede merita la vostra devotione et amore verso nui et stato nostro et la vostra singulare virtù, prudentia vostra et experientia de le cose del mundo31.
13In questi casi il lessico della corrispondenza pubblica è agevolmente confrontabile con testi di vario genere, a carattere parenetico e moraleggiante, volti ad educare i principi reali32. Come in quei testi, anche nelle corrispondenze si rifletteva sul rapporto tra l’esperienza empirica (« experientia de le cose del mundo », nel testo appena citato) e la prudenza e/o discrezione nell’affrontare ogni nuova, imprevedibile circostanza, argomento su cui si esercitarono i più grandi pensatori del Cinquecento italiano. « La prudentia de li homini principalmente accresce cum la experientia », secondo l’ammonizione che fece Ferrante, ormai vecchio, al figlio Federico, in una lettera sottoscritta dal segretario Pontano33.
14Se si amplia lo spoglio lessicale a tutti i destinatari delle raccomandazioni regie (per mancanza di spazio saranno omessi rinvii puntuali), risulta dunque impossibile distinguere nettamente le qualità, competenze, regole di comportamento richieste all’ambasciatore da quelle di altri due gruppi di collaboratori del re : i funzionari e servitori e ogni possibile alter nos del sovrano, il viceré, il luogotenente, il figlio messo a governare una regione del regno, il vicario generale34. Alcuni inviati diplomatici – non tutti – condividono con luogotenenti e vicari la funzione di più alta rappresentanza del sovrano35, ricevendo conseguentemente le stesse raccomandazioni che sono rivolte ai principi reali.
15Tra i tre gruppi appena citati (funzionari/ambasciatori/vicari e principi reali) c’è un continuum lessicale e – per così dire – etico nel quale proprio l’ambasciatore occupa una posizione centrale, che si sovrappone ambiguamente alle altre due. Tale ambiguità è dovuta a ben vedere alla sua stessa condizione : subordinato al re come un qualsiasi addetto alle truppe o alle finanze, dunque vincolato alla lettera delle istruzioni ricevute (che deve eseguire con diligentia), da un lato ; solenne rappresentante del sovrano, con una notevole, rischiosa autonomia (che deve gestire con prudentia), dall’altro, al pari di chi governava, o di chi doveva imparare a farlo, come i figli che Ferrante mise alla prova sostenendoli con le raccomandazioni epistolari, l’assistenza dei consiglieri, l’intervento letterario degli umanisti di corte.
16D’altra parte, va ricordato che nel Tardo Medioevo le tre funzioni della diplomazia (rappresentanza, trattativa, informazione) non erano affatto esclusive dell’ambasciatore, perché erano assolte da persone con incarichi vari e profili professionali diversi, e perché avevano una regolare attività diplomatica anche soggetti privi di sovranità (si pensi solo alle ambascerie di baroni e comunità all’interno della Corona d’Aragona e del regno di Napoli). Le missioni diplomatiche (e i saperi e linguaggi ad esse connessi) vanno senz’altro considerate come un sottoinsieme degli incarichi che il sovrano affidava a figli, cortigiani, funzionari, scrivani, scudieri, uomini d’arme, benché ovviamente fosse ben chiara la distinzione tra le ambascerie ufficiali, sia occasionali che residenziali ; le missioni brevi a carattere diplomatico (viva voce) ; le altre missioni, dentro e fuori dal regno36.
17Ne consegue che nel regno aragonese di Napoli l’etica dell’ambasciatore – o, meglio, dei vari tipi di inviati diplomatici – si andava definendo insieme con l’etica del servizio pubblico (a corte e nelle province) e del buon governo : funzionari, ambasciatori, principi reali condividono un’ampio spettro di virtù, competenze, saperi, dove soltanto agli estremi di un’ipotetica rappresentazione schematica sarebbe possibile individuare differenze di un qualche rilievo. Si vedano le raccomandazioni fatte a chi deve esigere un’imposta regia, che deve assicurare diligentia, integrità, prudentia, affectione37, e si confrontino con i consigli di governo (sopra citati) espressi a un grande barone e condottiero del re, Orso Orsini, cui si richiede « intellecto, discrectione, devotione, prudentia e experientia de le cose del mundo », come nei testi rivolti ai principi reali. Semplificando, se il funzionario dev’essere più onesto che esperto di politica (« le cose del mundo »), in chi governa l’integrità morale è un dato scontato, implicito nella raccomandazione un po’ sospetta di mostrare pubblicamente la propria devozione religiosa38. All’ambasciatore ideale, e nella realtà ad alcuni ambasciatori di alto rango e con missioni di grande rappresentanza, potevano essere richieste tutte le qualità richiamate nelle raccomandazioni a condottieri e uomini di stato, come confermano alcuni autori de officio legati, i quali, tenendo presenti in particolare le ambascerie più solenni e formali, si attardano in prolissi elenchi di tutte le possibili virtù e conoscenze, senza riuscire a individuare lo specifico della diplomazia, cioè quell’inafferrabile sapere relazionale del mediatore, per definizione condizionato dai soggetti e dai contesti39.
18Per questo, se cerchiamo nelle corrispondenze napoletane le regole di comportamento dell’ambasciatore, ecco che incontriamo la stessa genericità di certa trattatistica : bisogna usare un linguaggio appropriato e adatto alle circostanze (ringraziare « con parole humane et conveniente », riferire « cum le più dulce et conveniente parole », « bona et dulcemente », parlare « cum quillo ordine et modo che ’l casu recerca »), anche quando si presentano richieste specifiche (si sollecita « modestamente ») ; raccogliere informazioni riservate « cum modestia » ; essere cauti e mai bruschi nelle trattative, (« conservarve molto cautamente et cavare quello megliore fructo », « humanamente manegiare questa materia »), ma sforzandosi sempre di raggiungere in qualche modo l’obiettivo senza destare scandali (sollecitare la materia « con industria », con onestà) ; saper cogliere il momento giusto per parlare (ad esempio scusarsi « captato loco et tempo cum grandi modestia et humanità ») ; decidere autonomamente secondo la situazione (« disponate ad vostro arbitrio et secundo la dispositione de le cose » ; « con quelle vie et modi vi pareranno necessarii governate questa cosa », « con quelli boni modi, quali cognoscerite più expedienti »)40. Si potrebbe continuare a lungo, perché ognuna delle virtù sopra indicate può essere declinata in modo diverso a seconda delle contingenze e dei destinatari.
19Aver qui concentrato il discorso sul regno di Ferrante è però un’operazione discutibile, perché una tranche cronologica è stata separata dal più ampio contesto angioino e aragonese. Chi scriveva le istruzioni per gli ambasciatori di quel re era condizionato da una lunga tradizione, sia al livello teorico della riflessione sul buon governo, sia al livello più concreto della prassi diplomatica e del linguaggio politico. La tradizione era trasmessa in primo luogo da scrivani, giuristi, cortigiani che vantavano una lunga militanza al servizio di re delle dinastie concorrenti, in secondo luogo dai registri e dai formulari cancellereschi napoletani, repertori di formule e di informazioni per chi scriveva una lettera o un’istruzione diplomatica. Purtroppo, la perdita dei registri angioini e aragonesi di Napoli, l’incompletezza del quadro bibliografico impediscono un’indagine volta a dipanare differenze e contaminazioni tra le diverse tradizioni che operarono nel regno : quella angioina, quella aragonese, quella italiana in genere e fiorentina in particolare (si pensi al ruolo degli Acciaiuoli nella seconda età angioina).
20D’altra parte, è evidente che un profilo etico dell’ambasciatore, così come riflesso nelle desultorie raccomandazioni della corrispondenza epistolare napoletana, fu il prodotto di un intenso sistema di relazioni in uno spazio politico che si costruì giorno per giorno tra gli stati italiani e i loro più consueti interlocutori oltremontani e oltremarini. Lo spoglio della documentazione napoletana, da approfondirsi e confrontarsi con altri carteggi, dimostra come nella prassi diplomatica di quel regno, e probabilmente in quella italiana in generale41, si andassero formando un lessico e una topica dell’ambasciatore, che non erano esclusivi dell’attività diplomatica e che non potevano certo attingere all’organicità della trattatistica più matura, ma che di essa anticiparono molti motivi.
21Il richiamo ad una considerazione globale della diplomazia italiana tardomedievale, il cui studio distinto per singoli stati è stato qui necessario per ragioni meramente pratiche di divisione del lavoro, è ancora più opportuno se si analizzano i cerimoniali, pour cause condivisi da tutti i soggetti politici della penisola. L’omologazione delle forme di comunicazione linguistiche, gestuali, rituali si realizzò anche a Napoli, dove per tutta la seconda metà del Quattrocento fu attivo un vero e proprio ‘corpo diplomatico’ stabile, formato dagli ambasciatori dei principali stati italiani (Milano, Firenze, Venezia) e (negli ultimi due decenni) dall’ambasciatore spagnolo. Essi erano regolarmente convocati a corte per ‘comunicati stampa’, venivano consultati collegialmente dal sovrano in momenti critici, partecipavano a eventi rituali significativi (entrate regie in città, incoronazioni, giuramenti di fedeltà, processioni, cavalcate tra i seggi cittadini, Parlamenti generali)42 e talvolta a consigli allargati (consigli del re, consigli di guerra), come i carteggi italiani editi testimoniano con un’abbondanza che rende superflui i rinvii puntuali.
22Il re e i suoi principali cortigiani dosavano con cura gli inviti a feste, cacce, messe, processioni : erano tutte occasioni per brevi colloqui o per scambi di notizie conseguenti ai recenti recapiti postali, tenuti sotto controllo dalla corte. Va segnalata soltanto, perché proibita nella normativa degli stati repubblicani e perché oggetto di riflessione negli scritti teorici, una pratica tipica della cultura di corte, quella del dono, elargito dal sovrano agli ambasciatori più graditi per le qualità personali e per la potenza che rappresentavano. Gli inviati esteri ricevevano denaro o gioielli, provvigioni fisse connesse al titolo di segretario regio, onoreficenze di vario genere, erano investiti cavalieri, ad esempio in occasione della pubblicazione di un trattato di pace. Tale generosa elargizione del favore regio era diretta a condizionare gli ambasciatori esteri, insidiando proprio quell’onestà e fedeltà che erano loro concordemente richieste.
Firenze (B.F.)
Le fonti e la loro eloquenza
23La documentazione diplomatica fiorentina superstite per l’età tardomedioevale si presenta quantitativamente ricca e tipologicamente diversificata. Minutari, copialettere e originali tanto delle lettere inviate dalla cancelleria della repubblica ai propri delegati in sedi estere quanto dei dispacci prodotti da quella degli ambasciatori residenti, coprono in maniera pressoché continua e completa i principali centri politici non solo italiani a partire dalla seconda metà del Quattrocento, intensificandosi negli anni Ottanta del secolo, quando una precisa normativa ne definisce ancor meglio la prassi scrittoria cancelleresca, secondo meccanismi sono stati di recente ottimamente ed esaurientemente studiati43.
24Informazioni significative sul modo di concepire la figura dell’ambasciatore, le sue prerogative e i suoi compiti ci vengono in specie dalle lettere di istruzioni, che, se forniscono indicazioni soprattutto di carattere politico sino al 1480 circa, quando le ambascerie fiorentine erano ancora temporanee, vale a dire stabilite e licenziate di volta in volta, per ragioni specifiche e particolari e per brevi periodi, divengono invece estremamente dettagliate proprio sui comportamenti da tenere da parte dei legati e sul linguaggio che essi devono utilizzare a partire da quella data, quando tali ambascerie si trasformano in residenti ; e dunque non è più possibile coprire preventivamente tutta la casistica delle situazioni concrete che l’inviato può trovarsi a dover affrontare nel corso dell’anno circa in cui in media durava la sua missione. A questo punto, sicché, le lettere di istruzioni fanno piuttosto riferimento al modo di porsi che ci si attende dall’ambasciatore, al suo decoro, alle sue capacità oratorie, e fanno in specie continuo appello alla massima virtus che, accanto alla ‘diligenza’ nello scrivere gli si richiede : quella che nell’etica quattrocentesca regolava nella communis opinio tutte le altre virtù, consentendo loro di esprimersi al massimo delle rispettive potenzialità : vale a dire la prudenza.
25Le raccomandazioni contenute nelle commissioni fanno perciò riferimento a un complesso di regole comportamentali generiche ma certamente condivise in tutto il mondo diplomatico occidentale. Francesco Senatore ha già illustrato, nel precedente paragrafo, il lessico di questo mondo, e non occorre qui tornarvi, giacché quanto egli dice di Napoli può essere tranquillamente esteso all’intera Italia. Le espressioni verbali, le allocuzioni, in una parola il linguaggio tecnico utilizzato nelle lettere di istruzioni aragonesi, infatti, si ritrova esattamente anche in quelle fiorentine e degli altri potentati italiani. E la cosa non stupisce : il mondo diplomatico, per sua stessa natura, è fatto per dialogare, per comprendersi, per trovare nel dialogo e nel negoziato soluzioni alternative alle armi. A questo scopo è anzitutto indispensabile che esso costruisca una medesima koinè, che si baserà su tre pilastri fondanti : un linguaggio, un comportamento e un modus scribendi comune. Quanto a quest’ultimo punto, è evidente che una lettera, che passa sovente per diverse mani e può essere disinvoltamente concessa in lettura a varie persone di formazione e di aree diverse, deve essere redatta in una scrittura a tutti comprensibile : appunto quella cancelleresca umanistica, posata e di modulo piccolo, che amalgama tutti i dispacci di quel periodo, di qualsiasi provenienza siano. Una lettera diplomatica fiorentina e una milanese o napoletana sono certamente più simili tra loro, infatti, nella forma grafica, che non una missiva ufficiale redatta da un segretario dell’ambasciatore e una vergata per ragioni personali dall’ambasciatore medesimo : in questo caso, per restare in ambito fiorentino, dalla cancelleresca posata si passa immediatamente a una corsiva più o meno fortemente venata di moduli mercanteschi, considerata la formazione commerciale della stragrande maggioranza degli ambasciatori medicei.
26Relativamente al linguaggio della prassi diplomatica, il riferimento è a un gergo tecnico a tutti noto : il modo del parlar ‘largo’ o ‘modificato’ è comprensibile a tutti gli interessati, che utilizzano appunto le medesime tecniche di comunicazione, simulando, dissimulando, dosando i concetti dietro una lingua pienamente condivisa ; non diversamente da quanto accade, per esempio, per gli uomini politici odierni. Anche in questo caso, è facilmente rilevabile come il linguaggio utilizzato dagli ambasciatori di potentati diversi fosse assai più simile che non quello adoperato dal medesimo ambasciatore in un dispaccio pubblico e in una lettera privata.
27Ma soprattutto, profonda è la convinzione che la parola abbia una straordinaria forza di persuasione, e che pertanto vada attentamente curata con lo studio oratorio. Perché, come con estrema eloquenza scrive Giannozzo Manetti – uno che di oratoria se ne intendeva – alla Signoria di Firenze nel corso della sua prima ambasceria a Venezia, nel 1448, « secondo la sententia de’ principi et delle comunità che governano oggi il mondo, le buone parole sono cagioni de’ buoni facti, e’ quali non si possono mai fare se non hanno origine prima dalle buone parole »44.
28Il comportamento, infine, va attentamente sorvegliato, giacché esso comunica eloquentemente, attraverso il linguaggio del corpo e il cerimoniale : pompa, asciuttezza, decoro, cordialità, ‘selvatichezza’, unitamente a un rigorosissimo cerimoniale, parlano con estrema chiarezza a chi sa intendere45.
29Non meno ricche di informazioni, pur se meno mirate delle lettere di commissioni, sono poi le missive della corrispondenza tra l’ambasciatore e le autorità della madrepatria. La casistica delle diversissime situazioni che si presentano nel corso degli anni ai vari legati sono infatti tali da costituire una sorta di summa della prassi diplomatica, che viene di volta in volta, caso per caso, discussa e risolta dagli interlocutori.
30Non si conservano invece a Firenze significative testimonianze delle relazioni finali che si richiedevano all’oratore non appena fosse rientrato dalla propria missione. La normativa prevedeva infatti che il legato dovesse rilasciare relazioni orali sullo svolgimento della propria missione in cancelleria ; relazioni cui si affiancavano anche resoconti scritti da consegnare nelle mani del segretario di cancelleria46.
Le lettere di istruzioni e le indicazioni di carattere generale
31Scopo principale dell’ambasceria, secondo quanto ripete il formulario della cancelleria fiorentina, nel caso qui esemplificato applicato a una missione svolta presso il re di Napoli, è : osservare « la nostra consuetudine che uno ambasciatore nostro sempre si truovi apresso la sua maestà, per potere conferire tucte le cose che arrecha il tempo et intendere sopra ogni cosa il sapientissimo consiglio della maestà sua ». « Et così » – concludevano gli ammonimenti iniziali, quelli di carattere più generale rivolti all’inviato –, « mentre sarai in questa legatione observerai la maestà sua et farai d’intendere tucte le cose che occorreranno ; né solamente la notitia di esse, ma quello che ne occorrerà alla sua maestà, et daràne adviso dì per dì colla usata prudentia et diligentia tua »47. Per ottemperare al mandato sono dunque necessarie alcune doti che vengono subito enunciate e continuamente ribadite nelle lettere di commissioni : oltre la prudenza e la diligenza, già richiamate, anche l’obbedienza assoluta alle istruzioni ricevute, che infatti a Firenze sono sempre estremamente dettagliate, come pure si è detto. Obbedienza che era certamente ritenuta dote assolutamente fondamentale del delegato, specie sotto un regime autoritario come quello mediceo. Tanto che, secondo la testimonianza di Francesco Guicciardini, Lorenzo il Magnifico, il quale « degli amici suoi più confidenti non si fidava, aggirandogli con vari mezzi e avendo sempre con loro qualche riservo », escogitò « quella sottile invenzione di tenere, con ordine degli otto della pratica, cancellieri fermi apresso agli imbasciadori, nonostante che gli imbasciadori erano pur sempre de’ suoi più intrinsechi »48.
32Fondamentale importanza rivestono poi, per il successo della missione diplomatica, le capacità oratorie dell’inviato, necessarie per comunicare all’interlocutore tutte le sfumature retoriche e concettuali che si intendono trasmettere. Già trent’anni fa Daniela De Rosa aveva sottolineato « quanto fosse apprezzata nel Rinascimento l’eloquenza messa al servizio dell’attività diplomatica », individuando le origini di una diplomazia umanistica nell’opera epistolare e nella riflessione politica di Coluccio Salutati, cancelliere della repubblica tra l’ultimo quarto del XIV secolo e i primi anni del successivo49. Recentemente Patrick Gilli ha poi individuato in Giannozzo Manetti il depositario maggiormente emblematico di questa virtus, che rendeva il successo di un’ambasceria in gran parte dipendente dall’abilità del legato. Proprio Manetti, infatti, fu artefice di alcune delle più celebrate orazioni pronunciate nelle missioni diplomatiche della metà del Quattrocento50. Un ambasciatore milanese, anzi, sembra quasi riferirsi solo a questo aspetto del modo di agire dell’umanista fiorentino, quando dice che nel 1451 egli si recò a Napoli « per trastullare el re »51. Una missione memorabile, questa, giacché si intrecciava specularmente con quella, quasi gemella, inviata a Roma, Siena, Firenze, Ferrara e Venezia da Alfonso d’Aragona, affidata alle esperte cure di Luis Dez Puig, signore di Montesa, il più esperto e navigato diplomatico di cui il sovrano potesse disporre, ma che annoverava al suo fianco anche un celebrato ed eccellente oratore come il poeta laureato Antonio Panormita, il quale aveva proprio il compito di rivestire il freddo discorso diplomatico di tutti gli artifici retorici di cui fosse capace. E il Panormita ottemperò pienamente al proprio dovere, pronunciando proprio a Firenze, patria dell’eloquenza diplomatica, un discorso che suscitò grandissimo entusiasmo, aprendo gli animi del popolo e dei maggiorenti della città sull’Arno alla speranza della pace ; che era proprio quel che l’ambasciatore desiderava : dissimulare la decisione di re Alfonso di dichiarare invece la guerra contro Firenze, alleandosi con la repubblica di Venezia52.
33L’ambasciatore, inoltre, dovrà sempre mantenere un aspetto e un contegno decoroso, e dovrà essere sempre conscio del fatto che egli rappresenta la propria repubblica. Il riferimento alla dignità pubblica della sua figura è fondamentale per comprendere l’estrema attenzione alle questioni di etichetta e di cerimoniale che il mondo diplomatico porgeva costantemente : un’offesa o una semplice deminutio del ruolo e delle prerogative dell’ambasciatore, che lo relegasse magari in seconda fila in una cerimonia pubblica o ne posponesse l’ingresso all’oratore di un altro potentato, suonavano come un ridimensionamento del posto che il governo che egli rappresentava occupava nell’immaginario politico del periodo e nell’intero sistema della rappresentazione delle gerarchie del prestigio e dunque del potere. Non a caso, il medesimo comportamento intriso di decoro e senso di responsabilità che si richiedeva all’ambasciatore, era esteso a tutti gli uomini che lo accompagnavano, qualsiasi incarico rivestissero, e che costituivano quella che era definita la sua familia ; la quale godeva dei medesimi diritti e doveri del legato. Questo non significa che esistesse una vera e propria immunità diplomatica ; solo che la persona dell’ambasciatore veniva pienamente percepita come delegato del potentato che lo aveva inviato. Egli iniziava il proprio servizio con la cerimonia ufficiale della presentazione a corte delle proprie lettere credenziali e lo terminava nel momento in cui il capo del governo cui era stato inviato lo congedava ufficialmente. Il ritiro o l’allontanamento dell’ambasciatore segnava il punto di rottura diplomatica tra due paesi, e preludeva allo stato di belligeranza tra di essi. Ben lo si vide per esempio nel 1494, allorché il nuovo re di Napoli, Alfonso II d’Aragona, nell’estate del 1494 licenziò l’ambasciatore milanese, Antonio Stanga, come persona non gradita ; o quando, nel gennaio del medesimo anno, il re di Francia, Carlo VIII, pronto a scendere in Italia, rifiutò di ricevere gli ambasciatori che lo stesso re Alfonso gli aveva inviati, considerandoli emissari di una potenza ormai nemica53.
Alcune esemplificazioni concrete
34L’ambasciatore, è noto, deve attenersi scrupolosamente alle commissioni ricevute dalle autorità che rappresenta, ciecamente obbedendo al loro dettato. Questa indicazione verrà ribadita anche nella trattatistica de legato, corroborata magari dalla notazione che il seguire pedissequamente le istruzioni ricevute conviene anche all’ambasciatore, il quale, in tal modo, non potrà mai essere accusato di essersi mosso autonomamente e di aver in tal modo disatteso gli ordini che ci si attendeva eseguisse. Si tratterebbe in questo caso, evidentemente, di una mancanza gravissima, che non di rado viene contestata al legato, a torto o a ragione, quando si voglia limitare la responsabilità del potentato che lo ha delegato. Paradigmatico, in questo senso, il noto caso di Ermolao Barbaro, accusato appunto dalla Serenissima di aver travisato e travalicato nell’esposizione il dettato delle lettere ricevute, interpretandole in maniera personale ed errata54.
35Di qualcosa di simile era stato sospettato, circa quarant’anni prima, anche un altro celebre uomo di cultura, stavolta fiorentino : Giannozzo Manetti, il quale, nel corso della sua prima ambasceria a Venezia, fu appunto accusato dalla Signoria di non aver ben compreso il dettato delle missive ricevute, riportandone perciò alle autorità veneziane un contenuto distorto. La reazione di Manetti è veemente, così come lo sarà più tardi quella di Barbaro : ne andava infatti della sua credibilità pubblica. Il 3 dicembre del 1448, così, Giannozzo scriveva una lunga lettera alla Signoria, nella quale ribadiva puntigliosamente di non essersi mai minimamente discostato dalle istruzioni ricevute :
Io non ho qua faccienda alcuna – egli scriveva – se non è d’ubidire a’ comandamenti vostri in soprastarci, et di seguitare quanto giorno per giorno m’ordinate, et così di rendervi avvisati delle nuove che ci occorrono. Et perch’io esco poco fuori […] m’avanza tempo assai, del quale la maggior parte metto et consumo nello examinare et nello intendere di tutte le lettere che mi scrive la signoria vostra. Et per la affectione ch’io ho alla patria et per la diligentia metto nello studiare delle vostre lettere, che mi sono diventate e’ libri miei, credo, se già non m’inghano, intenderle sì bene che mi basterebbe la vista a leggierne et a ripeterne in cathedra.
36E conclude, dopo aver puntualmente richiamato tutti i punti controversi oggetto di contestazione da parte della Signoria, ribadendo di essersi sempre uniformato al contenuto delle missive che man mano riceveva :
Et quando altrimenti havessi facto, mi parrebbe essere degno di qualche riprensione, perché cognosco ch’io sarei uscito della commessione vostra. Et io non sono sì presuntuoso né sì temerario ch’io ardissi mai d’aggiugnere o d’innovare, non che in cose di tanta importanza, ma in una ben pichola la quale mi fusse stata ordinata dalla sapienza della signoria vostra. […] Et se fusse accaduto o accadesse che, per non volere uscire dalla vostra commessione, io ne fussi giudicato da altri timido, io mi contento molto più di parere timido nelle cose di grandissima importanza pertinenti all’onore della mia Signoria et all’utile della mia città, et non uscire dall’ordine commessomi, che essere in verità temerario et presuntuoso in trapassare la commessione di quella Signoria55.
37La prudente aderenza al dettato delle commissioni ricevute era insomma il segno della fedeltà alla patria, e si completava nella disposizione, non esplicitata nella normativa ma sottolineata nei consigli e nella trattatistica, di non accettare doni dalle autorità presso cui si veniva inviati in ambasceria. Lo stesso Manetti subì aspre conseguenze in seguito all’accusa di essersi eccessivamente avvicinato al re di Napoli (e in un momento, poi, in cui quegli era in guerra con Firenze) e di averne accettato i favori, anche finanziari56. E dopo di lui analoga reprimenda toccò a un altro inviato presso la corte aragonese : Giovanni Lanfredini, il quale del pari fu sospettato di aver coltivato i propri interessi privati nel corso di missioni diplomatiche57. Proprio i sovrani erano da questo punto di vista particolarmente tentatori e perciò pericolosi, giacché tendevano a esibire la propria pompa e la propria ricchezza in ogni circostanza, anche condizionando gli inviati che si recavano a trovarli in visita ufficiale con sbalorditivi festeggiamenti e doni straordinari58.
38I festeggiamenti, i doni, sono dunque segnali che nel mondo diplomatico vengono chiaramente intesi e interpretati. E segnali sono le grandi cerimonie pubbliche, nelle quali lo sfarzo e la pompa esibite accentuano l’importanza politica dell’evento, dispiegato davanti agli occhi attenti degli intervenuti, che ne colgono tutte le sfumature. Grande attesa, nel 1492, suscitò la cerimonia dell’obbedienza da prestare al nuovo pontefice, Alessandro VI ; una cerimonia preparata per mesi e nei più minuti particolari dalle cancellerie diplomatiche di tutti i potentati italiani, e che molta ruggine lascierà poi nei rapporti tra le alleate Napoli, Milano e Firenze, proprio perché le modalità del cerimoniale scelto da ciascun potentato suscitarono non poche perplessità nel duca di Milano, Ludovico il Moro, che accusò anche Firenze di aver voluto primeggiare nella circostanza, inviando tra gli emissari lo stesso Piero de’ Medici59.
39Il decoro, il comportamento consono al ruolo e alle circostanza sono dunque fondamentali per un buon ambasciatore e, come si è accennato, devono estendersi al suo seguito60. Assai eloquente, in questo senso, appare un episodio avvenuto a Napoli nel 1490 all’inviato veneziano Marco Antonio Morosini. Come icasticamente informa l’oratore fiorentino accreditato in quel momento a Napoli, Paolo Antonio Soderini, in una lettera al Magnifico del 14 giugno di quell’anno, « la famiglia di decto ambasciatore [= Morosini] è stata molto disordinata, et facto assai inconvenienti, maxime la nocte ; et molte volte ne è seguiti scandali ». Un suo ‘famiglio’, un paio di mesi prima, aveva addirittura rapito una schiava di un marrano napoletano proprietario di un banco, sottraendogli anche alcuni beni, poi ritrovati in casa dell’ambasciatore stesso. Il colpevole fu fatto fuggire, la schiava, catturata, fu impiccata, e il maltolto venne restituito al legittimo proprietario, il quale però lamentò inutilmente che mancavano ancora alcuni oggetti di valore. Più tardi egli se ne querelò nuovamente, presso i medesimi banchi, con un ricco padovano, cui sembra che il detto ‘famiglio’ direttamente rispondesse. Offeso, il padovano minacciò il marrano a mano armata, e venne perciò immediatamente arrestato. Il Morosini, allora, « se – come nota ancora il suo collega fiorentino – in qualche altro caso ha isbuffato et dimonstro volere che la sua famiglia sia riguardata, in questo l’ha facto molto più vehementemente, et era in proposito, se costoro non ne facevano dimonstratione, di andarsene insalutato hospite ». Re Ferrante, subito informatone, ed evidentemente molto turbato dalla minaccia di Morosini di lasciare la città senza essere stato ufficialmente congedato, fece arrestare i propri uomini che avevano tradotto in carcere il ricco padovano. Morosini non si dichiarò però ancora soddisfatto, e chiese che anche il marrano fosse punito duramente. Il sovrano allora lo mandò « preso et legato, col capestro alla gola et col manigoldo drieto, a casa lo imbasciatore », lasciando a lui di decidere della sorte del detto marrano. Morosini si limitò a insultarlo, « et di poi dixe non voleva se non che passassi per banchi et acompagnato dalla famiglia […], et nel luogho dove aveva havuto quistione col suo giovane confessassi havere errato et chiedessine perdonanza al prefato suo giovane, il quale li andava drieto convitiandolo et improperandolo »61. Il sapido episodio dimostra nella maniera più eloquente come nella prassi l’ambasciatore, la sua casa e il suo seguito avessero raggiunto un alto grado di immunità, pur se ancora non riconosciuto di diritto, tanto che la sede diplomatica della Serenissima viene pur perquisita e il giovane padovano tratto in arresto ; e come centrale per tutti fosse il decoro e l’aura di superiorità che doveva avvolgere il corpo diplomatico : fattori che vengono qui ripristinati attraverso atti di una simbologia vorrei quasi dire catartica.
40Occorre a questo punto accennare a un’ultima questione, relativa alla natura dell’ambasciatore. Egli, come si vede, è il delegato pubblico della potenza che lo invia, e pertanto è di per sé investito delle alte prerogative anche simboliche connesse alla sua figura, riconosciutegli dalle semplici lettere credenziali. Eppure, le autorità fiorentine inviano talvolta, con funzioni di ambasciatore, delle figure che esplicitamente essi dicono non averne la natura. Non si tratta solo del segretario di un oratore che ne prenda temporaneamente il posto per l’indisposizione del titolare o eventualmente in attesa che giunga il sostituto ; si allude invece a persone inviate appositamente proprio con funzioni di ambasciatore, dei quali però si dice che non lo sono a pieno titolo. È il caso, per esempio, di una persona peraltro di elevato rango sociale, come Niccolò Michelozzi, il quale, dopo la morte di Piero Nasi e dopo un breve interim del segretario Antonio Della Valle, è inviato a Napoli, in attesa di un sostituto ufficiale, la cui nomina tardava ad arrivare. Nella lettera di istruzioni a lui consegnata, così come in quella credenziale al re, datate entrambe 19 gennaio 1492, non si nasconde infatti, da parte delle autorità fiorentine, che la sua nomina è solo temporanea, necessaria sinché non sarà eletto un ‘vero’ oratore. « Essendo vacato quel luogho [= Napoli] di nostro oratore […] c’è parso mandare te […] – recita la lettera di commissione – insino a quando le manderemo, secondo la consuetudine nostra, qualchuno de’ nostri magnifici cittadini per oratore ». Per il resto, le istruzioni sono le consuete : « acciò che in questo tempo – continua infatti la missiva – per tuo mezo possiamo intendere il sapientissimo iudicio et parere [del re] circa le presenti occorrentie che dì per dì accadessino, et così per riferirle quel che a noi medesimi occorressi »62. E, come si è accennato, in termini non diversi le autorità fiorentine si esprimevano nella lettera credenziale diretta al re di Napoli.
Essendo vacato el luogo di nostro oratore […], né havendo per ancora electo alcuno de’ nostri cittadini per simile esercitio, secondo la consuetudine nostra, acciò che epso luogo non vachi troppo tempo di qualche nostra persona pratica presente, habbiamo commesso messer Niccolò Michelozi, che si trovava ad Roma, si debi transferire alla regia vostra maestà per fare residentia apresso di quella per insino ad tanto facciamo electione d’altro oratore63.
41Questo non vuol certo dire che nel corso del suo soggiorno presso la capitale del regno Michelozzi sia stato un ambasciatore dimezzato nelle sue prerogative, né che sia mai stato trattato come tale da re Ferrante o dai suoi colleghi oratori. Significa solo che la natura della figura del vero ambasciatore è ben presente, con tutte le sue prerogative e col bagaglio delle sue esperienze, agli occhi di chi lo invia e lo delega della propria autorità. È bene però concludere sottolineando quanta strada ancora vi fosse da percorrere prima che l’inviato ufficiale guadagnasse una vera e propria immunità diplomatica. In una lettera del 1484 inviata al Magnifico, Giovanni Lanfredini ricordava infatti come, nell’estate del 1480, allorché ricopriva l’incarico di fattore del banco Medici a Venezia, gli fossero state affidate anche le mansioni diplomatiche, in assenza di ambasciatore, con regolari lettere credenziali ; ma come, ciononostante, egli fosse stato incarcerato dalle autorità della Serenissima con l’accusa di spionaggio e posto sotto tortura64. Toccherà alla trattatistica, proprio a partire da quegli anni finali del XV secolo, cercare di colmare anche sul piano teorico il divario che ancora separava nella coscienza e nella normativa l’oratore quattrocentesco da quella figura quasi sacrale che aveva ricoperto i medesimi incarichi in epoca classica65.
Milano, Venezia e il « canone italico » dell’ambasciatore nel Quattrocento (N.C.)
42Già dalla fine del Trecento la diplomazia del ducato di Milano fu organizzata in modo complesso e corrispondente alle alte ambizioni politiche del principato visconteo. Gli ambasciatori di Gian Galeazzo e poi di Filippo Maria Visconti operarono in varie sedi italiane e d’oltralpe con missioni di varia durata e di diverso impegno, mentre a Milano soggiornavano procuratori e nunzi di potenze forestiere che seguivano progetti politici o alleanze particolari66. La documentazione relativa a queste missioni, purtroppo, è in gran parte dispersa o non tramandata. Rarefatte fino al 1447, le fonti della diplomazia milanese diventano ricche dal 1450, data di inizio della dominazione sforzesca. È quasi inevitabile, allora, assumere come tournant le date della pace di Lodi e della Lega italica, 1454-55, sia per le novità della pratica diplomatica dopo l’instaurazione del cosiddetto equilibrio italico, sia per la quantità e qualità del materiale documentario disponibile.
43Istruzioni, dispacci in arrivo e in partenza, registri di lettere inviate agli ambasciatori, memoriali radunati nei fondi sforzeschi riflettono le vicende e la complessa organizzazione della diplomazia milanese costruita e voluta da Francesco Sforza all’interno del nuovo sistema delle potenze della penisola : già prima della redazione di trattati sulla diplomazia, vengono qui messe per iscritto regole di comportamento e norme che regolano l’attività degli ambasciatori. Il nuovo principe – che già da capitano reputato aveva riconosciuto l’importanza del controllo delle informazioni e che da duca volle essere « signore di novelle » – non lesinò risorse materiali e organizzative per allestire la sua diplomazia. Dopo aver avviato la costituzione della lega delle potenze italiche con un negoziato separato con Venezia, lo Sforza, privo di un riconoscimento imperiale, affidò alla diplomazia la speranza di ottenere quel prestigio interstatale che gli avrebbe permesso di consolidare lo stato nuovo e trasmetterlo ai figli. Coordinata da una cancelleria ducale già robustamente centralizzata, la macchina diplomatica funzionava mediante missioni di vario scopo e natura – missioni solenni e altamente rappresentative o invii di messi in forma esplorativa, forme già ben strutturate di residenzialità – affidate a figure diverse di nunzi e ambasciatori, compresi quei « famigli cavalcanti » che costituivano una diplomazia minore ma efficace per svolgere compiti di intelligence e di arbitrato nel complesso scenario italiano67.
44Il vasto materiale diplomatico sforzesco è stato ampiamente utilizzato dagli studiosi per condurre molte ricerche particolari68, e in qualche caso l’abbondanza e qualità delle fonti milanesi ha permesso di sopperire alla perdita delle carte diplomatiche di altre realtà della penisola : è il caso della storia politico-diplomatica del regno aragonese di Napoli69. La ricchezza di questo materiale ha consentito anche di studiare l’elaborazione e il deposito di regole, norme e canoni di comportamento che più tardi sarebbero stati codificati nella trattatistica sulla diplomazia di età moderna70. Nel Quattrocento i trattati veri e propri sono rari. Gli scritti di Martino Garati sono poco più di una raccolta di consulti legali in materia di obblighi e doveri dell’ambasciatore, mentre lo scritto sull’ufficio diplomatico del francese Bernard de Rosier, dalla struttura argomentativa scolastica e legalistica, riguarda più che altro le forme di convalida del discorso diplomatico. In queste pagine, il diplomatico è una sorta di notaio di alto livello, un profilo in cui gli ambasciatori italiani non si sarebbero forse riconosciuti71, così come non avrebbero condiviso il disprezzo dell’autore francese verso i mezzi abitualmente usati per procurarsi le informazioni riservate72. Il trattato di Ermolao Barbaro è più vicino alla pratica del tempo, ma non rappresenta pienamente le novità della diplomazia italica. Come ha dimostrato Bruno Figliuolo, il Barbaro scriveva per uno scopo limitato, dovendo giustificare un grave infortunio diplomatico occorsogli durante l’ambasceria milanese73. Rispetto a questi scritti che riflettono solo in parte le novità del tempo, i carteggi diplomatici della prassi individuano già molto bene i precetti e le regole che si stavano sperimentando, e che solo più tardi, nel Cinquecento, furono elaborati teoricamente.
45Le nuove regole riguardavano prima di tutto la redazione del dispaccio diplomatico e i canoni comunicativi tra ambasciatore e sede di appartenenza. In una ricerca in gran parte dedicata agli sviluppi della diplomazia sforzesca, Francesco Senatore ha considerato le varie tipologie di scritture diplomatiche che la cancelleria sforzesca diretta da Cicco Simonetta elaborava per costruire giorno per giorno un sistema di relazioni denso e strutturato. A partire da una tradizione trecentesca74, si precisavano le regole per la redazione delle scritture diplomatiche : costruire i dispacci in modo ordinato e articolato per punti (« scrivere ordinatamente »), redigere diverse versioni che potevano essere lette, secondo le necessità, a diversi uditori (« lettere separate ») ; utilizzare termini appropriati e una scrittura sobria e moderata per evitare che il dispaccio circolasse dando scandalo o provocasse, se intercettato, conseguenze negative (« scrivere iustificato »), curare la segretezza mediante la confezione di cifrari sicuri e inattaccabili75. Condivisi negli ambienti della diplomazia ‘italica’, questi precetti furono in alcuni casi annotati in memoriali e notule che gli ambasciatori tenevano per istruire i loro successori e tramandare le regole di comportamento. Alcuni di questi scritti furono poi pubblicati a stampa, ebbero una certa diffusione e col tempo furono alla base dei trattati sulla pratica diplomatica di età moderna76.
46Questi precetti confermano, come ha sostenuto Garrett Mattingly, che gli « Italian beginnings » furono un precedente importante per la prassi della diplomazia europea di età moderna77. Non è questione, ovviamente, di proclamare una sorta di primato della diplomazia italiana : al contrario, come più volte è stato osservato, la precocità di certe pratiche delle relazioni interstatali successive alla Lega italica – a cominciare dalla residenzialità degli ambasciatori – dipendeva tanto dalla peculiarità del sistema, quanto dalla sua intrinseca debolezza : le formazioni statali italiche erano per lo più basate su incerti fondamenti di legittimità tradizionale e grazie alle relazioni diplomatiche si riconoscevano reciprocamente e stabilivano relazioni utili a una possibile convivenza pacifica78. Comunque fosse, la pratica italiana della residenzialità – che al re di Francia Luigi XI pareva pericolosa e sconsigliabile, « cosa de suspeto e non di amore », come disse a un oratore milanese – si diffuse nell’Europa del Cinquecento, superando le diffidenze. La stabilità residenziale non era necessariamente la forma più « moderna » di attività diplomatica, ma imponeva nuovi obblighi e comportamenti. Le nuove regole riguardavano (come abbiamo visto) la corretta scrittura dei dispacci, l’archiviazione, la segretezza della corrispondenza79, ma anche altri aspetti, come la delicata questione dei doni e delle onorificenze date agli ambasciatori, gli obblighi burocratici (gli avvisi di inizio e fine ufficio, la disciplina delle missioni), il comportamento cerimoniale e rituale (precedenze, atti, gesti, modi dell’accoglienza), la socialità dell’ambasciatore (conversare, frequentare, ricevere e farsi ricevere), e più in generale quei canoni di decoro, sobrietà, reputazione, « contenenza » che troviamo illustrati, a inizio Cinquecento, nei memoriali che Niccolò Machiavelli scrisse per istruire alcuni ambasciatori inesperti, e dove elaborava regole minute anche per le mance, le monete da usare o gli accorgimenti per difendere gli stivali dai morsi dei topi, problemi minori ma che facevano parte del vademecum di ogni ambasciatore esperto80.
47Per esaminare come alcune di queste regole presero forma nella pratica, consideriamo qui un campione selettivo delle fonti sforzesche, quelle relative alle relazioni tra Milano e Venezia tra il 1450 e il 1499. In questa documentazione si possono seguire ampiamente gli innumerevoli problemi che un ambasciatore del Quattrocento doveva affrontare e risolvere, soprattutto trovandosi ad operare – date le relazioni conflittuali tra le due potenze – in una sede tra le più difficili, chiusa e ostile.
48All’interno della Lega italica la signoria di Venezia era uno degli interlocutori più importanti per il ducato milanese : la pace di Lodi era stata stipulata a partire da un’iniziativa separata di Milano e Venezia, e poi estesa, con un intenso lavorio negoziale, alle altre potenze italiane. Contro Venezia il ducato di Milano aveva combattuto ininterrottamente dal 1425, e la perdita di Bergamo e Brescia, sancita dal trattato di pace del 1428, era stata una diminuzione territoriale dolorosa, difficile da metabolizzare81. Dopo la stipulazione della Lega i motivi di contrasto e di conflitto non erano superati, ma a entrambe le potenze conveniva continuare il dialogo, tralasciando le rivendicazioni più spinose. Il nuovo principe Francesco Sforza puntava su un rapporto almeno formalmente amichevole per avere dai veneziani non solo il pieno riconoscimento politico, ma anche l’impegno a garantire la pacifica successione dello stato ai figli : questo è un leitmotiv della corrispondenza del 1454-1466. Venezia a sua volta aveva bisogno di pace, anche per destinare le necessarie risorse a contrastare l’avanzata turca in Grecia e nei Balcani. Dopo il 1455 le missioni degli inviati sforzeschi a Venezia si prolungarono perché, mediante un confronto serrato, occorreva rivedere e perfezionare le clausole dei trattati della Lega italica. Gli ambasciatori milanesi si trovarono a trascorrere lunghi periodi in Laguna, anche contro la loro volontà, e ad affrontare « alla giornata » parecchi aspetti delle controverse relazioni tra due potenze confinanti : la reciprocità del trattamento dei mercanti e degli scambi di merci, le controversie in materia di confini, di giurisdizione, di acque e fiscalità ; la regolarità del traffico del sale veneziano verso la Lombardia, affare decisivo per entrambe le potenze82. Alle solenni delegazioni formate da consiglieri ducali e giuristi si sostituì molto presto un messo stabile, di solito un segretario ducale. Difficile dire se fosse solo una prassi o già un’« istituzione ». La permanenza dell’inviato era una decisione presa da Milano ma i veneziani assecondavano questi lunghi soggiorni fornendo all’inviato sforzesco la casa, vari servizi, la barca e il barcarolo, denaro e facilitazioni varie. Di fatto l’agente ducale era accreditato come ambasciatore ufficiale. Benché unilaterale e formalmente poco definita, la soluzione era soddisfacente per entrambe le sedi.
49Dopo il 1466 la rivalità crescente tra i due stati, le iniziative militari di Bartolomeo Colleoni e le ambizioni guerresche di Galeazzo Maria Sforza resero i rapporti più conflittuali e tesi. Milano temeva l’espansionismo veneziano ma ostentava aggressività e volontà di riconquista territoriale, sperando di approfittare dei momenti critici sul fronte turco. Nonostante gli sforzi dell’ambasciatore Gerardo Colli i rapporti si logorarono e la rappresentanza diplomatica fu revocata nel 1471, interrompendo per qualche anno le relazioni formali. Nel 1472 i veneziani scrissero sgarbatamente allo Sforza che la decisione di tenere o non tenere un inviato a Venezia dipendeva solo da lui, e non da loro, e comunque la residenza milanese fu ristabilita nel 1473, prima freddamente e poi con maggiore cordialità, giungendo infine a una residenzialità pienamente bilaterale. Dopo un’interruzione nel 1479-8083, le relazioni ripresero dopo la pace del 1484. Mentre si aggravava la rivalità Milano-Napoli, la residenzialità piena e bilaterale continuò per tutti gli anni Novanta.
50Le relazioni diplomatiche veneto-milanesi si svolgevano in un clima politico di accesa rivalità, ma corrispondevano anche a ricche relazioni economiche e a interscambi continui. Comunque, a rendere più difficile la comunicazione diplomatica, erano le diverse tradizioni storiche, politiche e istituzionali delle due potenze : fatto che richiedeva molti sforzi per elaborare un linguaggio condiviso. La gloriosa tradizione della diplomazia veneziana84 era stata modellata dalla necessità di tutelare l’attività dei mercanti lagunari che con le mude statali e con iniziative private operavano nel Levante e in Europa, e nel rispetto dei princìpi su cui si basava la costituzione (non scritta) della Serenissima, l’egualitarismo almeno formale tra i nobili e la rigorosa collegialità delle decisioni, la netta divisione di compiti tra patrizi (a cui erano riservate le missioni solenni) e cittadini originari tra cui si reclutavano i segretari che svolgevano compiti diplomatici meno formali85. Norme e « lege strectissime » regolavano la diplomazia veneziana : rinviando alla puntuale trattazione di D. Queller86, diremo solo che le regole riguardavano in particolare il contenimento dei costi, la distribuzione degli incarichi tra i vari membri del patriziato e la correttezza dell’azione diplomatica, con i severi divieti fatti agli ambasciatori di gestire attività commerciali, accettare doni e omaggi, impetrare e ottenere benefici e onorificenze.
51La tradizione diplomatica milanese aveva una decisa impronta signorile-principesca ed era meno formalizzata. Alcuni decreti promulgati a fine Trecento vietavano agli ambasciatori di impetrare benefici durante le loro missioni e disciplinavano genericamente le missioni (« andate »), comprese quelle propriamente diplomatiche, stabilendo compensi, séguito e numero di cavalli a seconda del rango degli inviati87. Di fatto, l’attività diplomatica era modellata più dal volere del principe che dai regolamenti. Era il duca a scegliere a suo piacimento gli ambasciatori, ad orientare con le sue lettere il tono e l’andamento delle ambasciate e a riservarsi il monopolio delle informazioni. A differenza di Venezia, dove l’elezione era formalizzata, nel ducato la scelta dell’ambasciatore poteva cadere, a seconda dei casi e dei bisogni, su un consigliere, un fiduciario, un giurista, un cortigiano o un prelato, su un lombardo o un forestiero, purché gradito al principe e ritenuto adatto al compito. Il sistema si basava su un apparato informativo poderoso, su un reticolo postale stabile, sull’efficiente coordinamento della cancelleria coordinata dal primo segretario, in contatto quotidiano con il principe e i consigli ducali.
52Al di là delle norme stabilite, l’osservatorio dei rapporti veneto-milanesi – due potenze concorrenti, due tradizioni costituzionali diverse – è particolarmente interessante per seguire nel tempo l’uniformazione delle pratiche e delle usanze verso un comune « canone italico » che confluirà poi nella trattatistica. Nelle corrispondenze sforzesche la scelta del linguaggio e del lessico esprime una cordialità voluta e costruita, artificiosa ma adatta a facilitare il dialogo e la reciprocità dei rapporti.
53Nelle istruzioni e nei dispacci la diplomazia sforzesca costruiva, adattandosi alla prassi, le nuove regole atte a stabilire relazioni formalmente cordiali tra le due potenze ; si definivano i gesti, gli atti, le parole più adatti ; si elaboravano, sperimentando, i rituali più opportuni per gli incontri formali con il doge, con i Collegi e con i gentiluomini della Serenissima ; si usavano le pratiche più adatte a facilitare il dialogo e la reciprocità di scambi (« ve sforzareti fare con quelle più dolce amorevole et cordiale parole ve sarà possibile… »)88 ; si cercava di smussare la conflittualità con una pratica relazionale fluida, ma inevitabilmente ingessata da diffidenza e formalismo. Con lo stabilirsi della residenzialità, gli ambasciatori constatavano che la presenza continua e i contatti quotidiani con le magistrature e i nobili veneziani permettevano di affrontare e spesso di dissolvere i segnali di diffidenza e di « umbreza » e di scambiare informazioni « alla giornata » (« la mia stanza qui è per intendere le cose vano ala zornata sopra lo tavolero… » scrive spesso Gerardo Colli89). L’ambasciatore milanese, pur soffrendo delle chiusure e delle lungaggini imposte dalla prassi degli uffici veneziani, cercava ogni giorno di infrangere il muro di segretezza che circondava la decisione politica e coltivava per quanto possibile amicizie e relazioni per ottenere informazioni più sicure oltre l’ufficialità.
54Per quanto costruita e fondamentalmente artificiosa, la tonalità dell’amorevoleza e della domesticheza non fu abbandonata nemmeno negli anni dei rapporti più burrascosi. Nelle istruzioni del 1471 il duca di Milano raccomandava al Colli di assecondare le autorità veneziane « per continuare el nostro usato costume de communicare con quella signoria le cose ne ocorreno ala giornata », di superare gli screzi « humanamente et amorevolmente », di ricambiare la « salvadigheza » dell’oratore napoletano (il contrario della « domesticheza » tanto raccomandata) facendogli « careze » e onori, non sinceri ma utili90.
55A loro volta, politici e ambasciatori veneziani si adattavano al registro comunicativo « amorevole » e accomodante : ma con qualche resistenza in più. Galeazzo Maria Sforza lamentava molti sgarbi diplomatici da Venezia : mancate condoglianze o felicitazioni, invio di semplici segretari e non di patrizi reputati come avrebbe desiderato, segni di diffidenza e di sospetto. Dopo il disastro di Negroponte, però, la Signoria inviò a Milano in missione solenne il patrizio Triadano Gritti, il quale fu accolto con vivissima cordialità. Quando incontrò i notabili della corte e gli ambasciatori esteri, si mostrò cordiale e affabile come mai in passato, sorprendendo l’oratore mantovano : « e parloe l’ambasatore venetiano tanto humanamente e submissamente che non si poteva dir più, e fu preter la natura e consuetudine loro »91. C’era voluta la crisi in Levante per sostituire il severo registro comunicativo veneziano con lo stile cortigiano della domesticheza. Ai due ambasciatori veneziani in visita nel 1474 gli Sforza fecero onori grandissimi e un cospicuo dono in denaro. Alla fine degli anni Ottanta fu inviato a Milano a far residenza Ermolao Barbaro, umanista e letterato, amico di molti cortigiani e intellettuali milanesi. Era una figura particolarmente adatta a stabilire un’efficace comunicazione nella corte di Ludovico il Moro, ma purtroppo un infortunio formale (un errore di comunicazione che i veneziani non gli perdonarono) gli troncò la carriera. Un umanista era particolarmente adatto a utilizzare il nuovo linguaggio diplomatico accomodante e « amorevole », plasmato sul lessico curiale e sui codici comunicativi della nuova cultura quattrocentesca. Fu questo il linguaggio diplomatico che si impose, utile soprattutto per attenuare le asprezze del confronto politico tra due stati strutturalmente concorrenti.
56Nuove regole si stabilirono anche nell’ambito della socialità, diffondendo pratiche e usanze che più tardi furono codificate nei trattati. Negli anni Cinquanta il primo residente sforzesco, Antonio Guidoboni, partecipava regolarmente alle cerimonie ufficiali, ma per il resto viveva a Venezia piuttosto isolato, tenuto a distanza dai nobili del ceto di governo. Più tardi invece il Colli, nonostante un clima politico piuttosto avverso, riuscì a stabilire quel minimo livello di cordialità che gli consentiva di partecipare degnamente alle cerimonie ufficiali e ai riti religiosi e di accedere alla socialità privata del « principe » e dei « primari » veneziani. Nelle lunghe pause rituali delle cerimonie si appartava con il doge ricevendone confidenze e informazioni riservate : « do più fede ale parole me dice lo duce privatim ch’a quelle el me dice in publico quando il sede ala bancha, però che alora non me risponde si non quanto li vien comesso dal Colegio »92. Verso la fine del secolo l’integrazione degli ambasciatori era aumentata : Stefano Castiglioni e Taddeo Vimercati erano due nobili di rango ed entrambi portarono a Venezia le mogli, figlie del primo segretario Bartolomeo Calco ; disponevano di un numeroso seguito di cancellieri, assistenti e servitori appartenenti (così scrivevano) a rispettabili famiglie lombarde. Non solo erano regolarmente invitati a feste e banchetti, ma a loro volta, disponendo di degne suppellettili e di locali di rappresentanza, potevano dare ricevimenti e partecipare pienamente alla socialità veneziana. Erano pratiche corrispondenti ai precetti che più tardi, nel 1522, il Machiavelli suggeriva a Raffaello Girolami, raccomandandogli sobrietà e « accomodati modi » per ottenere confidenza e accedere più facilmente a informazioni riservate93.
57Adattarsi all’attitudine « cortigiana » era meno facile ai veneziani, che spesso alle corti passavano per sussiegosi e superbi. Nei suoi dispacci da Napoli, Zaccaria Barbaro non dissimula un vivo disprezzo verso i passatempi più amati alla corte napoletana, come le cacce, le lunghe gite campagnole, i ricevimenti e le danze94. Giudicato « superbo » anche per il lusso degli apparati e per l’estremo riserbo, il Barbaro disdegnava il costume molto più disinvolto del residente milanese, che a suo dire parlava troppo e a vanvera, soprattutto dopo pranzi e libagioni. Ermolao Barbaro, figlio di Zaccaria, riconosceva nel suo trattato sulla diplomazia che i veneziani erano o potevano apparire « superbi », ma lo erano in quanto giustamente orgogliosi dei princìpi ben regolati della costituzione veneziana, della diplomazia diramata che li portava in tutto il mondo conosciuto, delle pratiche informative che riflettevano la puntualità dell’informazione mercantile.
58La pratica di donare e ricompensare gli ambasciatori incontrava il favore degli interessati, che volevano trarre prestigio dalle ambasciate, e anche il pensiero legale del tempo considerava lecito e ragionevole lo scambio di doni che onorava l’ambasciatore95. Ma le leggi veneziane in materia erano piuttosto rigide : non solo obbligavano i diplomatici a restituire i regali ricevuti durante le ambasciate, ma vietavano loro di ricomperarli quando andavano all’asta. I duchi di Milano – non senza perfidia – talvolta colmarono di doni preziosi gli inviati di Venezia sperando di metterli in imbarazzo una volta tornati in patria : fu appunto ciò che accadde a Vitale Landi e a Vittore Soranzo, che nel 1474 non vollero restituire i fastosi abiti ricevuti in dono da Galeazzo Maria Sforza, per cui la Signoria fu costretta a consentire una deroga96. Col diffondersi della residenzialità, anche Venezia fu costretta ad attenuare la rigidità delle sue regole, perché i diplomatici veneziani non volevano essere da meno dei loro colleghi « curiali ». Per molti aspetti, fra la tradizione severamente regolata della repubblica oligarchica e quella più flessibile e « deregolata » dei prìncipi, fu la seconda a prevalere : il « canone italico » della comunicazione diplomatica fu uniformato più sul linguaggio cortigiano che sulle pratiche repubblicane. Tutte queste pratiche furono poi tradotte in precetti, sia nei trattati sulla diplomazia, sia in quelli che contemporaneamente davano forma alle regole del vivere cortigiano. La matrice era la stessa.
59Anche nelle nomine e designazioni degli ambasciatori le corti procedevano di solito in modo più agile e sbrigativo giacché la scelta dipendeva unicamente dal volere del principe. Al contrario a Venezia la designazione, come sempre basata su esigenze di « turn over e collegialità » (I. Lazzarini), passava per lunghi consulti e formali sorteggi. Secondo quanto segnalavano gli ambasciatori milanesi, le lungaggini non giovavano alla fluidità dell’azione diplomatica e la facilità delle nomine principesche si adattava meglio ad una prassi diplomatica che aveva bisogno di decisioni rapide e flessibili.
60La pratica principesca – secondo i dispacci dei milanesi – era più spiccia anche nella conduzione dei negoziati. Negli anni Cinquanta, la Signoria non ammetteva consultazioni separate con gruppi di delegati che avrebbero poi riferito al Collegio e al Doge, mentre più tardi i veneziani si adattarono alla prassi di « dare auditori » per accelerare i negoziati97. Un altro aspetto paralizzante era il timore che il doge desse troppa confidenza agli ambasciatori esteri : ancora nel 1462 i contatti diretti furono vietati da una parte del Maggior Consiglio98. Solo nel XVI secolo, quando il consiglio dei Dieci assunse alcuni compiti relativi alla materia diplomatica, le decisioni furono riservate a un circolo ristretto di persone, a salvaguardia della discrezione e della segretezza ; ne guadagnava la speditezza e la velocità delle procedure99.
61Gli ambasciatori milanesi, che spesso subivano i rigori e le lentezze della prassi diplomatica veneziana, per tanti aspetti non la capivano : per esempio giudicavano con scetticismo e sospetto le ferree regole repubblicane (« per seguire le constitutioni sive superstitioni loro… »100) e non ne apprezzavano lo spirito. Quando le autorità marciane si trinceravano dietro le « lege strectissime » e li facevano penare nei corridoi in attesa delle consultazioni collegiali, gli oratori pensavano che volessero solo dissimulare la concorrenza interna al ceto dirigente veneziano : « tanta hè la inimicitia tra loro e vivano con tanto reguardo che non se ardiscano de venire a parlare con li ambasatori anze diceno haverlo per leze de non farlo »101. Giudizi come questo si ripetono in tutto il carteggio : a volte le relazioni tra milanesi « curiali » e veneziani « oligarchi » sfioravano l’incomunicabilità.
62Per concludere, i dispacci sforzeschi da Venezia del secondo Quattrocento riflettono un momento di intensa elaborazione di nuovi precetti e regole di comportamento che corrispondono a nuove modalità della pratica diplomatica, e in particolare al diffondersi della residenzialità : regole, comportamenti e norme che solo più tardi saranno codificati nella trattatistica. Il nuovo « canone italico » superava l’antica diffidenza per la pratica residenziale in nome della necessità di un confronto serrato tra gli stati, con informazioni scambiate « alla giornata » e con relazioni basate più sul linguaggio « amorevole » e « domestico » in voga nelle corti principesche che sul severo registro formale repubblicano.
63L’esistenza di un canone italico può essere confermata dalla sua negazione, dal suo rovesciamento. Una famosa lettera che Francesco Vettori indirizzò il 23 novembre 1513 da Roma al Machiavelli (e che ebbe come risposta la celeberrima missiva che annunciava la scrittura del Principe)102, è appunto degna di nota perché disdegna e rovescia tutte le regole che qui abbiamo individuato come risultato della vicenda diplomatica italica del secondo Quattrocento. Diventato ambasciatore presso un papa fiorentino, in un clima politico difficile e incerto, disilluso e scettico, il Vettori racconta di essere un ambasciatore pigro e svogliato. Nella sua casa sul Gianicolo preferisce le passeggiate solitarie e le letture dei classici, frequenta pochi amici e qualche donna di facili costumi, ma nessuna persona di rango e di qualità ; non dà ricevimenti e a un certo punto si sbarazza persino delle argenterie. Va a corte quel tanto che basta, evita i postulanti, scambia poche parole con questo e con quello ; invece di trasmettere a Firenze notizie ponderate e fini analisi politiche scrive « qualche novella stracha et che non rilieva », ma che giudica corrispondente alle aspettative delle autorità fiorentine. In questa famosa lettera, in cui convergono sentimenti di disillusione, forse un po’ d’affettazione e sicuramente la sensibilità verso l’amico costretto a vivere lontano dalla città e dal potere, il Vettori destruttura volutamente il canone italico : non vale più la regola di inserirsi nell’ambiente locale, per guadagnare reputazione e ottenere informazioni ; inutile la socialità, troppo costosa e senza effetti ; inutili i precetti di scrivere ordinatamente per argomenti e in modo appropriato, perché i dispacci sono costruiti solo per far piacere a chi li riceve. Un duro colpo è dato anche al decoro dell’ambasciatore e alla « contenentia » raccomandata dal Machiavelli nei suoi vademecum. E tuttavia, negando i canoni più diffusi della pratica diplomatica, la lettera del Vettori ne conferma implicitamente la validità ormai assodata.
Mantova e Ferrara (I.L.)
Strutture e fonti
64La signoria gonzaghesca e i domini estensi fra Tre e Quattrocento sono due principati padani di medio peso politico, la cui rilevanza per la nostra analisi risiede essenzialmente nella ricchezza delle fonti diplomatiche in essi prodotte e conservate, specchio della centralità delle pratiche diplomatiche nel governo del dominio e nella sopravvivenza del principato. Si tratta di due principati di origine essenzialmente urbana e comunale, anche se questo modello va articolato tenendo conto della natura della dinastia dominante e della diversa fisionomia territoriale : entrambi sono collocati in posizioni geopolitiche cruciali, su multiple frontiere di frizione fra sistemi politici potenzialmente in conflitto ; entrambi infine costruiscono le proprie reti diplomatiche anche sulla base degli intrecci dinastici che intessono in Italia e in Europa103.
65Sia a Mantova, sia a Ferrara, la diplomazia è una diplomazia di principi : si articola dunque in una scelta personale degli oratori (residenti come temporanei), in un legame strutturale con la cancelleria (anche se con sfumature significative), nell’assenza di controlli da parte di organi collegiali, nella relativa semplicità della tipologia documentaria, nella grande attenzione alla sua conservazione, in una assenza pressoché totale di normazione regolare in merito all’attività diplomatica104.
66Il paesaggio delle fonti diplomatiche è plasmato dalle caratteristiche che abbiamo rapidamente delineato : le risorse documentarie sono essenzialmente costituite da carteggi (di missive e responsive), e da istruzioni ; mancano quasi completamente rapporti finali o relazioni, come anche documenti che testimonino l’organizzazione materiale o rituale delle ambascerie ; manca pressocché totalmente una normazione mirata105. Una siffatta fisionomia documentaria riduce le tipologie più atte a fissare regole o riflessioni teoriche sul comportamento degli ambasciatori, obbliga allo spoglio minuzioso di una considerevole mole di materiale, per lo più inedito, costringe infine l’analisi a una ricerca indiziaria di attitudini concretamente attuate più che di pratiche descritte o normate. I fondi considerati sono stati quelli relativi ai rapporti con i cinque potentati maggiori (Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli), a tappeto dal tardo Trecento sino agli anni Sessanta del XV secolo, per scaglioni cronologici significativi per gli ultimi decenni del Quattrocento, con un fuoco rilevante negli anni tra il 1490 e il 1495106.
La pratica e le regole
67È questo un contesto di labilissima – per non dire inesistente – produzione normativa sull’attività diplomatica, e di relativa povertà delle istruzioni ; queste ultime, per quanto numerose, sono infatti singolarmente ‘politiche’, e non ‘normative’ : di volta in volta cioè dettano le linee di condotta dell’oratore intorno a una serie di questioni politiche, non delineano codici di comportamento ; in questo senso, sono quindi più eloquenti laddove si tratti di stabilire ex novo dei contatti (come con i poteri islamici del Mediterraneo), che non quando regolano l’azione interpeninsulare. Di fatto ci troviamo di fronte a una situazione in cui viene a mancare il confronto fra la norma (codificata o comunque enunciata) e la prassi.
68Una spia della crescita della consapevolezza di una funzione diplomatica in un contesto siffatto può divenire – per quanto saltuariamente espresso – il rapporto fra la pratica diplomatica quotidiana e altre forme di riflessioni scaturite da essa : non tanto il trattato, che manca qui in tutte le sue forme, ma gli scritti personali dei protagonisti (memoriali, giornali di viaggio, ricordi e quant’altro), che indicano una crescita di consapevolezza del ruolo e un processo importante di astrazione di attitudini e regole dall’esperienza107. Un caso esemplare di questa propensione è rappresentato dalle ambascerie di Pandolfo Collenuccio, umanista pesarese frequentemente inviato da Ercole d’Este come ambasciatore negli anni Novanta del Quattrocento, a Roma, a Firenze, all’imperatore Massimiliano : l’approccio del Collenuccio è molto meditato, non solo nella descrizione di ciò cui assiste, ma anche nella elaborazione, in forme diverse dal dispaccio, di riflessione sul viaggio, sugli incontri e sui contatti possibili, sul ruolo dell’inviato in paesi diversi (dall’esperienza in Austria e Germania, e dalla capacità di osservare e commisurare ciò che vede con la propria cultura umanistica, nasce per esempio un trattato geografico)108.
La fisionomia sociale e professionale dell’ambasciatore
69Gli inviati dei Gonzaga e degli Este appartengono a due diversi gruppi sociali e hanno due diverse matrici culturali : sono infatti cancellieri e aristocratici ; pratici della politica e umanisti. Questi quattro elementi si incrociano variamente e condizionano la loro condotta diplomatica, conducendo alla fine del XV secolo a una più netta definizione della ‘qualità’ dell’ambasciatore e a una più elementare e definita gerarchia di funzioni.
70La fisionomia degli ambasciatori è naturalmente legata alla struttura della diplomazia ferrarese e mantovana, non definitivamente e regolarmente conquistate dal modello residenziale (ci torneremo), e quindi particolarmente flessibili e insieme intermittenti, e alla incombente, perenne scarsità di risorse finanziarie, che induce di quando in quando all’utilizzo di figure secondarie o circuiti non specifici come quelli legati alle reti dinastiche e matrimoniali e alla specializzazione dei cadetti. Le diverse fisionomie professionali, le varie funzionalità di questi uomini si notano bene in particolare a Ferrara : qui, a puri ‘politici’ come Jacopo Trotti, Antonio Costabili o Manfredo Guidoni, fanno da contraltare umanisti come Pandolfo Collenuccio o Pellegrino Prisciani, nelle cui lettere è più facile trovare riflessioni generali sulle peculiarità del loro incarico, sulla fisionomia dell’ambasciatore, sui suoi codici di comportamento, le sue risorse, le sue diverse funzioni. Così, per fare solo due esempi eloquenti, Pandolfo Collenuccio racconta a Ercole d’Este le sue escursioni nella biblioteca di Massimiliano d’Asburgo, nel castello di Ala : l’essere ambasciatore sconfina qui con l’essere uomo di cultura e cortigiano, e la figura dell’oratore si tinge di caratteri peculiari.
Non potendo io scrivere e mandare a vostra signoria de quelle cose importante e bone ch’io vorria, mandarò de quelle ch’io posso, almeno per una recreatione. Leggendo questa nocte un libro ch’io ho trovato qui de le Historie de Hungheria e de la Nation propria e de la successione de li loro Re, ho trovato una cosa quale pertene ad honore e gloria de la illustrissima vostra casa da Este : cioè che un Re de Hungaria, Andrea II, tolse per moglie una figliola de un marchese d’Este […] E benché io credea che ne li monumenti de la casa questa cosa sia, e vostra Signoria l’habbia forse o odita o lecta altre volte, pur me è parso far moi debito levare e tradurre de questo libro tucto quel capitolo e mandarlo a vostra Excellentia alligato. […] Tutto è bene a sapere ; se bene a la fragilità de la vita nostra e a l’impotentia de l’altra vita siano tal cose de poco momento109.
71Così, Pellegrino Prisciani, fra il compiaciuto e l’imbarazzato, narra al suo duca come si sia dilungato in udienza dinnanzi al doge e ai collegi veneziani : dalla lettera emerge la consapevolezza dell’esistenza di un modello corrente, quello del « puro ambasciatore » politico, e della necessità di modificare tale modello, all’occorrenza, grazie all’adozione di pratiche retoriche (« una eloquentia vulgare ») che appartengono ad altre sfere di competenza, ma di sicuro risultato.
Facendo zentilhomini venetiani aperta professione de una eloquentia vulgare, imo havendo il loro studio principale in tal arte sua oratoria como molto bene scia vostra excellentia et havendo questo serenissimo dominio firma opinione che Peregrino sii quel homo et di quella doctrina che veramente non è, per satisfarli quanto me sii possibile a tal loro sententie, ne li mei ingressi mi pare bisogno usare tali parlamenti quali veramente non se rechiederia ad uno puro oratore qui de vostra illustrissima Signoria. Et anche per rendermeli artificiosamente attenti auditori, et però videndo vostra Celsitudine tal mie frappe, gli supplico se ne passi cum bono animo per le allegate ragione […] la Sublimità del principe (squassando la testa tuta la brigata per assai et cum varij gesti de contento et piacere che da uno canto vergogna me è ad scriverlo come ben cognosco per non essere in tuto matto, da l’altro forza mi è tocharne qualche cosa per refrigerio de vostra Signoria) la Serenità del principe, dico, tocando parole che non le voglio dire, ma in suma de mia gran laude et de loro summo piacere concludete che dal canto loro veramente cusì faria et teniriano legato in tal modo et coniuncto el stato de vostra Signoria cum il suo che ogni homo cognosceria che et quello et li figlioli de vostra Celsitudine non mancho haveriano in rispecto et alla cura dei quali non mancho poneriano che al suo propro et che se li figlioli anche fusseno de loro istessi110.
72Questi ambasciatori manifestano un’attenzione peculiare al dialogo culturale e alla costruzione retorica del discorso : troviamo in essi incarnato – con piena consapevolezza – il modello descritto così bene da Vespasiano da Bisticci nella vita di Giannozzo Manetti111.
Il comportamento rituale : rango e cerimoniali
73Il lavoro pratico degli oratori è possibile grazie a un certo numero d’atti e di formalità tra loro e il governo cui si presentano e la società politica cui partecipano, che ne definiscono in modo più o meno concreto il rango, l’autorità, i margini di autonomia di fronte a un vasto spettro di interlocutori. Tale operare si definisce grazie a una crescente attenzione alle modalità dell’azione diplomatica, modalità di cui si percepisce la fissazione graduale attraverso un’analisi di dettaglio.
74Gli ambasciatori mantovani e ferraresi sono inviati di signori di secondo rango, per quanto in alcuni momenti il ruolo giocato dai loro principi li porti alla ribalta (l’età di Ludovico Gonzaga, 1444-1478, per Mantova, l’età di Ercole d’Este, 1471-1505, per Ferrara) : il problema del loro posto nella galassia degli ambasciatori italiani è dunque soggetto a un continuo processo di definizione e ridefinizione, l’attenzione al cerimoniale è massima, i limiti di risorse e possibilità sfruttati al più ampio grado. I contatti esterni al mondo italiano sono i più espliciti : nel 1464 Borso d’Este invia una ambasciata a Tunisi per acquistare cavalli ; l’istruzione per i due inviati è insolitamente normativa e attenta agli aspetti comportamentali. I due ferraresi devono infatti comportarsi in modo da rendere chiaro il fatto che sono « servidori de uno signore de honore » e che vengono da una « corte de molte zentilleze ». La presentazione che di sé stesso fa Borso, che i due inviati devono ripetere al re, costruisce un’immagine del principe calata nel contesto degli stati italiani, stabilisce una gerarchia di autorità e di prestigio. Il comportamento degli emissari ne deriva direttamente : « vui seti quelli dui scuderi delo ill. signor Borso duce de Modena et de Regio, marchexe de Ferrara et conte de Rovigo de la ill. casa di Est, il quale è signor in Italia et non de li inferiori nì de li mediocri »112.
75Il rango del principe, nel caso di Este e Gonzaga, va ribadito con forza e illuminato in ogni occasione : così nel 1495 a Venezia, allorché alla morte in servizio di Antonio Salimbeni, ambasciatore del marchese Francesco Gonzaga (in quel momento capitano generale della Serenissima), gli vengono decretati funerali pubblici per onorare il Gonzaga, questo onore si vanta e sottolinea. Amico della Torre, cancelliere del defunto, scrive infatti alla marchesa Isabella che è « certo che prima la I. Signoria gli farà fare prima qua le honorevole exequie per reverentia del prefato s. suo consorte »113.
76Al di là di quanto di consueto e rituale – e quindi non peculiare – c’è in queste situazioni, i valori essenziali degli inviati gonzagheschi e ferraresi si declinano secondo lessici politici particolari. A Ferrara, gli ambasciatori vengono costantemente richiamati a manifestare, nel loro operare, le « zentileze » della corte, la « piacevoleza » dei costumi, la « esaltatione » della dinastia. A Mantova, la cornice ideale del linguaggio diplomatico si fonda sul richiamo all’onore del principe, ai valori essenziali della parola e della fede (talora civile, ed è il caso di Ludovico, talora militare, ed è il caso di Francesco), di matrice al tempo stesso aristocratica e umanistica. Una fisionomia dell’ambasciatore al tempo stesso aristocratica e umanistica matura attraverso un processo di definizione insieme del potere del principe e della funzione di chi lo rappresenta.
Il comportamento negoziale : funzioni e pratiche
77Alla fine del Quattrocento il lavoro pratico degli oratori, come si è accennato sopra, è raccogliere informazioni, negoziare, testimoniare alleanze, mantenere aperti canali di comunicazione alternativi allo scontro, eventualmente (ma non principalmente) comporre conflitti.
78La natura dell’oratore ha assunto ormai carattere pubblico, e la legatio di fatto si caratterizza come un officium nel contesto di un duplice processo di concentrazione del potere interno ai singoli stati, e di crescente politicizzazione dell’attività diplomatica nell’ambito di un articolato reticolo di leghe generali e alleanze particolari. Questa trasformazione è però in fieri e in generale, la prassi diplomatica richiede e tollera ancora un complesso ventaglio di soluzioni diverse : nel caso di Mantova e Ferrara la questione della natura degli incarichi diplomatici – come sarebbe più opportuno riformulare il tema della residenzialità – e delle soluzioni possibili alla necessità di esercitare tutta la gamma delle funzioni che si sono indicate sopra si fa più stringente che per gli stati maggiori, considerata la maggiore fragilità politica e la minore disponibilità finanziaria di stati che pure non rinunciano ancora a un ruolo autonomo nella penisola. La compresenza di soluzioni diverse comporta anche una minore nettezza di definizioni : la pratica, più che mai in questo caso, mal si presta alla modellizzazione.
79Sia per Mantova, sia per Ferrara, constatiamo dunque una serie di fenomeni correlati : la compresenza di oratori residenti e ambasciatori ad hoc, una cronologia altalenante e non progressiva nella costituzione di una rete di ambasciatori ‘fermi’ (che conosce momenti di accelerazione e di stasi), la modulazione nella prassi diplomatica di ruoli e figure complementari e/o concorrenziali, come nel caso di cardinali di famiglia, condottieri o principesse (i circuiti personali o dinastici affiancano in questi casi, sino a sostituirle, le reti diplomatiche). Un esempio chiaro della flessibilità della funzione diplomatica è rappresentato dalla condizione e dallo status degli oratori mantovani a Milano tra il 1497 e il 1498. Mantova non ha a Milano in questi anni un oratore residente (Francesco Gonzaga è capitano generale della Serenissima), ma Benedetto Capilupi, il segretario della marchesa Isabella, si reca a Milano con lei in occasioni particolari (feste, nascite dei fanciulli Sforza), e lì resta a lungo, occupandosi della sostanza della trattativa per fare passare il Gonzaga da Venezia a Milano. La trattativa, delicatissima, viene condotta infatti tramite la copertura fornita dalla mediazione di Isabella, che opera attraverso la sua rete dinastica di principessa estense appoggiandosi all’ambasciatore ferrarese a Milano, il Costabili. Quando la trattativa va in porto, il Capilupi viene sostituito da un vero oratore, cui si tributano omaggi e trattamenti da ambasciatore114.
80In questo contesto fluido, le più chiare definizioni teoriche sono dedicate peraltro a partire dagli anni Cinquanta del Quattrocento alla crescente – e necessaria – presenza e centralità dell’oratore residente : così Antonio Cenni da Ricavo, un emissario fiorentino dei Gonzaga che scrive per anni a Mantova come informatore e agente, senza alcuna precisa qualifica, nota già nel 1451 che « a me parebbe non solamente utile, ma necessario che la vostra excellentia [Ludovico G.] havesse qui uno continuo et fermo, el qual havesse notitia piena delle consuetudine et observantie nostre, per vacare a facti et occorrenti bisogni della vostra signoria »115. Alla fine del secolo l’idea dell’utilità presso un governo di un emissario permanente o almeno residente per tutta la durata di una negoziazione o di un’alleanza, è ormai chiarissima sia a Mantova, sia a Ferrara : fra i tanti esempi possibili, si consideri come Ercole d’Este spiega a Giacomo Trotti nel 1482 il senso del suo andare e rimanere a Milano : « Circa el venire o ’l stare vostro ve dicemo che se bene lo illustrissimo duca de Bari ni ha dicto non essere necessaria l’andata vostra a Milano, pure siamo de parere che gli andiati ad ogni modo, perché lae consiste et dipende ogni nostro fundamento »116.
81Nel concreto svolgersi della quotidiana pratica diplomatica poi, gli ambasciatori ferraresi e mantovani sono altamente consapevoli – e lo scrivono – dell’opportunità di dispiegare strategie retoriche e atteggiamenti politici diversi a seconda del contesto dell’udienza : a Venezia, come abbiamo visto, vale la pena di ricorrere alla retorica umanistica di fronte a un interlocutore collegiale e altamente ritualizzato ; a Milano, con Ludovico il Moro, è efficace la tonalità della confidenza, del « parlare ala domestica », per accentuare il carattere privilegiato e politico del rapporto personale/familiare fra signori per tramite dell’oratore117. Il lessico familiare in questi casi traduce le diseguaglianze in graduazioni di parentela : la peculiare triangolazione dinastica Sforza-Este-Gonzaga negli anni 1490-99, disegna e complica il rapporto fra Ludovico il Moro e Francesco Gonzaga, cognati fra loro avendo sposato due sorelle, ed Ercole d’Este, suocero di entrambi. Il duca di Milano è il più potente fra i tre, ma è legato all’Estense da un rapporto familiare di ‘giovinezza’ (pater/filius) : nonostante l’antica amicizia fra Milano e Mantova, la particolare gerarchia fra i signori traduce quindi e gradua in questi anni la gerarchia e l’autonomia degli oratori, ponendo i mantovani in una posizione subordinata e dipendente rispetto ai ferraresi.
82L’autonomia relativamente limitata di ferraresi e mantovani – che li confina entro gerarchie di rango assai esplicite, di cui sono traccia tanto le annotazioni sulle precedenze, quanto vari e diversi episodi che emergono dalle lettere – li obbliga infine ad affidarsi pesantemente a reti informative diverse, con la conseguenza, fra le altre, di fare affiorare dalle loro lettere complessi codici di comportamento fra colleghi che al tempo stesso convergono a elaborare la loro fisonomia operativa. Basti in questo senso un episodio che vede protagonista Pellegrino Prisciani a Venezia : le pratiche relative all’officio dell’ambasciatore, il rapporto fra i governi, l’autonomia degli oratori, la gerarchia dei loro rapporti emergono con chiarezza dal dialogo che segue, pur non ‘teorico’.
Havendomi el dì de Natale tracto uno bottone lo ambassatore de Milano partiti che fossemo da San Marco, presenti lo ambassatore dela Maiestà del Re de Napoli, che fu che partendosi tuti dala Sublimità del principe et dicendomi quella che subito doppo manzare fussemo lì per compagnarlo alo Vespero, et venendosene tuti tri insieme per montare in barcha, epso anbassatore de Milano dixe « El bisogna bene che ritorniamo presto perché lo principe strictamente me lo ha dicto ». A quelle parole rispose lo ambassatore da Napoli « A vui ambassatore de Milano, in verità sta bene ad obedire lo principe que ne siti obligato perché siti suo salariato et haviti da lui ducati 100 el mese ». A questo incontinente dicto ambassatore de Milano replicò et dixe : « El sta pur alo ambasatore de Ferrara, essendo el suo signore el figliolo reverente et caro dela Signoria de Venetia », e io alhora senza pur pensarla resposi : « Vui diciti el vero, et cussì senza fallo me bisogna fare per dui respecti et cagione, l’una perché lo sito del dominio del duca de Ferrara cusì rechiede essendo in faucibus ipsis istorum, l’altra perché vui altri cusì haviti voluto et voliti et basta ». Lo ambassatore del Re che ha del volpone rebutò incontinente la cosa adosso a quel de Milano, dicendoli « Toliti quella, al corpo de Dio, l’haveti havuta como meritati » et quello de Milano più circa ciò non dixe, et in altro parlare intrassemo118.
83Gli ambasciatori e gli agenti e intermediari di Este e Gonzaga sono infatti ben consapevoli di doversi ritagliare uno spazio in un giuoco di potenti più forti di chi li manda : sia per questo, sia per il complessivo disciplinamento interno di una società politica sempre più ordinata attorno a valori dettati dal graduale formalizzarsi della corte del principe, non posso che confermare quanto detto sopra a proposito delle relazioni tra Milano e Venezia sul predominante registro della domesticheza nei contesti principeschi.
84Al termine di questa analisi, il risultato in termini di ‘teorizzazione’ rimane innegabilmente limitato : non manca la consapevolezza delle forme e delle sfumature di una pratica diplomatica che viene intenzionalmente incentivata dai principi ed esercitata dagli ambasciatori a livelli talora altissimi, ma spesso proprio la sua esplicita decantazione teorica. Non emergono infatti elementi sufficienti a dimostrare, a Ferrara e a Mantova, almeno sino alla fine del XV secolo, una qualche consapevole sensibilità all’ordinamento teorico di quanto si viene compiendo giorno per giorno, né da parte dei principi, né da parte degli oratori, né in testi teorici (come il trattato di Barbaro), né in scritture sistematiche (come ordini, istruzioni generali o simili). L’attenzione va semmai verso la codificazione di un altro ordine più onnicomprensivo e disciplinante, quello della corte : la diplomazia è – e resta – una pratica politica.
Notes de bas de page
1 Il lavoro è prodotto di una discussione comune. Sono da attribuire a I. Lazzarini l’introduzione e l’ultimo paragrafo (Mantova e Ferrara) ; a F. Senatore il secondo (Napoli) ; a B. Figliuolo il terzo (Firenze) ; a N. Covini il quarto (Milano e Venezia). Abbreviazioni : ASMi = Archivio di Stato di Milano ; ASMn, AG = Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga ; ASMo = Archivio di Stato di Modena ; Albino = [O. Albino], Lettere, istruzioni ed altre memorie dei re Aragonesi di Napoli, in G. Gravier (a cura di), Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell’istoria generale del regno di Napoli, V, Napoli, 1769 (archivio di un ambasciatore 1478-95, edito nel 1589) ; Liber = Regis Ferdinandi primi instructionum liber (10 maggio 1486 - 10 maggio 1488), a cura di L. Volpicella, Napoli, 1916 ; Messer = Le codice aragonese. Étude générale. Publication du manuscrit de Paris, a cura di A.-A. Messer, Parigi, 1912 ; Trinchera I = Codice aragonese o sia lettere regie ordinamenti ed altri atti governativi de sovrani aragonesi in Napoli riguardanti l’amministrazione interna del reame e le relazioni all’estero, a cura di F. Trinchera, I, Napoli, 1866 ; Trinchera II = Codice aragonese o sia lettere regie ordinamenti ed altri atti governativi de sovrani aragonesi in Napoli riguardanti l’amministrazione interna del reame e le relazioni all’estero, a cura di F. Trinchera, II, Napoli, 1870.
2 Per le origini di questo dibattito storiografico, si veda F. Senatore, « Uno mundo de carta ». Forme e strutture della diplomazia sforzesca, Napoli, 1998, p. 28-50 ; per una recente rassegna bibliografica, T. Duranti, La diplomazia bassomedievale in Italia, in Reti medievali Repertorio (www.retimedievali.it : www.rm.unina.it/repertorio/rm_duranti.html) [2009].
3 G. Mattingly, Renaissance diplomacy, Londra, 1955 ; D. E. Queller, The office of ambassador in the Middle Ages, Princeton, 1967 ; V. Ilardi, Studies in Italian Renaissance diplomatic history, Londra, 1986.
4 Per una revisione del complesso di queste edizioni, che saranno citate variamente in dettaglio nel seguito del testo, si veda Diplomazia edita. Le edizioni delle corrispondenze diplomatiche quattrocentesche, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 110, 2008, p. 1-143.
5 Si veda da ultimo il saggio di sintesi R. Fubini, Diplomacy and government in the Italian city-states of the fifteenth century (Florence and Venice), in D. Frigo (a cura di), Politics and diplomacy in early modern Italy. The structure of diplomatic practice, 1450-1800, Cambridge, 2000, p. 25-48.
6 F. Leverotti, Diplomazia e governo dello stato. I « famigli cavalcanti » di Francesco Sforza (1450-1466), Pisa, 1992 ; I. Lazzarini, L’informazione politico-diplomatica nell’età della pace di Lodi : raccolta, selezione, trasmissione. Spunti di ricerca dal carteggio Milano-Mantova nella prima età sforzesca (1450-1466), in Nuova Rivista Storica, 83, 1998, p. 247-80 ; F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2.
7 A. K. Isaacs, Sui rapporti interstatali in Italia dal medioevo all'età moderna, in G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna, 1994, p. 113-32 ; M. Mallett, Diplomacy and war in later fifteenth century Italy, in Proceedings of the British Academy, 67, 1981, p. 267-88.
8 F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2 ; M. M. Bullard, The language of diplomacy, in Ead., Lorenzo il Magnifico : Image and anxiety, politics and finance, Firenze, 1994, p. 81-109 ; I. Lazzarini (a cura di), Scritture e potere. Pratiche documentarie e forme di governo nell’Italia tardomedievale (XIV-XV secolo), in Reti Medievali Rivista, 9, 2008 (www.storia.unifi.it/_RM/rivista/2008-1.htm#S_monografica) ; P. M. Dover, The resident ambassador and the transformation of intelligence gathering in Renaissance Italy, in E. O’Halpin, R. Armstrong, J. Ohlmeyer (a cura di), Intelligence, statecraft and international power, Dublino, 2006, p. 17-34.
9 V. Ilardi, Fifteenth-century diplomatic documents in western european archives and libraries (1450-1494), in Studies on Renaissance, 9, 1962, p. 64-112 ; F. Senatore, « Uno mundo de carta »...cit. n. 2 ; I. Lazzarini, Materiali per una didattica delle scritture pubbliche di cancelleria nell’Italia del Quattrocento, in Scrineum-Rivista, 2, 2004 (http://scrineum.unipv.it/rivista/2-2004/lazzarini.pdf) ; F. Senatore, Callisto III nelle corrispondenze diplomatiche italiane. La documentazione sui Borgia nell’Archivio di Stato di Siena, in M. Toldrà (a cura di), I figli del signor Papa, Quinto centenario della morte di Cesare Borgia (1507-2007). Actes del II simposi internacional sobre els Borja (València-Gandia, 21-23 novembre 2007) [= Revista Borja. Revista de l’Institut internacional de estudis borgians], 2, 2008-9, p. 141-86 (www.elsborja.org/revista.php).
10 P. M. Dover, Royal diplomacy in Renaissance Italy : Ferrante d’Aragona (1458-1494) and his ambassadors, in Mediterranean Studies, 14/1, 2005, p. 57-94. Possono essere utilmente consultate le biografie di ambasciatori in appendice a Regis Ferdinandi primi instructionum liber (10 maggio 1486 – 10 maggio 1488), corredato di note storiche e biografiche, a cura di L. Volpicella, Napoli, 1916. Non si contano ovviamente gli studi sulle relazioni internazionali del regno, né manca qualche profilo di singoli ambasciatori. Per brevità non viene qui fornita alcuna bibliografia sul regno aragonese di Napoli.
11 Queste edizioni risultano in compenso molto ricche di informazioni sul corpo diplomatico e sui cerimoniali : Dispacci di Zaccaria Barbaro. 1 novembre 1471-7 settembre 1473, a cura di G. Corazzol, Napoli, 1994 ; Dispacci sforzeschi da Napoli, a cura di vari, 4 vol., Salerno, 1997-2009 ; Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini, a cura di vari, 7 vol., Salerno, 2002-2013 ; La corrispondenza italiana di Joan Ram Escrivà, ambasciatore di Ferdinando il Cattolico, a cura di I. Parisi, Battipaglia, 2014.
12 Le tranches corrispondono ai pochi registri sopravvissuti in originale o in edizioni antiche, nell’ordine Messer ; Trinchera I ; Albino ; Liber ; Trinchera II/1-2. Verrà fornita la pagina dell’occorrenza lessicale, citando per esteso alcuni passi rappresentativi, previa modernizzazione della trascrizione (l’ed. Messer è stata verificata sull’originale, il ms. Bibliothèque Nationale de France, Espagnol, 103). Per l’età angioina abbiamo soltanto un registro d’ambasciata : La correspondance de Pierre Ameilh : archevêque de Naples puis d’Embrun, 1363-1369, texte établi d’après le registre des Archives vaticanes (Arm. LIII, 9) et annoté par H. Bresc, Parigi, 1972. Per il regno di Alfonso il Magnanimo disponiamo di una gran quantità di istruzioni e lettere, nelle serie Curie e Secretorum dei registri della Cancelleria aragonese (Archivo de la Corona d’Aragón, Barcellona), ma abbiamo qui studiato soltanto il regno di Ferrante. Per la diplomazia nella Corona d’Aragona, nella prospettiva che ci concerne, basti un rinvio a A. M. Oliva, « Memorial de totes les coses que ha a fer, dir, applicar, per la Universitat de Càller davant lo senyor rey ». Ambasciatori della città di Cagliari alla corte catalano-aragonese nel Quattrocento. Prime note, in La Mediterrània de la Corona d’Aragó. Segles XIII-XVI. XVIII Congrés d’historia de la Corona d’Aragó, Valenzia, 2004, p. 327-348 e S. Péquignot, Les instructions aux ambassadeurs des rois d'Aragon (XIIIe-XVe siècles). Jalons pour l'histoire de la fabrique d'une parole royale efficace, in Cahiers d’études hispaniques médiévales, 31, 2008, p. 17-43.
13 O. Maggi, De legato libri duo, Venezia [Venetiis], 1566 (da qui sono tratte le citazioni in latino).
14 Cfr. F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2, p. 161-249, p. 441-456 (tecniche di scrittura), p. 354-427 (diplomatica delle missive).
15 La definizione è contenuta in una lettera di Ferrante d’Aragona a Lorenzo de’ Medici, al quale viene raccomandato l’ambasciatore fiorentino Giovanni Lanfredini, 18 ottobre 1486 (E. Scarton, Giovanni Lanfredini. Uomo d’affari e diplomatico nell’Italia del Quattrocento, Firenze, 2007, p. 242) : « Ne è parso nostro debito testificare per nostre lectere quanto dignamente se sia portato in questa sua legatione, in la qual se è governato con tanta prudentia, fede et integrità quanta habiamo vista in ambasciatore che da gran tempo in qua sia stato appresso nui, et certo concorreno in esso tucte quelle bone et digne parte che se recercano in uno dignissimo ambasciatore, per modo che [...] havimo voluto [...] declarare li soi laudabili portamenti, per li quali ce ha inductu ad amarlo et portarli singular dilectione ».
16 Trinchera I, p. 192, p. 298, p. 596. « Per voi fo ben satisfacto ad tucto lo bisogno, et piacene per lo advenire ve governate al modo havite facto per lo passato », ivi, II/1, p. 154. Cfr. P. M. Dover, Royal diplomacy... cit. n. 10, p. 66.
17 Messer, p. 82 ; Liber, p. 10, p. 27.
18 Ferrante a Pirro d’Azzia, vescovo di Pozzuoli, ambasciatore a Firenze e Milano, 18 ottobre 1486 (sottoscrittore B. Ruggi), Liber, p. 44, corsivo nostro.
19 Ferrante a Matteo d’Aquino, vescovo di Gravina, ambasciatore a Bologna per matrimonio di Annibale Bentivoglio, 5 gennaio 1487 (sottoscrittore B. Ruggi), Liber, p. 72, corsivi nostri.
20 Sufficientia : Liber, p. 2, p. 10, p. 44 ; idoneo : Liber, p. 130, Trinchera II/2, p. 23 ; virtù : Messer, p. 73, Liber, p. 2, p. 10, p. 27, Trinchera II/2, p. 65 ; bone parte : lettera a Lanfredini cit. supra a nota 15, Liber, p. 72 ; Trinchera II/2, p. 65 (qui singulare parte).
21 Fede : Messer, p. 72 ; Trinchera, I, p. 15, p. 16, p. 27, p. 34, p. 56, p. 72, p. 75, p. 206, II/1, p. 26 ; fedele : Trinchera I, p. 55, II/1, p. 172 ; ben fidato : Liber, p. 130 ; sincerità : Messer, p. 73, Trinchera I, p. 34 ; integrità : ivi, p. 15. Cfr. il ringraziamento a Venezia per la « qualitate et digna condicione » dell’ambasciatore inviato a Napoli, Trinchera II/1, p. 118.
22 Affectione : Trinchera I, p. 75, p. 104 ; Liber, p. 62 ; amore : Trinchera I, p. 27, p. 104, p. 206, p. 397, II/1, p. 122, p. 150, p. 153 ; sapimo quanto ni amati : Messer, p. 72 ; benivolentia : ivi ; devotione : Trinchera I, p. 206.
23 Diligentia : Trinchera I, p. 5, p. 16, p. 31, p. 34, p. 35, p. 55, p. 71, p. 78, p. 93, p. 148, p. 347, p. 437, p. 359, p. 397, p. 408, Liber, p. 12, p. 16, p. 81, p. 141, Trinchera II/1, p. 26, p. 62, p. 67, p. 84, p. 122, p. 132, p. 140, p. 162, p. 171, p. 244 ; diligentemente : Albino, p. 28 ; sollicitudine : v. nota 28 e Liber, p. 12 ; Trinchera II/1, p. 122 ; studio : Trinchera I, p. 55. p. 65, p. 376 ; negligentia : ivi, p. 266.
24 Testi cit. a n. 15, 19, 25, 27, Trinchera I, p. 15, e p. 27, p. 31, p. 37, p. 65, p. 71, p. 72, p. 170, p. 459, Liber, p. 141, p. 146, p. 150, Trinchera II/1, p. 11, p. 26, p. 32, p. 159, p. 166, p. 170, ivi, II/2, p. 3, p. 414.
25 « Usarite circumspictione, che quando se avesse ad parlare de pace voi usate quella discretione che se recerca, perche dova non è guerra né contentione non se recede pace, et in questa parte usate omne dextreza et prudentia che ’l casu rechede. Quando el papa se pona in turno con quella excusa et longheza de tempo, le cose sonno fraudolente, et non è da lassarse infenochiare. Sì che usarete cautela et solertia col datario, essendo voi nel facto, servarete quelli modi che ve pareranno expedienti per essere del credito che è et per essere lo pontifice qual cognoscete. Similmente ve dicemo del cardinale de Napoli, che da qua noi non sapemo ben discernere quello sia el meglio, lo tacere o lo parlare libero, maxime che ’l pontifice li ne parlarà o farà parlare, et ce sonno mille vie da malignare in questa materia. Sì che governateve con quella più prudentia che porrete », Ferrante a Luigi Paladini, ambasciatore a Roma, 1 maggio 1493 (sottoscrittore G. Pontano), 2 lettere, Trinchera II/2, p. 2. Il richiamo alla circumspictione, presente nel passo citato, è ancora più raro. Per discretione v. anche Trinchera I, p. 22, II/1, p. 11, Liber, p. 27, p. 176, Trinchera II/2, p. 274.
26 Ferrante d’Aragona a Francesco Del Balzo, duca d’Andria, ambasciatore a Roma, 28 agosto 1458 (sottoscrittore T. Girifalco), Messer, p. 70-71.
27 Ferrante ai suoi ambasciatori a Roma, 16 febbraio 1467 (A. Petrucci), Trinchera I, p. 55-56.
28 Studio et diligentia : Trinchera I, p. 55 ; diligentia et sollicitudine : Liber, p. 12 ; sollecitudine et studio : Trinchera I, p. 376 ; sollicitudine et diligentia : ivi, I, p. 397 ; diligentia, solicitudine et amore : ivi, II/1, p. 122 (anche virtù, dottrina, sollicitudine et sufficientia : Liber, p. 10) ; diligentia et prudentia : Trinchera I, p. 71, p. 408 ; prudencia etsollecitudine : ivi I, p. 37 ; prudentia et fede : Trinchera I, p. 56 ; prudentia, fede et practica : Trinchera I, 15 ; prudentia, fede et diligentia : ivi II/1, 26 ; prudentia, fede et integrità : lettera a Lanfredini cit. supra, nota 15 ; prudentia et bone manere et practica : Liber, p. 72 ; dextreza et prudentia : Trinchera II/2, p. 2 ; peritia et prudentia : Liber, p. 150 ; discretione et prudentia : Trinchera II/1, p. 11 ; prudentia et virtù : ivi, II/1, p. 32 ; sagacità et prudentia : ivi, I, p. 459 e II/1, p. 166 ; prudentia et bon consiglio : ivi, I, p. 31 ; prudentia et doctrina : ivi, I, p. 89. Prudentia et probitas sono prevedibilmente richiamati anche in testi molto formalizzati, come nell’arenga delle nomine a procuratore (per trattative con un barone, per raccogliere il giuramento di fedeltà a nome del sovrano : « confisi plene de fide, prudentia et probitate… », Messer, p. 165, p. 183).
29 Liber, p. 41, p. 100, Trinchera I, p. 334, p. 424.
30 Prudentia et virilità : Trinchera I, p. 203 ; prudentia et strenuità : ivi, p. 257 ; diligentia, integrità et prudentia : Liber, p. 41-42 ; integrità et prudentia : ivi, p. 150 ; prudentia et magnanimità : Trinchera I, p. 241 ; prudentia et longa experientia del duca d’Urbino : ivi, I, p. 269 ; prudentia et sapere suoi e di Orso Orsini : ivi, I, p. 363 ; sapientia e prudentia di Firenze : ivi, I, p. 431. Si veda infine, con riferimento al governo veneziano, l’auspicio che « vedendo et mensurando co la prudentia sua le cose predicte con tante altre circumstantie che le varietate humane portano, simo certissimi che [la signoria di Venezia] ce farrà el debito pensero », ivi, II/2, p. 274.
31 Ferrante a Orso Orsini, duca d’Ascoli, 8 luglio 1467 (sottoscrittore A. Petrucci), Trinchera I, p. 206.
32 Sono tipologie testuali e letterarie molto diverse, ma omogenee per i valori espressi e il milieu culturale di riferimento : l’oratio del Magnanimo al figlio Ferrante in occasione della spedizione in Toscana, scritta dall’umanista Antonio Beccadelli, detto il Panormita, 1452 (Panormitae De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum libri quatuor, III, Basilea [Basileae], ex officina Hervagiana, 1538, n. 41, p. 89-92 e Bartolomeo Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri, a cura di D. Pietragalla, Alessandria, 2004, p. 468-472) ; il trattato di Pontano, De Principe, 1464-65, a cura di G. M. Cappelli, Roma, 2003, e ad altri trattati dello stesso autore ; il memoriali di Diomede Carafa ai figli di Ferrante, a un ambasciatore, a un cortigiano, anni ’60-’70 (Diomede Carafa, Memoriali, ed. critica a cura di F. Petrucci Nardelli, note linguistiche e glossario di A. Lupis, Roma, 1988) ; l’istruzione di Ferrante a Giovanni Albino con ammonizioni per il duca di Calabria, 1483 (Albino, p. 75-76) ; al nipote omonimo, incaricato del governo della Puglia, 1487 (Liber, p. 105-107) ; a Francesco de’ Monti con ammonizioni per Beatrice d’Aragona, 1491 (Trinchera II/1, p. 121-124). Non è possibile dare una bibliografia al riguardo, ma resta un buon punto di partenza il pur datato J. H. Bentley, Politics and culture in Renaissance Naples, Princeton, 1987. Cfr. anche F. Senatore, L’itinérance degli aragonesi di Napoli, in A. Paravicini Bagliani, E. Pibiri, D. Reynard (études publiées par), L’itinérance des seigneurs (XIVe-XVIe siècles), Losanna, 2003, p. 275-325, qui a p. 318-324.
33 Trinchera II/2, p. 155.
34 Sulle varie figure di delegati dell’autorità (alter nos) negli stati aragonesi : J. Lalinde Abadía, La gobernación general en la Corona de Aragón, Saragozza, 1963 e F. Senatore, Parlamento e luogotenenza generale. Il regno di Napoli nella Corona d’Aragona, in Á. Sesma Muñoz (a cura di), La Corona de Aragón en el centro de su Historia 1208-1458. La monarquía aragonesa y los reinos de la Corona, Saragozza, 2010, p. 435-478 : qui a p. 461-467.
35 Si veda il richiamo all’honore nel passo cit. supra a nota 26.
36 Nel primo caso si usano termini inequivocabili come ambasciatore, oratore, legatione (ad esempio Liber, p. 9, p. 10, p. 14, p. 35) e si scelgono preferibilmente persone di rango, non sempre vicine alla volontà del sovrano (anche a Napoli si ripropone il conflitto tra rappresentatività e intimità, tipico della diplomazia quattrocentesca).
37 Ferrante a Fabrizio de Scorciatis, percettore del fisco regio in Terra di Bari e Terra d’Otranto, 10 ottobre 1483 (B. Ruggi), Liber, p. 41-42 : « Debeate […] servare lo infrascritto ordine con quella diligentia, integrità et prudentia che de vui confidamo. [...] Volimo che […] debbiate far imponere et essigere [un’imposta] con quella diligentia et sollicitudine che lo nostro bisogno recerca. Et, attento che la essatione delli nostri pagamenti potissimamente consiste in li essecutori, volimo che in lo essigere de debeate ordinare persone diligente, integre et affectionate ad nui et al servitio nostro, le quali habiano da fare extorsione né fraude ».
38 Diomede Carafa, Memoriali... cit. n. 32, p. 47, p. 49, p. 217 ; Albino, p. 75-76 ; Liber, p. 105.
39 Ad esempio Ottaviano Maggi, De legato... cit. n. 13.
40 Nell’ordine : Trinchera I, p. 293, p. 241, p. 492 ; Trinchera II/1, p. 117 ; Trinchera I, p. 80, p. 126, p. 55 (due cit.), p. 93, p. 179, p. 292, p. 160, p. 489 ; Liber, p. 94.
41 Si vedano ad esempio i richiami alla discretione et prudentia e alla prudentia et intellecto nell’istruzione di Francesco Sforza al suo inviato (non un ambasciatore ufficiale) presso l’imperatore, Giovanni de Ulesis, ed. in F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2, p. 432-435.
42 E. Scarton, Il Parlamento napoletano del 1484, in Archivio storico per le province napoletane, 124, 2007, p. 113-136 ; G. Vitale, Ritualità monarchica, cerimonie e pratiche devozionali nella Napoli aragonese, Salerno, 2006.
43 Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, II : Giovanni Lanfredini (maggio 1485-ottobre 1486), a cura di E. Scarton, Napoli, 2002, p. XLVI-LXXXIV.
44 Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 931, f. 30v-32v, missiva del 21 settembre del 1448.
45 Si tratta di un comportamento condiviso, che si richiede a qualsiasi élite. Esso deve permeare per esempio il modus vivendi del patriziato veneziano così come del personale del banco Medici : cfr. rispettivamente V. Branca, La sapienza civile. Studi sull’umanesimo a Venezia, Firenze, 1998, in specie p. 51 ss. ; E. Scarton, Giovanni Lanfredini... cit. n. 43, p. 63-64.
46 Si veda per esempio la frase di chiusura della lettera di commissioni consegnata dalla Signoria di Firenze a Giannozzo Manetti, in procinto di recarsi in ambasceria a Venezia, e datata 27 agosto 1448 : « Arai a mente, il dì che tornerai, di fare il rapporto a bboccha alla Signoria, et il decto dì o il seguente il farai al cancelliere per scriptura, sotto gravi pene » (Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 931, f. 1r-2v = Archivio di Stato di Firenze, Signori. Legazioni e Commissarie, 12, f. 56v-58v).
47 Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, IV : Piero Nasi (10 aprile 1491-22 novembre 1491), Antonio Della Valle (23 novembre 1491-25 gennaio 1492) e Niccolò Michelozzi (26 gennaio 1492-giugno 1492), a cura di B. Figliuolo e S. Marcotti, Napoli, 2004, n. 1, p. 3.
48 F. Guicciardini, Dialogo del reggimento di Firenze, a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, Torino, 1994, p. 58.
49 D. De Rosa, Coluccio Salutati. Il cancelliere e il pensatore politico, Firenze, 1980, p. 75-85. La citazione è tratta dalla p. 80.
50 P. Gilli, De l’importance d’être hors-norme : la pratique diplomatique de Giannozzo Manetti d’après son biographe Naldo Naldi, in R. M. Dessì (a cura di), Prêcher la paix et discipliner la société. Italie, France, Angleterre XIIIe-XVe siècle, Turnhout, 2005, p. 413-30. Ma cfr. pure, a proposito di Manetti, il testo corrispondente alla precedente nota 44.
51 Nicodemo Tranchedini a Francesco Sforza, da Roma, 6 febbraio 1451 (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco 40, Roma, c. n. n.).
52 S. U. Baldassarri, B. Figliuolo, Manettiana. La biografia anonima in terza rima e altri documenti inediti su Giannozzo Manetti, Roma, 2010, p. 38.
53 C. De Frede, La crisi del Regno di Napoli nella riflessione politica di Machiavelli e Guicciardini, Napoli, 2006, p. 251-258.
54 B. Figliuolo, Il diplomatico e il trattatista. Ermolao Barbaro ambasciatore della Serenissima e il ‘De officio legati’, Napoli 1999, p. 22 s. e p. 77 s.
55 Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. Lat. 931, f. 53r-57r.
56 S. U. Baldassarri, B. Figliuolo, Manettiana... cit. n. 52, p. 61-62.
57 E. Scarton, Giovanni Lanfredini... cit. n. 43, p. 235-36.
58 Significativo quanto nel 1489 Ferrante d’Aragona fece per onorare l’ambasciatore del re di Francia, Guglielmo di Poitiers, signore di Clérieu, vezzeggiato con vari festeggiamenti e riempito di ricchi doni, che suscitarono l’evidente meraviglia dell’inviato fiorentino : Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, V : Paolo Antonio Soderini (luglio 1489-ottobre 1490), a cura di F. Trapani, Napoli, 2010, n. 121, p. 176 ; n. 126, p. 185 ; n. 134, p. 205 ; n. 136, p. 210, e n. 138, p. 213.
59 Le discussioni sul modo di organizzare la cerimonia si protrassero da agosto a dicembre di quell’anno : cfr. Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, VII : Piero Alamanni (12 maggio 1492-21 febbraio 1493) e Bartolomeo Ugolini (12 febbraio-18 aprile 1493), a cura di B. Figliuolo, Napoli, 2011, n. 76 ss., p. 101 ss.
60 Sui costi di un’ambasceria e sulla composizione del seguito dell’ambasciatore, cfr. E. Scarton, Giovanni Lanfredini... cit. n. 43, p. 208-212.
61 Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, V, n. 186, p. 286-288, a p. 287.
62 Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, VI, Parte II, n. 1, p. 291.
63 Ivi, n. 2, allegato A, p. 293-94.
64 E. Scarton, Giovanni Lanfredini... cit. n. 43, p. 146.
65 C. Eilers (a cura di), Diplomats and diplomacy in the Roman world, Leida, 2009.
66 Citiamo almeno Dispacci di Pietro Cornaro ambasciatore a Milano durante la guerra di Chioggia, a cura di V. Lazzarini, Venezia, 1939 e G. Soldi Rondinini, Ambasciatori e ambascerie al tempo di Filippo Maria Visconti (1412-1426), in Nuova Rivista Storica, 49/3-4, 1965, p. 313-344.
67 F. Leverotti, Diplomazia e governo dello stato... cit. n. 10 ; N. Covini, Milano e Bologna dopo il 1455. Scambi militari, condotte e diplomazia, in M. Del Treppo (a cura di), Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento (1350-1550), Napoli, 2001, p. 165-214.
68 Una rassegna bibliografica esauriente e recente (2009) : T. Duranti, La diplomazia bassomedievale... cit. n. 2. Nel 1985 Vincent Ilardi avviò una vasta microfilmatura di fonti diplomatiche italiane alla Yale University, cfr. The Ilardi microfilm collection Renaissance diplomatic documents, 1450-1500 (www.library.yale.edu/Ilardi/il-home.htm).
69 Sulla serie dei Dispacci sforzeschi da Napoli, cfr. ora F. Senatore, Filologia e buon senso nelle edizioni di corrispondenze diplomatiche italiane quattrocentesche, in Bullettino dell’istituto storico italiano e archivio muratoriano, 110, 2008, p. 61-95.
70 F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2.
71 Bernard de Rosier, Ambaxiator brevilogus, in V. E. Hrabar (a cura di), De legatis et legationibus tractatus varii, Tartu, 1905, p. 3-28. Sull’opera, B. Behrens, Treatises on the ambassador in fifteenth and sixteenth century, in The English Historical Review, 51, 1936, p. 616-627 e R. Fubini, L’ambasciatore nel XV secolo : due trattati e una biografia, in MEFRIM, 108/2, 1996, p. 645-665.
72 R. Fubini, L’ambasciatore nel XV secolo... cit. n. 71, p. 662s.
73 B. Figliuolo, Il diplomatico e il trattatista... cit. n. 54.
74 I. Taddei, La lettre d’instruction à Florence, XIVe-XVe siècles. La dynamique de l’échange diplomatique, in J. Boutier, S. Landi, O. Rouchon (a cura di), La politique par correspondance. Les usages politiques de la lettre en Italie (XIVe-XVIIIe siècle), Rennes, 2009, p. 81-108.
75 F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2.
76 Ivi, p. 441-456.
77 G. Mattingly, Renaissance diplomacy... cit. n. 3. Ancora utile M.A.R. de Maulde-La-Clavière, La diplomatie au temps de Machiavel, Paris, 1892-1893, cfr. su questi temi il tomo III, p. 23s.
78 Sulla residenzialità nel secondo Quattrocento rinvio alla bibliografia di T. Duranti, La diplomazia bassomedievale... cit. n. 2 ; oltre agli studi di Riccardo Fubini è da citare M. Mallett, Ambassadors and their audiences in Renaissance Italy, in Renaissance Studies, 8, 1994, p. 229-243.
79 F. Senatore, « Uno mundo de carta »... cit. n. 2.
80 Notula per uno che va ambasciatore in Francia (1503) e Memoriale a Raffaello Girolami, quando ai 23 d’ottobre parti per la Spagna all’imperatore (1522), in Niccolò Machiavelli, L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma, 2001, p. 159-163, p. 281-288.
81 G. Chittolini, Tra Milano e Venezia, in La figura e l’opera di Bartolomeo Colleoni. Convegno di studi, Bergamo : 16-17 aprile 1999, Bergamo, 2000 (Bergomum, 95), p. 11-35 ; M. Mallett, Venezia e la politica italiana : 1454-1530, in Storia di Venezia, IV : Il Rinascimento : politica e cultura, a cura di A. Tenenti e U. Tucci, Roma, 1996, p. 245-310.
82 P. Mainoni, Fra Milano e Venezia. Un rapporto difficile, in Ead., Economia e politica nella Lombardia medievale. Da Bergamo a Milano fra XIII e XV secolo, Cavallermaggiore, 1994, p. 185-206.
83 F. Fossati, Sulla partenza degli oratori Leonardo Botta e Francesco Diedo da Milano, in Nuovo archivio veneto, n.s., 14, 1907, p. 229-257 ; Id., Sulle relazioni tra Venezia e Milano durante gli ultimi negoziati per la pace del 1480, in Nuovo archivio veneto, n.s., 10, 1905, p. 179-239 ; M. Mallett, Venezia e la politica italiana... cit. n. 81, p. 259.
84 Sulle famose relazioni degli ambasciatori veneti, introdotte fin dal 1268, cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Ventura, Roma-Bari, 1976.
85 A. Zannini, L’impiego pubblico, in Storia di Venezia, Storia di Venezia, IV : Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di A. Tenenti, U. Tucci, Roma, 1997, p. 415-463.
86 D. Queller, Early Venitian legislation on ambassadors, Ginevra, 1966.
87 Sui regolamenti viscontei ripresi da Francesco Sforza cfr. la nota documentaria di F. Fossati, recensione a Inventari e regesti del R. Archivio di Stato in Milano, vol. II, P. II : Gli atti cancellereschi viscontei, parte seconda, in Archivio storico lombardo, 58, 1931, p. 369-379.
88 Istruzioni a Taddeo Vimercati, 27 agosto 1490, Archivio di Stato di Milano [d’ora in poi ASMi], Sforzesco 376. Sui gesti diplomatici, I. Lazzarini, Il gesto diplomatico fra comunicazione politica, grammatica delle emozioni, linguaggio delle scritture (Italia, XV secolo), in M. Baggio, M. Salvadori (a cura di), Gesto-immagine tra antico e moderno. Riflessioni sulla comunicazione non-verbale, Roma, 2009, p. 75-93.
89 Lettera di G. Colli, 22 aprile 1471, ASMi, Sforzesco, 357.
90 5 marzo, 15 e 20 aprile 1471, ASMi, Sforzesco, 357.
91 Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca (1450-1499), VIII : 1468-1471, a cura di N. Covini, Roma, 2000, p. 299, Zaccaria Saggi a Ludovico Gonzaga, 24 settembre 1470 ; il corsivo è mio.
92 26 aprile 1471, ASMi, Sforzesco, 357.
93 Memoriale per Raffaello Girolami in Niccolò Machiavelli, L’arte della guerra... cit. n. 80, in particolare p. 658.
94 G. Corazzol, Introduzione a Dispacci di Zaccaria Barbaro... cit. n. 11, in particolare p. 14, p. 17, p. 21.
95 A proposito dell’opinione del Garati cfr. G. Soldi Rondinini, Ambasciatori e ambascerie... cit. n. 66, p. 343.
96 Cfr. i documenti editi da F. Fossati, Ultime spigolature d’archivio, in Archivio storico lombardo, s. 8, 10, 1960, p. 430-450.
97 Marino Sanudo, Le vite dei dogi, II, a cura di A. Caracciolo Aricò, Venezia, 2004, p. 218.
98 G. Gullino, L’evoluzione costituzionale, in Storia di Venezia, IV : Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di A. Tenenti, U. Tucci, Roma, 1996, p. 345-378, p. 350.
99 A. Conzato, Sulle « faccende » da « praticare occultamente ». Il Consiglio dei Dieci, il Senato e la politica estera veneziana (1503-1509), in Studi veneziani, n.s., 55, 2008, p. 83-165.
100 F. Fossati, Ultime spigolature... cit. n. 96, p. 445n, 10 ott. 1476 (a proposito di doni).
101 Alberico Maletta a Cicco Simonetta, 20 marzo 1460, ASMi, Sforzesco, 347.
102 Niccolò Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano, 1961, p. 297-300.
103 Per ragioni di spazio, la bibliografia citata sarà essenziale ; rinvio quindi, per brevità, alle ricerche più recenti : I. Lazzarini, Fra un principe e altri stati. Rapporti di potere e forme di servizio a Mantova nell’età di Ludovico Gonzaga (1444-1478), Roma, 1996 ; Ead. I domini estensi e gli stati signorili padani : tipologie a confronto, in G. Fragnito, M. Miegge (a cura di), Girolamo Savonarola da Ferrara all’Europa, Firenze, 2001, p. 19-50 ; M. Folin, Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico stato italiano, Roma-Bari, 2001 ; T. Dean, Ferrara and Mantua, in A. Gamberini, I. Lazzarini (a cura di), The Italian Renaissance state, Cambridge, 2012, p. 112-131.
104 Si vedano in merito almeno I Lazzarini, L’informazione politico-diplomatica... cit. n. 6 ; M. Folin, Gli oratori estensi nel sistema politico italiano (1440-1505), in G. Fragnito, M. Miegge (a cura di), Girolamo Savonarola da Ferrara all’Europa. Atti del convegno internazionale Ferrara, 30 marzo-3 aprile 1998, Firenze, 2001, p. 51-84 ; P. M. Dover, Diplomacy in the margins : Gonzaga and Estense representation at the papal court in the second half of the fiteenth century, in Inside Italy and outside Italy : Diplomacies in early modern Europe, panel a cura di P. Volpini, Renaissance Society of America annual meeting, Venezia, 8 aprile 2010 ; in generale, rinvio per riferimento alla recente rassegna di T. Duranti, La diplomazia bassomedievale... cit. n. 2, e ora a I. Lazzarini, Renaissance diplomacy, in A. Gamberini, I. Lazzarini (a cura di), The Italian Renaissance state... cit. n. 103, p. 425-444.
105 A Mantova le serie diplomatiche iniziano nel Trecento ; sono ordinate topograficamente, e divise in tre gruppi : le istruzioni agli inviati, le lettere sovrane, le lettere degli oratori o di chiunque scrivesse ai marchesi ; le responsive dei principi sono disseminate fra i registri dei copialettere, le minute, le lettere originali dei Gonzaga (ASMn, AG, serie E). A Ferrara le serie diplomatiche come fondi autonomi sono costituite a partire dal XV secolo e conservano i diversi tipi di documenti in fascicoli unitari ordinati topograficamente e cronologicamente (ASMo, Ambasciatori). Del complesso di queste fonti esistono edizioni del carteggio trecentesco del mantovano Cristoforo da Piacenza ad Avignone (I dispacci di Cristoforo da Piacenza, procuratore mantovano alla corte pontificia [1371-1383], a cura di A. Segre, Firenze, 1909) e della serie Milano del Gonzaga (aa. 1450-1500), in corso d’opera (Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca [1450-1500], dir. gen. di F. Leverotti, Roma, 1999-2007, 14 vol.) ; dei fondi estensi, ricchi soprattutto a partire dagli anni Sessanta-Ottanta del Quattrocento, sono stati editi, e selettivamente, solo alcuni gruppi di lettere in appendice a studi primo novecenteschi come P. Negri, Le missioni di Pandolfo Collenuccio a papa Alessandro VI (1494-1498), in Archivio della Regia Società Romana di Storia Patria, 33, 1910, p. 333-439 ; Id., Milano, Ferrara e Impero durante l’impresa di Carlo VIII in Italia, in Archivio Storico Lombardo, ser. V, fasc. XV-XVI/3-4, 1917, p. 423-571.
106 Rapidamente, le serie di corrispondenza estera consultate sono : a Mantova, ASMn, AG, CE Milano, bb. 1602-1615 ; 1619-1623 ; 1627-1628 ; 1630-1633 ; Roma, bb. 833-834 ; 839-843 ; 846-847 ; 849-853 ; Firenze, bb. 1085 ; 1099-1102 ; Venezia : bb. 1417 ; 1430-1438 ; Napoli, bb. 801 ; 802 ; 805-807 ; Corte cesarea, bb. 426, 439 ; Innsbruck e Graz, bb. 544 ; Levante e Porta ottomana, b. 795 ; a Modena : ASMo, Ambasciatori, Firenze, bb. 1-6 ; Milano, 1-10 ; Napoli, 1-6 ; Venezia, 1-13 ; Roma, 1-6 ; Levante, 1 ; Tunisi, 1 ; Ungheria, 1.
107 Gli esempi di resoconti di viaggi legati ad ambascerie si fanno frequenti verso la fine del XV secolo : per una prima ricognizione, si vedano J. R. Hale, Introduction, a Id. (a cura di), The Travel Journal of Antonio de Beatis. Germany, Switzerland, the Low Countries, France and Italy, 1517-1518, Londra, 1979, p. 1-56 e I. Lazzarini, Scritture dello spazio e linguaggi del territorio nell’Italia tre-quattrocentesca. Prime riflessioni sulle fonti pubbliche tardomedievali, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, 113, 2011, p. 137-208.
108 Voce Pandolfo Collenuccio, a cura di E. Melfi, in Dizionario biografico degli Italiani, 27, Roma, 1982, p. 1-5 ; P. Negri, Le missioni... cit. n. 105 e Id. Milano, Ferrara e l’Impero... cit. n. 105 ; il trattato è la Descriptio, seu potius summa rerum Germanicarum, stampata postuma a Roma nel 1546.
109 Pandolfo Collenuccio a Ercole I d’Este, Ala, 14 gennaio 1497, ed. in P. Negri, Milano, Ferrara e Impero... cit. n. 105, p. 547, l. 27.
110 Pellegrino Prisciani a Ercole I d’Este, Venezia, 27 novembre 1491, ASMo, Venezia 10.
111 « Giunto a Vinegia, gli fu fatto grandissimo onore dal doge, ch’era messer Francesco Foscari, uomo di grandissima autorità. Dettegli udienza publica nel Consiglio di Pregati, vi si trovò più 500 gentiluomini, e vennonvi tutti quegli che si potevano venire, mossi dalla fama de le sue singulari virtù. Parlò messer Giannozzo la matina una ora o più, e fu istato audire con tanta atentione che non fu mai ignuno si muovessi né parlassi. Parlato ebe, istavano tuti come ismariti, veduta la gran forza aveva nel parlare », Vespasiano da Bisticci, Le vite, [2 vol.], a cura di A. Greco, I, Firenze, 1976, I, p. 485-538, p. 504. Su Manetti a Venezia, si veda ora G. Albanese, B. Figliuolo, Giannozzo Manetti a Venezia, 1448-1450. Con l’edizione della corrispondenza e del Dialogus in symposio, Venezia, 2014.
112 « Interea ve ni stareti cussì [***] piacevolmente, governandovi discretamente cum costumi e manieri tali che ogniuno possa comprehendere che sieti servidori de uno signore de honore, cum lassar stare le femine et ogni cossa lasciva de la quale altri potesse pigliare malo exemplo de vui et che vi potesse dar scandalo ricordandovi che non siete miga a Francolino a trovarvi là oltra et vogliati vivere cum discretione et guardarvi dala bocca che non vi amalasti, et cussì da ogni altra cossa nociva, et verso ogniuno portative honestamente et costumatamente, sichè demonstrareti essere nutriti in una corte de molte zentilleze », istruzione di Borso d’Este a Gattamelata e Giovan Giacomo della Torre, inviati a Tunisi, aprile 1464, ASMo, Ambasciatori, Tunisi 1. In merito, si veda I. Lazzarini, Écrire à l’autre. Contacts, réseaux et codes de communication entre les cours italiennes, Byzance et le monde musulman aux XIVe et XVe siècles, in D. Aigle, S. Péquignot (a cura di), La correspondance entre souverains, princes et cités-États. Approches croisées entre l’Orient musulman, l’Occident latin et Byzance (XIIIe-début XVIe siècle), Turnhout, 2013, p. 165-194.
113 Amico della Torre a Isabella d’Este, 27 giugno 1495, ASMn, AG, b. 1435, l. 77.
114 I. Lazzarini, News from Mantua. Diplomatic networks and political conflict in the age of the italian wars (1493-1499), in D. Unterholzner, H. Noflatscher, M. S. Chisholm, B. Schnerb (a cura di), Maximilian I. (1459-1519). Wahrnehmung, Übersetzungen, Gender, Innsbruck, 2011, p. 111-130. Per questa complessa dinamica diplomatica a più poli, basti un esempio : nel maggio 1498, Capilupi scrive da Milano a Isabella a Mantova « Tutte queste cose me ha ditto esso messer Antonio [Costabili], cum farmi intendere che le cose pare che se drizano a via ch’el se farà qualche facende, et che io ne volia dare adviso a la illustrissima signoria vostra, aciò che la possi a lo illustrissimo signore marchexo comunicarle », B. Capilupi a Isabella d’Este, Milano, 12 maggio 1498 (Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, XV : 1495-1498, a cura di A. Grati, A. Pacini, Roma, 2003, l. 174, p. 317).
115 Antonio Cenni de Ricavo a Ludovico Gonzaga, 16 dicembre 1451, ASMn, AG, b. 1099.
116 Ercole I d’Este a Giacomo Trotti, 14 maggio 1482, ASMo, Milano 10b.
117 « Ogni dì et hora il signor Ludovico cum mi ragiona et disputa de le cosse de Italia et de Franza », scrive Giacomo Trotti a Ercole d’Este, 5 febbraio 1494, ASMo, Milano 8, e ancora, sempre il Trotti interrogato da Ludovico il Moro, gli risponde che « ni era male informato, ma che pure ala domestica, al usato, gli diria quello che me occorreva » 31 gennaio 1494, ASMo, Milano 8.
118 Pellegrino Prisciani a Ercole I d’Este, Venezia, 27 dicembre 1491, ASMo, Venezia 10.
Auteurs
Università di Milano - nadia.covini@unimi.it
Università di Udine - bruno.figliuolo@uniud.it
Università del Molise - isabella.lazzarini@unimol.it
Università Federico II di Napoli - francesco.senatore@unina.it
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