Storie di dono : l’oggetto parlante si racconta
Note de l’auteur
Abbreviazioni speciali : CIE = Corpus Inscriptionum Etruscarum, Berlino-Roma-Pisa ; ET = H. Rix (Hrsg.), Etruskische Texte, I-II, Tübingen, 1991.
Texte intégral
1La documentazione epigrafica etrusca arcaica è composta principalmente da brevi testi, la cui ripetitività formulare consente di inserirli in poche tipologie precise, che registrano il possesso o il dono, ulteriormente connotate in base al contesto di riferimento (funerario, sacro, domestico)2. Si può dire pertanto che una « cultura epigrafica »3 ben definita è in atto sin dal VII secolo, quando il materiale è sufficientemente consistente e diffuso da poter ricavare informazioni di carattere generale.
2Alcune fra le più antiche iscrizioni etrusche sono però caratterizzate da una lunghezza e da una complessità formulare che spesso non hanno eguali nell’epigrafia vascolare, anche in epoca più recente4. Di fronte a questa situazione anomala, già rilevata in passato dagli studiosi5, ci si può domandare se non sia da rivedere il concetto di una rigida distinzione tra cultura orale e cultura scritta, il cui limite netto di demarcazione poggia sulla sola introduzione della scrittura6.
3In altre parole, mi propongo in questa sede di sottolineare la fondamentale appartenenza alla sfera dell’oralità di alcune delle attestazioni epigrafiche più antiche, che si configurano come una registrazione scritta di espressioni formulari orali, che a volte possiedono una tradizione espressiva autonoma, svincolata dallo strumento della scrittura.
4Se si accetta questo assunto, si può considerare aperta una finestra sulla più antica formularità orale, la cui tradizione coesiste accanto alle prime esperienze della registrazione epigrafica, ancora almeno fino alla fine del VII secolo ed in alcuni ambienti nella prima metà del VI.
5Centri come Caere o Narce sono stati definiti « città letterate» in virtù della presenza di documenti epigrafici arcaici lunghi e complessi7, che a volte fanno supporre intenti poetici o comunque prosodici8. Tale definizione acquista un diverso significato se si riferisce ad una precoce tendenza a registrare per via (epi)grafica documenti di una diffusa sensibilità «letteraria » orale. A tale proposito è significativo che questa tendenza non sembra aver avuto un particolare seguito nel corso dei secoli successivi, quando invece le possibilità letterarie della scrittura epigrafica sembrano venir meno di fronte ad una più stretta formularità funzionale9.
6La potenzialità della linea di ricerca qui proposta assume una particolare rilevanza nell’ambito dell’istituto del dono aristocratico, che vanta una precoce applicazione del mezzo scrittorio, tale da permettere di seguirne lo sviluppo, perlomeno nella fase finale della sua storia10. Grazie agli studi di M. Cristofani e G. Colonna, si è già osservato come i ripetitivi formulari del tipo muluvani-, a partire dall’ultimo quarto del VII secolo, siano il documento di un’ormai attardata tradizione formulare11, ridotta ad uno schema essenziale che sembra aver perduto la sua autonomia espressiva originale e che acquista valore e significato proprio dalla caratteristica di essere ripetuto sempre uguale a se stesso12.
7D’altro canto, tale caratteristica non è condivisa da alcuni testi di dono più antichi nell’ambito del VII secolo o perlomeno coevi, fino ai primi decenni del VI secolo a.C. In questi pochi ma significativi casi, il medesimo contenuto fattuale inerente alla sfera del dono aristocratico – come si ricava dal contesto e in base al ricorrere di termini noti nella semantica del dono – viene esplicitato attraverso espressioni complesse e diverse fra loro, con un uso della variatio inammissibile nella logica formulare dell’uso epigrafico più comune. Si nota il ricorso a frasi subordinate e/o correlate13, la presenza di voci verbali hapax14, il riferimento ad altri contesti o generi « letterari »15 o anche più semplicemente il ricorso a proposizioni coordinate per esprimere diversi concetti in sequenza16.
8Tale varietà espressiva si allontana dalla schematicità dei moduli epigrafici standard che si vanno affermando nella stessa epoca, per accostarsi piuttosto ad intenti retorici della lingua parlata. In posizione intermedia tra i testi più complessi e quelli ridotti alla banale formula standard di tipo muluvani-17, si collocano alcune attestazioni che associano alla formula essenziale una serie di altre indicazioni, che precisano ed arricchiscono il significato del dono ed il suo valore all’interno del contesto aristocratico cui si riferiscono.
9Nel testo veiente CIE 6673, apposto sull’anforetta di bucchero del tumulo Chigi, si individuano due diversi enunciati, relativi rispettivamente al dono da parte della « madre » (ati) Anaia a suo figlio Venel (verbo alice) ed alla firma da parte di un Velthur (verbo zinace), che è presumibilmente responsabile anche del ricco apparato epigrafico che riveste il vaso con valore sia decorativo che magico18.
10Sulla coppa di Narce ET Fa X.2 gli enunciati sono addirittura quattro, pur in assenza del destinatario del dono, comprendendo il donatore (mi aliqu auvilesi), il promotore (ale spura θevṇalθia), il decoratore o lo scriba (inpein mlerusi ateri mlaχuta ziχuχe) e la firma (mlaχta ana zinace)19.
11Si noti che in questo caso chi firma il vaso – l’« artigiano » – è qualificato come « il mlaχ Ana », ovvero (vir) bonus, esattamente come l’anonimo duenos latino che firma il famoso vaso di Roma20, che trova un ulteriore parallelo nel testo veiente CIE 6325, che si conclude con la « firma anonima » malaχ [malaka]ṣi ita menạqu21. In questi casi – e negli altri della stessa epoca in cui lo statuto sociale del firmatario non è esplicitato –, va riconsiderato il significato della « firma », che a volte potrebbe non riferirsi all’artigiano tout court, ma piuttosto al suo padrone, ovvero alla casa di cui egli fa parte22.
12L’anforetta Melenzani di Bologna ET Fe X.1, infine, pur nella lacunosità ed incertezza del testo epigrafico23, permette di riconoscere un’indicazione di proprietà (mi zavenuza venuś), una di dono (mini turuke …) ed una firma (ana mini zinake ×remiru), preceduta da altre espressioni, eventualmente indicanti la « decorazione » epigrafica del vaso ovvero il suo contenuto (si individua il verbo hapax śamake)24.
13È notevole riscontrare come in questi tre casi il passaggio di proprietà dell’oggetto è posto enfaticamente in primo piano, mentre la firma chiude la sequenza di proposizioni : e in realtà è facile osservare come la serie logica di eventi che hanno condotto dalla produzione dell’oggetto fino al suo dono viene ripercorsa dal testo in senso contrario.
14A questo proposito possono essere incluse nel discorso alcune iscrizioni meno complesse, articolate in due soli enunciati (qui distinti tramite un tratto lungo « — »), in cui vengono indicati rispettivamente :
15- il possesso e il dono :
ET Cr X.2 : mi ates qutum peticinas — aθineθi apu ala (terzo quarto del VII)25
ET Cl 2.3 : mi araθia velaveśnaś zamaθi — manụrke ṃụḷvenike tursikina (terzo quarto del VII)26
CIE 6703 : mi θanacvilus kanzina — venel muluvace ṣetiu (fine del VII)27
16- il possesso e la decorazione :
ET Cr X.1 : ṛaquvupi visθinas θahna — mini ka(r)kana {hi} ziχanace (prima metà del VII)
17- il possesso e la firma :
ET Fa X.1 : mi qutum lemauśnaś — ranazu zinace (metà del VII)28
ET OA X.1 : mi sataiies — avele acasce (fine del VI)29
18- il dono e la firma :
CIE 6449 : mini nuluvanice lariṡ leθaieṩ — mi zinace velθ[ur a]ncinieṩ (prima metà del VI, fig. 1)
19In tutti questi casi l’ordine (crono)logico degli eventi è invertito, dimostrando la non casualità di questa scelta, che sembra sottintendere una figura retorica utilizzata scientemente dai diversi scribi in un medesimo contesto di dono aristocratico.
20Già dagli studi di M. Cristofani sono state inserite a pieno titolo nella documentazione del dono aristocratico le iscrizioni di alcune stele funerarie di area settentrionale, che comportano l’indicazione del possesso e del dono30 :
ET Vn 1.1 [mi a]ụṿẹleś θeluskeś tuśnutnaị[eś --]panalaś — mini muluvaneke hirumi[n]a φersnaḷạś (seconda metà del VII)31
ET Vt 1.154 mi aviḷeś titeś : — [-(-)]ụχsie : mulenike [?] (terzo quarto del VI)32
ET Vt 1.85 mi larθia θarnies — [---]uχulṇi muluvuneke (terzo quarto del VI)
21In tutte queste attestazioni, alla normale indicazione di possesso si associa un enunciato di dono da parte di un soggetto maschile nei primi due casi e femminile nel terzo.
22Il metronimico che accompagna il nome del donatore nella stele di Vetulonia in assenza di gentilizio sembra una prova evidente della sua identità con il figlio del defunto33, similmente a quanto si può immaginare per la stele di Volterra34 ; per la stele di Pomarance, invece, la presenza di un gentilizio femminile depone a favore di un dono funerario da parte della moglie35.
23Esiste però un altro testo da considerare, finora rimasto al margine della ricerca a causa delle indubbie difficoltà di lettura e della necessità di ricorrere solo a vecchi apografi non controllabili, nonostante già Massimo Pallottino nei Testimonia Linguae Etruscae avesse segnalato il confronto con le meglio note stele di Volterra e Vetulonia36.
24Si tratta di una pietra tombale da Castelluccio di Pienza (ET Cl X.1), pubblicata dapprima dal Gamurrini37 e poi dal Danielsson38, con diversi apografi e proposte di restituzione (fig. 2, a-b).
25Nonostante le difficoltà di lettura ed integrazione di alcune parti (con le quali si è cimentato più di recente anche Morandi39), è facile inserire la lunga iscrizione nella casistica qui presentata.
a mi śuθi larθia laṛkien[a]ṣ ××(×)u×eveḷ[--- l]arikịụ saṭinas itunia muḷeveṇ[e ?]
b 1[---]ụve aṇpa ụśiṇuke 2mi vete ẓinake anianạ[s] 3[i]ṭụṇịạ 4ipa amake ạ[---] 5ipa emke ṇ[---]
26Il testo apposto sullo spigolo della lastra, infatti, contiene un doppio enunciato di possesso e di dono sul modello delle stele di Volterra e di Vetulonia40 ; il più complesso testo apposto sulla fronte, invece, dopo una lacuna iniziale difficilmente integrabile, in cui sembra possibile isolare il verbo hapax uśinuke41, contiene un testo di firma con il verbo zinace e gli elementi di quello che potrebbe essere un cursus honorum (ipa amake … ipa …)42.
27L’impaginato poco accurato43 – che aveva fatto escludere agli scopritori un nesso con il testo principale dello spigolo44 – trova un confronto abbastanza prossimo nella base di Tivoli (CIL I2, 2658), la cui datazione alla seconda metà del VI secolo si avvicina a quella della lastra45, ed in una dedica latina ad Ercole da Albano Laziale (CIL I2, 2659), che recentemente F. Coarelli ha proposto di rialzare al V secolo46. Si tratta in tutti e tre i casi di iscrizioni lapidarie scolpite sulla fronte verticale di un blocco, con una disattenzione programmatica all’ordinamento orizzontale ed un uso del ductus serpentino, che rimanda piuttosto all’impaginazione dei testi su instrumentum, denotando forse un lapicida poco avvezzo ai testi monumentali47.
28Nel caso della lastra di chiusura di una tomba, l’uso di un formulario di dono complesso, chiuso da un enunciato con il verbo zinace, non sembra potersi riferire all’intervento di un artigiano48. Con la dovuta cautela, perciò, proporrei di riconsiderare gli enunciati arcaici con zinace, che almeno in alcuni casi potrebbero non riferirsi a firme di artigiani, ma a quelle dei loro committenti o dei loro padroni49, che nel caso di un contesto aristocratico di dono sono chiamati in gioco per nobilitare ulteriormente l’oggetto al momento del suo passaggio di proprietà50.
29Ritornando alla questione dei testi di dono arcaici più complessi, pur nella spiccata varietà formulare, la casistica fin qui illustrata dimostra la ricorrenza di una serie di elementi inerenti alla storia dell’oggetto del dono, dalla sua produzione fino al passaggio di proprietà.
30Come si è visto, la sequenza degli eventi viene di regola ripercorsa a ritroso, attraverso un artificio retorico che già da solo denota l’intento letterario dei testi ed il loro riferimento ad una tradizione orale più ampia non documentata.
31L’oggetto donato, di regola è dotato di un pregio proprio e, almeno nei casi documentati, è sempre il risultato di una techne e quindi passibile di essere firmato51. La sua storia prende la forma di un resoconto paratattico della sequenza di eventi che hanno condotto dalla produzione (zinace) alla decorazione (ziχuχe) al dono (muluvanice) e al nuovo proprietario (formula di possesso).
32A questo aspetto strutturale del testo di dono così storicizzato se ne può associare un altro, a mio parere non meno importante, che si potrebbe definire « scenico ». Infatti, stante la fondamentale oralità della scrittura in quest’epoca – in base a quanto detto prima – e soprattutto della lettura – che per tutta la durata dell’antichità è prevalentemente ad alta voce52 –, l’uso formulare dell’oggetto parlante non è altro che un espediente scenico in cui il lettore presta la sua voce all’oggetto, che racconta la propria storia in prima persona53.
33Una volta individuati gli aspetti retorici e scenici del racconto del dono, è forse possibile osservare sotto una luce diversa il fenomeno entro il contesto aristocratico orientalizzante. In tal senso, hanno senz’altro un valore pregnante i confronti che si possono fare con alcuni brani dell’epica omerica in cui al semplice dato del dono si aggiungono notizie sull’origine dell’oggetto e sulla sua storia pregressa54. È interessante notare come in tali casi l’oggetto di dono sia sempre un prodotto artistico o che comunque ha richiesto l’intervento di un artigiano : come nel caso dei crateri d’argento sidonii (Il. XXIII, 741-749, e Od. IV, 615-619), della coppa trace di Priamo (Il. XXIV, 234-235) o perfino delle armi di Achille (Il. XIX, 21-23)55. E ciò spicca ancor di più in considerazione delle poche occorrenze di questa forma di dono storicizzato, nel gran numero di esempi di dono aristocratico nei poemi omerici. Si direbbe pertanto che ciò che accresce il valore dell’oggetto al punto di richiedere il racconto della sua produzione e committenza (e quindi del suo ingresso nel circuito del dono) sia proprio la fabbricazione ad opera di artigiani di fama, se non addirittura divini.
34La « firma » di un prodotto artistico è quindi più antica della scrittura, nella misura in cui la consapevolezza del valore di una produzione di alto livello viaggia assieme all’oggetto nel momento in cui questo passa di mano. La registrazione epigrafica della firma garantisce la conservazione di tale memoria a supporto della tradizione orale56.
35In Etruria l’uso della firma si ritrova significativamente in associazione originaria con i formulari di dono57, a somiglianza della tradizione epica omerica ; nel mondo greco i formulari di firma compaiono invece di regola isolati58, ma va notata la coincidenza cronologica, che ne vede la diffusione nel corso del VII secolo, soprattutto a partire dal 640 a.C.59.
36A conclusione di questa disamina, si può ragionevolmente ritenere di aver recuperato un aspetto della cerimonialità orale del dono aristocratico orientalizzante, che prevedeva il resoconto della « genealogia » dell’oggetto donato e della sua entrata in circolazione, da ripetersi ogni volta che esso cambiava di proprietario60. Le notizie venivano tramandate dapprima oralmente61 ; l’avvento della scrittura ha consentito di fissare all’oggetto la memoria storica della firma e della committenza62, aiutando e poi sostituendo la tradizione orale, attraverso la lettura dell’iscrizione da ripetere (ogni volta) al momento del dono63.
37La standardizzazione dei formulari e la dissociazione dei diversi elementi, infine, segnano la crisi dell’istituto del dono aristocratico, in coincidenza con la fine dell’età orientalizzante64.
Notes de bas de page
2 Cfr. già G. Colonna, L’écriture dans l’Italie centrale à l’époque archaïque (1988), in G. Colonna, Italia ante Romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998), III, Pisa-Roma, 2005, p. 1703-1712, spec. p. 1706 s.
3 E. Benelli, Alle origini dell’epigrafia cerite, in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria meridionale, Atti del XXIII convegno di studi etruschi ed italici (Roma, Veio, Cerveteri/Pyrgi, Tarquinia, Tuscania, Vulci, Viterbo, 1-6 ottobre 2001), Pisa-Roma, 2005, p. 205-207.
4 Si veda un elenco riportato da G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1708 s., cui vanno aggiunte per il discorso che qui si affronta ET Fa X.2, Ve X.1 Cr X.1, Ta 2.1 e Ta 3.1, distribuite lungo il corso del VII secolo a.C.
5 Cfr. p. es. M. Cristofani, Il ‘dono’ nell’Etruria arcaica, in ParPass, 30, 1975, p. 132-152, spec. p. 140 ; G. Colonna, C. Morigi Govi, L’anforetta con iscrizione etrusca da Bologna (1981), in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1667-1679, spec. p. 1667 ; G. Sassatelli, Il principe e la pratica della scrittura, in Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa, Cat. della Mostra (Bologna, 1 ottobre 2000-1 aprile 2001), Venezia, 2000, p. 307-317, spec. p. 315 ss.
6 V. G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1708, con riferimento ad una fase demaratea delle litterae etrusche a partire dalla metà del VII secolo a.C. Cfr. ora anche D.F. Maras, Traces of Orality in Writing, in Etruscan Literacy in its Social Context, Proceedings of the International Meeting (London, September 22nd-23rd, 2010), London, in stampa.
7 Cfr. p.es. G. Colonna, Una nuova iscrizione etrusca del VII secolo e appunti sull’epigrafia ceretana dell’epoca (1970), in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1575-1603, spec. p. 1587, e G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1708 ; G. Sassatelli, art. cit. (nota 4), p. 309.
8 Cfr. G. Bagnasco Gianni, Iscrizioni con sillabe ripetute : un inedito da Tarquinia, in A. Sartori (a cura di), Scripta volant?, Atti del Secondo Incontro di Dipartimento sull’Epigrafia (Milano, 5 maggio 2004), ACME, 58, 2, 2005, p. 77-88, spec. p. 84 ss., e G. Bagnasco Gianni, Lettere e immagini : esempi etruschi di parola ispirata, in D.F. Maras (a cura di), Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all’opera di Giovanni Colonna, Pisa-Roma, 2011 (Studia Erudita, 14), p. 185-192.
9 Cfr. D.F. Maras, Il dono votivo, gli dei e il sacro nelle iscrizioni etrusche di culto, Pisa-Roma, 2009 (Biblioteca di Studi Etruschi, 47), p. 29 s.
10 Cfr. M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 145 ; G. Colonna, Duenos (1979), in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1819-1826, spec. p. 1822 s.
11 Cfr. M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 143 e p. 145.
12 Cfr. M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 135 ss. ; M. Cristofani, Iscrizioni e beni suntuari, in C. Ampolo, G. Bartoloni, A. Rathje (a cura di), Aspetti delle aristocrazie fra VIII e VII secolo a.C., Atti della tavola rotonda (Roma, 1984), Opus, 3, 2, 1984, p. 319-324, spec. p. 320; G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1706; e v. ora anche D.F. Maras, op. cit. (nota 8), p. 47 ss.
13 Un esempio chiaro nel testo del kyathos della Tomba del Duce di Vetulonia (ET Vn 0.1 : nac… iχ…), la cui pertinenza alla sfera del dono è stata ribadita da G. Camporeale, Punti e appunti sull’epigrafe della Tomba del Duce, in StEtr, 35, 1967, p. 603-607, e M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 140. Si veda anche il piede di calice da Narce (ET Fa X.2 : inpein…), su cui cfr. D.F. Maras, Munis turce. Novità sulla basetta di Manchester, in RendPontAc, 73, 2001, p. 213-238, spec. p. 234 ss., e D.F. Maras, op. cit. (nota 8), p. 24 s.
14 Come p. es. śamake (ET Fe X.1), uśinuke (Cl X.1); v. infra.
15 Come la sfera amorosa afroditica (ET Fa 0.4), l’ambito simposiaco (forse Fa X.1 e Cr 0.4) o quello religioso/funerario (Ve X.1 e Cr 0.1).
16 V. gli esempi analizzati più avanti nel testo.
17 Per la quale si veda ora D.F. Maras, op. cit. (nota 8), p. 20 ss., e 47 ss., con bibliografia precedente.
18 Cfr. G. Bagnasco Gianni, art. cit. (nota 7), p. 87, D.F. Maras, Note in margine a CIE II, 1, 5, in StEtr, 73, 2007, p. 237-248, spec. p. 241 s., e ora G. Colonna, Firme di artisti in Etruria, in AnnFaina, 21, 2014, p. 45-74, spec. p. 50 s.
19 Cfr. D.F. Maras, art. cit. (nota 12), p. 236 ss., D.F. Maras, Questioni di identità : Etruschi e Falisci nell’Agro Falisco, in G. Cifani (a cura di), Tra Roma e l’Etruria. Cultura, identità e territorio dei Falisci, Roma, 2013, p. 265-285, p. 271 ss., e ora G. Colonna, art. cit. (nota 17), p. 51.
20 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 9), p. 1820 ss.
21 Cfr. G. Colonna, A. Di Napoli, in REE, 65, 2002, n. 71, e v. ora D.F. Maras, art. cit. (nota 17), p. 237 s.
22 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 9), p. 1820, e G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1707 s. Diversamente ora G. Colonna, art. cit. (nota 17), p. 51, propone di considerare l’aggettivo mlaχ un espressione di autoelogio da parte dell’artigiano.
23 Fondamentale rimane la lettura di G. Colonna in G. Colonna, C. Morigi Govi, art. cit. (nota 4), p. 1669-1672, in parte emendata, non sempre con validi motivi, da H. Rix (ET Fe X.1). V. ora G. Colonna, art. cit. (nota 17), p. 52.
24 Cfr. G. Colonna, C. Morigi Govi, art. cit. (nota 4), p. 1675 s., e G. Sassatelli, art. cit. (nota 4), p. 317.
25 In questo caso, il verbo di dono è compreso in una seconda iscrizione, apposta da mano diversa, che impone la prescrizione di « donare » (ala) il vaso nell’*aθina (v. infra, nota 27) e sembra quindi avere una funzione diversa dalla semplice registrazione del dono avvenuto. Cfr. G. Colonna, in StEtr, 64, 1998, p. 416, e v. ora anche D.F. Maras, op. cit. (nota 8), p. 55.
26 Cfr. già M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 139 e p. 145 ; G. Sassatelli, art. cit. (nota 4), p. 316.
27 In questo caso si aggiunge anche la firma dell’artigiano, che era stata precedentemente apposta sul vaso prima della cottura ed è pertanto estranea al formulario, ma fa parte integrante della storia dell’oggetto, così come è raccontata dalle iscrizioni nel contesto del dono aristocratico. Cfr. D.F. Maras, Note sull’arrivo del nome di Ulisse in Etruria, in StEtr, 65-68, 2002 (2003), p. 237-249, spec. p. 237 ss., D.F. Maras, art. cit. (nota 17), p. 243 s., e G. Colonna, art. cit. (nota 17), p. 54 s.
28 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 17), p. 52. Anche qui una seconda iscrizione, contenente altre espressioni oscure, potrebbe arricchire di notizie il resoconto della storia dell’oggetto : si noti la presenza di una sequenza aθine[---], confrontabile con quella di ET Cr X.2, su cui v. G. Colonna, in REE, 64, 1998, p. 416, e D.F. Maras, op. cit. (nota 8), p. 337.
29 Vedi però G. Colonna, art. cit. (nota 17), p.47, nota 15, che pensa piuttosto a un verbo di dono.
30 M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 144.
31 La lettura φersnalạś della parte finale del testo segue la proposta di H. Rix, ET Vt 1.1 ; l’ipotesi di una integrazione φersnalnaś avanzata da A. Maggiani, Tipologia tombale e società. Chiusi in età orientalizzante, in AnnFaina, 7, 2000, p. 249-275, spec. p. 256, fig. 1 (con f iniziale, credo per un errore di stampa), e p. 270, n. 12, riposa sull’apografo di G. Buonamici, Epigrafia etrusca, Firenze, 1932, tav. XVII, che include però nel tracciato epigrafico anche parte dei tratti che costituiscono il motivo a zig-zag sulla sommità della stele. Sembra preferibile invece espungere tali tratti, identificando un finale -alạś o eventualmente solo -alś. Vedi già G. Colonna, Nome gentilizio e società (1977), in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1805-1818, p. 1815 ss., e più di recente P. Poccetti, Etrusco Feluke - Faliscus? Note sull’iscrizione della stele arcaica da Vetulonia, in StEtr, 63, 1997, p. 281-290, e ancora A. Maggiani, Auvele Feluskes. dela stele di Vetulonia e di altre dell’Etruria settentrionale, in RdA, 31, 2007, p. 67-75. Per θeluskeś seguo invece L. Agostiniani, Feluskeś o Θeluskeś sulla stele di Vetulonia?, in D.F. Maras (a cura di), op. cit. (nota 7), p. 177-184.
32 Si noti che una seconda parte dell’iscrizione era probabilmente scolpita sul bordo di destra della lastra, oggi perduto a seguito di un intervento moderno, ma ancora conservato e riconoscibile in un disegno rinascimentale di Raffaele Maffei (cfr. G. Cateni, Volterra. Museo Guarnacci, Pisa, s.d. [ma 1988], p. 36). Il testo poteva pertanto essere più complesso e comprendere altri elementi della storia del dono.
33 Come mi conferma il Prof. Colonna, con il quale ho avuto modo di confrontarmi su questo e su altri argomenti, e che ringrazio calorosamente per gli utili consigli. Assume quindi un diverso valore, riportandola ad un contesto familiare, la prospettiva avanzata da M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 145, che queste iscrizioni individuino un contratto fra « capi », « che può forse sugellare una sorta di successione attraverso il « dono » della stele funeraria ».
34 In tal caso sembra allettante la possibilità di ipotizzare anche in questo caso la presenza di un metronimico, forse perduto nella lacuna in fondo al testo della stele (vedi supra, nota 31). Un confronto dirimente per l’erezione di una stele funeraria da parte dei figli del defunto viene dall’iscrizione tardo-arcaica di Saturnia, in cui la condizione di « figli » dei dedicanti è esplicitata direttamente ; cfr. A. Maggiani, Nuovi etnici e toponimi etruschi, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino (Firenze, 1996), Pisa-Roma, 1999 (Biblioteca di Studi Etruschi, 34), p. 47-61, spec. p. 51 ss., e v. G. Colonna, in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1793.
35 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 30), p. 1814, nota 49.
36 TLE2, p. 73, ad n. 506.
37 NSc, 1890, p. 318 ss., con apografo meno preciso di quello del Danielsson, ma apparentemente in alcune parti più completo, come se fosse stato realizzato quando la pietra era meglio conservata (fig. 2, b).
38 CIE 1136.
39 A. Morandi, Note archeologiche ed epigrafiche su Castelluccio di Pienza, in AnnPerugia, 23, 1985-1986, p. 225-239, che ha il merito di aver riportato l’oggetto all’attenzione della comunità scientifica, e A. Morandi, Nuovi lineamenti di lingua etrusca, Roma, 1991 (Scoperta e avventura, 5), p. 106-111.
40 La sequenza che segue il gentilizio del defunto, purtroppo irrimediabilmente corrotta, ha qualche possibilità di essere integrata con un patronimico ed eventualmente con un metronimico per confronto con la formula onomastica della stele di Vetulonia (su cui cfr. G. Colonna, art. cit. [nota 30], p. 1815 s.). In questo caso, però, il gentilizio del donatore sembra essere diverso da quello del donatario : la lettura saṭinas sembra confermata in base allo stato di conservazione attuale della lastra apprezzabile in fotografia (cfr. A. Morandi, art. cit. [nota 38], p. 225-239, tavv. I-II). Da notare anche la distribuzione delle sibilanti secondo l’uso meridionale a fronte della presenza del kappa ; cfr. ibid., p. 236.
41 Forse connesso con il « bruciare » (e quindi con un rito crematorio ?), se confrontabile con uśil, su cui v. ora C. de Simone, Etrusco ušil « sole » e il gentilizio latino AURELIUS : problemi storico-linguistici, in Incidenza dell’antico, 7, 2009, p. 109-135, spec. p. 132 s., con bibl.; cfr. però H. Rix, Teonimi etruschi e teonimi italici, in AnnFaina, 5, 1998, p. 207-229, spec. p. 220 s.
42 V. già A. Morandi, art. cit. (nota 38), p. 238 s., e K. Wylin, Il verbo etrusco : ricerca morfosintattica delle forme usate in funzione verbale, Roma, 2000, p. 294.
43 Cfr. M. Pallottino, TLE2, p. 73 : « inscriptionibus tortuose et quasi sine lege ductis ».
44 Cfr. G.F. Gamurrini, cit. in CIE 1136 : « le brevi epigrafi della fronte sono staccate, indicanti varî nomi, che non sembrano siano di coloro, che successivamente furono deposti ».
45 Si veda ora un nuovo apografo in D.F. Maras, Caratteri dell’epigrafia latina arcaica del Lazio meridionale, in L. Drago Troccoli (a cura di), Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna, Roma, 2009, p. 431-439, spec. p. 436, fig. 1.
46 F. Coarelli, Ercole in Etruria e a Roma, in AnnFaina, 16, 2008, p. 373-382 ; a parere di chi scrive la datazione della base non può salire oltre l’ultimo quarto del secolo o, meglio, la prima metà del successivo.
47 A titolo esemplificativo riporto alcuni casi confrontabili noti nell’epigrafia strumentale arcaica etrusca (CIE 6449, per cui v. fig. 1, e ET Pa 3.1) e umbra (il Marte di Todi) – con ductus serpentino –, ovvero in quella sabina (la fiaschetta di Poggio Sommavilla) – con diversi cola distribuiti in modo irregolare.
48 A meno di non pensare all’architetto, con qualche difficoltà per individuarne la personalità ed il ruolo.
49 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 9), p. 1819 s., e G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1707 s. ; v. anche G. Sassatelli, art. cit. (nota 4), p. 315.
50 Al caso di ET Fs 6.1 (mi zinaqu larθuzale kuleniiesi), già segnalato da G. Colonna, Firme arcaiche di artefici nell’Italia centrale (1975), in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1795-1804, spec. p. 1795 ss., vanno aggiunti quello già ricordato di ET Fa X.2 (…mlaχta ana zinace), un’altra attestazione funeraria in ET Fs 6.2 ([---]l ẓinaχe avizalạ ịχṇịịẹś), la « firma » della casa di Kusnai, ET Cr 7.2 (kvsnailise, v. ora G. Colonna, art. cit. [nota 17], p. 53), e forse anche la firma del pittore veiente del ciclo dei Rosoni CIE 6449 (mi zinace velθ[ur a]ncinies, v. fig. 1), per la quale però G. Colonna, art. cit. (nota 17), p. 57 (con bibl.), pensa piuttosto a un artigiano che gode della piena cittadinanza.
51 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1707 s.
52 V. p.es. Aug., Conf., VI, 3. Cfr. E.J. Kenney, Latin Literature. History and Criticism, Cambridge, 1982 (The Cambridge History of Classical Literature, 2), p. 12 (con bibl.).
53 Cfr. G. Colonna, Identità come appartenenza nelle iscrizioni di possesso dell’Italia preromana (1983), in G. Colonna, op. cit. (nota 1), p. 1851-1861, spec. p. 1851 s., e G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1706 ; in generale sulle iscrizioni con l’oggetto parlante, si veda L. Agostiniani, Le « iscrizioni parlanti » dell’Italia antica, Firenze, 1982.
54 Cfr. C. Ampolo, Il mondo omerico e la cultura orientalizzante mediterranea, in Principi etruschi, cit. (nota 4), p. 27-35, spec. p. 32 s.
55 Sul dono omerico, cfr. É. Scheid-Tissinier, Les usages du don chez Homère. Vocabulaire et pratiques, Nancy, 1994, spec. p. 164 ss., e D.F. Maras, F. Sciacca, Ai confini dell’oralità. Le forme e i documenti del dono nelle aristocrazie orientalizzanti etrusche, in Dalla nascita alla morte : Antropologia e archeologia a confronto, Atti del Convegno (Roma, 22 maggio 2010), Roma, 2011, p. 703-713, spec. p. 704 ; v. anche C. Ampolo, art. cit. (nota 53), p. 30 ss., che aggiunge alla lista l’elmo di Merione (Il., X, 262-271) e lo scettro di Agamennone (Il., II, 101-108), di cui non viene però narrato il momento del passaggio di proprietà, bensì la storia precedente al possesso da parte rispettivamente di Ulisse e dell’Atride. In questa sede, vale la pena di sottolineare come in realtà il contesto narrativo del dono di Menelao a Telemaco e quello della coppa offerta da Priamo ad Achille dimostrano l’eccezionalità del passaggio di mano, che avviene per la necessità di sostituire il dono di cavalli con qualcosa di maneggevole ed altrettanto prezioso (Od., IV, 615-619) ovvero come exemplum di pietà paterna (Il., XXIV, 236-237 : « pure il vecchio non la serbò in casa, troppo voleva in cuore ricomprare il figliuolo » ; trad. R. Calzecchi Onesti).
56 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 49), p. 1795 s., e v. anche C. Ampolo, art. cit. (nota 53), p. 34, e D.F. Maras, F. Sciacca, art. cit. (nota 54), p. 707 s.
57 Cfr. G. Colonna, art. cit. (nota 1), p. 1707 s. : « Les artisans connaissent, parmi les autres technai, aussi celle de l’écriture et la mettent au service de leurs commanditaires ».
58 Cfr. M. Guarducci, Epigrafia Greca, III. Epigrafi di carattere privato, Roma, 1974, p. 471-485, e D.F. Maras, ΕΓΡΑΨΕΝ vs. ΕΠΟΙΗΣΕΝ nelle firme di Euphronios : rapporti di prestigio tra le arti del pittore e del vasaio, in RdA, 29, 2005, p. 149-154, spec. p. 149 s., nota 2, con bibliografia precedente.
59 Quando iniziano a diffondersi anche le firme con ἔγραψεν, cfr. F. Villard, L’apparition de la signature des peintres sur les vases grecs, in RÉG, 115, 2002, p. 778-782, spec. p. 779 s., e v. anche G. Colonna, art. cit. (nota 49), p. 1796. Sul significato della firma in ambito greco, cfr. D.F. Maras, art. cit. (nota 57), p. 149-151.
60 Cfr. C. Ampolo, La circolazione dei beni di prestigio, in La formazione dela città nel Lazio, Atti del seminario (Roma, 1977), DdA, n.s., 2, 2, 1980, p. 141-164, spec. p. 144 ; M. Cristofani, art. cit. (nota 11), p. 322 ; G. Sassatelli, art. cit. (nota 4), p. 315.Per alcuni evidenti esempi di tesaurizzazione di beni di prestigio – che potrebbero presupporre circuiti di dono di lunga durata –, si vedano M. Gras, in Principi etruschi, cit. (nota 4), p. 22, e B. d’Agostino, ibid., p. 43 ss. (heroon di Lefkandi) ; C. Morigi Govi, ibid., p. 333 s., e 374, n. 570 (situla della Certosa) ; e in generale v. M. Gras, ibid., p. 15 s.
61 Fino ad ora non c’è prova che venissero via via arricchite dalla narrazione degli eventuali ulteriori passaggi di mano, anche se può essere suggestivo immaginarlo. Cfr. D.F. Maras, op. cit. (nota 8), p. 56.
62 G. Colonna, art. cit. (nota 49), p. 1795, e G. Colonna, art. cit. (nota 9), p. 1823.
63 L’indicazione del destinatario teoricamente congela il dono, impedendo la successiva trasmissione dell’oggetto : in tali casi si può immaginare che la registrazione epigrafica riguardi particolari occasioni cerimoniali, quali doni nuziali (M. Cristofani, art. cit. [nota 4], p. 145) o più spesso funerari (G. Colonna, art. cit. [nota 52], p. 1860 s.). Ma non va dimenticata la testimonianza omerica sul dono di Menelao a Telemaco, che non comporta la cancellazione del precedente atto di dono, ma al contrario ne trae ulteriore prestigio (v. però supra, nota 54). Cfr. anche con impostazione diversa in M. Cristofani, art. cit. (nota 11), p. 322. Un diverso genere di formulario epigrafico, che sottolinea la potenziale ripetitività del dono, destinato a rimanere aperto, è stato invece riconosciuto da G. Colonna, art. cit. (nota 9), p. 1823, nei testi elogiativi anonimi del tipo mi mlaχ mlakas, cui si accosta con una più complessa articolazione il testo latino apposto sul vaso di Duenos.
64 M. Cristofani, art. cit. (nota 4), p. 143 e p. 150 ss., e M. Cristofani, art. cit. (nota 11), p. 322 s.
Auteur
Columbia University, New York - danielemaras@email.it
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