L'utilizzazione dello statuto
La normativa locale nella documentazione pubblica e privata delle città comunali italiane
p. 205-216
Résumés
Negli ultimi anni è apparso sempre più evidente che gli statuti comunali non vanno studiati isolatamente, ma come parte di un più ampio e complesso sistema di documenti prodotti dai governi cittadini e eventualmente dai poteri superiori. Il saggio vuole dunque offrire una panoramica su questo rapporto fra scritture normative e atti amministrativi, prendendo in considerazione le menzioni degli statuti nelle allegationes giuridiche, negli atti giudiziari e nei verbali dei consigli comunali. La frequenza delle citazioni rappresenta una prova significativa del valore concreto degli statuti e della loro effettiva utilizzazione nella pratica amministrativa delle città comunali italiane.
In recent years it has become increasingly clear that communal statutes should not be studied in isolation, but as part of a larger and more complex system of documents produced by city governments and eventually by higher powers. The paper aims to offer an overview of this relationship between normative writings and administrative acts, taking looking at the mentions of the statutes in the legal allegationes, in the judicial acts and in the minutes of the municipal councils. The frequency of citations represents significant evidence of the concrete value of the statutes and of their effective use in the administrative practice of Italian communal cities.
Entrées d’index
Keywords : statutes, XIIIth-XIVth centuries, writings
Parole chiave : statuti, XIII-XIV secolo, scritture
Texte intégral
Lo statuto fra norma e monumento
1Gli statuti rappresentano da sempre per i ricercatori italiani una fonte dalla controversa utilizzazione, sui quali, a partire dalla rinascita degli studi sul tema negli anni Ottanta del secolo scorso1 – dopo l’eclisse dettata dalla sostanziale diffidenza espressa nel secondo dopoguerra da Francesco Calasso e dalla sua scuola per le fonti normative locali2 – non è mai cessato un vivace dibattito interpretativo3. Dato per acquisito, infatti, il superamento della lettura positivista, che pretendeva di individuare una perfetta rispondenza fra il dettato della norma e la vita reale4, gli storici hanno dibattuto soprattutto sul problema dell’effettiva vigenza, che divide gli studiosi fra chi valorizza il contenuto della normativa e la sua capacità di agire direttamente sullo «spazio giuridico»5 delle città e chi, ridimensionando l’effettiva applicazione dei testi nei tribunali, ne prende in considerazione soprattutto il valore simbolico e monumentale. Insomma, gli studi sugli statuti ormai da alcuni decenni si trovano di fronte a un bivio interpretativo: per utilizzare le parole di Gherardo Ortalli, essi si muovono sempre «tra funzione normativa e valore politico», ossia tra la «lunga vigenza» delle disposizioni statutarie, riprodotte inalterate per secoli, e la loro progressiva torsione, fra aggiornamenti, glosse e integrazioni da parte dei poteri superiori, che rischiavano di lasciare alle leggi municipali soprattutto una funzione di testimonianza politica dei principi ordinatori e riconosciuti della comunità6.
2Una parte significativa delle ricerche si è di conseguenza concentrata sulla simbolicità dello statuto, la cui importanza è sembrata prevalere nettamente sul suo effettivo valore giuridico. Ne derivava l’immagine di una normativa locale monumentale, arcaica, trascritta senza aggiustamenti o pedissequamente ricalcata da raccolte elaborate altrove, testi che sembravano essere condannati a una sostanziale inutilità pratica, a restare confinati nell’ambito dei vari libri grossi, verdi, incatenati e quant’altro conservati o esibiti nelle sedi dei comuni, memoria o segno dell’identità municipale, ma incapaci di incidere davvero sulla prassi giudiziaria e sulla vita quotidiana dei cittadini7. Proposto con forza per la tarda età medievale, il problema della vigenza e dell’effettiva utilizzazione dello statuto si è esteso anche agli studiosi dei secoli precedenti, soprattutto in virtù delle suggestioni formulate da Mario Sbriccoli – su cui ritorneremo – sul contrastato rapporto fra la normativa locale e l’attività interpretativa, spesso in realtà drasticamente distorsiva, compiuta in sede teorica e giudiziaria dagli esperti di diritto8. Si è dunque creato un robusto filone di studi nell’ambito del quale, per usare le parole di Gian Savino Pene Vidari, «lo statuto, documento giuridico in sé, viene considerato quindi secondo un’ottica per lo più storico-politica», quale «espressione concreta, maggiore o minore, dell’autonomia locale»9.
3La nettezza di questa ricostruzione, peraltro, non ha trovato unanimi gli studiosi. Rodolfo Savelli ha recentemente contestato con vivacità tali letture limitative che ripresenterebbero, sotto nuova forma, «giudizi che risalgono ai secoli passati», figli di una svalutazione della normativa locale programmaticamente ricercata fra Sette e Ottocento al fine di affermare quella nazionale10. Quantomeno, andrebbe accuratamente valutata la prospettiva cronologica, evitando di proiettare sui secoli XIII e XIV i dibattiti propri dell’età moderna: come ha osservato Giorgio Chittolini, il «lungo tramonto» degli statuti municipali rappresenta un crepuscolo durato per almeno quattro secoli, il quale comunque non impedì che ancora nel pieno Settecento intellettuali di rilievo rivendicassero l’utilità e la necessità di una rivitalizzazione della tradizione normativa locale11. Un caso esemplare del tenore del dibattito è quello della diffusione dei cosiddetti «copiaticci», ossia della ripresa letterale di capitoli o intere rubriche, passate dalle raccolte legislative urbane a quelle delle comunità rurali, talvolta con esiti paradossali e riferimenti, trascritti tali e quali, a realtà totalmente differenti12: fra gli studiosi si riscontra in effetti una singolare divergenza nella valutazione di questa pratica, dato che alcuni l’hanno considerata semplicemente come la prova della scarsa importanza di cosa si trovasse realmente nel testo di leggi che avevano un valore prevalentemente simbolico, mentre altri ne hanno messo in luce l’importanza culturale, quale frutto della circolazione delle idee giuridiche e dei professionisti del diritto che le divulgavano, o quella politica, leggendola come esplicito segno di sottomissione a una potenza esterna o di appartenenza a un determinato contado13. Le indagini sul caso ligure, ad esempio, hanno mostrato che i rimandi agli statuti urbani nei testi normativi delle comunità rurali, permettono di disegnare con nettezza le aree di influenza dei diversi potentati attivi sul territorio e, in particolare, delle civitates di Genova, di Savona e di Albenga14. L’impressione è inoltre che questi processi siano di limitata importanza per la piena età comunale e che vadano diffondendosi e affermandosi soprattutto fra il tardo XIV e il XVI secolo, mentre i testi del XIII presentano assai raramente testimonianze di tale pratica15.
4La differenza di letture, in effetti, sembra rispecchiare anche un diverso approccio cronologico. Il filone che predilige l’interpretazione politica e simbolica dello statuto si rifà prevalentemente alla tradizione tardo-medievale, dalla fine del XIV al XVI secolo16, quando le raccolte normative municipali dovettero confrontarsi sempre più spesso con una legislazione «statale», emanata dalle città dominanti o dai signori, spesso ambiziosamente pervasiva e, come è stata definita quella viscontea, «alluvionale», che pretendeva di limitare drasticamente gli spazi di applicazione di quella locale17. Gran parte del merito per aver mantenuto viva l’attenzione sugli statuti municipali del XIII secolo e sulla loro vigenza va sicuramente a Hagen Keller e ai suoi allievi della cosiddetta Scuola di Münster, i quali, negli anni Novanta del secolo scorso, hanno dedicato un’attenzione particolare alle fonti normative nell’ambito di un più ampio progetto sulle «scritture della prassi» nell’Italia medievale18. In quest’ottica, essi hanno dato un contributo decisivo nell’esaminare i codici statutari come parte di un sistema documentario complesso e articolato, anche se, dato il focus del loro interesse, furono talvolta più interessati alle attestazioni fornite dagli statuti sul funzionamento del complesso delle scritture pubbliche che agli statuti stessi19.
5In effetti, una delle più significative acquisizioni della ricerca degli ultimi anni è che lo statuto non va esaminato isolatamente, ma come parte di sistemi più ampi, di consuetudini e di diritti da un lato, di scritture dall’altro. Un luogo «che rinvia al ‘resto’», per usare le parole di Pio Caroni, e che quindi non può essere compreso se ridotto a uno splendido isolamento20. Le ricerche sono state particolarmente vivaci per quanto riguarda l’età signorile, con un’attenzione peculiare alla dialettica fra norme municipali e leggi del principe, che ha favorito la percezione dello statuto come parte di un insieme più vasto e articolato, che richiedeva una precisa definizione, anche archivistica, delle fonti del diritto locale21. Pure fra Due e Trecento, d’altronde, come ha ben mostrato Mario Ascheri per il caso di Siena, le raccolte statutarie accoglievano solo una parte della produzione normativa cittadina, che comprende anche brevia, ordines e altre disposizioni, che potevano essere trascritti in quaderni separati o addirittura riportati sui libri iurium22, mentre il vero e proprio «statuto del Comune» accoglieva di preferenza «la normativa più importante e meno fluttuante»23.
6È dunque indubbio che gli statuti cittadini erano capillarmente presenti nel sistema delle scritture urbane, anche se finora non sono state effettuate ricerche sistematiche in tale campo. Qui mi dovrò dunque limitare a una ricognizione preliminare, cercando molto schematicamente di individuare alcuni ambiti nei quali le ricerche degli ultimi anni hanno messo più vivacemente in luce l’interazione fra gli statuti e le altre forme documentarie cittadine.
Alla ricerca degli statuti perduti
7I casi in cui la presenza degli statuti nelle scritture civiche è stata messa in maggiore evidenza dagli studiosi sono stati, forse ovviamente, quelli in cui le citazioni hanno permesso di datare o addirittura di ricostruire parzialmente raccolte normative oggi perdute nella loro redazione originale. Se spesso, come può dimostrare ad esempio il caso di Bergamo, sono le stratificazioni interne agli statuti stessi a consentire l’identificazione di redazioni precedenti24, le raccolte normative oggi perdute hanno lasciato tracce consistenti anche in altra documentazione, consentendo così di verificare la grande «permeabilità» fra i diversi sistemi scritturali del comune duecentesco, che vivevano anche di una fitta rete di rimandi reciproci.
8Così le citazioni incrociate, soprattutto in occasione delle scritture pattizie intercomunali, fra i libri iurium e i primi, oggi perduti, libri statutorum di Genova hanno consentito a Rodolfo Savelli di individuare una fitta attività di composizione di Brevia nel corso del XII secolo e del loro precoce strutturarsi in forma di volumi con capitoli rubricati entro i primi anni del Duecento25. Perduta è anche la prima sistemazione statutaria organica della Superba, realizzata negli anni Ottanta del Duecento e fortunatamente menzionata in un buon numero di atti diplomatici26. Purtroppo, però, questo tipo di documentazione consente solo di attestare l’esistenza dei volumina statutorum, senza però fornire indicazioni efficaci sul contenuto. Solo in parte più fruttuoso si è rivelato lo spoglio delle sentenze pronunciate dai giudici comunali e conservate presso gli archivi privati. Antonio Padoa Schioppa ha in tal modo individuato più di 70 menzioni dei perduti statuti milanesi del Duecento nella raccolta degli Atti del comune di Milano, fra il 1277 e il 1300, ma anche in questo caso si tratta di citazioni estremamente sintetiche e per lo più espresse in occasione di rinunce ad avvalersi a questo o quel capitolo statutario, in particolare nei riguardi della circolazione dei titoli di debito del comune27. La grande ricchezza della documentazione pubblica senese del Duecento ha invece permesso agli studiosi locali di ricostruire dettagliatamente le molteplici forme della produzione normativa anteriori al grande Constitutum del 1262. A seconda delle fonti, il livello di informazioni disponibili cambia drasticamente: in alcuni casi, capitoli interi furono sottoposti all’approvazione del consiglio della campana e dunque trascritti nei verbali del consiglio stesso, in altri disponiamo solo di menzioni più saltuarie, legate alle notazioni nei conti comunali (i famosi Registri delle Biccherne) delle spese per farli redigere, rilegare o addirittura miniare28.
9La fonte in assoluto più fruttuosa per l’identificazione delle raccolte statutarie oggi perdute si sono però rivelati i lunghi elenchi di allegationes previste dagli atti giudiziari dell’epoca, che possono essere a tal proposito una vera miniera di documentazione. Non di rado, infatti, nel corso di cause particolarmente complesse, gli avvocati dei postulanti inserivano nelle loro memorie copie di articoli statutari, al fine di rafforzare la base giuridica delle proprie rivendicazioni. Io stesso ho avuto la fortuna di scoprire l’esistenza di uno Statuto del popolo di Milano del 1302, finora totalmente sconosciuto, e di pubblicarne l’unico articolo noto, riportato in calce a un processo di pochi anni dopo29. Dove questa documentazione è particolarmente abbondante, ci si è anche potuti avventurare in ricostruzioni più sistematiche, come quella che recentemente Gian Paolo Scharf ha proposto della produzione statutaria aretina del Duecento, compiuta contando soprattutto sulle sullo spoglio sistematico degli atti conservati negli archivi dei principali enti ecclesiastici della città e del territorio30.
Modificare lo statuto
10Le ricerche di citazioni dei testi normativi disperse nella documentazione, soprattutto giudiziaria, sono assai diffuse: esse però offrono solo notizie indirette sull’effettiva utilizzazione degli statuti nell’attività politica e dei tribunali. È evidente, infatti, che le citazioni di norme particolari non sarebbero state utili in caso di loro mancata effettività, ma di fatto difficilmente tali fonti consentono di andare oltre. Uno dei campi in cui è più evidente la stretta interazione fra le raccolte statutarie e le scritture amministrative comunali è invece quello dei ripetuti interventi che le autorità comunali effettuavano sugli statuti stessi. La messa per iscritto di un corpus statutario più o meno organico, in effetti, non era destinata a concludere la stagione della produzione legislativa, dato che proprio la normativa così raccolta regolava e prescriveva i modi per procedere a ulteriori modifiche o aggiornamenti: come ha osservato Massimo Meccarelli «il particolarismo giuridico del comune è quindi il risultato di una complessa catena di produzione del diritto non della sola norma statutaria. C’è una potestas statuendi che opera dopo la redazione di uno statuto, e agisce nell’ambito dell’arbitrium»31.
11In questo dibattito, si è imposta con urgenza la necessità del ritorno a un rapporto con la fisicità dello statuto, nel suo codice originario32: esistono, è vero, testi statutari, soprattutto tardi, quasi congelati nella forma della loro redazione, ma altri volumi mostrano i segni di un’intensa, passata vitalità, presentandosi pieni di glosse, di note, di modifiche, che talvolta finiscono con l’occupare capillarmente ogni spazio vuoto delle pagine, a riprova di una frequente utilizzazione e di una continua necessità di aggiornamento33. Si tratta di una sedimentazione di testi difficile, se non impossibile, da restituire nel corpo di un’edizione, sicché non di rado i curatori si sono limitati ad ignorarla, privando così gli studiosi di uno strumento indispensabile per comprendere l’evoluzione del corpus normativo34.
12Modifiche, aggiornamenti e abrogazioni di capitoli statutari erano dunque atti assai frequenti, come testimoniano le raccolte stesse, nella loro stratificazione di norme modificate e sostituite, spesso intervenendo materialmente sui manoscritti esistenti, che venivano glossati o cancellati35. Questi mutamenti erano però raramente atti puramente tecnici, tanto che le decisioni sulla nomina o meno di commissioni di revisione poteva suscitare vivaci dibattiti in seno ai consigli cittadini36. Molto spesso vi era una precisa progettualità politica dietro ai cambiamenti. Sara Menzinger ha opportunamente sottolineato come nella seconda metà del Duecento si riscontri in diversi comuni a regime popolare la volontà di sottrarre alle commissioni di esperti giuristi la responsabilità dell’aggiornamento delle leggi e di avocare al corpo politico dei consigli comunali la revisione dei testi statutari. L’analisi dei verbali dei consigli comunali mostra le forti tensioni che si potevano scatenare in tali occasioni, come accadde a Siena nel 1258 e a Perugia nel 1280, dove la studiosa individua due tentativi abbastanza simili da parte delle assemblee comunali di ottenere il diritto esclusivo di interpretare e aggiornare la normativa civica37. La scelta degli uomini destinati alla scrittura o alla riscrittura dei testi diventa dunque oggetto di interesse, dato che costoro erano in grado di influenzare i contenuti e l’efficacia della raccolta38. La stessa forma assunta dalla normativa rimaneggiata e riformulata assumeva un valore politico e ideologico, come nel celebre caso dello statuto di Siena del 1310, programmaticamente redatto in volgare per renderlo accessibile al popolo39.
13Più frequenti rispetto ai veri e propri processi di revisione e di riformulazione del dettato statutario erano le semplici decisioni in deroga rispetto alle disposizioni normative vigenti. Queste erano diffusissime nella pratica consiliare, tanto che nelle deliberazioni fiorentine la prassi era regolata da una forma documentaria ad hoc, che prevedeva l’elenco preliminare dei capitoli statutari che si intendeva disattendere, seguita dai provvedimenti veri e propri e, infine, dalla votazione in proposito dei consiglieri40. Questo uso diffuso, che non risparmiava nemmeno i capitoli precisi, in teoria non modificabili, mostra come a Firenze all’epoca «la distinzione fra l’elemento normativo più stabile, lo statuto, e la legislazione corrente [fosse] veramente ridotta al minimo»41. Al contrario, a Siena negli stessi anni si registrò una situazione più complessa, che diede vita a nuove forme documentarie. Alla normativa statutaria incardinata nei Constituta si affiancò, come osserva Mario Ascheri, una «legislazione di dettaglio» di regolamenti e ordini, emanati dai Nove e approvati dal consiglio, talmente ridondante «che non si tent[ò] neppur più di farla periodicamente rientrare negli statuti», ma la si raccolse in appositi Libri degli ordinamenti. Rimaneva comunque indispensabile «il raccordo tra statuti in senso stretto e normativa corrente», da cui la redazione di nuovi «testi unici delle disposizioni riguardanti i vari uffici»42. Ancora più complessa era la procedura a Perugia, dove è attestata l’attività di gruppi di esperti di diritto che intervenivano a sciogliere le eventuali ambiguità dei testi statutari, talvolta sollecitati in tal senso dagli stessi magistrati urbani43: un’attività che, assieme a qualche carenza, sottolinea la perdurante vitalità dello statuto urbano, anche in quanto espressione della volontà politica del governo urbano. Non a caso, i capitoli sottoposti a valutazioni – anche ripetute e reiterate nel tempo – erano spesso fondamentali nell’assetto dei poteri pubblici cittadini, regolando i margini di azione inquisitoria del podestà e del capitano del Popolo, i criteri di elezione del podestà stesso e le modalità di assoluzione e di reintegrazione dei banditi nel corpo civico44.
14I testi consiliari, ci presentano insomma un panorama sfaccettato: i capitoli statutari che regolavano l’attività e le prerogative dei magistrati urbani erano dotati di una effettiva cogenza e, almeno fino alla metà del XIV secolo, non era possibile ignorarli, se non tramite apposite procedure e esplicite decisioni assunte dai consigli comunali. Nel corso del Trecento, poi, questa attività derogatoria si fece sempre più comune e pervasiva e contestualmente, come mostra il caso fiorentino, sempre meno complessa45: la necessità di conciliare il rispetto formale per la tradizione normativa civica e la funzionalità dei frequenti mutamenti di regimi, produsse, come hanno rilevato Massimo Vallerani e Lorenzo Tanzini, un’elaborazione di categorie nuove, che creavano appositi stati di eccezione, motivati dall’utilitas pubblica o dalla necessitas, che consentivano un più agile controllo politico sulle modifiche – provvisorie o definitive - delle leggi o sul mutamento degli ambiti di azione dei magistrati da esse regolati46.
Utilizzare lo statuto
15Se il rapporto fra gli statuti urbani e l’attività deliberativa dei consigli ha ottenuto negli ultimi anni una certa attenzione da parte degli studiosi, sappiamo assai meno sul rapporto fra testi normativi locali e prassi tribunalesca47. Si può in effetti affermare che l’appello lanciato alcuni anni fa da Attilio Bartoli Langeli perché si cercasse di integrare lo studio degli statuti con quello della restante documentazione giudiziaria è rimasto per l’età comunale soltanto in parte soddisfatto48. L’attenzione degli studiosi si è appuntata soprattutto su una precisa fase dell’attività dibattimentale in sede giudiziaria – in particolare penale – ossia i consilia che i giurisperiti dell’epoca pronunciavano quando venivano interpellati nella funzione di esperti, sia da parte dei giudici, sia dalle parti in causa49. Come è noto, il rapporto fra giurisperiti e statuti era stato affrontato da Mario Sbriccoli, nel suo fondamentale volume del 1969 su L’interpretazione dello statuto. Soprattutto sulla base delle compilazioni di Quaestiones disputate dai maggiori esperti di diritto, Sbriccolì evocò la debolezza formale delle raccolte statutarie di fronte all’aggressività di una generazione di giuristi ormai formatisi completamente alla scuola romanistica. Bisogna però chiedersi se tali raccolte non inducano una visione parzialmente distorta della realtà: di fatto le quaestiones giuridiche sono testi accademici e non repertori di sentenze e noi ignoriamo se i consilia proposti siano poi stati effettivamente accolti dai magistrati giudicanti.
16Le ricerche più recenti sui consilia, condotte più sugli atti conservati negli archivi giudiziari che sui testi accademici e ben sintetizzate pochi anni fa Massimo Vallerani, offrono un quadro assai più sfaccettato. Innanzitutto, egli sottolinea, anche nelle quaestiones i giuristi si proponevano di integrare più che di mutare il testo degli statuti, dato che quest’ultimo, necessariamente generico, spesso non riusciva a dar conto con la necessaria sottigliezza delle molteplici possibilità che si presentavano nella vita reale. Ancora, nei consilia prestati in tribunale i giurisperiti erano molto attenti al dettato degli statuti, soprattutto quando si trattava di stabilire se tutte le formalità da questi prescritte fossero state debitamente osservate prima di procedere in giudizio50. Insomma, gli interventi dei dottori in legge sullo statuto sembrano esser stati più conservativi di quanto comunemente si crede e, come ha ben mostrato Giuliano Milani per il caso di Bologna, spesso i giurisperiti si mostravano più ostili a quelle disposizioni normative che – come gli Ordinamenti sacrati e sacratissimi – a causa della la loro drasticità più si allontanavano dalla tradizione statutaria locale51.
17Vorrei qui chiudere con due brevi considerazioni integrative. In primo luogo, sarebbe da approfondire il rapporto fra statuti e giustizia anche nel campo del diritto civile: come si è accennato, lo spoglio delle allegationes presentate dalle parti può offrire molto materiale interessante, che però in questa prospettiva non è stato finora utilizzato al pieno del suo potenziale. Bisogna sottolineare, infine, che i volumi degli statuti potevano essere valorizzati non come fonti di diritto, ma come documenti probatori, soprattutto nelle cause che riguardavano le prerogative delle istituzioni civiche. Negli atti giudiziari prodotti dal comune di Vercelli per dimostrare i suoi diritti giurisdizionali su alcune località del contado, ad esempio, Petra Koch ha identificato alcune menzioni dei libri statutorum (fra cui una redazione del 1231, precedente al primo statuto noto), anche se esse sono in numero assai inferiore rispetto alla normale documentazione amministrativa, quali libri d’estimo, di taglia o giudiziari52. Indagini più approfondite in questi campi potrebbero dunque articolare ulteriormente la nostra conoscenza dell’uso concreto degli statuti nell’attività giudiziaria delle città italiane fra XIII e XV secolo.
18Spero così di esser riuscito a dar conto di un panorama di ricerca ancora frammentario, ma tuttavia piuttosto promettente. Mi sembra, infatti, in conclusione, che da quanto abbiamo appena visto emerga un’immagine solo apparentemente contraddittoria. Da un lato, infatti, risalta la vulnerabilità dello statuto, che poteva essere facilmente derogato ad opera di un parere di giurisperito, di un voto consiliare o anche, talvolta, del semplice accordo fra due privati davanti a un notaio, come dimostrano i rifiuti espressi degli atti privati milanesi di accettare i provvedimenti normativi che stabilivano l’equivalenza fra le carte di debito del comune e la moneta coniata53. D’altro canto, però, proprio la diffusione di queste pratiche dimostra la centralità degli statuti stessi, che avevano un ruolo fondamentale nell’indirizzare l’attività delle istituzioni politiche e giudiziarie e ai quali si poteva sì derogare, ma solo attraverso precisi atti formali e non, semplicemente, ignorandoli.
19Di conseguenza, quell’apparente vulnerabilità può essere interpretata anche come adattabilità. In un mondo comunale che conosceva continui e talvolta bruschi cambiamenti dei propri assetti politici, istituzionali, culturali e sociali, lo statuto si dimostrava abbastanza flessibile da non paralizzare le scelte immediate e necessarie, ma nel contempo abbastanza stabile da conservare anche attraverso questi cambiamenti il proprio ruolo di raccolta dei principi fondamentali che davano forma alla convivenza fra i cittadini.
Notes de bas de page
1 Santarelli 1993.
2 Si veda l’esauriente ricostruzione storiografica di Pene Vidari 1999, in particolare p. xlviii-lv.
3 Storti Storchi 2010, p. 37.
4 Su cui si rimanda ancora a Pene Vidari 1999, p. LXXI.
5 Prendo l’espressione da Storti 2016, p. 148.
6 Ortalli 1999.
7 Su questi temi si vedano i saggi raccolti in Dondarini 1995.
8 Sbriccoli 1969.
9 Pene Vidari 1999, p. LXXV.
10 Savelli 2006, p. 262.
11 Chittolini 1991, p. 40-45.
12 Chittolini 1995.
13 Piergiovanni 1999.
14 Braccia 1999.
15 Savelli 2006, p. 275-280.
16 Pene Vidari 1999, p. LXX.
17 Leverotti 2003, p. 168-177; sul concetto di normativa «alluvionale»: Caprioli (1989). Un’efficace panoramica rimane: G. Chittolini 1991.
18 Una presentazione del progetto è in Busch, 1990.
19 Keller 1998, Busch – Keller 1991.
20 Caroni 1995, p. 134.
21 Si vedano i saggi raccolti in Dondarini – Varanini – Venticelli 2003 .
22 Come accadde spesso in Piemonte: Grillo 2003, p. 16, Merati, 2010, p. 157.
23 Ascheri 2001, p. 149.
24 Storti Storchi 1984, p. 153-179.
25 Savelli 2003.
26 Rovere 2003, p. 917-918.
27 Padoa Schioppa 1995.
28 Ascheri, 1991, p. 147-155.
29 Grillo, 2013, p. 72.
30 Scharf, 2014, p. 475, docc. 2, 4 (Camaldoli), pp. 476-77, docc. 6-7 (Capitolo), pp. 478-80, doc. 8 (Olivetani), p. 485, doc. 10 (Capitolo), doc. 11 (Camaldoli), p. 487, doc. 12 (Capitolo), p. 489, doc. 13 (Olivetani).
31 Meccarelli, 1999, p. 113, cfr. anche Santarelli, 1997.
32 Lett 2014, in particolare : Chastang, 2014.
33 Guglielmotti 2014, parte 19.
34 Si vedano le considerazioni di Menestò 1997a e soprattutto di Ghignoli 2014.
35 Cammarosano 1991, p. 155.
36 Gualtieri 2009, p. 162, Cappelli, Giorgi, 2014.
37 Menzinger 2005, p. 86-88 e 124-126.
38 Lett 2017.
39 Su cui, con i rimandi alla bibliografia precedente, si veda Ascheri 2014.
40 Tanzini 2007, p. 32-34, 42-52.
41 Tanzini 2007, p. 44.
42 Ascheri 1991, p. 161.
43 Menzinger 2005, p. 157-183.
44 Caprioli 1996, p. 277-285.
45 Tanzini, 2007.
46 Vallerani 2010 e Tanzini 2010.
47 Si veda comunque almeno il volume di Pazzaglini 1979.
48 Bartoli Langeli 1996.
49 Casagrande, Crisciani, Vecchio 2004.
50 Vallerani 2011.
51 Milani 2007.
52 Koch 1995.
53 Grillo 2001, p. 531-532.
Auteur
Università degli Studi di Milano Statale - paolo.grillo@unimi.it
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