Gli statuti italiani
p. 51-72
Résumés
L’autore illustra l’evoluzione degli statuti italiani dal XII al XIV secolo, insistendo sui problemi della tradizione manoscritta e sulla perdita degli statuti più antichi e spiegando le motivazioni di tale perdita. Affronta il problema della collocazione degli statuti nel complesso delle scritture pubbliche cittadine e il problema delle relazioni con il diritto romano. Sottolinea il carattere principalmente procedurale e civilistico degli statuti cittadini italiani, traendo esempi da Genova, Torino, Milano, Lodi, Treviso, Venezia, Feltre, Ferrara, Cremona, Bologna, Piacenza, Pisa, Lucca, Firenze, Siena, Volterra, Perugia, Todi, Viterbo, Anagni, San Gimignano, Colle di Val d’Elsa, Pistoia, Patriarcato di Aquileia e Trieste.
The author explains the development of Italian statutes from XIIth to XIVth century. He mainly underlines the problem of archival tradition and of the losses of most ancient statutes and tries to clarify its reasons. Statutes are viewed in the frame of the general communal writings’ structure. Relations with the roman law are also taken into account. In author’s view, justicial proceedings and civil law are mainly focused in statutes, as witnessed by the cases of Genoa, Turin, Mailand, Lodi, Treviso, Venice, Feltre, Ferrara, Cremona, Bologna, Piacenza, Lucca, Pisa, Florence, Siena, Volterra, Perugia, Todi, Viterbo, Anagni, San Gimignano, Colle di Val d’Elsa, Pistoia, Aquileian Patriarchy and Trieste.
Entrées d’index
Keywords : statutes, archives, laws, proceedings, renewals
Parole chiave : statuti, documentazione, diritti, procedure, rinnovi
Note de l’auteur
In questo studio sono state in parte riprese alcune pagine scritte con Pierre Chastang in Codicologie et langage de la norme (vocabulaire et langue), in MEFRM, 126-2, 2014, e pubblicate on line il 6 agosto 2014, https://0-journals-openedition-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/mefrm/2082.
Texte intégral
Le iniziative legislative cittadine dei secoli XI e XII
1Gli studi che gli storici del diritto hanno dedicato alle legislazioni statutaria, numerosi e talora bellissimi, mantengono pienamente il loro valore dal punto di vista della scienza giuridica, ma agli occhi dello studioso di storia appaiono oggi irrimediabilmente lontani. Non lontanissimi però, dal momento che è da poco più di una ventina di anni che è stato in parte superato quello che era stato l’approccio agli statuti nell’Ottocento e nel secolo scorso e che aveva ispirato sintesi e repertori, dal Pèrtile al Fontana alla monumentale opera promossa da Corrado Chelazzi1. Il superamento è consistito nel considerare gli statuti non più come monumenti solenni e a sé stanti bensì da inquadrarsi nel complesso delle scritture comunali: libri iurium, atti giudiziari, testi relativi alla finanza pubblica, ma soprattutto i registri delle delibere dei consigli, nei quali si leggono le proposte di innovazioni statutarie, di cancellazioni e sostituzioni, di deroghe2.
2In parte questo sviluppo delle scritture è stato collegato alla cosiddetta “rivoluzione documentaria” del Duecento, ascritta sovente all’affermazione dei regimi popolari. Il grande mutamento si manifestò in due fenomeni correlati tra loro: la crescente prevalenza delle scritture in registro in luogo di quelle su pergamena sciolta e l’avvio delle registrazioni di tipo corrente, giornaliero, strutturalmente diverse rispetto alle scritture “puntuali”, compiute nell’arco di un giorno, che caratterizzano la diplomatistica dei secoli anteriori al Duecento.
3Ancora più recente dell’attenzione alle scritture comunali nel loro complesso, e niente affatto acquisita da tutta la comunità scientifica, è l’attenzione alle scritture epigrafiche, che sono ovviamente del tutto minoritarie nel confronto quantitativo con le scritture su pergamena e su carta ma che sono di enorme interesse in particolare per la storia più remota degli statuti3. Noi non abbiamo alcuna ossessione di origini, né la volontà di ricercare in maniera privilegiata i testi più antichi, i testi incipitari. Ma per comprendere l’evoluzione statutaria e la sua natura, e anche per schivare alcune opinioni tradizionali, quale ad esempio l’idea di uno sviluppo delle legislazioni comunali cittadine che sarebbe seguìto alla pace di Costanza del 1183, le attestazioni più antiche sono importanti. Anche perché, come diremo, quasi tutte le prime redazioni degli statuti cittadini sono andate perdute.
4Non c’è dubbio che la prima fase della produzione documentaria ed epigrafica delle città comunali italiane si collochi in quel secolo XII che per tanti aspetti della vita economica, politica e culturale rappresenta la grande epoca di svolta, anzitutto per l’avvento del laicato quale produttore, organizzatore e custode di scritture, dopo secoli di assoluta egemonia ecclesiastica e monastica in tutti quei versanti. L’affermazione si realizzò nel campo della scrittura storiografica ma investì sino dall’inizio ogni forma delle scritture comunali, con una prima accelerazione dalla metà del secolo XII e una seconda accelerazione dagli inizi del Duecento, in concomitanza con l’affermazione delle scritture di tipo corrente alle quali ho accennato.
5Se all’interno di questo primo sviluppo di scritture vogliamo isolare per un momento la produzione statutaria, due considerazioni semplici e importanti devono essere condotte. Se gli statuti delle città comunali, in ispecie delle italiane, sono stati i più studiati, è però necessario considerarli in contesti più estesi, geograficamente e strutturalmente: dunque il quadro europeo, e una società europea nella quale era ogni organismo collettivo a creare in forma scritta una sua propria disciplina. Furono redatti statuti delle corporazioni mercantili, artigiane e professionali, delle confraternite, dei lebbrosari e di altri ospedali, di collettività di nobili e di iuvenes. Tale fioritura multipla venne evidenziata nell’Italia del primo Duecento, non senza un momento di criticismo, in un celebre passo di Boncompagno da Signa4.
6L’interesse preminente che in questa congerie di statuti è stata suscitata dagli statuti comunali cittadini ha una motivazione sostanziale e ovvia. A differenza di altri statuti, quelli della città comunali non erano volti a disciplinare un complesso di privati o una singola istituzione ma in linea di principio intendevano estendere la loro efficacia normativa e coercitiva a tutto il complesso dei cittadini.
7Di più, in molte realtà cittadine e comunali italiane si sviluppò una pluralità interna agli statuti, con brevia, giuramenti di societates, o come altrimenti venissero chiamati, di carattere non privato ma contemporanei alle statuizioni emanate dai vertici comunali, consoli o podestà che fossero. Un esempio particolarmente interessante e precoce è offerto da un frammentario insieme di testi genovesi del secolo XII: un breve redatto da una compagna cittadina che si affiancava e si integrava con le normative promulgate dai consoli del Placito e dal Consiglio cittadino5. In prosieguo di tempo, in particolare nei regimi popolari, le legislazioni cittadine contemplarono statuti del Popolo o del Capitano del Popolo e statuti del Podestà, non senza talora statuizioni di organismi interni dotati di importante rilevanza pubblica, ad esempio gli statuti della Gabella. Tutto questo poneva i problemi di una gerarchia legislativa, della preminenza di una normativa statutaria sulle altre e del rapporto delle comunità cittadine con i loro variegati statuti nel confronto con autorità superiori, principesche, regie, imperiali.
8La dialettica fra iniziativa statutaria “dal basso” e autorità superiori non fu sempre e necessariamente una dialettica conflittuale. Anche strutture politiche di forte e precoce autorità nei loro territori consentirono ampiamente che collettività mercantili, artigiane, cittadine promulgassero loro statuti. Il regno di Inghilterra e il regno di Francia offrono al riguardo fino dal secolo XII esempi che sono ben conosciuti agli studiosi e sui quali perciò non mi soffermo qui. Se non per dire che si trattava normalmente di redazioni di consuetudini che il sovrano riconosceva, e al modo che in tutta Europa la problematica statutaria conobbe tale dialettica tra iniziativa delle collettività e poteri sovrani, allo stesso modo la relazione fra consuetudini e statuti domina questa problematica fin dall’inizio.
9L’affermazione delle consuetudini, la rivendicazione della loro legittimità sia avverso un arbitrio esterno sia avverso prevaricazioni di singoli membri della collettività si legava sovente alla tensione verso la libertas. Termine complesso e ambiguo, del quale occorre riconoscere sia il valore dell’asserzione e della tutela di consuetudini specifiche sia la costituzione di un privilegio, in analogia con le libertates ecclesiastiche. Queste, si sa, si concretavano nella sottrazione degli ecclesiastici alla giurisdizione e alla fiscalità ordinarie. Ma anche la libertas dei cittadini era anzitutto un privilegio, cioè l’esenzione rispetto a quello che era il regime corrente nel territorio, cioè la subordinazione a un signore locale (non alla “feudalità” come tradizionalmente si scrive)6.
10Sotto tale aspetto c’è un legame fra le scritture promosse dalle autorità comunali, sia delle grandi città che di sedi più modeste, e le scritture di carattere pattizio intercorse fra i signori ecclesiastici e laici e i loro sudditi signorili, quali le carte di franchigia, connotate talora appunto come libertates, cioè quelle scritture che avevano il carattere di concessioni dei signori ai residenti e contenevano sempre normative sia civili che penali7. Questo tipo di documento aveva normalmente la forma della pergamena sciolta e ci è giunto il più delle volte in originale e nella prima stesura. Se invece consideriamo le scritture promosse dalle autorità comunali, nella loro piena autonomia legislativa e motu proprio, che sono l’oggetto specifico di questa mia relazione, dobbiamo constatare, ripetendoci, come le più antiche attestazioni abbiano fatto generalmente naufragio, come hanno fatto naufragio anche le più antiche scritture pubbliche cittadine di altro tipo, cioè le delibere consiliari e i registri giudiziari e fiscali.
11È infatti la regola che nella prima redazione di uno statuto giunta sino a noi si leggano rubriche le quali dicono chiaramente come esistesse già uno statuto, in seguito perduto. Esistono naturalmente delle eccezioni, la più clamorosa delle quali a mia conoscenza è quella di Treviso, dove non solo si dispone della più continua e ricca serie di redazioni statutarie del Duecento ma dove è rimasto il testo più antico, quello del podestà Donone del 1207, un codice membranaceo in folio di grande formato (mm 520x320), composto di quattro quaderni e subito integrato da addizioni che sono state edite, in numero di circa 150, fino al 12188.
12Quasi tutte le altre città comunali del nord e del centro d’Italia hanno avuto minore fortuna. Sovente sappiamo solo che era stato redatto un constitutum, o una serie di statuta o dei brevia o dei capitula o una raccolta di consuetudines o altre scritture normative, tutte scritture le cui redazioni originali – ripeto ad nauseam – sono andate smarrite nella stragrande maggioranza. A volte possediamo delle copie non molto distanti nel tempo, come è il caso degli statuti di Pistoia, di data controversa, ma comunque del secolo XII9. A volte ancora alcune parti di statuti (singole rubriche o parte di esse) sono pervenute a noi perché inserite in testi seriori. Cercherò nel corso di questa relazione di fornire le spiegazioni del perché del generale naufragio degli originali, e anche di rovesciare questa constatazione “negativa” in un discorso “positivo”. Adesso però voglio dire di quelle redazioni in modalità epigrafica, le quali come ho accennato appartengono alla fase più antica della legislazione statutaria.
13Queste prime testimonianze, che si scaglionano tra l’ultima generazione del secolo XI e la prima del secolo seguente, si iscrivono tutte nella complessa relazione fra le comunità cittadine e i loro vescovi, in quell’insieme di tensioni e scontri e di convergenze e collaborazioni che conosciamo in maniera assai approssimativa data la situazione di lacunosità documentaria che caratterizza quegli anni. Da una delle vicende relativamente meglio documentate, quella di Cremona, emerge affidata ad un’epigrafe la memoria di una reconciliatio tra la civitas e il discusso vescovo Landolfo, solennizzata nel 1024 con la ricostruzione di una chiesa10. Questo contrasto era stato uno degli episodi salienti della magna confusio che negli anni Venti e Trenta del secolo XI aveva suscitato l’intervento dell’imperatore Corrado II, e che si era manifestata anche nella volontà di alcune cittadinanze di asserire una propria autonomia, anzi nel caso di Cremona una sorta di potere parallelo e alternativo a quello del vescovo. L’intervento di Corrado II in Italia è di grande importanza per l’iniziale volontà dell’imperatore di punire gli Italici che volevano “novas leges”, per la convinzione, che egli poi maturò, che fossero le prevaricazioni dei seniores feudali, in primo luogo dell’arcivescovo di Milano, ad avere fomentato le ribellioni e per la conseguente statuizione sui benefici del maggio 1037. Nel caso specifico di Cremona, l’imperatore avrebbe infine esortato i cittadini a risarcire i beni episcopali che avevano aggredito e di collaborare con il loro presule nelle questioni di grande rilevanza penale11.
14L’ambito era dunque ancora quello di un ruolo episcopale molto importante, a fronte del quale le élites urbane si ponevano come rivendicatrici di patrimoni, redditi e cespiti della Chiesa, e forse già di prerogative giurisdizionali. Ma quando, nel 1098, l’arcivescovo di Milano emanava in forma epigrafica uno statuto a disciplina di un aspetto fiscale del mercato e diceva di legiferare “comuni conscilio tocius civitatis”, la dialettica era di collaborazione e integrazione. E la stessa valutazione deve essere condotta per l’epigrafe lucchese del 1111 redatta sotto l’egida del vescovo Rangerio, dove si pubblicizzava il giuramento di cambiatori e speziali di non commettere furti e frodi entro la corte episcopale, affinché ognuno potesse comprare, vendere e cambiare tranquillamente, e si ammoniva circa la presenza di custodi della corte, istituiti per punire i malfattori12.
15Sessanta anni più tardi una imponente e martoriata epigrafe ferrarese avrebbe avuto ancora il suo spazio nella cattedrale, ma offriva adesso l’immagine di una compiuta e autonoma statuizione cittadina. Protagonisti ne erano una res publica, cioè il Comune di Ferrara, organizzato con un suo parlamento (concio) ed un populus, del quale si intendeva tutelare la libertas, dominante sopra un comitatus e un districtus, titolare della giustizia attraverso suoi rectores e suoi iudices, ai quali ognuno avrebbe dovuto obbedienza. In tale quadro si sancivano i buoni diritti della Chiesa ferrarese e si chiarivano questioni di natura possessoria e di successione feudale, non senza asserire l’esenzione dei cittadini da oneri tipicamente signorili quali l’amiscere e la prestazione di pollame e spalle di porco. Rinviando ad altre analisi che meglio illustrano il difficile dettato dell’epigrafe, a me premeva qui ricordarla come espressione di una iniziativa legislativa comunale decisamente autonoma e piena dei suoi poteri13.
16Questi testi epigrafici consentono dunque di definire, tra gli interventi normativi di iniziativa episcopale, più o meno confortati dall’adesione di élites cittadine, e le statuizioni cittadine autonome, una forbice cronologica tra il secondo ventennio del secolo XII e gli anni Settanta del medesimo. Sarebbe una forbice troppo larga, non fosse che entro quegli estremi cronologici si collocano in molte città, talora con attestazioni ancora sporadiche e indirette e talora con elaborazioni molto mature, espressioni non equivoche di una autonoma potestà legislativa cittadina. Sappiamo da una tardiva escussione di testimonianze che nel 1125 le autorità di Siena, cioè il consolato, avevano emanato imposizioni fiscali nel contado, suscitando una sollevazione aristocratica14. Celebri e ben studiate sono le pattuizioni interne all’episcopato e al ceto dominante cittadino e le codificazioni di Pisa, che più di ogni altra redazione sanciscono il parallelismo e la dialettica di consuetudine e leggi15. Di Pistoia ho fatto un cenno, altre realtà dei decenni centrali del secolo XII potrebbero essere facilmente enumerate. Ma mi soffermerò qui in prima istanza su Genova, una comunità cittadina dalla quale ci sono pervenute testimonianze fra le più copiose e anche dirette, e su Genova condurrò un breve discorso per prospettare alcune tematiche generali dell’evoluzione statutaria italiana16.
17I più antichi testi normativi genovesi rivestono la forma del breve, un documento di redazione notarile che, per la sua natura variegata e non riconducibile alle formalità classiche della contrattualistica privata e della diplomatistica regia fu denominato con questo sostantivo, breve, termine che, sia detto en passant, ricorre anche in testi milanesi e veneziani, e termine sul quale molto è stato scritto. Dei brevia genovesi, risalenti agli anni centrali del secolo XII, e della loro evoluzione, prima verso la forma detta non più breve ma capitulum, e infine verso lo statutum, ha parlato molto nitidamente Rodolfo Savelli nella lunga introduzione al prezioso Repertorio degli statuti della Liguria del 200317. Qui io voglio solo richiamare anzitutto la varietà dei contenuti e la forma della tradizione manoscritta. I più antichi brevi genovesi definiscono aspetti del regime patrimoniale tra coniugi, norme sui testimoni, modalità della guardia della città, e ancora le funzioni del cintracus – un alto ufficiale con compiti misti, di notifica delle ordinanze e delibere, una sorta di ufficiale giudiziario e riscuotitore di tributi –, la misura delle imposte indirette riscosse sulle merci in entrata, una norma sulla procedura da seguire per perseguire i falsari della moneta, la formula del giuramento richiesto ai cittadini ed alcuni altri testi eterogenei, di natura civilistica, amministrativa ed economica. Un breve di particolare importanza è quello del 1143 che contiene il giuramento dei consoli, un altro è quello della società (Compagna) stretta fra componenti della élite cittadina nel 1157.
18Alcuni di questi brevia, pochi, ci sono eccezionalmente pervenuti nell’originale, un modesto foglio di pergamena. Altri sono stati esemplati nelle più antiche redazioni dei libri iurium comunali. Nel Vetustior, il primo e fondamentale registrum o liber iurium del Comune di Genova, i brevia di natura normativa si trovano intercalati, nello stesso gruppo di quaderni del codice, a quel tipo di documenti che si trovano nella normalità dei libri iurium: patti e convenzioni, acquisizioni patrimoniali e giurisdizionali del Comune, giuramenti di fedeltà al Comune, suoi impegni verso altri eccetera, mentre all’inizio del codice si legge il testo di antichi e solenni impegni regi e marchionali al rispetto delle consuetudines genovesi. Non è facile dire con quale criterio di scelta e con quale ordine i testi di natura normativa siano stati esemplati nel registro comunale cittadino. Ed è poi notevole che proprio i brevia più rilevanti, quello dei consoli del 1143 e quelli della Compagna del 1157 e del 1161, non siano stati recepiti in quel registro, ma ci siano pervenuti, il primo, in una copia molto tardiva, che parla del testo originario come di una “pergamena”, laddove i testi del 1157 e del 1161 hanno avuto la fortuna di una trasmissione in originale o in un esemplare coevo18. Certo, nella casistica di norme legislative inserite nei libri iurium rientra l’esempio di un decretum milanese del 1170 che venne trascritto nel 1284 nel liber iurium del Comune di Lodi, cosa della quale dirò. Ma un esperimento, certo non completo ma assai largo, dei libri iurium comunali, da Asti a Piacenza a Siena a Todi a Osimo ad Ascoli Piceno, mi consente di affermare che non era nella norma che un testo legislativo venisse inserito in un liber iurium19. Raramente accade, come nel maestoso Registrum Magnum di Piacenza, che venga inserito un giuramento prestato da ufficiali comunali, cioè uno di quei testi che appartengono, come tutti sappiamo, ai primi nuclei della legislazione cittadina. Anche questo testo piacentino, un giuramento dei notai risalente al 113520, è peraltro un unicum all’interno del liber iurium della città, e in genere, mi ripeto, non risulta che i libri iurium abbiano accolto al loro interno testi normativi del Comune. E questo è per noi un peccato, perché i libri iurium hanno conosciuto una tradizione archivistica più precoce e più solida rispetto ai testi statutari, per i quali è di norma, mi ripeto un’ennesima volta, la perdita dei testi più antichi.
19Come ho anticipato, affronterò in seguito la questione del perché della perdita dei testi statutari più antichi. Ma adesso conviene procedere nella considerazione di quelle scritture normative, espressione della piena autorità comunale, che ci sono giunte in una forma molto organica e compiuta. Questo ci conduce decisamente nella prima metà del secolo XIII, nell’epoca in cui si consolidò in quasi tutti i Comuni italiani il sistema di governo podestarile-consiliare, succeduto all’epoca dei regimi consolari: dunque ad un’epoca successiva alla pace di Costanza. Sono però necessarie qui un paio di chiarificazioni.
20Anzitutto devo dichiarare, sulla soglia di un discorso che seguirà l’andamento cronologico dei testi, come non sia nelle mie intenzioni di fare una rassegna completa e nemmeno di fare una disamina cronologica, cioè di quali statuti vennero prima e quali dopo. Le condizioni frammentarie e largamente casuali della tradizione di cui ho parlato, unitamente al carattere stratificato nel tempo degli statuta, tolgono senso a ogni discorso di “primato” o precedenza cronologica. Occorre solo prendere atto di un generale sviluppo lungo tutto l’arco del secolo XII, e di un approdo duecentesco, quando, sempre in modalità del tutto casuali quanto alla tradizione manoscritta, ci sono infine pervenute alcune redazioni molto compiute, attraverso le quali è possibile, da un lato, riprendere a articolare il discorso sul processo evolutivo dai singoli decreti statutari a un corpo complessivo, da un altro lato proseguire nella messa a fuoco di questioni importanti della legislazione statutaria.
21Una seconda questione di sostanza merita anch’essa una messa a punto. I testi epigrafici e documentari dei quali ho detto sinora sono in largo numero ben anteriori alla pace di Costanza, ed è forse il caso di fare presente come le iniziative comunali di carattere pubblicistico, compresa quella così importante della coniazione della moneta, siano state promosse sovente prima di avere ottenuto un qualunque beneplacito imperiale, che talora intervenne a fatto compiuto, quale graziosa sanatoria. La stessa pace di Costanza suggerì del resto procedimenti che andavano nel senso di una ratifica, previa monetizzazione, di regalia dei quali le città si erano appropriate di fatto. Su un punto poi la pace sarebbe stata francamente cortocircuitata, non intenzionalmente ma di fatto. Negli articoli della pace si contemplava, è noto, una procedura di conferma imperiale dei consoli, il vertice di governo comunale. Ora nel giro di pochi anni quasi tutti i Comuni del nord e del centro d’Italia mutarono il sistema di governo addivenendo all’instaurazione dell’ufficio del podestà. Non furono certo iniziative il cui scopo fosse l’elusione delle clausole di Costanza. Si trattò del passaggio da un sistema politico che vedeva la coincidenza fra supremazia sociale e istituzione di governo (i consoli erano generalmente di matrice aristocratica) a un sistema nel quale la potestas (tutti sanno che il termine era declinato al femminile, a sottolinearne il carattere di impersonalità e astrattezza) era disgiunta dalla supremazia sociale e tendenzialmente affidata a un forestiero. Non ripeterò qui le questioni della oscillazione tra regime consolare e podestarile e della oscillazione tra podestà cittadini e podestà forestieri, questioni sulle quali era il Consiglio a deliberare anno per anno: ormai tanti hanno spiegato queste cose e descritto l’approdo al sistema di governo podestarile-consiliare, consolidato ovunque tranne che a Venezia e a Roma (che ebbero comunque loro diarchie di vertice e Consiglio) tra l’ultima generazione del secolo XII e la prima del secolo seguente.
22Entro questi anni, che segnarono una consonanza mai raggiunta prima né ripetutasi dopo tra le forme istituzionali dei Comuni italiani, era decisamente maturata l’iniziativa laica e autonoma nel campo della legislazione. Per tentare un sommario dei contenuti di questa prima fase statutaria, tra XI e XII secolo, diremo anzitutto della larga presenza di norme relative alla Chiesa cittadina, al rispetto devozionale ad essa dovuto e alla protezione delle sue prerogative: tutte norme tanto più necessarie proprio in quanto l’organismo civile laico aveva raggiunto una sua piena autonomia e si poneva dunque garante della costituzione cittadina nel suo complesso. Diremo poi della numerosità dei capitoli relativi alla procedura, e qui si innesta la questione della relazione fra le legislazioni statutarie comunali e il diritto romano.
23Estraneo ovviamente alle questioni delle relazioni fra Comune e Chiesa, quel grandioso organismo giuridico suggeriva invece alcuni criteri sulle modalità di presentazione delle istanze giudiziarie, sulla contestazione della lite, sull’onere della prova. Tutto questo, si capisce, essenzialmente nel campo civile. Il sistema giustinianeo era molto marginalmente orientato sulla sfera penale, nella quale le comunità cittadine dovevano necessariamente innovare. Nel civile invece il Corpus iuris suggeriva questioni basilari quanto ai rapporti patrimoniali fra coniugi e alle successioni, spazi nei quali la statutaria comunale italiana segnò fino dal secolo XII punti cruciali di differenza rispetto al passato più recente, sancendo il sistema dotale come prevalente rispetto alle tertiae e quartae delle tradizioni e delle leggi germaniche. Ancora in ambito civile, fu tutto il sistema delle obbligazioni ad essere riconsiderato alla luce della giurisprudenza romana, soprattutto con la disciplina delle garanzie, abolendo quei patti anticretico e commissorio che erano stati largamente in uso nelle forme del credito dei secoli centrali del medioevo. Due campi infine, qui invece con una ovvia estraneità alla tradizione romana, appaiono molto presenti nei testi epigrafici e documentari del secolo XII e sono le questioni fiscali e quelle, in parte correlate, degli oneri signorili.
24La novità del secolo seguente, il Duecento, sarebbe consistita nel dare più organica sistemazione al tutto, nell’ampliare e chiarificare ulteriormente la disciplina delle obbligazioni, nell’organizzare gli statuti in libri e – fatto quest’ultimo forse il più nuovo – nel dedicare un libro intero agli aspetti costituzionali del Comune e uno agli extraordinaria, ciò che vuol dire nell’accentuare la parte di ius proprium rispetto al diritto comune. Era una accentuazione dovuta ad una evidente necessità, lontana da ogni questione scolastica e di cultura giuridica. Sarebbe stato difficile reperire in Gaio o in Ulpiano indicazioni sul come tenere pulite le strade cittadine.
I secoli XIII e XIV: organicità e trasmissione di consuetudini e statuti
25Uno dei testi normativi più celebri e più studiati dell’Italia comunale, le consuetudini milanesi del 1216 la cui scrittura fu ordinata dal podestà Brunasio Porca e fatta eseguire per ordine del suo successore Iacopo da Malacorreggia e ad opera di un collegio di viri discreti, ci è giunto solamente in due copie del primo Seicento, una delle quali fu edita mediocremente nell’Ottocento ed è andata perduta in seguito alla guerra21. Il Liber consuetudinum Mediolani era a sua volta un collettore di normative precedenti e variamente stratificate, e ci introduce anche, oltre alla questione della tradizione, alle questioni della struttura e della terminologia delle scritture normative.
26Nel Liber venne inserito di peso un decreto consolare del 20 settembre 1170 che disciplinava l’istituto giuridico della locatio-conductio in funzione delle vertenze tra proprietari e coloni. Il decreto fu emanato dai due collegi consolari, cioè gli undici consules rei publicae e i sei consules iusticie, in una publica contio e con il consilium di numerosi sapientes, e venne approvato seduta stante da uno dei consoli della res publica, un giudice, che svolse il ruolo di orator, cioè lesse nell’assemblea la serie dei decreti e ne sancì l’approvazione. Dunque già a questa altezza cronologica era assestato il protagonismo nelle redazioni di legge, che si ritrova poi sempre nella statutaria: l’organo di governo del momento e l’integrazione con esperti di diritto (sapientes).
27Il decreto milanese del 1170 era aperto da una motivazione, come è tipico di tante normative dell’età comunale («Quoniam inter dominos et colonos crebre solent oriri iniurie, contentiones etc.»), e constava di una serie di disposizioni, non numerate nel testo originale, e nemmeno introdotte sistematicamente da un item, ma redatte sostanzialmente in una modalità continua, e alle quali è stato l’editore moderno ad attribuire una numerazione da 1 a 12). I verbi che esprimono la volontà legislativa erano laudare, decernere, statuere, usati in maniera del tutto fungibile. Nel Liber consuetudinum del 1216 questo decreto consolare sarebbe stato definito come un insieme di ordinamenta ma anche come statutum, che era l’espressione più normale, e che del resto i Milanesi avevano da oltre un secolo sotto gli occhi, nell’epigrafe apposta sulla facciata della basilica di S. Ambrogio della quale ho detto sopra.
28Occorre appena ricordare come il termine statutum si applicasse alla singola disposizione normativa, e come quello che usualmente chiamiamo ed è stato chiamato “statuto” derivi in realtà originariamente da un insieme di singoli statuta. Nel tempo le due accezioni, singolare e plurale, sarebbero state del tutto fungibili, al modo che sarebbe stata corrente l’endiadi leges et statuta22.
29Tornando al decreto consolare o statutum del 1170, ricordiamo come esso fu inserito in una sezione delle consuetudini del 1216 dedicata alla locatio et conductio, che si apriva con un richiamo al Digesto, proseguiva con la ricezione di questo decreto del 1170 ed era poi seguita da una serie di addizioni, una delle quali faceva riferimento a uno statutum novum emanato dal podestà Brunasio Porca, lo stesso che aveva ordinato la redazione delle consuetudines. Anche del decreto consolare del 1170 è andato perduto l’originale, che si doveva configurare come una lunga pergamena o più probabilmente come un folium piegato; ma se ne possiede una copia di età medievale. Infatti, oltre ad essere inserito nel Liber del 1216, del quale come ho detto possediamo oggi solo una copia di età moderna, il decreto del 1170 venne trascritto nel 1284 nel liber iurium del Comune di Lodi23.
30Ma soffermiamoci ancora un momento sulle consuetudini milanesi del 1216. Promosse nell’età podestarile-consiliare, esse recepirono come ho detto decreti consolari, alcune norme statutarie nuove emanate dallo stesso podestà Brunasio Porca che aveva promosso la compilazione e tutta una serie di consuetudini cittadine e di norme derivanti dal diritto romano, dal diritto longobardo e dal diritto feudale. Introducendo la normativa feudale si disse infatti come le cause giudiziarie venissero decise «interdum iure legum romanarum, interdum legibus longobardicis, saepe etiam consuetudine municipali». La normativa nasceva dunque dalle esigenze della procedura giudiziaria, e a Milano la situazione era più complessa rispetto a quei luoghi dove si poneva solo l’opzione tra diritto “proprio” e diritto romano. Penso a un passo di un documento di Volterra del 1226, nel quale si chiede al podestà di reggere la città «secundum constitutum, quod ubi non loquitur, secundum leges romanas»24.
31La necessità di dare sistemazione a questo complesso di leggi e di consuetudini aveva condotto verso la metà del secolo XII, probabilmente a partire dagli anni Quaranta, a raccolte di testi sparsi e anche ad una elaborazione sistematica di insieme, un libellus redatto da un giudice Pietro e che è andato completamente smarrito. Non sono andati invece perduti numerosi documenti deliberativi dei consoli cittadini anteriori alle consuetudini del 1216, e che a differenza del decreto del 1170 ci sono pervenuti sovente anche nella pergamena originale. Ma è solo il decreto del 1170 che presenta uno spessore normativo generale, gli altri testi definiscono controversie specifiche; se ne trae solamente il ricorrente riferimento allo ius et usus, allo ius et usus loci, alla consuetudo loci, in un caso al mos Mediolani; affiorano sporadicamente riferimenti romanistici, quale il principio per cui «nemo invitus in comunionem debeat detineri», o il concetto di possesso «per longissima tempora», o la categoria della «quasi possessio», o la categoria dell’“equitas”; affiorano riferimenti alla lex Longobardorum, in particolare per questioni di successione; in un testo del 1175, relativo a un privilegio giudiziario del monastero di Chiaravalle, ci si appella a uno statutum dei rettori della Lega lombarda emanato tre anni prima, e detto allora constitutio25.
32Dopo la legislazione milanese, dopo quella trevigiana ed altre sulle quali non mi soffermo qui, un secondo compiuto corpo statutario del Duecento è quello di Venezia. Come sanno i conoscitori della storia veneziana, l’elaborazione giuridica della città ebbe un suo assestamento maggiore negli statuti promulgati dal doge Jacopo Tiepolo nel 124226. Ma nemmeno questo testo ci è giunto nell’originale, anche se la sua tradizione non è così tardiva come quella delle consuetudini milanesi. Le copie più antiche e fondamentali sono infatti di circa un secolo posteriori alla redazione originale di quel “monumento” della legislazione veneziana rappresentato dagli statuti del 1242. Questo monumento era stato preceduto, e sarebbe stato seguìto, sia da altre disposizioni statutarie sia da un complesso di testi di carattere scolastico e giurisprudenziale, dei quali nemmeno ci sono pervenuti gli originali. I testi che avevano preceduto la redazione del Tiepolo erano una Ratio de lege romana e una raccolta di Sententiae a probis iudicibus promulgatae; dovevano essere in forma di libro, cioè di raccolta di quaderni27. Dopo il 1242 la redazione statutaria del Tiepolo fu seguita da una serie di glosse, che conosciamo in quattro copie principali che si scaglionano fra il XIV e il XVI secolo e che dovevano accompagnare, non in forma di annotazioni a margine ma in quaderni separati, il codice statutario del Tiepolo, o meglio i vari codici nei quali il testo del 1242 era stato esemplato e che circolarono fra il tardo medioevo e la prima età moderna.
33È un fatto abbastanza bizzarro che la legislazione veneziana, che a lungo nella communis opinio, anche dei dotti, è stata considerata come estranea, anzi ostile, al diritto romano, sia in realtà così intensamente accompagnata da testi che a quel diritto facevano riferimento e che quel diritto commentavano. In realtà da gran tempo gli storici del diritto e gli storici di Venezia hanno più che sfumato la contrapposizione fra diritto veneziano e diritto romano, ma occorre comunque chiedersi il perché di quell’impegno scolastico e di glossa. Il motivo di fondo, e anche quello che a mio sommesso giudizio configura la vera peculiarità veneziana, è nella radice fondamentalmente giurisprudenziale di quel diritto. A Venezia ebbero peso nell’elaborazione legislativa giudici e sapienti, il cui alimento intellettuale era essenzialmente lo studio della grande impalcatura giustinianea: e anche quando la sistemazione veneziana si resse interamente sulle proprie istituzioni giuridiche e senza appoggiarsi a uno ius commune, gli istituti fondamentali del diritto di famiglia e del diritto delle obbligazioni rimasero quelli mutuati dal diritto romano. Ad esso si faceva necessario riferimento per le questioni della successione testamentaria, che a Venezia ebbe uno sviluppo tutto particolare attraverso l’istituzione delle commissarie, e per le questioni di credito e debito sulle quali poggiava, sino dalla metà del secolo XII, la grandiosa costruzione del debito pubblico cittadino. Delle glosse dovevano circolare diversi quaderni, i quali si sarebbero dovuti collocare e trascrivere in corrispondenza di questo o quel luogo della redazione statutaria: item est et alia glosa – dice lo scrittore – que hic non debet poni, sed potius in alio statuto etc. Nel prologo si legge la dichiarazione della motivazione che ricorre in tante compilazioni statutarie dell’età comunale: la necessità di dare ordinamento in una congerie di “statuta” confusa, tale da ostacolare il lavoro dei giudici, che frequentemente “vacillabant” a causa di tanto disordine.
34A monte delle redazioni statutarie infatti, come sappiamo, era un insieme di singole disposizioni, la cui redazione era affidata a una pergamena sciolta, o ad un folium piegato. Questa procedura di disposizioni singole non fu mai completamente assorbita dalle redazioni statutarie, ma continuò, a Venezia come in ogni altra città, ad essere messa in opera in parallelo alla normativa statutaria. Quando Biagio Bon detta, nel 1310, il testamento del quale ci è pervenuta la minuta in volgare, appone in fine una clausola per disporre che ove il testamento sia «(con)tra li statuti et ordenamento» esso debba essere ricondotto «a statuto et a li ordenamenti de Venesia»28.
35A parte l’oscillazione singolare/plurale che il Bon adotta per ambedue le fonti del diritto, interessa la consapevolezza dei due momenti della legislazione: statuti e ordinamenti. Questi ultimi erano le singole disposizioni emanate dai Consigli e dal doge, originariamente scritte come a Milano su una pergamena sciolta, come è il caso della ducale di Orio Mastropietro dell’agosto 1185, un testo di natura costituzionale (obbligo di chi sia stato eletto ad un pubblico ufficio di prendere servizio entro tre giorni salvo motivato impedimento), promulgato dal doge e dai suoi giudici e sanzionato dal populus di Venezia: un testo che ha tutta la struttura di un normale diploma29; poi le deliberazioni del doge e dei Consigli evolvettero da questa forma di diploma verso la forma del capitulum o capitulare e furono riunite in registri, che ci sono pervenuti a partire dalla prima metà del Duecento. Ognuna delle magistrature veneziane era disciplinata da un suo capitulare, i capitularia ci sono giunti per lo più in copie trecentesche, e quaderni separati recepivano le numerosissime additiones ai capitolari emanate dal Maggior Consiglio30. La normativa seguiva dunque un percorso duplice: una sistemazione statutaria, che a Venezia era fondamentalmente di natura procedurale e civile, e una corrente produzione dell’autorità di vertice e dei Consigli.
36Ogni altra legislazione statutaria offre l’immagine di evoluzioni attraverso singoli decreti di iniziativa podestarile o capitaneale o consiliare, per approdare a un corpus sintetico e definito, comunque sempre oggetto di modifiche, addizioni, cancellazioni di norme. Ben studiata, la legislazione statutaria di Siena offre un cospicuo esempio dell’evoluzione da singoli decreti o brevia e da norme di carattere decisamente occasionale, come una legge del 1208 dettata dalle necessità del finanziamento della guerra, verso la riunificazione nel 1262 in un corpo normativo organico, ma nel quale talora non erano ben sistemate statuizioni successive e anche contraddittorie31. Prima però di inoltrarmi nel passaggio fra Due e Trecento e di dire ancora qualcosa sulla dialettica fra delibere consiliari e statuti voglio tornare sulla questione del naufragio dei testi statutari più antichi e tentare di darne ragione.
37Una prima motivazione deve essere ricondotta senz’altro alla lentezza con la quale le amministrazioni cittadine organizzarono una attenta cura archivistica. Questo nonostante il fatto che i notai fossero incaricati sin dall’inizio non solo di redigere ma anche di custodire i documenti pubblici32. Sappiamo bene degli iniziali depositi delle scritture comunali presso gli archivi della chiesa cattedrale o di altre chiese maggiori. Fu il caso ad esempio degli statuti di Pistoia, tràditi attraverso l’archivio capitolare, e di tutte le scritture comunali di Todi, custodite nella chiesa di san Fortunato33. Altri privilegiati collettori della documentazione furono gli ospedali (è il caso di un testo toscano del quale vi parlerò tra poco) e i conventi degli Ordini Mendicanti: per quest’ultima fattispecie si possono vedere gli statuti di Torino del 1360, dove era espressamente deliberata la custodia del codice presso il convento dei Frati Minori34. La ricerca storica è stata a lungo carente sul tema della formazione di una consapevolezza archivistica, ma il ritardo è stato ampiamente recuperato nei tempi recenti35.
38Un secondo punto da non dimenticare, al quale del resto ho già accennato, è che gli statuti ebbero una formazione discontinua e stratificata, ciò che fisicamente significava una redazione in quaderni, come accadeva anche per altre scritture, giudiziarie e fiscali. E il quaderno era una struttura archivisticamente fragile. Negli archivi e nelle biblioteche attuali accade che si trovino più facilmente pergamene e libri che non singoli quaderni, facilmente soggetti alla perdita e talora, dal Duecento, redatti sul fragile supporto cartaceo.
39In terzo luogo occorre tenere presente la frequenza dei rinnovamenti statutari. Le prassi divergevano da città a città. A San Gimignano vigeva il principio del rinnovo annuale, contemperato dalla sanzione di un carattere di perpetuità attribuito ad alcune norme (statuta praecisa). Ora ogni rinnovamento di statuto implicava normalmente, fisiologicamente, la disattenzione e quindi la perdita dello statuto precedente. Venivano emarginati non soltanto i singoli statuta precedenti, non soltanto i testi tràditi in singole pergamene o in folia o quaderni sciolti, ma anche redazioni organiche e complessive. Gli statuti di Perugia del 1279 hanno fatto obliterare una precedente redazione, certamente anteriore al maggio del 1247, data in cui un documento ne attesta senza ombra di dubbio l’esistenza36. Degli statuti di Feltre del 1293, superati dalle redazioni di età viscontea, rimane un bifolio, superstite di un manoscritto abbastanza elegante, di dimensioni contenute (mm 320 x 230) e con arioso specchio di scrittura (mm 200 x 125)37.
40In definitiva, l’obliterazione di statuti antichi non derivava da una deliberata distruzione di scritture ritenute obsolete o inutili, come accadeva invece per una serie di registri della pubblica finanza, ma era semplicemente il frutto di una negligenza archivistica, di una custodia distratta e la cui distrazione poteva essere legittimata dai rinnovamenti, oppure, ancora, di un utilizzo improprio. Un bell’esempio è offerto dagli statuti di Viterbo. Se ne conserva in originale presso l’Archivio Comunale di Viterbo, in un codice di dimensioni contenute, diciamo “normali” (mm 330 x 230), in parte membranaceo e in parte cartaceo, l’ampia redazione degli anni 1251-1252. Una redazione precedente, anche se non di molto (1237-1238), venne smembrata e i suoi fogli usati come coperta di un registro notarile di Montefiascone38. Ancora dal Lazio proviene un altro esempio di tradizione archivistica “impropria”: quello degli statuti di Anagni, risalenti al Duecento, perduti, e dei quali una copia probabilmente del primo Trecento fu usata come coperta di un registro della fiscalità pontificia; fortunosamente rinvenuta, essa è oggi nell’importante raccolta di statuti dell’Archivio di Stato di Roma, una raccolta di molte centinaia di statuti promossa nel 1856 da Teodolfo Mertel, ministro dell’interno dello Stato Pontificio e trasferita dopo il 1870 allo Stato italiano39.
I secoli XIII e XIV: rinnovamenti statutari, nuove articolazioni e nuove gerarchie
41Se le due generazioni fra il 1170 e il 1220 circa avevano conosciuto, come ho detto a suo luogo, una grande similitudine istituzionale fra le città comunali italiane, nel corso del Duecento i percorsi si andarono divaricando, e tre approdi assai distinti tra loro si delinearono. Vi fu l’approdo “popolare”, fondato sull’esclusione formale dagli uffici di governo di quelle famiglie che per nobiltà, ricchezza, protagonismo nelle lotte politiche, séguito di clienti e armati, atteggiamento di prepotenza, furono definite quali “grandi” o “magnati”. Vi fu l’approdo “oligarchico”, fondato sull’imposizione di un requisito di continuità familiare a quanti volessero sedere in Consiglio. Vi furono gli approdi signorili, con l’attribuzione di un’alta potestà istituzionale ad un personaggio eminente o ad un clan familiare. Tutto questo non senza le ricorrenti e altalenanti subordinazioni a un prìncipe esterno, quale in alcuni anni e in alcune città fu Carlo d’Angiò, che è l’esempio più famoso.
42Questi cammini così diversi si realizzarono però in decenni nei quali la pratica statutaria e la scienza giuridica che poteva ispirarla erano molto consolidati, per cui chi analizza i diversi statuti non coglie nette differenze in funzione di un regime “popolare” o oligarchico o signorile, se non, ovviamente, in alcune normative speciali. Ma l’impianto civilistico, che è lo scheletro fondamentale delle leggi cittadine, posava oramai su un insieme di elementi acquisiti, sia nel campo del diritto di famiglia sia in quello dei diritti reali e delle obbligazioni. Le infinite varianti, ad esempio nelle modalità di garanzia della dote e della sua restituzione oppure delle prescrizioni possessorie oppure ancora delle procedure della vendita giudiziaria e del risarcimento dei creditori non consentono differenziazioni se non di natura strettamente locale e non in funzione di determinate compagini di governo.
43Differenziazioni più nette e più funzionali ai diversi tipi di governo si riscontrano invece nel campo della gerarchia dei diversi statuti comunali, in particolare nelle relazioni fra statuto cittadino e statuti delle corporazioni. È tradizionale la contrapposizione tra Venezia e Firenze, la prima orientata presto su un forte controllo del governo centrale sulle corporazioni, Firenze invece concedente una forte autonomia alle Arti, che peraltro erano istituzionalmente componenti del governo cittadino. Il caso veneziano appare, mutatis mutandis, molto simile a quello delle corporazioni di arti e mestieri parigine, le cui consuetudini furono rigorosamente inquadrate nel controllo regio, ciò che produsse la meravigliosa (anche se in parte incompleta o smarrita) raccolta organizzata dal prevosto Étienne Boileau40. Quanto ai regimi signorili che si affermarono in Italia fra Due e Quattrocento, sembra che si possa riscontrare un largo spazio di autonomia lasciato dai signori alle corporazioni e dunque ai loro statuti.
44In un grande principato ecclesiastico, il Patriarcato di Aquileia, si realizzò, accanto ad una legislazione statutaria delle città che con grande autonomia componevano lo Stato e avevano voce nel Parlamento, un generoso tentativo di coordinamento ad opera del grande patriarca tedesco Marquardo di Randeck, promulgatore nel 1366 di Costitutiones di impianto preminentemente civilistico (regime delle obbligazioni, rapporti patrimoniali tra coniugi con imposizione delle prevalenza del regime dotale sugli assegni di tradizione germanica, procedure civili)41.
45Avviandomi alla conclusione di questa sintesi, dirò di due vicende statutarie delle quali mi sono occupato negli anni recenti, assise rispettivamente su una piccola città toscana, Colle di Val d’Elsa, e sull’importante città di Trieste nell’Italia nord-orientale. Sono vicende non ben conosciute dalla comunità scientifica, e che illustrano più di una tra le questioni delle quali ho detto sinora.
46Di un constitutum del Comune di Colle di Val d’Elsa si parla nell’anno 1200, tale prima redazione è andata perduta così come una redazione del maturo Duecento. Dal Duecento ci è però fortunosamente rimasta una serie di bandi promulgati dal podestà senese Arrigolo Accarigi nel 1268, custoditi, non saprei dire da quando, presso l’ospedale di Colle e oggi nell’Archivio di Stato di Siena. Si tratta di un quadernetto cartaceo di quattordici carte, contenente bandi di natura essenzialmente penale, determinati dalla situazione di emergenza del passaggio di Colle di Val d’Elsa allo schieramento guelfo, ma che contemplano anche disposizioni di natura civile. Ci è infine giunto, sia pure non integralmente, un ampio statuto redatto nel 1307 e integrato nel giro di due anni da uno speciale statuto della Gabella (l’organismo preposto alla gestione delle imposte indirette) e dagli Ordinamenta del Popolo42.
47Se la tradizione di scritture di Colle di Val d’Elsa non è di speciale rilievo quanto alla produzione legislativa, il suo grande pregio è nella tradizione, quantitativamente davvero cospicua, delle delibere consiliari: soprattutto il Consiglio dei Dodici (l’organo di governo) e il Consiglio del Capitano del Popolo. Le delibere colligiane interessano la problematica statutaria per due aspetti: l’inserimento nello statuto, talora deliberato dai Consigli, e la prassi della deroga, che appare come assolutamente generalizzata e continua43. Del rapporto fra delibere consiliari e statuti ha parlato Massimo Sbarbaro in un piccolo e prezioso libro44, dei Consigli in generale ha parlato Lorenzo Tanzini, che ha anche affrontato la questione delle deroghe45.
48Nel suo libro, Sbarbaro ha riportato una selezione di norme statutarie che talora parlano con chiarezza del problema del trasferimento delle delibere negli statuti. La più dettagliata è probabilmente la norma bolognese del 1288, sulla quale non mi diffonderò qui. Ricorderò solo come gli statutari bolognesi avessero ordinato che nel caso di nuove leggi (“aliquod statutum vel ordinamentum de novo, ordinamenta vel reformationem”) che avessero di valore generale, si dovesse procedere a cura di “sapientes” nominati dal podestà e dal capitano ad una loro sistemazione sintetica e chiara (“brevioribus et clarioribus verbis quibus poterit”), mentre se si trattava di delibere di carattere speciale, o riguardanti determinate persone, queste avrebbero dovuto essere inserite in forma abbreviata (“breviter”) non già nello statuto bensì “in libro qui est vel erit in armario Comunis vel Populi in quo scripta sunt alia statuta vel privilegia vel represalie vel pacta seu contractus”. Meccanismi analoghi erano contemplati per le norme di deroga46.
49Venendo al caso triestino, dirò come la serie degli statuti comunali sia cospicua ed offra un esempio interessante per la nostra problematica47. Sappiamo con assoluta certezza che vi furono redazioni statutarie nel Duecento, tutte perdute. Il primo statuto superstite risale al 1318, accolse fin dall’inizio sui margini del codice numerose addizioni in seguiti a delibere consiliari e fu seguìto nel 1350 da una nuova redazione, ornata di bellissime miniature di contenuto “profano” (uffici e mestieri), e da una terza nel 1365, senza che mai una redazione sopprimesse le altre: questo vuol dire che a Trieste, come certamente in altre realtà comunali, insorse ad un certo momento una attenzione nuova alla custodia dei documenti, anche di quelli che si potevano ritenere obsoleti. Occorre infine dire del grande slancio normativo che la città conobbe dopo la dedizione al duca d’Austria del 1382: non che limitare l’autonomia legislativa del Comune, il nuovo sovrano accettò una sua intensificazione, che si riflette nelle centinaia di addizioni statutarie deliberate dal 1384 in avanti, dopo un relativamente lungo silenzio di iniziativa normativa al tempo della dominazione veneziana sulla città.
50Oltre a fornire elementi per la questione del passaggio dalle delibere consiliari agli statuti e alle questioni delle deroga, i casi colligiano e triestino rendono variamente ragione del perché delle revisioni statutarie. Esse erano certo determinate in parte da esigenze di ordine, di chiarezza, dall’impossibilità anche fisica di procedere ad integrazioni e modifiche inizialmente affidate ad addizioni sui margini o su quaderni annessi. Ma più fondamentale era l’esigenza di rinnovo dettata da mutamenti istituzionali: per Trieste si trattò nel 1350 dell’intenzione di mutare da cooptativa a ereditaria la composizione del Consiglio, una sorta di “serrata” di tipo veneziano. A Colle di Val d’Elsa il rinnovo statutario del 1307 fu motivato dal consolidamento dello schieramento guelfo in una situazione resa critica dalla ripresa imperiale del primo Trecento nonché da una volontà di assestamento degli organi di governo del Comune, i quali fino ad allora avevano conosciuto una certa fluidità istituzionale.
51Infine. Il carattere variegato della produzione statutaria del Due e del Trecento e il suo inquadramento in situazioni politiche e istituzionali molto differenti pongono un problema a quanti vogliano eseguire comparazioni fra testi, ciascuno dei quali, sia ricordato per inciso, conta decine e centinaia di capitoli. Vorrei allora suggerire, in uno spirito di ipotesi di lavoro e suscettibile di mille variazioni, pochi punti di comparazione che mi sembrano significativi. Anzitutto le modalità dei rinnovi: loro cronologia, eventualmente prestabilita e disciplinata, e affidamento dell’impresa a emendatori e sapientes; attribuzione di un carattere immodificabile e perpetuo a determinati capitoli; situazione delle donne: regime patrimoniale, questioni dotali, capacità di testimoniare in giudizio; obbligazioni e loro garanzie reali e disciplina in caso di insolvenza; infine disciplina dei prezzi, con prezzi amministrati, incluso il saggio dell’interesse. Ma è un ventaglio aperto, certamente gli studiosi di statuti potranno indicare altri punti sensibili quali oggetto di proficua comparazione.
Notes de bas de page
1 Pertile 1871-1887; Fontana 1907; Chelazzi 1943-1999.
2 Sulla struttura della documentazione comunale italiana e sul collocamento al suo interno delle delibere consiliari e dei testi statutari rinvio a Cammarosano 1991. Grande è stata, dagli anni Novanta dello scorso secolo ad oggi, la fioritura di studi e iniziative sulle legislazioni statutarie e sui Consigli e le loro delibere. Bibliografie sono state elaborate a cura del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti statutarie, costituito presso la Biblioteca del Senato della Repubblica e recentemente evoluto in una Associazione; ricorderò solo l’ultimo prodotto: Bibliografia statutaria italiana 2017. Nella collana “Il Medioevo nelle città italiane”, da me diretta presso la Fondazione Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, ogni volume contempla una rassegna delle fonti scritte all’interno della quale le delibere consiliari e la legislazione statutaria hanno la parte che loro spetta. Sono apparsi al momento i libri su Siena (scritto da me), Fermo (F. Pirani), Bologna (G. Milani), Ascoli Piceno (G. Pinto), Trento (E. Curzel), Genova (P. Guglielmotti), Arezzo (G.P.G. Scharf), Brindisi (R. Alaggio), Firenze (L. Tanzini), Venezia (E. Orlando), Parma (R. Greci), Roma (C. Carbonetti Vendittelli, S. Carocci, A. Molinari), Asti (E.C. Pia), Rimini (E. Tosi Brandi), Amalfi (A. Galdi), Verona (G.M. Varanini). Si capisce che non tutte le città hanno avuto una organizzazione comunale e hanno custodito una tradizione di scritture legislative, l’interesse della collana sta proprio nel consentire confronti e paralleli.
3 Bottazzi 2016 e 2018. Un inquadramento generale in Bottazzi 2012.
4 L’ho ricordato nel libro citato qui sopra nella nota 2, alle p. 152-153.
5 Per la legislazione genovese si vedrà Guglielmotti 2013, p. 133-139.
6 Per questo tipo di subordinazione e per le dialettiche fra comunità locali e signori si vedrà adesso, anche per la ricca bibliografia e una rassegna critica della letteratura recente, anche di dimensione europea, Fiore 2017.
7 Anche qui è utile un lavoro di Fiore 2012.
8 Referenze bibliografiche e inquadramento storico in Brezza 2010.
9 Lo Statuto dei consoli del Comune di Pistoia 1977.
10 Bottazzi 2016, p. 32.
11 Ho rievocato tutte queste vicende in Cammarosano 2001, p. 252-263.
12 Bottazzi 2016, p. 33 e 35.
13 Bottazzi 2016, p. 33 e 37; e Bottazzi 2018.
14 Cfr. Cammarosano 1974, p. 134-137; poi Cammarosano 2016, p. 331-337.
15 Si vedrà soprattutto, anche con i riferimenti all’amplissima bibliografia precedente, Storti Storchi 1998.
16 Rinvio ancora al lavoro di Paola Guglielmotti che ho citato qui sopra nella nota 5.
17 Repertorio degli statuti della Liguria 2003.
18 I Libri Iurium della Repubblica di Genova 1992; Niccolai 1939.
19 Si vedrà però per numerose occorrenze e per una discussione del problema il saggio di Faini 2016, p. 30-37.
20 Il “Registrum Magnum” del Comune di Piacenza 1984-1988. Nel Registrum Magnum piacentino si leggono dei testi statutari emanati dalle autorità comunali cittadine, o promulgati sotto la loro egida, per disciplinare i rapporti fra i signori e i dipendenti di alcune aree del territorio: I, nn. 117 e 149 e II, n. 343: ma è un tipo di testi che, come ho detto in apertura, esula dal tema che tratto in questa sede.
21 Besta – Barni 1949. Sul Liber si veda, per una ampia discussione e per la bibliografia, Keller 1989.
22 Per citare un testo estraneo alla sfera giuridica, il frate Giovanni di Pian di Carpine dirà alla metà del Duecento di come il Khan dei mongoli avesse emanato “leges et statuta multiplicia”: Giovanni di Pian di Carpini 1989, p. 264 (di uno “statutum” dice anche a p. 269).
23 Gli atti del Comune di Milano fino al 1216 1919, n. LXXV.
24 Schneider 1907, n. 425.
25 Gli atti del Comune di Milano fino al 1216 1919, n. XCVIII.
26 Cessi 1938.
27 Vedi, anche per una bibliografia posteriore al lavoro del Cessi – Padovani 1995.
28 Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento 1965, n. 52.
29 Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia 1950, 1931, 1934, I, n. XVII a p. 252.
30 Un segmento particolare e di particolare importanza delle legislazioni statutarie veneziane, quello delle corporazioni artigiane, fece oggetto, insieme alle addizioni che erano recate ai capitularia dalle autorità cittadine superiori, della grande e preziosa fatica di Giovanni Monticolo: I Capitolari delle Arti Veneziane 1896-1914.
31 Rinvio alla sintesi in Cammarosano 2009b, p. 108-110.
32 Cfr. Fissore 1989.
33 Per Pistoia cfr. qui sopra, nota 9. Per Todi: Cammarosano 2010.
34 Bocchino 1981.
35 Citerò soltanto: Archivi e comunità tra medioevo ed età moderna 2009; Archivi e archivisti in Italia tra medioevo ed età moderna 2015; infine, corredato di vastissima bibliografia, Fonti per la storia degli archivi degli antichi Stati italiani 2016. Più arretrata mi sembra, ma posso non essere aggiornato, la situazione della ricerca sul ruolo degli ospedali in quanto collettori di archivi pubblici.
36 Bartoli Langeli 1983-1985-1991, I, p. XLVII-XLVIII e II, n. 206.
37 La descrizione è all’interno dell’ampio saggio di Varanini 2006, p. XIX-LXXXVIII, alle p. XXI-XXII; riproduzione fotografica del frammento tavv. III e IV.
38 Statuti della Provincia Romana 1930; p. 27-269, descrizione dei manoscritti alle p. 27-45, edizioni alle p. 47-91 e 93-269.
39 Ivi, p. 335-350. Per la raccolta di statuti presso l’Archivio di Stato di Roma cfr. la Guida generale degli Archivi di Stato italiani III, 1986, p. 1265. È da notare in questi statuti la scrittura su due colonne, non usuale nei testi statutari anche se certo attestata già nel Duecento, ad esempio negli statuti di Treviso del 1260-1263: si veda la foto in Gli Statuti del comune di Treviso 1984, 1986, I, Tav. I-I (prima pagina del testo) e Tav. I-2 (rubricario).
40 Boileau 1879.
41 Le Costitutiones si leggono in Leicht 1917, 1925, 1955, I/2, n. CXXIV, p. 215-265.
42 I bandi di Arrigolo Accarigi sono stati editi in Cammarosano 2009c, mentre l’evoluzione statutaria fino agli stati del 1307-1308 è illustrata in Cammarosano 2012, p. 23-60.
43 Di tutto ciò ho parlato distesamente nella mia Storia di Colle di Val d’Elsa nel medioevo di cui alla nota che precede. Lì ho pubblicato una scelta ampia di delibere consiliari. Nel volume III sono editi anche gli statuti dell’Arte della Lana di Colle: un primo del 1323 redatto in latino ma che ci è giunto mutilo, un secondo del 1332 in volgarizzamento che abbiamo invece integralmente (rispettivamente p. 516-517 e 518-537).
44 Sbarbaro 2005.
45 Tanzini 2010.
46 Sbarbaro 2005, p. 111-136 e 143-150.
47 Cammarosano 2009a.
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Centro Europeo di Ricerche Medievali di Trieste - paolo.cammarosano43@gmail.com
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Comportement des hommes politiques et représentations publiques en France et en Italie du XIXe au XXIe siècle
Fabrice D’Almeida
2007
La Réforme en France et en Italie
Contacts, comparaisons et contrastes
Philip Benedict, Silvana Seidel Menchi et Alain Tallon (dir.)
2007
Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Âge
Jacques Chiffoleau, Claude Gauvard et Andrea Zorzi (dir.)
2007
Souverain et pontife
Recherches prosopographiques sur la Curie Romaine à l’âge de la Restauration (1814-1846)
Philippe Bountry
2002