«Regi protettori» e «virtuosi trattenimenti»
Principi medicei e intellettuali fiorentini del Seicento tra corte, teatro e accademia
p. 445-472
Texte intégral
Accademie, confraternite e teatro nella Firenze secentesca
1Lo studio del teatro fiorentino del xvii secolo, dopo aver a lungo esplorato le caratteristiche dello spettacolo di corte da un lato e delle compagnie itineranti dall’altro, si è indirizzato verso nuovi campi di ricerca. In particolare si sta rivelando fecondo il sondaggio della vita teatrale dilettante, quel «fondamentale capitolo delle accademie» che già Ludovico Zorzi annunciava a suo tempo di voler affrontare1. Progressive acquisizioni hanno evidenziato per il teatro fiorentino prodotto all’interno delle confraternite e delle accademie una notevole consistenza qualitativa e quantitativa, per tutto il Seicento2. I rapporti tra intellettuali accademici e potere mediceo, in cui ogni eventuale conflittualità era prudentemente smussata da una instancabile opera di mediazione, animavano l’ossatura di una vita culturale in cui il teatro e, più in generale, la dimensione spettacolare rivestivano un ruolo fondamentale.
2Nonostante lo sviluppo del controllo mediceo, Firenze conservava gelosamente le proprie radicate abitudini associative che, nell’inevitabile dialettica con il potere granducale, continuarono ad incarnare a lungo il carattere policentrico del tessuto cittadino. La intricata trama di adunanze di cui era costellata la vita dei quartieri consisteva in un fluido magma di formazioni e scioglimenti di gruppi d’ogni tipo, ma quest’apparente fragilità poggiava sul più solido sostrato originario della sociabilità fiorentina, l’insieme delle confraternite, al cui interno trovarono non a caso la loro origine alcune accademie teatrali, come ad esempio quella degli Instancabili (dalla compagnia di San Giovanni Evangelista) e quella degli Infiammati (dalla compagnia di San Giorgio sulla Costa)3. Un gruppo di confratelli particolarmente affiatato decideva di strutturarsi in accademia e dotarsi di uno statuto autonomo nel quale si regolavano le attività e le competenze dei singoli membri aderenti. I novelli accademici continuavano a frequentare e a richiamarsi alla confraternita di origine. Con essa condividevano il santo protettore, e avevano anche l’autorizzazione ad usufruire dei medesimi locali. Non tutte le accademie teatrali nascevano tuttavia all’interno di confraternite: alcune, come quelle degli Incostanti e dei Sorgenti, erano composte prevalentemente da artisti e artigiani; altre, come quelle degli Affinati o dei Percossi, si erano formate all’interno del ceto dei funzionari di corte; altre ancora, come quella dei Rugginosi, degli Immobili, degli Infuocati, riunivano elementi della nobiltà fiorentina che si assumevano il compito di rappresentare spettacoli sontuosi direttamente sponsorizzati e strumentalizzati in senso politico dall’entourage mediceo.
3Gli accademici, anche quando non vi si appoggiavano direttamente, non potevano comunque non ispirarsi alla consolidata struttura organizzativa delle confraternite, da secoli principali luoghi di riferimento per la formazione culturale della gioventù fiorentina, nonché laboratori di pratica e sperimentazione teatrale. Le messe in scena realizzate all’interno delle compagnie religiose riuscivano infatti a catalizzare e integrare in modo esemplare finalità pedagogiche, competenze professionali, attitudini artistiche. Restavano tuttavia prevalenti in queste istituzioni le occupazioni devozionali ed assistenziali, mentre la pur rilevante attività performativa rimaneva classificata negli statuti come «onesta ricreazione»4; il teatro assumeva inoltre nella confraternita una precisa collocazione funzionale nella dichiarata rivalità con il carnevale profano: impegnando i fanciulli nell’allestimento e nella recita di spettacoli «onesti» si impediva che essi partecipassero a divertimenti incontrollati. All’interno delle accademie teatrali coltivare l’esercizio di «virtuosi trattenimenti» (o «azioni virtuose»), come orazioni, poesie, commedie, diveniva invece il motivo d’essere stesso dell’associazione. Le rappresentazioni sceniche avevano il compito di disciplinare unitariamente oratoria, danza e musica, virtù considerate essenziali nella coltivazione di un perfetto gentiluomo. Il teatro costituiva la principale espressione culturale di molte di queste istituzioni, all’interno delle quali si trovano la maggior parte dei letterati e drammaturghi operanti nella Firenze secentesca, come Alessandro Adimari, Lodovico Adimari, Girolamo e Mattias Maria Bartolommei, Michelangelo Buonarroti il Giovane, Mario Calamari, Andrea Cavalcanti, Jacopo e Giacinto Andrea Cicognini, Giovan Carlo Coppola, Giovan Battista Doni, Giovan Battista Fagiuoli, Giovanni Andrea Moniglia, Orazio Persiani, Giovan Battista Ricciardi, Francesco Rovai, Pietro Susini, Giovanni Cosimo Villifranchi5.
4Se è vero, come sembrano dimostrare gli studi più recenti, che dalle accademie provengono le spinte creative più significative del teatro fiorentino del xvii secolo, l’attività teatrale costituisce dunque a sua volta uno dei principali propulsori della vita intellettuale fiorentina. Oltre a esprimere contenuti prettamente culturali, certamente fondanti, l’attività teatrale accademica aveva anche una funzione di mediazione filtrata e idealizzata tra l’attività interna delle istituzioni intellettuali, il tessuto cittadino e il potere politico. Accanto alla potenzialità del teatro di veicolare e, all’occorrenza, di mascherare contenuti ideologici, va infatti sottolineato l’effetto ’pubblicitario’ e propagandistico che una rappresentazione teatrale produceva. Si aumentava la visibilità e il prestigio dell’adunanza accademica che la promuoveva, attirando la benevolenza e la protezione di nobili benefattori, interessati a loro volta a un possibile ritorno di immagine attraverso la gestione di un oculato mecenatismo.
5I protagonisti di questo interessato mecenatismo erano naturalmente i principi medicei. E tra essi troviamo il più importante promotore della vita accademica e teatrale fiorentina negli anni centrali del Seicento, il principe e cardinale Giovan Carlo de’ Medici, significativamente ricordato dai contemporanei come «regio protettore delle accademie». Il principe, potenziando la tradizionale politica medicea di controllo sulla vita associativa fiorentina, cavalcò abilmente il carattere centrifugo della rete accademica (già ampiamente sviluppatasi fin dal periodo della reggenza di Maria Maddalena d’Austria) per costruirsi una sorta di ‘potere parallelo’ a quello del fratello granduca Ferdinando II, con cui si trovava sovente in conflitto. Coltivare una tela di utili rapporti con l’intellighenzia fiorentina nei luoghi di aggregazione in cui essa si strutturava attraverso i circuiti cittadini esterni alla corte fu per Giovan Carlo la garanzia migliore per ottenere un sicuro ritorno in termini di immagine pubblica e di potere senza rimanere intrappolato in una funzione troppo subordinata all’ombra di Ferdinando II.
6Animata fin dall’inizio da una lucida strategia, l’opera mecenatesca di Giovan Carlo si estese nell’arco di un trentennio attraverso il controllo di molte istituzioni accademiche, nelle quali il principe incoraggiò soprattutto le attività spettacolari. Impose particolarmente, e non a caso, la sua protezione a numerose accademie teatrali: gli Instancabili (dal 1633), che agivano nel teatro del Vangelista e di cui Giovan Carlo si fece nominare «padrone e signore»; gli Improvvisi e i Percossi capitanati dal pittore e attore Salvator Rosa (tra il 1641 e il 1649), attivi presso il casino mediceo di San Marco; gli Immobili (dal 1648), per i quali fece costruire ex novo dall’architetto Ferdinando Tacca il teatro del Cocomero (nel 1650) e il teatro della Pergola (nel 1652), e infine i Sorgenti (dal 1656), che dal 1654 si erano insediati nel teatro del Cocomero (abbandonato dagli Immobili) per farne un teatro pubblico a pagamento destinato alla messa in scena di commedie in prosa e melodrammi. Appropriandosi in modo graduale della gestione dei luoghi teatrali e delle adunanze più influenti, il principe poté rapportarsi dialetticamente con gli ambienti di corte e di accademia in modo da sfruttare al meglio la trasversalità della propria posizione. Non a caso fu proprio durante questi anni che cessarono la loro pluridecennale attività i due principali teatri fondati e gestiti dall’amministrazione granducale: il teatro di corte deli Uffizi e il teatro pubblico dei comici dell’arte detto di Baldracca (situato sul retro degli stessi Uffizi e sopravvissuto per qualche tempo alla concorrenza del Cocomero soltanto grazie all’interessamento diretto del medesimo Giovan Carlo)6.
7Oltre che alla dilagante personalità di Giovan Carlo, il potenziamento della vita accademica e la progressiva ridefinizione in senso policentrico del sistema teatrale fiorentino era più in generale legata alla frammentazione del mecenatismo mediceo, gestito con certa autonomia da altri due principi della casa regnante, Mattias e Leopoldo, fratelli minori di Giovan Carlo. Non va peraltro dimenticato che già nella prima metà del secolo i principi Giovanni e Lorenzo de’ Medici avevano protetto due accademie teatrali che si susseguirono nel palazzo mediceo di via del Parione, rispettivamente gli Incostanti e i Concordi; furono questi ultimi che, dopo la morte di Lorenzo nel 1648 passarono sotto la protezione di Giovan Carlo e mutarono poi il nome in Immobili7. Ma le dinamiche mecenatesche nei confronti delle accademie appaiono negli anni centrali del Seicento senza dubbio più intense e ricche di implicazioni. Mattias, a lungo governatore di Siena, promosse in quella città nel 1646 la costruzione di un nuovo teatro accademico ispirato a modelli veneziani e patrocinò a Firenze tra il 1665 e il 1666 le messe in scena degli accademici Abbozzati in via del Cocomero8. Leopoldo nel 1650 promosse la formazione dell’accademia degli Affinati, attivi in un primo momento in un teatro fatto appositamente costruire dal principe nel Palazzo Medici in via Larga e successivamente attivi nel casino di San Marco; protesse poi presso il teatro del Cocomero gli accademici Cimentati, attivi tra il 1665 e il 1667, gli accademici Adamisti e probabilmente anche i nobili accademici Infuocati, quando anch’essi si trasferirono al Cocomero nel 16699.
8Proprio per sottolineare la rilevanza funzionale dell’attività spettacolare nell’ambito dei rapporti tra intellettuali e potere mediceo, tralasceremo qui la trattazione di accademie specificamente teatrali10, per indicare invece la significativa attenzione al teatro e allo spettacolo che si registra negli anni centrali del Seicento all’interno di due tra le più importanti istituzioni fiorentine del tempo, le accademie degli Svogliati e della Crusca.
L’accademia degli Svogliati: un organo di controllo sulla produzione drammaturgica?
9Negli anni ’30 del secolo si assistette alla ricostituzione di due tra le istituzioni fiorentine più importanti nella cultura scientifica e letteraria: l’accademia degli Apatisti, che si costituì sotto la protezione di Giovan Carlo de’ Medici all’interno della «conversazione» di Agostino Coltellini11, e l’accademia degli Svogliati di Jacopo Gaddi, riunitasi dopo un periodo di inoperosità12.
10La quota all’interno dell’accademia degli Svogliati di ex-confratelli della compagnia dell’Arcangelo Raffaello detta della Scala fa supporre una certa contiguità dell’accademia con la confraternita13. Interessa tuttavia qui rilevare nell’accademia l’inconsueta concentrazione di poeti, scrittori e teorici dediti al teatro, che la caratterizza nettamente rispetto ad altre simili istituzioni fiorentine. Nella veste di volta in volta di censori o consiglieri, si ritrovano nel novero degli iscritti dell’accademia: Alessandro Adimari, Giovan Carlo Coppola, Cammillo Lenzoni, Giovanni Battista Doni, Andrea Cavalcanti, Francesco Rondinelli, Pietro Salvetti, Carlo Dati, Orazio Rucellai, Benedetto Buonmattei, Girolamo Bartolommei, Francesco Rovai, con la ‘partecipazione straordinaria’ di un giovane letterato inglese, John Milton («Giovanni Miltonio») che, di passaggio a Firenze, «desiderava di entrar nell’accademia» e presenziò per qualche mese alle riunioni14.
11Il dibattito accademico affrontava non di rado questioni filosofiche e scientifiche (significativo il peso che aveva la discussione astronomica, tesa a ribadire con forza l’immobilità della Terra)15, ma il teatro costituiva un cardine non meno rilevante della riflessione degli Svogliati. Coerentemente con l’impostazione prevalentemente teorica dell’adunanza, si discutevano spesso questioni drammaturgiche, in particolare se potesse darsi o meno la tragicommedia senza tradire i precetti aristotelici16. Certamente l’elaborazione teorica di Girolamo Bartolommei nella Didascalia, cioè Dottrina Comica17, che anni dopo si sarebbe rivolta ad altri «virtuosi accademici» (probabilmente gli Affinati del figlio Mattias Maria), traeva in parte diretto spunto da quanto dibattuto negli anni precedenti con gli Svogliati. Un altro tra i più rilevanti intellettuali del tempo, Giovanni Battista Doni, di ritorno a Firenze dopo un lungo soggiorno nella Roma dei Barberini durante il quale aveva frequentato l’accademia degli Umoristi, poté nell’accademia degli Svogliati diffondere le proprie idee e leggere i suoi trattati di musica, soltanto in parte dati alle stampe, nella speranza di vederli presto pubblicati18. Si può certamente immaginare che Doni avesse letto tra gli Svogliati quei passi del suo Trattato della musica scenica (attribuibile, per riferimenti interni, ad anni successivi al 1634) più attinenti alle tematiche teoricodrammaturgiche frequentate nell’adunanza. Nel suo trattato, tra le altre cose, Doni auspicava una maggiore attenzione dei drammaturghi al genere della commedia19. Un buon esempio si doveva trarre dall’attività teatrale di Gian Lorenzo Bernini e «nelle commedie che egli ha fatto rappresentare così al vivo da’ giovani dell’Accademia del Disegno, le quali si accostavano assai a quelle commedie dei Greci, che propriamente si dicevano antiche; come anco quelle del signor Michelagnolo Buonarroti [il Giovane] che esprimono gentilmente e motteggiano con Attica anzi Toscana piacevolezza i corrotti costumi degli uomini». Questi modelli dunque «senza fallo molto più diletteranno che queste commedie odierne, nelle quali si vedono quasi sempre le medesime cose e vedonsi i medesimi personaggi»20. Doni, come si vedrà nel prossimo paragrafo, svolse un ciclo di lezioni sul teatro e sulla musica anche presso l’accademia della Crusca.
12La prassi degli Svogliati richiedeva a ciascuno di far conoscere le proprie composizioni, e spesso venivano lette pubblicamente dagli autori scene di commedie o tragedie21 Alla lettura seguivano le obiezioni degli accademici e discussioni di vario genere spesso condotte dal poeta e drammaturgo Alessandro Adimari22, censore e in seguito principe dell’accademia. Similmente a quanto avvenne per l’accademia romana degli Umoristi23 alla quale peraltro erano iscritti alcuni dei membri e dalla quale proveniva lo stesso Doni, la reputazione degli Svogliati rese l’istituzione un punto di riferimento imprescindibile anche per artisti esterni all’adunanza che, per interesse di carriera, volessero veder riconosciuto pubblicamente il proprio talento. A questo pare si possano riferire anche alcuni versi di Margherita Costa dedicati agli accademici:
Non tante ebbe giamai doctrine Athene
o vantò Roma discipline industri;
quante in voi la virtude or ne contiene
a vincer gl’anni, a trionfar de’ lustri.
[...]
Ond’è che s’ altri nell’Italia stende
altera fama di virtù feconda
a voi ricorre e nel sen vostro splende;
e sol per voi di doppia fama abonda24.
13Sono documentate sedute in cui si svolsero tra gli accademici serrati dibattiti anche su drammi destinati ad essere recitati, inviati all’adunanza per subire una severa supervisione25. Si delinea dunque una sorta di fucina drammaturgica che può aver assolto a funzioni selettive, secondo modalità più o meno ufficiali, con la prerogativa di organo di controllo e vigilanza sulla produzione teatrale fiorentina.
14Un esempio specifico può fornire indizi significativi sui travagliati rapporti che intellettuali in cerca di affermazione dovettero instaurare con i principi medicei, e sui complessi meccanismi sottesi all’appalto di avvenimenti spettacolari strettamente vincolati al potere. L’evento che oggi si costituisce per antonomasia paradigma e sintesi del teatro fiorentino secentesco di emanazione medicea, Le Nozze degli Dèi del 1637, vide per la prima volta la partecipazione del principe Giovan Carlo de’ Medici nelle vesti ufficiali di «soprintendente»26. Anche se non sono note con precisione le modalità con cui si giunse infine alla scelta della favola di Giovan Carlo Coppola (sappiamo che Coppola nel settembre del 1636 aveva già ottenuto la commissione di scrivere l’opera, o l’aveva addirittura già scritta)27, un epistolario risalente al dicembre del medesimo anno lascia supporre che Giovan Carlo de’ Medici fosse stato il mediatore di riferimento per la definizione finale del testo e della musica e che probabilmente l’accademia degli Svogliati fosse stata teatro delle lotte relative all’appalto del testo; i due drammaturghi protagonisti della vicenda, Cammillo Lenzoni e Giovan Carlo Coppola, erano infatti entrambi appartenenti all’accademia.
15Da una missiva indirizzata a Giovan Carlo de’ Medici si apprende che a Cammillo Lenzoni28 era stata inizialmente commissionata la scrittura della commedia da farsi in musica per le nozze granducali. La sua fama avrebbe avuto con l’importante incarico un’occasione decisiva per affermarsi stabilmente nell’ambiente letterario fiorentino. Lenzoni, ben consapevole di questo, scrisse a Giovan Carlo de’ Medici una lettera disperata e sconnessa, che rifletteva l’impietosa gestione da parte della corte medicea degli artisti al suo servizio e il senso di precarietà psicologica e materiale che caratterizzava la loro posizione. L’appellativo di «fratello» con cui il poeta si rivolse arditamente al principe nel chiedergli di poter essere in qualche modo utilizzato per i previsti festeggiamenti, vuole certamente riferirsi alla comune frequentazione di una confraternita, probabilmente quella dell’Arcangelo Raffaello, alla quale la granduchessa Maria Maddalena d’Austria aveva iscritto fin da piccoli i principi medicei:
Illustrissimo signor fratello, quando feci la mia commedia non ebbi mai altra intenzione che farla per accertare l’Altezze del mio devoto affetto; nel resto è ben dovere che i figlioli seguano talvolta le disavventure del padre, e confrontandomi col purgato lor gusto non posso se non rallegrarmi dell’ottima elezione29. Duolmi solo che, protetta, pubblicata da Sua Altezza e per Firenze stimata eletta a tale onore, nel sentirsi altro esito, né sensata dalla benità, per seguire di presente la Comessione, non sia tenuto difettoso o l’autore, o l’opera: son fatali avvertimenti; il Cielo non mi vuol Poeta, onde per non sforzare il Fato ho, sùbito al suo avviso, dato alle fiamme li mia pensieri poetici e appiccato la cetera al chiodo. Ringrazio Dio: tralasciato la mia sanità, me stesso e la casa mia, già ero pervenuto al sesto canto del mio poema; scorgo a tal lume, a qual precipizio correvo. Vedo quanto s’ingannano l’effetti. Che, riguardando la nascita, i costumi, la servitù, l’osservanza, e la prontezza mia, non ad altrui diseguale, altro non posso che l’inabilità mia poco fortunata il tutto permetta. Tacerò dunque per l’avvenire co’ i carmi, e il tutto d’altrui adorerò devoto. Può Vostra Signoria rendersi certo che niente abbi migliorato, a tale avviso, e che se ci fossi in Pisa lettighe, sarei venuto morendo, nonché, in grado che fino a tenere i lumi, ad ementare alla Comedia posso, a quel ch’io sento, servire. Io non so già quello ch’io possa sperare ad esser buono a queste feste, per mia reputazione pure, mentre la Corte, come io sento, non venga qua, e il Serenissimo principe; alla sua replica verrò subito, nel grado ch’io sono. Almeno so pensare in quello possa esser di giovamento al signor Bali30 e signor Parigi31, arò perciò caro mi diciferi questo comandamento a che fine tenda, e mi scriva pur liberamente, che ho cuore a maggior colpi. Di Pisa, di dove attendo subita risposta per mia quiete il dì 18 dicembre 1636. Di Vostra Signoria Illustrissima. Cammillo Lenzoni32.
16La storia successiva di Cammillo Lenzoni33 apre alcuni squarci significativi sui meccanismi che potevano innescarsi nei confronti di personaggi poco graditi34, e complementarmente rivela quanto fosse decisivo il potere di Giovan Carlo.
17Anche per quanto riguarda la scelta della musica che avrebbe dovuto ‘rivestire’ la commedia selezionata per le nozze granducali si evidenzia il ruolo decisivo del principe fiorentino. Nel suo epistolario si trova infatti una missiva di Luigi Rossi, il noto operista di scuola romana. Dalla lettera si deduce che al compositore era stata commissionata la partitura musicale della commedia di Coppola35, scelta per i festeggiamenti nuziali. La reticenza di Giovan Carlo nel fornire al musicista adeguate istruzioni in merito al proseguimento del lavoro indusse presto una richiesta di chiarimenti definitivi:
Scrissi già d’aver ricevuto il terzo atto, e a quest’ora avrei già finito tutta l’opera, ma mi sono incagliato, perché quando venne in Firenze il signor Ambasciatore mandai, come Vostra Signoria sa, un saggio delle mie fatiche, acciò si scrutinasse e vedesse se fusse stata degna di fine e di rappresentarsi, e ancora desiderava [sapere] quando s’avesse a fare, perché s’era per farsi presto mi sarei spronato. Mi fu risposto che non c’era fretta, e del piacere o non piacere non mi fuscritto niente, onde feci la conseguenza, o che le mie note fussero state poco piaciute, o che c’era del tempo assai. Misi l’opera da banda, perché la mia Musa corrisponde all’uso del bisogno. Doppo la mia sciagurata disgrazia sono stato tre mesi senza por mano in carta, avendo in capo più il pianto che ’l canto; ora mi sono messo a lavorare per il bisogno dell’accomodamento dello stato mio, ch’avend’io lasciato la servitù della casa Burghese mi ritrovo senza padrone, e, bench’io per la Dio Gratia anche ne potrei far senza, ma un certo stimolo di reputazione, per il modo che non suole ch’io mi stia ozioso e senza appoggio di grande, mi fa far fatiche a questo fine, talché al presente mi ritrovo poco atto al servizio della Comedia, e solo potrei per servire il Serenissimo signor principe [Giovan Carlo] e Vostra Signoria finire per Natale il primo atto, e gl’altri dui farli comporre da altri, se c’è molta fretta. Del resto vivo a Vostra Signoria devotissimo e affezionatissimo con infinito desiderio di servirla, mentre per finire la riverisco. Roma li 6 dicembre 1636. Di Vostra Signoria Illustrissima, Luigi Rossi.36
18Luigi Rossi, forte di una fama maggiore di quella del letterato Lenzoni (costretto a inseguire per tutta la vita e senza troppa fortuna la protezione medicea), sottolineava con orgoglio che la propria notorietà non richiedeva necessariamente la protezione di un padrone (l’«appoggio di grande»). In quest’ottica va letta anche l’ostentata versatilità di un’ispirazione gestita a comando, di una Musa che, con vanto compiaciuto, veniva pragmaticamente fatta corrispondere «all’uso del bisogno». La lettera si conclude con l’accenno a una scarsa disponibilità contingente «al servizio della commedia» e si risolve con un poco servile disimpegno nel far «comporre da altri» parte della musica «se c’è molta fretta». Al lavoro di Luigi Rossi, come è noto, sarebbe stato alla fine preferito quello di altri.
Opere in musica e «stravizzi» nell’accademia della Crusca
19Nel periodo tra gli anni ’40 e ’60 del Seicento, vissuto sotto l’influenza dei protettori Giovan Carlo e Leopoldo de’ Medici, l’attività dell’accademia della Crusca37 si sbilanciò significativamente verso l’esercizio dello spettacolo, e una vera ripresa del lavoro linguistico non poté aversi che dopo la morte del maggiore tra i due fratelli, Giovan Carlo. Soltanto allora si sarebbe potuto realizzare il contributo più significativo ai progressi della terza edizione del Vocabolario per cui è oggi giustamente noto Leopoldo. Fino a quel momento l’accademia sarebbe stata gestita strumentalmente dai due mecenati per appagare esigenze più estemporanee finalizzate all’amplificazione visibile del loro potere. Si manifestò così una sensibile virata verso l’attività performativa che, se da un lato rischiò di snaturare e mettere in crisi la stessa ragion d’essere dell’accademia, dall’altro contribuì a pubblicizzare utilmente la sua immagine (da lungo tempo offuscata a causa di una stasi decennale) e a incentivare importanti riflessioni sulla musica e sul teatro.
20La riflessione intorno al teatro per musica non aveva avuto a Firenze sviluppi clamorosi dopo la leggendaria stagione della Camerata. Dopo gli spettacoli di Andrea Salvadori negli anni ’2038, il testimone era passato nel decennio successivo ai più fertili e innovativi ambienti operistici di Roma e di Venezia. Al di là della contingenza politica e militare (la guerra di Castro) che aveva inasprito i rapporti tra il papato e la corte toscana, rimane eloquente dal punto di vista artistico il rifiuto operato dall’entourage mediceo, in occasione delle Nozze degli Dèi, nei confronti di uno dei principali innovatori del teatro operistico musicale, Luigi Rossi. La redazione negli anni ’30 del trattato fiorentino intitolato il Corago (probabilmente opera dell’accademico Pierfrancesco Rinuccini) è tuttavia segno di una fase di rilancio della riflessione sul genere39. La partecipazione di Giovan Battista Doni alla vita accademica fiorentina (come si è visto nel paragrafo precedente), costituì un’importante occasione per alimentare ulteriormente il rinnovato dibattito sul teatro e sulla musica, non a caso nel momento in cui a Venezia, dal 1637, si stavano aprendo i primi teatri pubblici a pagamento dedicati alla rappresentazione di melodrammi40. E una delle istituzioni che apprezzarono maggiormente le lezioni di Doni sul teatro e la musica fu proprio l’accademia della Crusca.
21Doni fece le sue lezioni alla Crusca tra il 1641 e il 164241, cinque delle quali stampate in una pubblicazione settecentesca42 : «Del modo tenuto dagli Antichi nel rappresentare le Tragedie, e Commedie»; «Sopra la rapsodia»; «Sopra il mimo antico»; due «Sopra la musica scenica». Lo studio del teatro antico, scevro di sterili archeologismi (traspare sempre nelle lezioni di Doni scetticismo verso il recitar cantando elaborato dalla celebre «Camerata» dei Bardi), è sempre messo da Doni in relazione con la pratica dello spettacolo coevo. Dalla seconda lezione, «Sopra la rapsodia», si apprende che Doni era arrivato da Roma deluso dalla resistenza opposta dall’accademia degli Umoristi presieduta da Camillo Colonna alle sue sperimentazioni musicali, che intendeva perciò mettere al più presto in pratica presso la corte fiorentina43 :
Oggi mi sono proposto di favellare di un soggetto, cioè sopra la rapsodia degli antichi Greci: senza però scordarmi della dovuta brevità, sì per lasciare agli altri comodità di ragionare, sì anco per riservare qualche cosa in altro luogo, dove spero, mediante il benigno favore del signor Principe [Leopoldo?] qui presente, di farvi sentire in pratica quello sopra che oggi ragioneremo, e di darvi insieme qualche saggio della musica da noi perfezionata [...] purché le mie fatali avversità non facciano nascere qualche impensato intoppo e prolungamento che disturbi questa impresa: come tre anni fa mi successe in Roma nell’Accademia degli Umoristi, essendovi Principe il Signor Don Cammillo Colonna, il quale, benché con quei virtuosi accademici favorisse questo mio pensiero, tuttavia per la lunghezza di alcuni che vi avevano parte il negozio svanì affatto con qualche mio dispiacere per allora44.
22Nella rapsodia greca si poteva incontrare un modo di recitare che, né oratorio né attorico, poteva forse essere adottato dagli accademici per le loro composizioni poetiche:
Prima che i teatri si fabbricassero fu dai Greci esercitata [la Rapsodia] comparendo i suoi rappresentatori sopra un pulpito o altro luogo eminente dove da tutti fossero veduti e sentiti. Per una specie di Rapsodia possiamo oggi rassegnare quella recitazione de’ poemi che da’ giovani studenti si suol praticare [...], ancorché il gesto non vi sia interamente espressivo e istrionico, qual era quello degli antichi rapsodi; con tutto ciò, se convenientemente si fa, si può riporre come mezzano tra le due maniere estreme, l’una più semplice dell’oratoria, l’altra più artifiziosa del commediante45.
23In un passo della terza lezione Doni ci informa del fatto che nella Crusca si stava meditando di realizzare uno spettacolo teatrale da far recitare a palazzo Pitti con il contributo dei paggi di corte:
Conciossiacosaché nell’ultima accademia, Serenissimo Principe, degnissimo Arciconsolo, virtuosi accademici, si sia cominciato a trattare del modo da tenersi in eleggere e rappresentare in palazzo questo carnevale qualche azione dramatica [...] Si potrà impiegare maggior numero di paggi, così nel recitare, come nel ballare, ed altri esercizi cavallereschi, ne’ quali si mostra non meno la naturale disposizione e leggiadrìa del corpo che l’acquistata con l’arte e la buona disciplina46.
24La proposta di utilizzare i paggi di corte per la rappresentazione teatrale trova la sua ragione nella disciplina pedagogico-performativa (di ascendenza gesuitica)47 di cui essi erano oggetto nel ‘laboratorio teatrale’ della corte medicea. All’interno dei palazzi granducali, come è noto, si facevano regolarmente spettacoli per disciplinare ed educare principi e dignitari, veicolando i valori dell’assolutismo e plasmando, attraverso i «nobili esercizi», perfetti cortigiani. I paggi, in particolare, venivano impegnati in balli, mascherate e commedie, queste ultime recitate spesso nella Sala dei Forestieri di Palazzo Pitti. Doni aveva potuto certamente assistere alla giostra e alla commedia, volute da Giovan Carlo de’ Medici, che i paggi recitarono nel carnevale del 164148, e forse proprio la particolare riuscita di quelle esibizioni lo convinsero a formulare la proposta. Del resto già nel suo trattato Doni aveva stabilito che soltanto una prassi formativa di tipo cavalleresco (ballo, scherma, giochi vari) poteva contribuire a plasmare attori versatili e competenti, in grado di assommare in sé le migliori attitudini dei recitanti di ogni nazionalità49.
25La quarta lezione fu in buona parte spesa per contestare la pratica dello stile recitativo, che Doni riteneva fastidioso e inefficace50. Doni teneva a precisare che in antichità «non tutte le azioni si cantavano (come comunemente pare che si creda oggi), ma solo alcune parti di esse, dove il canto più si confà»51. Nella quinta lezione Doni fornì un interessante elenco di motivi per i quali sarebbe stato preferibile che le commedie non venissero cantate per intero. Spicca inoltre l’interesse per il problema delle diverse competenze di attori e cantanti (questi ultimi molto spesso non in grado di recitare appropriatamente):
Che si rappresentino queste azioni tutte cantate lo confesso, e molte ne ho udite io qui in Firenze, e in Roma, e particolarmente una tutta cantata da donne tre anni sono; ma che riescano bene, sicché molto meglio non riuscissero quando le parti affettuose sole si cantassero, non lo concedo altrimenti. E vaglia a dire il vero, non sentiamo noi tuttavia quanto presto vengano a noia quelle lunghe cantilene a chi della musica non è innamorato affatto? Primeramente si potranno le azioni, come accenai di sopra, comporre di più giusta grandezza, onde molto meglio vi si potrà intessere e sciogliere il nodo della favola, ed accomodarsi ogni sorte di discorso, che nelle più regolate tragedie si contenga. Secondo, non solo si sfuggirà il tedio, a cui sì lunghe musiche sogliono soggiacere; ma, per la varietà e scambievole mutazione della favella e del canto, più grate ne diverranno le azioni di quelle che contengono una sola maniera di rappresentazione. Terzo, perché bene spesso manca ai semplici cantori quella vivacità e grazia che richiede l’azione scenica, si potrebbero aggiugnere a quelli recitanti più esperti e manierosi per rappresentare quelle parti dove non abbisogna il canto, con acquisto grande di vaghezza e leggiadria. Quarto, abbreviandosi queste modulazioni, più volentieri e con maggiore studio ed artifizio dai musici si comporrebbono, onde riuscirebbono più vaghe, e più belle. Quinto, potrebbono i cantori molto meglio impararle a mente, quando fossero più brevi, ed anco cantar più forte: nel che oggi si manca notabilmente, o sia per infingardaggine, o per volere, come dicono, troppo imitare la comunale favella; oltreché con maggior gusto anco vi s’applicherebbono quando fossero melodie più vaghe e affettuose. Sesto, non occorrerebbe mettere in opera tanti cantori; anzi, si potrebbono eleggere i migliori, e fra questi anco scegliere solo quelli che avessero bella e gagliarda voce, e qualche grazia nel far gesto e portamento della persona, e non si vedrebbono talvolta montare in palco alcuni che, o non si sentono per la debolezza della voce, o sono tanto sconci e goffi nel gesto, che muovono altrui piuttosto a riso, che a diletto. Al che si doverebbe aver principalmente riguardo nelle sale de’ Principi, acciò non v’intervenisse cosa che nel suo genere non fosse esquisita, e rara52.
26L’argomentazione si conclude con una osservazione che sembra pensata su misura per assecondare sia l’oculatezza contabile dei principi medicei che la linea particolarmente ‘scenotecnica’ dello spettacolo fiorentino:
A questa considerazione ne va annessa un’altra (che sarà la settima): che impiegandosi minor numero di cantori si scemerebbe laspesa (la qual oggi riesce eccessiva a voler fare cosa buona) e quello che si risparmiasse potrebbesi utilmente applicare ad altro, in riguardo pure dell’apparato scenico53.
27Oltre alle ‘tentazioni’ teatrali ricavate dalle lezioni di Doni dei primi anni ’40 (che ebbero peraltro una interessante ricaduta linguistica, come ricostruito da recenti studi)54, un angolo di vita accademica della Crusca in cui si innestarono sperimentazioni e suggestioni spettacolari fu lo «stravizzo». A partire dai primi anni ’40 San Zanobi, il santo protettore eletto dalla rinnovata accademia, sarebbe stato festeggiato attraverso una sontuosa ed elaborata cena collettiva, lo «stravizzo» appunto.
28La dimensione conviviale costituiva un importante momento di socializzazione per le ‘virtuose conversazioni’ che animavano la vita associativa fiorentina. Spesso il rapporto con gli alimenti era vissuto con compiacimento, all’insegna di una variopinta eccentricità. A un grado aulico di trasfigurazione metaforica del convito, che aveva le sue manifestazioni più clamorose nei complessi meccanismi teatrali dei banchetti di corte, corrispondeva una speculare e provocatoria celebrazione degli aspetti più prosaici della buona tavola. Il cibo, l’ebbrezza, l’oscena dissacrazione, la follia, tòpoi di un certo immaginario poetico secentesco, erano anche suggestioni di costante riferimento nell’ambito del sostrato pseudo-goliardico che alimentava alcune brigate di artisti debosciati attivi in singolari accademie ai margini delle convenzioni, dell’ufficialità e, in taluni casi, della società stessa55.
29Nelle accademie ufficialmente contigue all’establishment politico trovavano parimenti spazio, sebbene attraverso modalità sensibilmente più edulcorate, momenti di fisiologico stravolgimento delle consuetudini e paradossali capovolgimenti semantici degli abituali strumenti retorici. A incanalare, giustificare e codificare modernamente questo singolare tipo di socializzazione, dal confuso potenziale sovversivo, era stata in quegli anni l’accademia degli Apatisti di Agostino Coltellini, che si proponeva di resuscitare le antiche usanze dei simposî dell’antica Grecia con un rigido apparato normativo56. Esplose quindi in questi anni una vera e propria ‘moda’ che si diffuse contagiosamente in altre accademie fiorentine57. Anche l’accademia della Crusca stabilì di concedere regolari «stravizzi» per i suoi membri, che poterono riunirsi a scadenza annuale, ospitati ufficialmente nei diversi luoghi del potere cittadino.
30Lo «stravizzo» si celebrava nella forma di una riunione accademica, della quale venivano forzate parodisticamente le rituali convenzioni. Le particolari orazioni recitate alla Crusca in simili occasioni, rifuggendo ostentatamente problemi di carattere intellettuale, avevano per tema obbligato i piaceri dei sensi. Più in generale, abbandonate le vie consuete del ragionamento accademico, si procedeva all’esaltazione delle esperienze irrazionali dell’animo umano, come il sogno e l’ebbrezza; in un crescendo iperbolico si arrivava spesso alla compiaciuta invocazione della pazzia, una delle immagini pervasive del secolo, talvolta metafora latente (e spesso impotente) di un’illusoria quanto effimera evasione di una realtà che non corrispondeva pienamente alle aspettative e alle esigenze interiori della libera ricerca intellettuale; una ribellione insomma senza scampo58. Alla nascente cultura scientifica che aveva avuto gli ultimi esiti nel razionalismo galileiano e cartesiano e che si stava affermando nonostante le istanze repressive della chiesa, corrisponde in campo poetico e artistico l’emergere, quasi in risposta, di una insistente ricerca sull’irrazionale; la follia, in particolare, in un territorio ‘franco’ come quello del teatro si converte non casualmente in un vero e proprio topos59.
31Negli «stravizzi» anche le tradizionali regole oratorie venivano, in via del tutto eccezionale, dissolte in una più libera concezione sintattica che prediligeva l’ellissi e valorizzava l’espressività, anche puramente sonora, della lingua fiorentina. Avevano così luogo, invece di normali orazioni, le cosiddette «cicalate». Le «cicalate» dovevano essere innanzitutto concepite «appresso al vino», secondo le prescrizioni dell’accademico Francesco Redi, eclettica e nota figura di letterato, scienziato e poeta. Si otteneva così un componimento «libero sì, ma non mordace; arguto, ma non ricercato; pieno di aurea ilarità, di sali dolci frizzanti, di nobil facezia», e in essa aveva «da trionfare la nostra Fiorentina lingua, che nell’Italia tiene luogo dell’Attica, co’ folti proverbi, colle maniere di dire brevi, acute, forti, con quelle grazie che altrove invan si cercano»60. Ma si andava anche oltre la «fiorentina lingua»: l’accademico Lorenzo Panciatichi61, uno dei più famosi compositori di cicalate, utilizzava talvolta la cosiddetta «lingua ionodattica», cioè la storpiatura di ogni parola compiuta mediante il mantenimento della prima sillaba. Attingendo generalmente a vocaboli volgari o scurrili ne risultava una libera sinfonia della materialità terrena e tuttavia priva di significato logico. Talvolta si utilizzava questa tecnica per alludere a nomi propri a scopo satirico tramite una vera e propria mascheratura della parola62.
32I principi medicei presenziarono fin dai primi anni ’40 a queste riunioni gastronomiche. A giudicare dal nome con il quale si fece poi ammettere al novero degli accademici della Crusca, il «Provveduto»63, Giovan Carlo doveva spesso contribuire («provvedere», appunto), con la sua proverbiale prodigalità, alle spese sostenute per imbandire queste feste, il cui impianto aperto poté facilmente consentire l’introduzione di momenti di spettacolarità teatrale. Gli «stravizzi» svilupparono una struttura complessa, dalle modalità performative molto accentuate. Il luogo accademico, del resto, per il suo stesso configurarsi come microcosmo autonomo (richiedente perfino ai suoi appartenenti l’adozione di nomi fittizi) e per l’utilizzo prevalente nella comunicazione reciproca tra membri di una tecnica retorica basata su oralità e gestualità spiccatamente artificiose, era potenzialmente gravido di per sé di suggestioni spettacolari. Senza doversi avventurare oltre per gli impervi crinali della ‘teatralità’, si può tranquillamente parlare, a proposito delle rappresentazioni che si succedevano durante queste adunanze annuali, di vere e proprie messe in scena. Si palesava un singolare mélange di toni aulici e rustici, talvolta dal sapore vagamente trasgressivo, sebbene istituzionalizzato e sorvegliato nei luoghi del potere all’interno di confini invalicabili e prestabiliti.
33Il seguente «stravizzo» del 1641, che rappresentò il Trionfo del mese di luglio, fu raccontato molti anni dopo, ma con rara e preziosa dovizia di particolari, da Francesco Redi:
L’apparecchio si fece nel Palazzo di Parione del Serenissimo principe Don Lorenzo, dov’è una sala che, per quanto potessi comprendere, è lunga da trenta braccia, e larga circa diciotto, con altezza proporzionata [...]. La tavola era in forma ovata lunga, aperta in maniera verso la credenza che rappresentava un C maiuscolo di lettera quasi formata, denotante Crusca. Tutti sedettero da una banda, cioè per di fuori, e quivi servivano i coppieri, e dall’altra, cioè per di dentro, si mettevano le vivande. Sopra la tavola non fu alcun lume, non restando la stanza perciò oscura, perché dal palco pendevan dodici stacci uniti in forma di stella, inargentati dentro e fuori con molti lampanini per ciascuno. Erano, oltre a questi, nove candele per testata, fitte su tanti denti d’un rastrello da paglia, posti quivi con pale, spazzatoio e rastrel da forno, con un vaglio in modo di trofeo; e di più quattordici torce: dodici su tanti torcieri d’argento, scompartiti lungo le mura, e due fitte in due staia piene di grano, che eran nel mezzo di due macine, poste su pilastroni nel circuito dell’ovato, oltre a gran numero di candelieri, che eran collocati sopra la credenza, bottiglierie e sopra le due macine predette. A un’ora di notte erano ragunati in una stanza terrena tutti gli accademici che allora si trovavano in Firenze, aspettando la venuta de’ Serenissimi Cardinali Giovan Carlo e Leopoldo, nostri benignissimi Protettori64.
34All’arrivo dei due principi protettori si lessero alcune composizioni in loro onore e si cominciò il banchetto, dapprima in silenzio:
Ma, venuta la seconda imbandigione, si cominciò a sentire un mormorio, il quale andò a poco a poco tanto crescendo che le bombarde si sarebbero sentite difficilmente [...]. Si sentì alcun suono di strumenti musicali che, toccati eccellentemente da Professori stimatissimi, fecero alquanto sospendere il cicaleccio. E mentre che tutti stavano attenti aspettando l’esito di tal novità, ecco escir uno da una porta, coronato di spighe e di varie fronde, con manto di color celeste, vestito di tela incarnata, che pareva ignudo; e dopo di lui uscirono otto giovanetti vestiti nello stesso modo e, arrivato con passi radi nel mezzo dell’ovato, e fatta riverenza all’Arciconsolo, cantò con grazia indicibile alcuni versi di sovrano maestro [...]. Intanto, parendo forse ad alcuno, ch’ e’ non vi fusse da far altro, lo Smunto, uno de’ censori, partitosi con molta flemma dal luogo suo, se n’andò a nasconder dietro alla credenza, come a molti parve. Il che rese attoniti tutti, che della scala ancor non s’erano accorti, e chi pensava una cosa, chi un’altra; ma veggendolo apparir lassù, salito alla bugnola, si fermò ogni discorso; ed egli recitò una cicalata non meno piacevole ed erudita, esplicando un sonetto d’incognito, che dopo molte facezie esaltava lo stato della pazzia65.
35Risulta evidente l’utilizzo coscientemente teatrale dello spazio a disposizione: nella tavola a forma di C allungato che instaura con la credenza antistante un rapporto di platea-scena, nel gioco della sparizione-apparizione dell’accademico censore, nella presenza infine di movimenti coreografici e costumi di scena per la performance dei giovani cantori. Nell’esibizione recitativa dell’accademico dalla tribuna si coglie un rapporto con le modalità proto-teatrali dei rapsodi immaginati dal Doni, che si esibivano in «pulpito o altro luogo eminente dove da tutti fossero veduti e sentiti». Lo spettacolo fu affidato a un ingegnere che ristrutturò appositamente la sala per soddisfare le esigenze sceniche del convito66.
36L’attività della Crusca sotto l’influenza di Giovan Carlo fu quasi del tutto rivolta agli esercizi spettacolari degli annuali «stravizzi»67, frequentati da un pubblico sempre più numeroso, tanto da spingere gli accademici più severi a richiedere maggiore moderazione: a seguito di una protesta ufficiale di Carlo Dati che denunciava la «troppa cortesia» nel tollerare forestieri in numero «fuori dall’usato», si stabilì nel 1658 di «porre qualche freno al soverchio lusso» degli stravizzi68, ma senza troppo esito. Qualche mese dopo la morte del fratello Giovan Carlo, sopravvenuta nel gennaio del 1663, Leopoldo promosse un’assembla plenaria della Crusca. In quell’occasione Dati lamentò i danni che a parer suo la ‘mollezza’ degli stravizzi aveva apportato alla vita d’accademia, chiedendo al Candido, cioè a Leopoldo, che ristabilisse finalmente una pretesa antica austerità dell’istituzione, ormai ridotta a «lusso» e «apparenza», per ricondurla stabilmente alle sue finalità originarie69:
[Chi] con discorsi ameni la lusingò con poesie, burle e stravizzi le diede un leggiero e dilicato alimento; e non s’accorse ch’ella in questa guisa imbolsì. E perché ogn’anno con più lusso dell’usato si celebra il solenne Stravizzo [...], un’Accademia tutta lusso, tutta ambizione, tutta apparenza chiede a qualche sovrano e Candido nume ammirabile e sovrumano aiuto. [...] Quanti sono quei che leggono, quanti quei che lavorano? In tutto sono otto o dieci, e sempre i medesimi70.
37Con questa orazione Dati si conquistò abilmente, con l’appoggio determinante di Leopoldo, la carica di segretario della Crusca, e ottenne che, in segno di moderazione, «si levasse l’apparecchio sontuoso, non aprendo la stanza dello stravizzo né ammettendo, se non al tempo della cena, forestieri a vederlo»71. La replica del giovane Lorenzo Panciatichi in difesa degli «stravizzi» denunciò per contro la vacuità della ricerca erudita della Crusca di quegli anni. Era stato «più dagli Stravizzi che dal Vocabolario» che si era potuta dare pubblica «reputazione» all’accademia e, pare doversi implicitamente dedurre, non si poteva e non si doveva imputare ad essi gli scarsi risultati della ricerca linguistica:
E sappiate pure che la reputazione della nostra Accademia più dagli Stravizzi che dal Vocabolario e dagli altri esercizi dipende: perché di quell’opera ci è chi dice che ella è fatica perduta, che quivi si registrano parole villerecce del contado. Ma il mangiare piace a tutti, e particolarmente a me. La licenzia del vino, il genio allegro di quell’ora, non concede una libertà senza pari?72
38Panciatichi, qualche anno dopo, si sarebbe suicidato lanciandosi dentro a un pozzo, vittima del clima di isolamento e minaccia che lo aveva circondato a seguito di insistenti accuse di ateismo73. Tra il 1663 e il 1675 morirono il granduca Ferdinando II e i suoi fratelli Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo. Il granduca Cosimo III, al potere dal 1670, si mostrò poco interessato, quando non apertamente ostile, a feste e spettacoli. Soltanto il mecenatismo di Francesco Maria e Ferdinando de’ Medici (rispettivamente fratello e figlio del granduca, seppure quasi coetanei) ricostituì negli anni ’80 un sistema spettacolare paragonabile a quello della generazione precedente, con la protezione di una fitta rete di accademie specializzate nell’allestimento di commedie e drammi per musica. Ma l’attività teatrale non costituì più materia di riflessione teorica approfondita e di sperimentazione pratica in accademie “alte”, come la Crusca, che tornò a occuparsi prevalentemente di questioni linguistiche. Da disciplina cortigiana, essenziale per la formazione dell’aristocrazia dirigente, l’esercizio dello spettacolo scivolava lentamente nei limiti di un semplice, ancorché dignitoso, passatempo cittadino.
Notes de bas de page
1 Cfr. L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, 1977, p. 152n-153n.
2 Per un panorama generale e per approfondimenti bibliografici cfr. ora S. Mazzoni, Lo spettacolo delle accademie, in R. Alonge e G. Davico Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, I, La nascita del teatro moderno. Cinquecento e Seicento, Torino, 2000, p. 869-904 (per Firenze in particolare cfr. le p. 880-894); E. Garbero Zorzi e L. Zangheri (a cura di), I teatri storici della Toscana, VIII, Firenze, Firenze, 2000, p. 13-41 (in particolare alle p. 13-20 il paragrafo Accademie, «conversazioni», compagnie).
3 Cfr. S. Castelli, Il teatro e la sua memoria: la compagnia dell’Arcangelo Raffaello e il «Don Gastone di Moncada» di Giacinto Andrea Cicognini, in M. G. Profeti (a cura di), Tradurre, riscrivere, mettere in scena, Firenze, 1996, p. 85-94.
4 Cfr. ivi, p. 88-89. Tra i più recenti contributi sui teatri delle confraternite fiorentine cfr. J. Hill, Nuove musiche «ad usum infantis»: le adunanze della Compagnia dell’Arcangelo Raffaello tra Cinque e Seicento, in C. Annibaldi (a cura di), La musica e il mondo. Mecenatismo e committenza musicale in Italia tra Quattro e Settecento, Bologna, 1993, p. 113-137; N. Newbigin, Feste d’Oltrarno. Plays in Churches in Fifteenth-Century Florence, Firenze, 1996; S. Mamone, Parigi, Lotti, Callot, Cicognini e Adimari: Andromède dans le spectacle florentin au temps de Cosimo II, in Andromède ou le héros à l’épreuve de la beauté. Actes du colloque international (Paris, 3-4 février 1995), a cura di F. Siguret e A. La Framboise, Parigi, 1996, p. 511-557; G. Aranci, Formazione religiosa e santità laicale a Firenze tra Cinque e Seicento. Ippolito Galantini fondatore della Congregazione di San Francesco della Dottrina Cristiana, Firenze, 1997, p. 349-367 e p. 373-375; K. Eisenbichler, The Boys of the Archangel Raphael: a Youth Confraternity in Florence, 1411-1785, Toronto-Buffalo-Londra, 1998; L. Sebregondi, I luoghi teatrali delle confraternite fiorentine tra Sei e Settecento, in Teatro, scena, rappresentazione dal Quattrocento al Settecento, Atti del convegno (Lecce, 15-17 maggio 1997), a cura di P. Andrioli, G. A. Camerino, G. Rizzo e P. Viti, Lecce, 2002, p. 335-348.
5 Cfr. per alcuni di essi le indicazioni di S. Vuelta García in questo volume.
6 Sui rapporti di Giovan Carlo de’ Medici con il mondo teatrale e accademico cfr. L. Bianconi e T. Walker, Dalla «Finta Pazza» alla «Veremonda»: storie di Febiarmonici, in Rivista Italiana di Musicologia, X, 1975, p. 438-444; J. Hill, Le relazioni di Antonio Cesti con la corte e i teatri di Firenze, in Rivista Italiana di Musicologia, XI, 1976, 2, p. 27-47; T. Megale, Il principe e la cantante; riflessi impresariali di una protezione, in Medioevo e Rinascimento, VI, nuova serie III, 1992, p. 211-233; Id., Figli d’arte. Giovan Battista Fiorillo alias «Trappolino», in Castello di Elsinore, VII, 1994, p. 71-86; F. Decroisette, I virtuosi del Cardinale, da Firenze all’Europa, in Lo spettacolo maraviglioso. Il teatro della Pergola: l’opera a Firenze, catalogo della mostra (Archivio di Stato di Firenze, 6 ottobre-30 dicembre 2000), a cura di M. De Angelis et al., Firenze, 2000, p. 83-89 (ivi a p. 234 bibliografia degli studi di Decroisette sulla Pergola); N. Michelassi, Il teatro del Cocomero di Firenze: uno stanzone per tre accademie (1651-1665), in Studi Secenteschi, XL, 1999, p. 149-186; Id., «L’Amistad pagada» di Lope e l’accademia fiorentina dei Sorgenti, in «Otro Lope no ha de haber». Atti del convegno internazionale su Lope de Vega (Firenze, 10-13 febbraio 1999), a cura di M. G. Profeti, Firenze, 2000, vol. III, p. 239-255; Id., La «Finta Pazza» a Firenze: commedie ‘spagnole’ veneziane’ nel teatro di Baldracca (1641-1665), in Studi Secenteschi, XLI, 2000, p. 313-353; Id., «Il Trionfo della povertà»: scene dal teatro devozionale fiorentino del Seicento, in I luoghi dell’immaginario barocco. Atti del Convegno di Siena (Siena 21-23 ottobre 1999), a cura di L. Strappini, Napoli, 2001, p. 95-115; Id., Memorie dal sottopalco. Giovan Carlo de’ Medici e il primo teatro della Pergola (1652-1663), in Studi Secenteschi, XLIII, 2002, p. 347-355; S. Mazzoni, Lo spettacolo delle accademie cit., p. 891-894; S. Mamone, Il sistema dei teatri e le accademie a Firenze sotto la protezione di Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo principi impresari, in E. Garbero Zorzi e M. Sperenzi (a cura di), Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, 2001, p. 83-97; Id, Accademie e opere in musica nella vita di Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo de’ Medici, fratelli del granduca Ferdinando, in Lo stupor dell’invenzione: Firenze e la nascita dell’opera. Atti del Convegno internazionale di studi. Firenze, 5-6 ottobre 2000, a cura di P. Gargiulo, Firenze, 2001, p. 119-138.
7 Sugli Incostanti protetti da don Giovanni cfr. D. Landolfi, Su un teatrino mediceo e sull’Accademia degli Incostanti a Firenze nel primo Seicento, in Teatro e Storia, VI, 1991, 1, p. 57-88; S. Mamone, Tra tela e scena. Vita d’accademia e vita di corte nel primo Seicento fiorentino, in Biblioteca Teatrale, nuova serie, 37-38, 1996, p. 213-228. Su Lorenzo e i Concordi cfr. ora E. Garbero Zorzi e L. Zangheri (a cura di), I teatri storici cit., p. 14-16, in cui si risolve la cronistoria delle accademie succedutesi nel teatro in via del Cocomero.
8 Sui rapporti di Mattias de’ Medici con il mondo teatrale e accademico cfr. L. Bianconi e T. Walker, Dalla «Finta Pazza» cit., p. 435-438; A. Maretti, Per una storia del mecenatismo di Mattias de’ Medici, tesi di laurea, Università di Firenze, 1989-90 (relatore prof. S. Ferrone); A. Maretti, Dal teatro del principe alla scena dei virtuosi: indicazioni sul mecenatismo di Mattias de’ Medici (1629-1666), in Medioevo e Rinascimento, VI, n.s. III, 1992, p. 195-209; S. Mazzoni, Lo spettacolo delle accademie cit., p. 878-880 e 893; S. Mamone, Il sistema dei teatri cit.; Id., Accademie e opera in musica cit.
9 Sui rapporti di Leopoldo de’ Medici con il mondo teatrale e accademico cfr. N. Michelassi, Il teatro del Cocomero cit., p. 168-169; A. Alessandri, Il carteggio di Leopoldo de’ Medici come fonte per la storia dello spettacolo, tesi di laurea, Università di Firenze, a.a. 1999-2000 (relatrice prof. S. Mamone); S. Vuelta García, Accademie teatrali nella Firenze del Seicento: l’accademia degli Affinati o del Casino di San Marco, in Studi Secenteschi, XLII, 2001, p. 357-378; S. Mamone, Il sistema dei teatri cit.; Id., Accademie e opera in musica cit.
10 Si rinvia, oltre agli studi fin qui citati, a: S. Castelli, Influenze spagnole nella Firenze del xvii secolo: la vita d’accademia e l’opera di Iacopo e di Giacinto Andrea Cicognini, tesi di dottorato, Università di Firenze, a.a. 1996-97; Id., Drammaturgia spagnola nella Firenze secentesca, in «Otro Lope no ha de haber» cit., vol. III, p. 225-237; S. Mamone, Studi e nuove prospettive, in Id. (a cura di), Lo spettacolo nella Toscana del Seicento, in Medioevo e Rinascimento, XI, nuova serie VIII, 1997, p. 199-229; Id., Li due Alessandri, in A. Tinterri (a cura di), La passione teatrale. Studi per Alessandro D’Amico, Roma, 1997, p. 223-245; A. M. Testaverde, Le ‘riusate carte’: un inedito repertorio di scenari del secolo xvii e l’ombra di Molière, Ivi, p. 417-445; I. Molinari, Il teatro di Salvator Rosa, in Biblioteca Teatrale, nuova se-rie, 49-51, 1999, p. 195-248; S. Mamone, Andromeda & Perseo. Cicognini, Adimari & co. sulle scene di accademia a Firenze al tempo di Cosimo I, in S. Carandini (a cura di), Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea fra Cinque e Seicento, Roma, 2000, p. 407-438; S. Vuelta García, Pietro Susini «fiorentino» traductor de Lope, in «Otro Lope no ha de haber» cit., vol. III, p. 257-274; F. Fantappiè, Il teatro di corso Tintori: l’edificio e le accademie (1673-1850), in Medioevo e Rinascimento, XV, nuova serie XII, 2001, p. 241-274; F. Cancedda e S. Castelli, Per una bibliografia di Giacinto Andrea Cicognini. Successo teatrale e fortuna editoriale di un drammaturgo del Seicento, introduzione di S. Mamone, Firenze, 2001.
11 Cfr. E. Benvenuti, Agostino Coltellini e l’Accademia degli Apatisti a Firenze nel secolo xvii, Pistoia, 1910; A. Lazzeri, Intellettuali e consenso nella Toscana del Seicento. L’Accademia degli Apatisti, Milan, 1983.
12 Cfr. M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, V, Bologna, 1930, p. 285-289. Il ciclo di vita accademica precedente al 1633 è testimoniato dai capitoli del 1620 redatti dal principe Jacopo Gaddi, Statuti dell’Accademia degli... sotto ’l principato dell’Illustrissimo signor Jacopo Gaddi eletto suo primo principe e promotore, BNCF, manoscritto magliabechiano VI, 163, cc. 1r-4v. Dopo la ricostituzione del 1633 furono redatti gli Atti dell’Accademia degli Svogliati, ivi, IX, c. 60. Il nome di Svogliati, per la verità, non venne scelto in via definitiva che dopo quasi quattro anni di ripresa dell’attività, il 29 agosto del 1637 (cfr. ivi, c. 39r). Su Gaddi cfr. ultimamente C. Callard, Publier la réputation: la folie d’un patricien florentin, in La publication, Parigi, 2002, p. 181-197.
13 Oltre alla frequentazione di Giovan Carlo de’ Medici, le due istituzioni avevano in comune, tra gli altri, importanti poeti e letterati vicini alla corte, come Francesco Rondinelli, Andrea Cavalcanti e, soprattutto, il principe e fondatore dell’accademia Jacopo Gaddi. Un rapporto privilegiato degli Svogliati con i domenicani si evince dall’ospitalità che una volta venne accordata all’accademia nel Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella per una tornata pubblica: «21 giugno 1640. Si ragunò l’Accademia in Santa Maria Novella nella Cappella degli Spagnuoli conceduta alli Accademici per quanto volevano da’ Padri Predicatori e particolarmente dal Padre Priore Bonsi», Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 64v. La presenza dell’accademia in questo luogo ebbe tuttavia carattere eccezionale e non di consuetudine, come si continua invece ad affermare anche in studi recenti.
14 John Milton si iscrisse all’accademia l’8 giugno del 1638 e partecipò alle riunioni degli Svogliati almeno fino al marzo del 1639, anno in cui si recò a Roma per partecipare alle adunanze dei Fantastici e degli Umoristi. Cfr. Atti dell’Accademia degli Svogliati cit, cc. 48r-52r. Sulla partecipazione di Milton alle riunioni degli Svogliati cfr. A. K. Nardo, Milton and the Academic Sonnet, in M. A. Di Cesare (a cura di), Milton in Italy. Context Images Contradictions, Binghamton (NY), 1991, p. 489-503.
15 La vastità di orizzonti culturali dell’accademia è testimoniata dai versi di Margherita Costa, che indicano nel contempo l’accorta vigilanza osservata dall’accademia per i principî tolemaici ribaditi con forza dalla Chiesa contro le scoperte galileiane: «Alli signori Accademici Svogliati. L’origin vostra già da’ Gaddi aveste / o delle Tosche piagge alti Rampolli; / ond’a virtù si chiara e sì celeste / or per voi prova il tempo ultimi crolli; [...] Altri di voi sa come il Cielo giri / eternamente ne’ suoi moti errante; / e come or quella stella or questa spiri / varii gl’influssi dal divin sembiante. / E come il sole con obliqui giri / cinga il mondo e dal florido Levante / all’Occidente il Carro suo conduca: / e Cinthia in carro di diamanti luca. / Altri i Principì in voi della Natura / suol con occhio Linceo spiar sublime / ed a sé fare intelligenza pura / dell’occulte del mondo origin prime./ Altri trattar d’angelica fattura / e come Dio nell’alme altrui s’imprime; / e benché in altri si rimiri e spesso / da sé non parte ed ha’l tutto in sé stesso», M. Costa, Lo stipo, Venezia, 1639, p. 105-110.
16 Ad esempio, il 13 agosto del 1638 «fu dal signor Buonmattei posto in campo un discorso in quanto alla tragedia e comedia e se fra queste due potesse darsi la tragicommedia», Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 47v.
17 G. Bartolommei, Didascalia, cioè dottrina comica, Firenze, 1658. Su questo trattato cfr. F. Taviani, La commedia dell’Arte e la società barocca: la fascinazione del teatro, Roma, 1969, p. 529-554.
18 Cfr. ad esempio Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 90r: «17 gennaio 1641. Doni lesse due capitoli del suo trattato della musica». A proposito della ricerca di finanziamenti per un’eventuale pubblicazione, già nel settembre del 1640 Doni scriveva a Cassiano del Pozzo: «Quanto agli altri miei trattati di musica, io averei a ordine per dare in stampa quelli ch’io cavai fuori dall’ultimo libro, perché non mi riuscisse troppo grosso. Ma vorrei dedicarli a qualcuno che volesse pigliar sopra di sé la spesa», lettera pubblicata in Lettere inedite di alcuni illustri accademici della Crusca che fanno testo di lingua, Pesaro, 1835, p. 85.
19 «I soggetti idonei sono tanto vari e questa sorta di favola è capace di molte altre invenzioni ingegnose e dilettevoli, imperocché, lasciando da parte l’oscenità e la troppa acerbità dei motti, vi si possono intessere mille sorti di burle e giuochi da veglia, e macchinamenti ridicolosi. Quivi possono aver luogo varie imitazioni ridicole, come parodie e linguaggi affettati che oggi hanno occupato le commedie: di un vecchio veneziano, di un capitano spagnolo, di un cuoco francese, di un dottore bolognese, di un servo lombardo o napolitano, di un vecchio o vecchia fiorentina, di un medico greco, di un pedante siciliano, di un rigattiere giudeo, di un ortolano norcino, di uno scapigliato romanesco, di un mercante o marinaro genovese, usando ciascuno il linguaggio del suo paese, e parimente di un ciarlatano, di un astrologo, di un tavernaro, di un truffatore e simili. Qui si possono rappresentare con garbo uccellatori, frugnolatori ingegnosamente introdotti per intermezzi dal nostro Michelagnolo Buonarroti nella sua Tancia», G. B. Doni, De’ trattati di musica di Giovanni Battista Doni patrizio fiorentino Tomo Secondo [...] raccolti e pubblicati per opera di Anton Francesco Gori, Firenze, 1763, p. 3-4.
20 Ivi, p. 4.
21 Spesso la consuetudine di recitare le proprie opere avveniva in occasione di «tornate» pubbliche dell’accademia, come il 4 maggio 1636: «Si fece in quel giorno l’accademia pubblica alla quale fu il concorso numerosissimo e principale. Favorirono l’Accademia il signor principe Giovan Carlo e il signor principe Leopoldo i quali stettero con molta attenzione ad un bellissimo panegirico in ottava rima fatto e recitato dal signor Francesco Rovai, il quale lasciò gli accademici soddisfatti per la composizione degna del consenso nobile che in quel giorno intervenne. Furono recitate alcune composizioni in lode de’ signori principi e altre intorno ad altri degni suggetti», Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 23r. In sedute private la lettura preludeva talvolta a un dibattito tra i presenti. Il 14 giugno 1638 Benedetto Buonmattei «lesse un prologo d’un suo dramma» (c. 47r). Il 5 agosto Giulio Pitti lesse alcune scene «della sua tragicommedia» (ivi) e il 2 settembre, proseguendo la lettura con altre tre scene della sua opera, «da qualche accademico fu fatta alcuna considerazione» (c. 47v). Il 30 giugno 1639 ancora Giulio Pitti portò una tragicommedia «dedicata alli accademici» (c. 54v). Il 13 dicembre 1640 Girolamo Bartolommei cominciò «a leggere la sua tragedia del Clodoveo» (c. 68r).
22 Cfr. su Adimari le indicazioni di S. Vuelta García in questo volume.
23 Sugli Umoristi cfr. L. Avellini, Tra «Umoristi» e «Gelati»: l’accademia romana e la cultura emiliana del primo e del pieno Seicento, in Studi Secenteschi, XXIII, 1982, p. 109-137; L. Alemmano, L’Accademia degli Umoristi, in RMC, III, 1995, 1, p. 97-120.
24 M. Costa, Lo stipo cit., p. 110.
25 Nella seduta del 7 luglio 1639 «tra le cose che si discorsero e lessero furono due o tre scene d’un dramma che si ha da recitar [...], mandatoci dall’autore di esso a rivedere e se gli fecero alcune opposizioni, le quali io scrittore mi ingegnai di ribattere e di scusar l’autore che l’ha auto a far in brevissimo tempo e non ha mai atteso alla poesia Toscana», Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 54v.
26 Cfr. una lettera a Giovan Carlo della sorella duchessa di Parma: «le feste non possono riuscire se non belle, e curiose, massime essendone Vostra Altezza soprintendente», passo riportato in S. Mascalchi, Anticipazioni sul mecenatismo del cardinale Giovan Carlo de’ Medici e suo contributo alle collezioni degli Uffizi, in Fonti e documenti. Gli Uffizi: quattro secoli di una galleria. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze 20-24 settembre 1982), Firenze, 1982, p. 51. Le Nozze degli Dèi fu il melodramma rappresentato nel 1637 nel cortile di palazzo Pitti per festeggiare il matrimonio tra il granduca Ferdinando II e Vittoria della Rovere; gli dèi erano, naturalmente, i granduchi. Per il suo valore emblematico lo spettacolo ha dato il titolo al saggio di C. Molinari, Le Nozze degli Dèi. Un Saggio sul grande spettacolo italiano nel Seicento, Roma, 1968; cfr. per l’allestimento le schede de Il luogo teatrale a Firenze, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 31 maggio-31 ottobre 1975), a cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi, A. Petrioli Tofani, introduzione di L. Zorzi, Milano, 1975, p. 139-143.
27 Scriveva infatti Coppola in una lettera a Niccolò Strozzi del 5 settembre 1636: «Mi trovo tra musici e machine per la festa delle nozze del granduca, ch’ ha voluto ch’io facessi», ASF, Carte Strozziane, serie III, n. 240, c. 130r. Ringrazio Daniela Sarà per la gentile segnalazione della lettera.
28 Accademico Alterato, Fiorentino e Disunito (oltre che, come si è visto, Svogliato), Cammillo Lenzoni (1604-1662) non riuscì mai ad affermarsi né come poeta, né come cortigiano. Per notizie sui suoi scritti, manoscritti e a stampa, cfr. G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara, 1722 (ristampa anastatica Bologna, 1973), p. 114; D. Moreni, La celebre famiglia Medici, Firenze, 1826, p. 185. Gli estremi della vita li ricavo dalle Memorie di Andrea Cavalcanti: «10 novembre 1662. Passò all’altra vita Cammillo Lenzoni, poeta, di anni 58», ASF, Carte Strozziane, serie I, 11.
29 Si riferisce probabilmente alla commedia scelta per i festeggiamenti, cioè Le Nozze degli Dèi di Giovan Carlo Coppola.
30 Il «Bali» era il segretario di stato Andrea Cioli, accademico e studioso in lettere, che si occupava spesso durante il suo incarico di primo segretario della gestione degli affari concernenti attori, spettacoli, luoghi di rappresentazioni. Questi erano infatti, in tutti i sensi, affari di stato.
31 Si tratta certamente di Alfonso Parigi, che ebbe la cura della scenografia e dei macchinari de Le Nozze degli Dèi.
32 ASF, Mediceo del Principato 5300, cc. 219r.-220r.
33 Del 9 gennaio del 1638 è una lettera di Cammillo Lenzoni a Giovan Carlo, in cui si avvertono le gravi difficoltà del letterato. Il quale, dopo dodici anni di servizio presso il cardinale Carlo (zio di Giovan Carlo), decide di rivolgersi al principe per supplicare una qualche «carica» amministrativa in grado di alleviare un difficile momento economico, sopravvenuto per le vicissitudini di un fratello: «Serenissimo signor Principe, quanto uscì da la mia appassionata penna fu solo un ardore di devota ambizione di servire Loro altezze, scritta come confidenza ad un fratello, non come speranza di fortuna in dovere cavare dalle caligini delle mie sollevazioni così serenissima consolazione di Vostra Altezza. L’ubbidirò e con lo stesso amore richiamerò sulle carte le mie continue vigilie. Mi perdoni: una servitù d’anni dodici col Serenissimo cardinale Carlo suo zio; gli affetti stampati verso la Serenissima Casa, l’azioni pubbliche, gl’immensi favori di Vostra Altezza m’hanno ormai consegnato in un grado alla Patria che tra gl’avanzamenti di tanti e tanti altri il rimirarmi navigare con una istessa travagliata fortuna, col vivere solo a me stesso, non posso se non come compassionato esser compatito. Vacano ogni giorno proporzionate cariche: sono da me, con deterioramento per l’esito, pretese, non sapendo una volta la volontà di Sua Signoria in quanto fossi di suo gusto il servirlo. Dal Serenissimo signor Principe Leopoldo sono stato avvisato che crede che fra quindici giorni il signor cavaliere Ascanio tornerà a servirlo, vacare tale carica. Ma che? Non ardisco più niente e solo il tutto rimetto alla sua protezione. Il fermo animo mio sarebbe non lasciare la servitù del Serenissimo signor Carlo e privarmi della presenza continua della presenza e servitù dell’Altezza Vostra, senza desiderare altre cariche abili a contaminare tutti gli miei studi e incominciate fatiche. Ma gl’accidenti di mio fratello esiliato per il fisco m’hanno ridotto in grado che non posso trattenermi in Firenze fino che per quattro o sei anni non ho resarcito tali percosse. Onde supplico Vostra Altezza e per suo mezzo il Serenissimo Granduca di tal quiete per quattro o sei anni, nei quali spero terminar il mio poema. Ogni modesto annuale favore consolerebbe l’animo mio e quando fossi di parere che o nella carica del Priorato dell’Arsenale o altre io mi dovessi incamminare senza uscir dal limite del suo cenno in ogni loco, in ogni fortuna, in ogni carica sceglierò tempo di terminare li suoi comandamenti. Qui lasciandole la veste, mi scuso se come a padrone e non a Serenissimo Principe ho confidato tanto inchiostro. Da Pisa li 9 gennaio 1638. A Vostra Altezza Serenissima vero servitore Cammillo Lenzoni», (ASF, Mediceo del Principato 5307, c. 668r e v). Lenzoni, con la pubblicazione di una poesia celebrativa forse recitata nell’accademia degli Svogliati, volle tessere le lodi del principe nella vana speranza di ottenerne l’ambita protezione. Cfr. C. Lenzoni, Per la Carica di Generalissimo del Mare stata conferita da Sua Maestà Cattolica al Serenissimo Principe Giovan Carlo di Toscana, Firenze, 1638. Il 9 settembre 1638 si era effettivamente deliberato nell’accademia degli Svogliati di far comporre qualcosa «sopra il Serenissimo Principe Giovan Carlo dichiarato Generalissimo del Mare dal Re Cattolico», Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 48v. Ritroviamo Lenzoni nel 1655 a spacciare pateticamente segreti alchimistici e cure miracolose: «9 ottobre 1655. Il signor Cammillo Lenzoni è guarito totalmente dalla gotta e s’esibisce di guarir chicchessia con un secreto suo particolare», ASF, Miscellanea Medicea 270, inserto 1, c.n.n.
34 Si ricordi il caso di Giacinto Andrea Cicognini, costretto a lasciare Firenze (per diventare librettista a Venezia) in seguito a contrasti con Giovan Carlo de’ Medici. Cfr. ora F. Cancedda e S. Castelli, Per una bibliografia di Giacinto Andrea Cicognini cit.
35 I primi accordi poterono forse essere stati presi in occasione di un soggiorno fiorentino di Rossi finanziato dal suo protettore romano Alessandro Borghese. La presenza di Luigi Rossi a Firenze è databile con precisione dalla metà di maggio alla metà di dicembre dell’anno 1635, poiché attestata negli estremi cronologici da due lettere di Alessandro Borghese a Giovan Carlo de’ Medici. La prima missiva è datata 14 maggio 1635: «Serenissimo mio signore. Luigi Rossi, che vien costà per incontrare il gusto e comandamento del serenissimo Granduca e di Vostra Altezza ha dato a me occasione di ricordarle la mia servitù e osservanza», ASF, Mediceo del Principato 5378, c. 512r. Tenuto conto che il tempo di percorrenza tra Firenze e Roma era solitamente di una settimana circa, si può ragionevolmente supporre che Luigi Rossi fosse giunto alla corte medicea intorno al 20 o 21 maggio 1635. La seconda lettera attesta che il musicista era rientrato a Roma il 15 dicembre, lasciando quindi Firenze il giorno 7 o 8: «Ricevo da Luigi Rossi musico la cortesissima lettera di Vostra Altezza e resto favorito che mi rende quella certezza che avrei atteso, che questi fossero riusciti di intiero gusto», ivi, c. 536r. Lasciato poco tempo dopo il ritorno a Roma il servizio presso la famiglia Borghese, Rossi si era evidentemente preoccupato di mantenere e coltivare i contatti procurati in precedenza con la corte medicea.
36 ASF, Mediceo del Principato 5300, cc. 221r-222r, segnalata come lettera di argomento teatrale in S. Mascalchi, Anticipazioni sul mecenatismo cit., p. 42
37 Per un’aggiornata bibliografia sulla Crusca cfr. G. Grazzini, Di Crusca in Crusca. Per una bibliografia dell’accademia, Pisa, 2000.
38 Su Salvadori cfr. ora D. Sarà, Andrea Salvadori e lo spettacolo fiorentino all’epoca della reggenza (1621-1628), tesi di laurea, Università di Firenze, 1999-2000 (relatrice prof. S. Mamone); P. Gargiulo, «E che ‘l cantare sia proprio alla scena». Il teatro per musica di Andrea Salvadori (1613-1630), in Studi Musicali, XXIX, 2000, p. 59-70.
39 Per il Corago cfr. l’edizione moderna a cura di P. Fabbri e A. Pompilio, Firenze, 1983. Considerazioni sulla rinnovata attenzione al rapporto tra musica e poesia negli ambienti accademici fiorentini di metà Seicento si trovano anche in M. P. Paoli, Esperienze religiose e poesia nella Firenze del ‘600. Intorno ad alcuni sonetti «quietisti» di Vincenzo da Filicaia, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, XXIX, 1993, 1, p. 39-43.
40 Già nel 1640 Doni scriveva a Cassiano del Pozzo: «Avevo di già inteso l’apparecchio che si fa in Venezia di rappresentazioni in musica», Lettere inedite di alcuni illustri accademici della Crusca cit., p. 85.
41 Cfr. le notizie ricavate dai diari in S. Parodi, Quattro secoli di Crusca 1583-1983, Firenze, 1983, p. 60, in cui si datano con precisione tre lezioni di Doni: 11 settembre 1641, 29 gennaio e 19 febbraio 1642.
42 G. B. Doni, De’ trattati di musica cit., p. 163-202. Alcune lezioni di Doni sono manoscritte presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze.
43 Cfr. il trattato che Doni aveva dedicato a Camillo Colonna, principe degli Umoristi: Discorso sesto sopra il recitare in scena con l’accompagnamento d’instrumenti musicali, in Annotazioni sopra il Compendio de’ Generi e de’ Modi della Musica di Gio. Battista Doni, Roma, 1640, pubblicato e commentato in C. Gallico, Discorso di G. B. Doni sul recitare in scena, in Rivista Italiana di Musicologia, III, 1968, 2, p. 286-302. Alcuni dei temi svolti da Doni nella Crusca sono già presenti, non a caso, in questo trattato, talvolta perfino con le stesse parole.
44 G. B. Doni, De’ trattati di musica cit., p. 181.
45 Ivi, p. 184.
46 Ivi, p. 188. Cfr. anche la testimonianza diaristica riportata in R. P. Ciardi e L. Tangiorgi Tomasi, Le pale della Crusca. Cultura e simbologia, Firenze, 1983, p. 60.
47 Uno studio sull’educazione dei nobili nella Firenze secentesca (in epoca poco più tarda rispetto al periodo da noi preso in esame) è in J. Boutier, L’Accademia dei Nobili di Firenze. Sociabilità ed educazione dei giovani nobili negli anni di Cosimo III, in F. Angiolini, V. Becagli, M. Verga (a cura di), La Toscana nell’età di Cosimo III. Atti del convegno (Pisa-San Domenico di Fiesole, 4-5 giugno 1990), Firenze, 1993, p. 205-224. Sull’importanza pedagogica data alla musica e agli esercizi cavallereschi nei collegi di educazione cfr. tra i tanti S. Lorenzetti, «Per animare agli esercizi nobili». Esperienza musicale e identità nobiliare nei collegi di educazione, in Quaderni storici, XXXII, 1997, 2, p. 435-460; B. Majorana, La scena dell’eloquenza, in La nascita del teatro moderno cit., p. 1043-1066 (con ricca bibliografia).
48 Scriveva Doni a Cassiano del Pozzo il 9 febbraio 1641: «Qui si sta allegramente facendosi giorni festivi e comedie per trattenimento della Serenissima Duchessa, la gravidanza della quale non la lascia uscire di casa», lettera pubblicata in Lettere inedite di alcuni illustri accademici della Crusca cit., p. 89. Si hanno notizie effettivamente di una giostra che si fece il 2 febbraio nel cortile di palazzo Pitti «acciò che la granduchessa, che era gravida, la vedesse senza muoversi», con la partecipazione di molti nobili fiorentini, divisi tra «Cacciatori» e «Zerbini», «A quelli fece il cartello il signor Pierfrancesco Rinuccini; a questi Francesco Rovai». Tra i «Cacciatori» c’era il principe Giovan Carlo de’ Medici in persona. «L’invenzione delle maschere» fu di Baccio del Bianco, il noto pittore fiorentino che qualche anno più tardi avrebbe realizzato le scenografie per gli spettacoli di Calderón de la Barca presso la corte madrilena. «La Granduchessa col Granduca stettero in un Gabinetto fatto sul ballatoio rincontro alle stanze di Serenissima, e le dame invitate ne’ medesimi ballatoi che erano coperti» (ASF, Miscellanea Medicea 439, c. 228r). Uno dei responsabili degli spettacoli così scrisse a Giovan Carlo: «[...] restai a Palazzo a sentir provare la commedia la quale riuscirà galante e i balletti belli; bene è vero che ancora ha bisogno di qualche prova» (ASF, Mediceo del Principato 5308, c. 27r). La commedia si fece il 12 febbraio: «Adi 12. Sera di carnevale. I signori paggi fecero una commedia nella Sala de’ Forestieri» (ASF, Miscellanea Medicea 439, c. 228v-229r). In ASF, Miscellanea Medicea 40, inserto 3, si trovano per il 1641 le «spese per una giostra e commedia ne’ Pitti». Anche per anni successivi si hanno notizie di rappresentazioni teatrali dei paggi di corte con la partecipazione di noti accademici. 7 febbraio 1644: «Signori paggi nella sala de’ Forastieri fecero una commedia pastorale opera di Benedetto Rigogli, con gli intermedi in musica di Francesco Rovai. Vi furono due balli, un abbattimento e salti a cavallo. Si invitarono molte dame e vi furono tutte le Altezze» (ASF, Miscellanea Medicea 439, c. 261r). Maggio 1650: un gesuita, Reginaldo Sgambati (sul quale cfr. l’Introduzione di A. De Rinaldis a Lettere inedite di Salvator Rosa a Giovanni Battista Ricciardi, Roma, 1939, p. xxxvii) guida la messa in scena dei paggi a Palazzo Pitti de La Finta Mora di Jacopo Cicognini (ASF, Miscellanea Medicea 442, c. 18r). 11 febbraio 1657: «La sera Barriera dei Paggi a Palazzo, e dopo festino. Alla barriera furono 8 in due squadre: una condotta dall’Adulazione, l’altra dalla Verità. Combattevano qual di loro dovesse aver luogo in corte» (ivi, c. 314v).
49 «L’azione poi e il gesto vuol essere vivace e risoluta e, come dicono gli Spagnoli, disinvolto, e con certo portamento di vita leggiadro e numeroso; quale si vede in molti Francesi (sebbene alcuni danno nell’affettato) e i loro comedianti in questa parte sono eccellenti, come gl’Inglesi nella vivacità dell’espressione e gli Spagnoli nella rappresentazione ideale e naturale: e perciò gioverebbe agli attori scenici l’avere qualche tintura di quelle arti che insegnano a portare la vita con garbo e scioltezza, come il ballo, la scherma, il gioco della palla a corda, e la lotta». G. B. Doni, De’ trattati di musica cit., p. 136.
50 Il tema del «tedio del recitativo» aveva anche in precedenza accompagnato diffusamente le riflessioni dei musicisti e dei teorici. Cfr. C. Gianturco, Nuove considerazioni su «il tedio del recitativo» delle prime opere romane, in Rivista Italiana di Musicologia, XVIII, 1982, 2, p. 213-239.
51 G. B. Doni, De’ trattati di musica cit., p. 194.
52 Ivi, p. 200-201. Doni aveva già espresso opinioni simili nel suo Trattato della musica scenica: «li drami sarebbono molto meglio rappresentati mentre i diverbi o colloqui, che pare che richiedano maggiore vivacità di gesto e di azione, potessero essere recitati da commedianti di professione, oppure da giovani nobili in tale esercizio assuefatti, e cantici soli toccherebbero a’ cantori», ivi, p. 9.
53 Ivi, p. 201.
54 Cfr. F. Rossi, La musica nella Crusca. Leopoldo de’ Medici, Giovan Battista Doni e un glossario manoscritto di termini musicali del xvii secolo, in Studi di Lessicografia Italiana, XIII, 1996, p. 123-139 (a p. 128-129 ampia bibliografia su Doni).
55 Il riferimento provocatoriamente prosaico al cibo è esplicito ad esempio nell’Accademia della Borra (del burro), o nei Rifritti, il cui simbolo era una padella di pesciolini fritti. I Percossi di Salvator Rosa organizzavano banchetti bizzarri a base ogni volta di un unico alimento cucinato in tutti i possibili modi; oppure gli Arsi, un’adunanza di pittori originariamente appartenenti alla Compagnia del Mantellaccio che si dilettavano di passatempi carnevaleschi e di musica, avevano usanze molto particolari. L’«arsura» si riferiva alla mancanza di denaro, e un’ostentata indigenza costituiva il leitmotiv rituale della vita accademica. Ogni novizio, salendo su una scala fatiscente che conduceva alla stanza spoglia dell’accademia, doveva portare una fascina per il fuoco. Tutti i membri avevano l’obbligo didonare alla collettività olio, vino e il necessario per mangiare. Si prevedeva addirittura di conservare la cenere per rivenderla e acquistare col ricavato le candele. Cfr. G. Imbert, La vita fiorentina nel Seicento secondo memorie sincrone (1644-1670), Firenze, 1906, p. 287, Id., Seicento fiorentino, Milano, 1930, p. 212-214.
56 Cfr. A. Poggiolini, Grandezze e miserie fiorentine durante il secolo xvii, in Rassegna Nazionale, 204, 1915, p. 20.
57 Anche l’accademia degli Svogliati sperimentò nel settembre del 1640 questo intrattenimento: «Si fece in casa il signor Alessandro Pitti il nostro primo Simposio, al quale intervennero gl’infrascritti accademici e di esso furono Provveditori Carlo Dati e il signor Andrea Cavalcanti. Avanti alla cena il signor Alessandro Adimari lesse una piacevole ed erudita cicalata sopra al badare a’ fatti d’altri, giunti al termine della quale si entrò a tavola, dove si stette con allegria singulare», Atti dell’Accademia degli Svogliati cit., c. 65r.
58 Significativi a proposito alcuni versi di un Sogno che il poeta e drammaturgo Pietro Susini, socio di varie accademie e aiutante di camera di Leopoldo de’ Medici, fa pronunciare a un suo amico deciso a fuggire via da Firenze: «lascia, ch’io fugga l’Arno in cui l’arena / vie più che l’Ocean di mostri è piena /. Questo che già sembrava aer sereno / è di torbide menti oggi ricetto». Ma l’amarezza e il disincanto hanno la meglio, e il consiglio rassegnato del poeta all’amico è di restare e di godere dei semplici piaceri della vita (con echi quasi catulliani) e del vino toscano, poiché dovunque possa andare le sue aspettative saranno deluse dalla scoperta che dappertutto la realtà è identica e immutabile. Cfr. A. Poggiolini, Grandezze e miserie cit., p. 292-293.
59 Cfr. P. Fabbri, Alle origini di un topos operistico: la scena di follia, in F. Milesi (a cura di), Giacomo Torelli. L’invenzione scenica nell’Europa barocca, Fano, 2000, p. 57-72. Il topos della «pazzia del mondo», in un’epoca funestata da ricorrenti crisi e percepita dai contemporanei come pericolosa e precaria, si diffonde capillarmente per affiorare nelle più diverse manifestazioni culturali e incarnarsi anche sulla scena teatrale. In chiave grottesca, si avverte il senso paradossale di vivere in un mondo «alla rovescia» nella passione per la deformità di nani e gobbi, metafore viventi e tangibili della malattia e della «disarmonia del mondo» (J. Maravall, La cultura del Barocco, Bologna, 1985, p. 250).
60 F. Redi, Lettere inedite, a cura di D. Moreni, Firenze, 1825, p. 242. Un’altra significativa e più tarda testimonianza di Redi relativa agli stravizzi è pubblicata, con ricco apparato di annotazioni, in F. Massai, Lo «Stravizzo» della Crusca del 12 settembre 1666 e l’origine del «Bacco in Toscana» di Francesco Redi, Rocca San Casciano, 1916. Poggiolini dette questo giudizio su cicalate e affini: «mi sforzo di gustare le cicalate, i ditirambi o le controcicalate che i Diari della Crusca definiscono «ingegnosissime e piacevolissime»; io non so capacitarmi – ripeto – come uomini colti e stimabili sotto piùaspetti, nati e vissuti in Toscana, ai quali non era ignoto il fine e sano umorismo del Pulci e del Berni, si dilettassero a scrivere e a recitare coram populo sciocchezze di quel genere, dove non è ombra di facezie passabile, né motti di buona lega che richiamino un sorriso sincero sulle labbra. [...]. Può darsi che, declamate con arte scurrile, con mimica istrionica, e con grottesche inflessioni di voci, piacessero e possano forse piacere anche oggi, ma guai a rileggerle a mente fredda!», A. Poggiolini, Grandezze e miserie cit., p. 14. In effetti non si può prescindere dalla finalità che avevano questi scritti, concepiti esclusivamente per un uso estemporaneo e immediato. I riferimenti nascosti, la referenzialità implicita di cui nel tempo si sono perse le tracce, e infine appunto la «mimica istrionica» e le «grottesche inflessioni di voci» con cui venivano recitate, costituivano l’essenza dell’apparente incomprensibilità che offrono questi componimenti ad una prima lettura. Se ne trovano pubblicati in Prose fiorentine, Firenze 1661, Firenze 1716-1745, Venezia 1751.
61 Lorenzo Panciatichi (1635-1676) fu canonico del Duomo di Firenze e cortigiano di Leopoldo de’ Medici. Amante del teatro in musica e della poesia, diventò amico del drammaturgo Pietro Susini e di Salvator Rosa, durante un soggiorno fiorentino di questi nel 1659 (cfr. l’Introduzione di A. De Rinaldis, in Lettere inedite di Salvator Rosa cit., p. xxxii-xxxiv), e in seguito frequentò il Redi e il Magliabechi. Cfr. L. Panciatichi, Scritti varî, a cura di C. Guasti, Firenze, 1856.
62 Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Milano, 1994, p. 405.
63 Cfr. R. P. Ciardi e L. Tongiorgi Tomasi, Le pale della Crusca cit., p. 336-337.
64 F. Redi, Lettere inedite cit., p. 242.
65 Ivi, p. 248.
66 Cfr. P. Ciardi e L. Tongiorgi Tomasi, Le pale della Crusca cit., p. 78.
67 Negli anni che seguirono, gli «stravizzi» ed altre accademie pubbliche dallo spiccato carattere performativo diventarono un’abitudine consolidata. Queste alcune testimonianze diaristiche: «Adi 10 giugno 1651. L’Accademia della Crusca di Firenze si radunò nel Cortile del Palazzo dei signori Strozzi al canto a’ Tornaquinci, dove il signor cavaliere [Orazio] Rucellai recitò una bellissima Orazione in lode di San Zanobi Vescovo di Firenze, quale fu eletto per Protettore di detta Accademia; e furono recitate molte belle Composizioni, e v’intervennero tutti li Serenissimi Principi con molta nobiltà» (F. Settimanni, Memorie fiorentine regnante Ferdinando II Medici Granduca di Toscana 5°, ASF, Manoscritti 136, alla data).Nel 20 giugno 1652 venne tenuta nel Salone del Consiglio di Palazzo vecchio una celebrazione del Santo protettore, in cui si sentì «musica con recitativo, opera del Contento [Niccolò Strozzi]» (testimonianza pubblicata in S. Parodi, Quattro secoli di Crusca cit., p. 64-65). «10 ottobre 1655. L’Accademia della Crusca fece il suo solito Banchetto chiamato Stravizzo, nel Palazzo del signor Duca Salviati al Corso, dove tra gli altri v’intervenne il signor Principe Leopoldo, che condusse seco Monsignore Arcivescovo di Siena [Ascanio Piccolomini], che per i suoi negozi si trovava tuttavia in Firenze. Furono Provveditori di detto Stravizzo: il signor Marchese della Rena, signor Vincenzo Antinori, signor Braccio da Filicaia, e il signor Giovanni Rucellai». «15 ottobre 1658. Gli accademici della Crusca si radunarono nello Stanzone di Palazzo Vecchio, dove si raduna il Consiglio del Dugento, e che avevano fatto parare con le loro Imprese, e quivi fu recitata una bellissima orazione del signor Conte Ferdinando del Maestro in lode di San Zanobi protettore della loro Accademia; e dopo quella furono lette bellissime composizioni poetiche da diversi Accademici alla presenza del granduca, cardinale Giovan Carlo, signor principe Leopoldo [...] che intervennero a detta funzione, ove fu eziamdio sentita una buonissima musica» (F. Settimanni, Memorie fiorentine cit., alla data). Un’altra testimonianza, che narra nei dettagli quest’ultima tornata accademica, conferma il carattere prevalentemente spettacolare delle esibizioni pubbliche della Crusca: «15 ottobre 1658. Si fece nella Sala del Consiglio di Palazzo Vecchio dall’Accademia della Crusca la solita Accademia di San Zanobi. Vi fu il Gran Duca sotto il baldacchino, e fuori di esso il principe Leopoldo. Il signor Cardinale [Giovan Carlo] era a Montegrappoli alle cave e il signor Principe di Toscana all’Imperiale con la Serenissima. Le composizioni furono tutte in lode del Santo. Un’orazzione del Conte Ferdinando del Maestro, una canzone di Lorenzo Panciatichi, un elogio di Francesco Rondinelli recitato dal canonico [Girolamo] Lanfredini. Quattro sonetti: il primo, del signore Duca Salviati, lo recitò Carlo Dati. Il secondo del Priore Orazio Rucellai. Il terzo di Desiderio Montemagni, Segretario. L’ultimo di Valerio Chimentelli. Vi fu sinfonie e canti tramezzandosi le composizzioni. Le parole che si cantarono erano del cavaliere Francesco Panciatichi. L’Arciconsolo stava alla sinistra dell’immagine del santo con i suoi Uffiziali. Stette sopra il solito risedio, non per linea retta al muro, ma per trasverso. A mano diritta dell’immagine del santo era la bugnola per i recitanti. La residenza di Sua Altezza era a dirimpetto fra due finestre. Gl’Accademici sulla prima fila su le gerle. Durò l’Accademia circa un’ora e mezza» (ASF, Diari di etichetta del Guardaroba Mediceo 5, c. 72v). «Addi 25 settembre 1661. Gli Accademici della Crusca fecero la loro solita ricreazione, chiamata da loro Stravizzo, che faceano ogni anno in questo mese; Provveditori della quale ricreazione furono il signor Duca Salviati, Monsignor Ludovico Incontri, Spedolungo di Santa Maria Nuova, il signor Marchese Gabbriello Riccardi, ed il signor Marchese Bartolommeo Corsini. Detta ricreazione fu fatta ne lo Palazzo Vecchio nel Salone dove si fa il Consiglio. L’apparecchio fu bellissimo, e concorse perciò gran quantità di persone, ed in tutti con Loro Altezze furono 76 convitati» (F. Settimanni, Memorie fiorentine cit., alla data).
68 Cfr. S. Parodi, Quattro secoli di Crusca cit., p. 65.
69 L’obiettivo principale avrebbe infatti dovuto essere la compilazione della terza edizione del Vocabolario. La prima era uscita nel 1612 a Venezia per i tipi di Alberti sotto la supervisione di Bastiano de’ Rossi (Vocabolario degli Accademici della Crusca). La seconda edizione, sempre a cura di Bastiano de’ Rossi, uscì a Venezia presso Sarzina nel 1623. Seguì un lungo periodo di decadenza, finché non entrò nell’accademia con la carica di segretario Benedetto Buonmattei. L’attività dell’accademia riprese a pieno ritmo nel 1641, ma con un’attenzione prevalente, come si è visto, al «virtuoso intrattenimento». Soltanto nel 1663, dopo la morte di Giovan Carlo de’ Medici, si cominciò a lavorare concretamente alla terza edizione del Vocabolario, su impulso determinante di Leopoldo; l’opera uscì in tre volumi nel 1691, per la Stamperia dell’Accademia della Crusca. Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana cit., p. 407-410.
70 L. Panciatichi, Scritti varî cit., p. xxiii.
71 Cfr. S. Parodi, Quattro secoli di Crusca cit., p. 68.
72 L. Panciatichi, Scritti varî cit., p. 115.
73 «Sentito far discorsi d’ateismo da Cosimo [III], questi lo fece avvertire dal Magliabechi, il quale peraltro aveva spesso avvertito lui di stare attento. Ma visto che il Magliabechi gli divenne meno familiare, divenne frenetico e si gettò in un pozzo. [...] Avendo trovato nella sua libreria non so che di libri eretici proposero di farlo seppellire in terra maledetta», L. Panciatichi, Scritti varî cit., p. li-lii.
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