Rituali di famiglia
Pratiche funerarie nell’Italia longobarda*
p. 431-457
Texte intégral
I Longobardi e i rituali funerari. Un problema aperto
1I rituali funerari, intesi come processo di interazione tra i vivi e i morti, sono stati negli ultimi anni oggetto di un’ampia serie di ricerche per l’età medievale e moderna1, volte a indagare lo spazio della morte in quanto rituale di passaggio e di stabilità sociale2, utilizzando un’ampia gamma di fonti, da quelle archeologiche3 a quelle liturgiche4. Uno spazio speciale, nelle ricerche degli storici del tardo medioevo e dell’età moderna, è stato poi riservato agli atti testamentari, intesi sia come gruppo di fonti seriali da utilizzare attraverso analisi quantitative sulla distribuzione della ricchezza, sia come fonti per esaminare, sotto il profilo qualitativo, i mutamenti della sensibilità religiosa tra xii e xiii secolo5.
2Nella storiografia italiana soltanto il periodo altomedievale non è stato affatto esaminato sotto questo aspetto. L’orientamento degli studi altomedievistici italiani risulta da lungo tempo condizionato dalla tradizione storiografica inaugurata negli anni ’50 da Gian Piero Bognetti6, volta prevalentemente alla puntigliosa e spesso fantasiosa separazione degli apporti «romani» da quelli «germanici» nella formazione della società medievale italiana7. Sotto il profilo archeologico, le necropoli altomedievali e i corredi funerari che fino alla fine del secolo viii costituiscono le fonti principali per lo studio dei rituali funerari8, sono stati studiati esclusivamente in una prospettiva etnica, volta a scandire la «strategia militare» dello stanziamento dei Longobardi in Italia9. Secondo questa interpretazione, i corredi funerari, armi e di gioielli, avrebbero, tra vi e vii secolo, totalmente soppiantato le forme classiche dei rituali funerari, per scomparire soltanto nel secolo successivo in seguito alla lenta ma inesorabile opera di «addomesticamento» svolta dalla Chiesa verso i Longobardi, ai quali, dopo la loro cristianizzazione (implicitamente intesa come romanizzazione), essa avrebbe insegnato a utilizzare mezzi più stabili per la conservazione del patrimonio, attirando le donazioni fondiarie, forgiando i rituali funerari : presentandosi quale luogo più sicuro per l’investimento aristocratico essa avrebbe rivendicato per sé «la parte del morto»10. Nella prospettiva di una rigida separazione originaria tra gli usi funerari «germanici» e quelli «romani», la presenza del corredo viene ad assumere un distintivo valore etnico e sociale, e il suo venir meno è interpretato come una forma di elaborazione della tradizione frutto dell’acculturazione, in senso romano ed ecclesiastico, dei Longobardi, per i quali allora la «mort du chrétien» si sarebbe presto trasformata in «mort chrétienne»11. Perciò la scomparsa del corredo funerario nel corso del secolo viii e poi, nel corso del secolo xii, il riaffiorare del testamento romano, farebbero entrambi parte di un processo di lungo periodo, caratterizzato dalla progressiva de-germanizzazione della società italiana e dal riemergere, attraverso l’apporto determinante delle strutture ecclesiastiche, della tradizione romana nel disciplinare il rapporto tra i vivi e i morti.
I testamenti di età longobarda
3Abbandonare le prospettive di opposizione etnica significa anzitutto poter osservare più liberamente la documentazione disponibile e poter riconsiderare il tema dei rituali funerari nel complesso delle trasformazioni della società del regno dei Longobardi. È evidente, a una semplice scorsa della produzione documentaria privata italiana dei secoli viii, ix e x, che lo iato documentario tra la tradizione romana del testamento e quella altomedievale è di natura semplice mente formale, in quanto frutto dei mutamenti istituzionali di più ampio spettro che complessivamente coinvolsero la lunga trasformazione del mondo romano, primo tra i quali la declinante presenza delle istituzioni statali nel disciplinare, organizzare e definire le modalità dello status sociale dei singoli. Le forme documentarie che ruotano attorno all’ambito funerario e che sono volte a definire i passaggi patrimoniali dopo la morte costituiscono anzi la parte più rilevante, anche sotto il profilo quantitativo, delle carte private altomedievali che sono giunte fino a noi. Esse formano un corpus sufficientemente sostanzioso, che permette di identificare una tipologia documentaria di tipo testamentario specificamente altomedievale12. Aveva ragione lo storico del diritto Mario Amelotti quando osservava che, a partire dal vi secolo «gli atti paratestamentari soverchiano, sostituendo spesso o talora inquinando con loro clausole, l’istituto testamentario (...). Accentrare l’indagine su questo e ricordare marginalmente quelli significa non solo coartare tale realtà, ma rinunciare a coglierne i motivi di fondo»13.
4Ciò che risulta precisamente dalle carte private prodotte nel regno dei Longobardi è che l’attenzione da parte dell’aristocrazia altomedievale nel guidare e indirizzare la trasmissione del patrimonio costituisce un aspetto del tutto centrale, perché la terra, principale fonte e risorsa dello status aristocratico, risulta essere il veicolo attraverso il quale i rapporti sociali, verso il basso o verso l’alto, sono ribaditi e rinnovati, oppure instaurati ex novo. Allo stesso tempo risulta evidente che, se la legge scritta – a partire dall’Editto di Rotari del 643 – ruota principalmente sul tema della regolamentazione delle modalità della trasmissione del patrimonio fondiario, sono proprio le norme sulla trasmissione patrimoniale a risultare l’oggetto di un progressivo aggiornamento nelle redazioni successive della legge, lasciando così intendere la costante tensione esistente, all’interno dei gruppi familiari, tra il gruppo degli heredes a mantenere indiviso il patrimonio e le tendenze dei singoli a utilizzarne attivamente una parte come strumento di stabilità sociale14. Sarebbe quindi del tutto semplicistico (e forse anche fuorviante) supporre che in età longobarda la trasmissione patrimoniale avvenisse seguendo la legge op pure, all’inverso, del tutto ignorandola : la crescente disponibilità, dimostrata nelle stesse leggi dei Longobardi, nei confronti delle cosiddette «donazioni pro anima», è la prova dei costanti sforzi, da parte aristocratica, di ritagliare all’interno del patrimonio uno spazio di disponibilità riconosciuta e codificata a utilizzarlo come strumento di allargamento dei rapporti sociali e di rafforzamento del proprio gruppo familiare proiettato all’esterno. Gli atti di tipo testamentario non sono quindi da esaminare come testimonianze di pratiche contro lo spirito della norma, bensì come testimonianze di pratiche che utilizzano gli spiragli di azione e di manovrabilità all’interno della legge, stimolando parallelamente le modificazioni della legge stessa15.
5Sotto il profilo puramente formale, se è vero che le caratteristiche codificate del testamento romano – con le sue clausolae, la presenza dei sette testimoni, il diritto alla revocabilità espresso dalla possibilità di ricorrere al codicillum per modificare le disposizioni in un primo tempo attuate – non sono sempre presenti negli atti di tipo testamentario altomedievali16 – non è certo possibile affermare che durante l’alto medioevo non si vennero a formare dei tipi documentari esplicitamente volti a indirizzare il patrimonio dei singoli, intendendo con questa espressione il patrimonio nella sua interezza : formato non solo dai beni fondiari, ma anche da mobilia (animali, servi, oggetti preziosi) e dal patrimonio immateriale di legami personali e clientelari instaurati verso l’alto e verso il basso. È vero precisamente il contrario. Non solo gran parte delle carte private prodotte nell’alto medioevo italiano è relativa alla trasmissione patrimoniale esplicitamente collocata in una dimensione funeraria, ma in alcuni casi lo stesso individuo utilizzò più carte scritte, non necessariamente in contraddizione tra di loro, per esprimere le pro-prie ultime volontà17.
6Sotto il profilo sociale, coloro che utilizzarono le carte di tipo testamentario sono genericamente collocabili nel fluido ambito dell’aristocrazia, comprendendo al suo interno sia la fascia dei funzionari pubblici e dei vescovi, sia quella dei semplici possessori fondiari. La scelta di ricorrere a un atto scritto di tipo funerario pare allora di per sé un mezzo per sottolineare la distinzione sociale e la pecu liarità del proprio stile di vita, ed esprime al contempo le esigenze di stabilità delle élites. Sul piano pratico, infatti una carta di tipo testamentario permette di ottenere due importanti risultati. Il primo è anzitutto quello di redigere una lista scritta, vale a dire una specifica selezione di oggetti, di terre e di persone che qualifica la posizione sociale del gruppo familiare; la seconda è quella di convogliare questi stessi beni in una precisa direzione, creando un cambiamento durevole nel tempo18. Se dal punto di vista giuridico e formale le carte testamentarie sono variamente classificabili come donatio pro anima, donatio post obitum, charta iudicati, charta dispositionis, esse formano insieme un gruppo relativamente omogeneo, che presenta una ossatura costante. Essa si compone di un protocollo, variamente articolato, in cui il donatore specifica le circostanze che lo hanno spinto a redigere l’atto; la dispositio può essere incentrata sia sull’elenco dei singoli beni, specificando il destinatario per ciascuno di es-si, oppure, all’inverso, avere come elenco prevalente quello dei destinatari, specificando per ognuno di essi quali sostanze egli verrà in possesso. In nessun caso, comunque, l’elenco delle proprietà è diret a indicare i beni di un solo destinatario. Parte integrante della dispositio, sono poi le modalità rituali con cui il donatore dovrà essere ricordato sia immediatamente dopo la sua morte, sia negli anni successivi; l’escatocollo comprende infine la proibizione a venir meno alla irrevocabile volontà espressa dal donatore, a meno che non sia il donatore stesso a decidere altrimenti e, come di norma, la serie dei sottoscrittori e la sottoscrizione del redattore dell’atto.
7Rispetto alla struttura diplomatistica dei testamenti transalpini di età merovingia, esaminata in una serie di lavori recenti19, le carte italiane presentano una maggiore ricchezza nel formulario del protocollo in cui costantemente si precisa il motivo che ha spinto il donatore a far redigere l’atto : la partenza per la guerra20, la mancanza di figli maschi21 o più semplicemente il desiderio di assicurare a sé e ai propri defunti una posizione stabile nell’al di là22; assai più raramente la morte imminente23, o la malattia24. Essi appaiono redatti non tanto nell’imminenza della morte, bensì in previsione della morte, oppure per generico timore della morte : questa differenza è significativa perché, non trattandosi di atti originatisi in una situazione di ansia o di emergenza, palesano un atteggiamento diffuso delle élites a utilizzare il tema della fine della vita come momento saliente della propria continuità. Quanto alle categorie dei beni menzionati, cioè quelli che sono giudicati rilevanti per qualificare lo status del donatore, esse comprendono invariabilmente i beni fondiari, gli animali, i servi (di cui si ordina la liberazione nel giorno della morte del donatore), e infine i mobilia o scherpa, che possono sia essere elencati con precisione mentre si stabilisce chi ne verrà in possesso, sia essere menzionati cumulativamente, riservandosi la facoltà di donarli pro anima in un’altra occasione25.
8Pur in questa varietà, questi diversi tipi documentari diversi utilizzano nel protocollo brani biblici ed evangelici che fanno esplicito riferimento al rapporto tra l’atto del donare e la salvezza eterna, e al momento della morte come contingenza decisiva di valutazione del proprio percorso individuale sotto il profilo morale, che richiede una decisione economica a parziale sconto delle proprie azioni26. La trasmissione scritta dei beni (o meglio, come si vedrà, di una parte dei beni), sia all’interno del gruppo familiare (nelle sue componenti laiche ed ecclesiastiche)27, che all’esterno di esso, realizzata durante la vita o presentata come promessa da realizzarsi effettivamente soltanto dopo la morte, è quindi concepita secondo la logica del dono : all’offerta di mobilia, terra e servi, si riceve una controparte articolata sul piano spirituale e sul piano sociale, proiettando il patrimonio materiale e immateriale in una precisa direzione di sviluppo. Se dal punto di vista giuridico le donazioni pro anima e le donazioni post obitum sono negozi a titolo gratuito28, dal punto di vista concreto esse si configurano come vere e proprie transazioni economiche.
Negli interstizi della legge
9Uno degli argomenti che normalmente si trova considerato anche nelle trattazioni più recenti, è il rapporto tra pratica e norma : la prima sarebbe lo specchio della realtà, la seconda soltanto una base ideale, normalmente ignorata29. In particolare a proposito degli atti di tipo testamentario, normalmente si afferma che si ricorre ad essi per evitare la dispersione del patrimonio che sarebbe implicita nella legge : la frammentazione del patrimonio risulterebbe dalle quote parte eguali previste dalla legge per la generazione successiva, sebbene per la sola parte maschile della discendenza, e le donazioni sarebbero un mezzo, esclusivamente economico, per conservare la compattezza del patrimonio stesso30. Tuttavia la considerazione del tutto separata tra questi due aspetti – la norma e la pratica – non si rivela, a ben vedere, esatta. Se così fosse, e le leggi sulla trasmissione della proprietà appartenessero al gruppo chiuso dei principi cardine, indiscutibili e immodificabili in quanto principi fondanti della legge stessa, essi non sarebbero – come invece sono – l’oggetto privilegiato delle modifiche all’interno della legislazione stessa. Inoltre, se gli atti di tipo testamentario altomedievali fossero tutti intesi al consolidamento patrimoniale, il loro tenore dovrebbe essere costantemente volto a concentrare il patrimonio nelle mani di un singolo individuo, mentre ciò che si verifica è, nella maggioranza delle volte, precisamente il contrario31. A fronte di casi, che sono però la minoranza, ove il destinatario del documento è un unico soggetto (sia questo un ente ecclesiastico oppure un singolo), gli atti di tipo testamentario utilizzano il patrimonio precisamente per allargare e ribadire la sfera delle proprie relazioni sociali, in una direzione di allargamento e di espansione. Il consolidamento dello status aristocratico, come è stato più volte notato, non prevede il semplice accumulo delle risorse, ma la sua costante ridistribuzione attraverso i rituali della vita quotidiana (primo tra tutti quello del banchetto) : gli atti e gli scritti connessi con il rituale funerario vanno precisamente in questa direzione32. Anche nell’Italia longobarda, ove fin dal secolo viii lo status aristocratico appare più stabile, in quanto saldamente ancorato al possesso della terra, il prestigio sociale si presenta ancora come oggetto di costante tensione.
10Quanto al rapporto tra gli atti di tipo testamentario e la norma scritta, è necessario sottolineare che la lex scripta, attribuita nel mondo longobardo all’iniziativa individuale di singoli sovrani, rappresenta una tappa fondamentale sia dell’evoluzione dei rapporti tra il re e l’aristocrazia, sia della stessa regalità. Essa non si presenta infatti, sin dalla sua prima redazione nel 643, come semplice strumento di fissazione delle norme consuetudinarie, bensì come strumento attraverso il quale aggiornare e disciplinare – attraverso il controllo regio – i comportamenti patrimoniali dell’aristocrazia, inserendo all’interno della legge stessa anzitutto le disposizioni volte a sanare i conflitti intra familiari33. La struttura degli editti promulgati successivamente all’interno del regno longobardo, rispettivamente da re Rotari (643), e dai suoi successori Grimoaldo (668), Liutprando (dal 713 al 735), Ratchis (745), e Astolfo (dal 751 al 755), presenta infatti un costante sforzo di attualizzazione su due fronti complementari. Anzitutto articolando e ampliando le potenzialità femminili all’interno dei passaggi di proprietà tra le generazioni, specificando i di ereditari in un primo tempo delle figlie, poi delle sorelle, delle zie, delle sorelle nubili in capillo; parallelamente ampliando e articolando le possibilità di donare la propria terra pro anima. Uno dei pochi nuclei tematici coerenti all’interno dell’Editto del 643 riguarda infatti i 70 articoli, preceduti dal titolo De filiis legitimis, correlati alla struttura della famiglia, che hanno per oggetto gli eredi, i doni, le nozze, gli omicidi di donne e perpetrati da donne, il matrimonio dei non liberi. Questa lunga sezione termina con l’asserzione che la proprietà di colui che è privo di eredi deve confluire nel fisco regio e i suoi eventuali debiti non possono più essere reclamati34. Queste norme indicano le percentuali di beni che dovranno essere trasmessi alla discendenza legittima e naturale, spiegando che non è possibile escludere la discendenza dall’eredità sine certas culpas35. I sette articoli successivi ruotano intorno al tema delle donazioni fondiarie, alla loro regolamentazione e alla loro validità, precisando che le donazioni non possono in alcun modo ledere i diritti ereditari dei figli. Si precisa infatti che se una donazione è avvenuta propter senectutem aut propter aliquam infirmitatem, in seguito cioè al venir meno della speranza di poter avere figli o figlie, qualora poi essi nascano, la donazione stessa non avrà più alcun valore36. All’interno di questa sezione, e dunque inestricabilmente connessi con il tema della proprietà, vi sono gli articoli dedicati alle donne, che riguardano rispettivamente le eredità, l’interruzione del matrimonio, i doni nuziali e infine i crimini commessi contro le donne libere37.
11Rispetto agli altri articoli che compongono l’Editto, i capitoli che riguardano la legittimità dei figli, le proibizioni a effettuare donazioni del patrimonio ereditario, la regolamentazione delle donazioni, e infine la determinazione delle unioni incestas et inlecetas38 sono strutturati come delle asserzioni, introdotte dalla locuzione imperativa «nulli liceat», che le qualifica come norme nuove, che non sono evidenti né per la regola violata, né per l’accordo stabilito. In questi casi la legge scritta non è presentata come la semplice trasposizione di una norma già in uso, come invece accade per le norme introdotte dalla locuzione «si quis», bensì come qualcosa di completamente nuovo, che è stato deciso contro la tradizione precedente39. Esse non si configurano come la semplice trascrizione delle norme consuetudinarie che regolavano i comportamenti sociali dei Longobardi prima del loro stanziamento in Italia, ma rappresentano delle regole stabilite in Italia in seguito alla trasformazione dell’aristocrazia longobarda in aristocrazia fondiaria, e alla trasformazione del re in garante della legge.
12Le modifiche apportate alla legge dai successori di Rotari sono l’ulteriore frutto della trasformazione delle esigenze di stabilità del re e dell’aristocrazia : esse riguardano anzitutto le capacità patrimoniali femminili e le donazioni, considerate evidentemente aspetti più flessibili e più malleabili del diritto e quindi negoziabili. Tutti e sei i capitoli emanati nel primo anno di regno di Liutprando riguardano Primum omnium de successionem filiarum, e sono volti ad accordare il diritto a ereditare non soltanto alle figlie, ma anche alle sorelle, sposate o no40. L’ampliamento delle capacità di ereditare da parte delle donne è affiancato da un articolo che riguarda le donazioni, che permette all’individuo ammalato che in lectolo reiaceat di disporre del suo patrimonio pro anima sua41. La malattia, come già nell’Editto di Rotari, continua quindi a definire il contesto di emergenza all’interno del quale le donazioni sono effettuate, ma se nell’Editto le donazioni appaiono motivate puramente dalla mancanza di discendenza, all’inizio del viii secolo esse sono invece spiegate attraverso la preoccupazione del proprio destino ultraterreno.
13Nell’insieme, queste disposizioni prospettano una più ampia discrezionalità nella gestione e nella trasmissione del patrimonio fondiario, che è utilizzato come strumento a «velocità diverse» : una lenta, come diretto mezzo di continuità del gruppo familiare, e una più veloce, volta a un utilizzo proiettato all’esterno, sia attraverso i doni nuziali, sia attraverso le pratiche funerarie. La donazione pro anima, motivata da necessità di tipo spirituale, è infatti presentata con caratteristiche proprie e con finalità distinte dalle semplici donazioni tra vivi42, dalle quali essa differisce anche sotto il profilo rituale : mentre si stabilisce la non validità delle donazioni tra vivi che risultano prive dei requisiti del launechild e della thingatio – vale a dire le garanzie di pubblicità e di pegno43 –, si afferma esplicitamente che il provvedimento non riguarda le donazioni in ecclesiam, in loca sanctorum aut in exeneodochio, poiché esse sono effettuate pro anima44. Le donazioni pro anima sono quindi prospettate come dono gratuito, vale a dire come donazioni che non alterano l’equilibrio sociale preesistente e dunque non implicano la reciprocità materiale del «contro-dono»45.
14La definizione separata delle donazioni pro anima dalle altre do nazioni, più che come segno dell’influenza cristiana all’interno della legge, è osservabile come strumento di pacificazione dei conflitti intrafamiliari : è la stessa legge a documentare la profonda ostilità nei confronti delle donazioni pro anima da parte dei coheredes esclusi, i quali appaiono «contra voluntatem defunctorum suorum agere» e violare «per astutia» le disposizioni pro anima dei loro congiunti46. Nei confronti delle strategie parentali, volte a trasmettere integro il patrimonio tra le generazioni, donare costituiva, alla metà del vii secolo, un atto gravissimo : nella definizione data da Rotari di proximus inimicus aut extraneus, vale a dire del parente che non può essere chiamato come sacramentalis a un giuramento, si indica infatti colui che gli ha provocato una ferita, ha complottato per la sua morte o ha donato a un altro i suoi beni47. Sullo scorcio del secolo successivo, invece, la donazione pro anima è scorporata da questa dimensione di ingiuria familiare : se qualcuno inspiratus ha assegnato i suoi beni pro anima «non reputetur extraneus vel inimicus parentibus, sicut in lege nefas scriptum est, sed sit sacramentalis»48. Dunque gli effetti delle donazioni pro anima nella direzione del consolidamento sociale, e non della dispersione patrimoniale, erano non solo già pienamente noti, ma anche attivamente approvati.
15Nel corso del secolo viii, allora, si portano a piena maturazione le linee di sviluppo nella struttura della famiglia – intesa sempre più come nucleo ristretto – e in questa modificazione la struttura delle relazioni tra le generazioni appare improntarsi a una discrezionalità più ampia, volta a interpretare il gruppo familiare non già come entità coesa, bensì come struttura all’interno della quale i conflitti trovano il loro principale nucleo di origine. Questi due fenomeni sono da osservare in parallelo. In primo luogo questo fenomeno è osservabile nel momento in cui emerge con forza all’interno della legge scritta : nelle aggiunte relative all’anno 728, Liutprando stabilì infatti la potenziale diversità dei figli rispetto ai loro diritti tradizionali ad ereditare in parti uguali dal patrimonio dei loro genitori. Si introduce infatti una categoria speciale di figli, quelli che si sono dimostrati «bene servientes et oboedientes» : precisamente per il fatto di aver agito in assonanza con le strategie familiari essi possono essere ricompensati attraverso la donazione di una quota parte maggiore dei beni familiari rispetto a quella degli altri fratelli49. Nel 750 re Astolfo estese questa distinzione qualitativa anche nei confronti delle figlie, ma solo in assenza di un figlio maschio50. Di fatto, la differenziazione della condotta concreta dei figli rispetto alla gestione patrimoniale fu utilizzata con grande libertà : essa servì, grazie allo strumento della donazione pro anima, a creare una categoria speculare e del tutto opposta a quella positiva teorizzata da Liutprando, vale a dire quella dei figli male servientes, i quali devono invece esse-re puniti e perciò privati dei beni. Molti casi concreti dimostrano il diffondersi parallelo delle due categorie di figli «buoni» e «cattivi», anche se quest’ultima non era affatto teorizzatata nella norma. Nella donazione pro anima di Pando alla propria vedova Taneldi, si specificò, per esempio, che il figlio Benedictus sarebbe entrato in possesso della terra paterna a Cicilianum soltanto se egli si fosse comportato correttamente nei confronti della madre, cioè se «bene et inoffense sicut parentibus deservierit»; se invece Benedictus si fosse rivelato «rebellis et contrarius vel inobediens» i beni di Cicilianum sarebbero stati donati a un ente monastico per la salvezza delle anime dei due genitori. La successiva donazione pro anima della terra a Ciciliano effettuata dalla vedova Taneldi al monastero di Farfa, nel 768, fu quindi motivata dalla condotta negativa di Benedictus, il quale, morto il padre, aveva inflitto alla madre «multas... iniurias et amaritudines atque damnietates»51. Circa quarant’anni prima, a Lucca, Orso, fondatore del monastero e della chiesa di S. Maria presso le mura della città, vi poneva come badessa la figlia Ursa insieme con la sorella Anstruda, riservandosi il diritto di amministrare le terre che egli donava al monastero ed escludendo categoricamente il figlio e gli eredi da qualsiasi ingerenza, anche futura, su di esso e concedendo loro solo la facoltà di «orare et benefacire»52; e nel 764, ancora a Lucca, Temprando, nell’ atto di fondare presso le mura la chiesa di S. Michele, stabilì che in essa vivessero la moglie Gumpranda e le figlie «subrie et caste», se ne attribuì l’amministrazione dei beni «comodo et qualiter voluero», precisando che, alla sua morte, i figli gli sarebbero potuti succedere soltanto se «casti et subrii vivere voluerint»53. Gli atti e gli scritti effettuati pro anima in una prospettiva funeraria funsero dunque da elemento attivo di discriminazione dei diritti dei discendenti diretti, prospettando, normalmente, una linea di continuità più stretta con gli elementi femminili della famiglia che, caratterizzati com’erano da diritti più negoziabili e flessibili e dall’inibizione alla gestione diretta della propria terra, sono presentati, come nei casi cui ho appena accennato, come strumento di continuità delle strategie paterne54.
Rituali del ricordo
16Le donazioni pro anima non sono da osservarsi soltanto, o prevalentemente, come un elenco di beni e di destinatari. Esse sono infatti parallelamente lo strumento attraverso il quale si definiscono e si precisano le modalità attraverso le quali il donatore, una volta defunto, dovrà essere ricordato nel tempo. Si badi bene : non solo nel trascorrere del tempo lungo – nel tempo della memoria – ma anche nel tempo breve, quello che segue immediatamente la morte. Vediamo un caso concreto. Nel 745, Rottopert vir magnificus di Agrate strutturò la sua donazione pro anima55 come una lista di enti e persone a cui sono assegnati i beni fondiari che Rottopert possiede a vario titolo. Si tratta in primo luogo della chiesa di S. Stefano di Vimercate a cui è assegnato un terreno «quam ego emi»; alle sorelle Gallana e Rodelenda e alle figlie Anselda e Galla, monache a Vimercate, è invece assegnata la metà dell’usufrutto «de pecunia mea» nel territorio di Pombia, a patto che esse conservino l’abito monastico : chi tra gli eredi contrasterà questa assegnazione dovrà restituire loro il doppio del valore. Rottopert stabilisce poi che la casa ad Agrate «quod mihi ex cumparatione advenit de Ambrosio» diventi uno xenodochio, al quale sono donate tutte le sue sostanze – con la sola eccezione di Curtiniano, una terra che è già stata precedentemente assegnata – per il sostentamento di «pauperum vel peregrinorum» affinché Cristo gli perdoni i peccati commessi. L’amministratore dello xenodochio, di cui non si specifica il nome, otterrà per il suo sostentamento le terre patrimoniali che, come già quelle assegnate a S. Stefano di Vimercate, risultano confinanti con beni «ipsius Rottoperti» e derivano dall’eredità di una sorella defunta56. Segue nell’elenco Gradana, una terza figlia in tenera età, per la quale Rottopert non ha ancora stabilito una carriera da monaca o da moglie, la quale si accontenterà, come risoluzione dell’eredità paterna, di quanto le verrà assegnato il giorno delle nozze o della sua monacazione. Nel caso però che la ragazza sia ancora nubile al momento della morte del padre la sua eredità consisterà in un patrimonio di terre e case – sia acquistate dallo stesso Rottopert, sia prelevate dai beni patrimoniali –, di denaro liquido («solidos trecentos in auro ficurato») e di beni mobili («vestito vel ornamento eius adque frabricato auro»), che le sarà consegnato «in die votorum», cioè il giorno del fidanzamento. Come già nel caso delle sorelle e delle figlie monacate, Rottopert prevede la possibilità che gli heredes si oppongano a quanto da lui stabilito : nel caso la somma in denaro sarà sostituita da un bene fondiario in fundo Rocello. La prima parte della donazione pro anima si orienta quindi a definire non già l’estensione complessiva dei beni di Rottopert, bensì a precisare e a definire il destino patrimoniale dei membri più flessibili della famiglia, utilizzando sia terre acquisite dallo stesso Rottopert, sia terre patrimonia li. In parallelo, con andamento narrativo opposto alla precisione topografica con cui sono indicati i beni destinati alle donne, la parte preponderante del patrimonio di Rottopert è affidata alla gestione del proprio xenodochio, le cui opere di assistenza ai pauperes costituiscono lo strumento per nobilitare l’anima di Rottopert dopo la sua morte.
17Nell’ultima parte del documento l’elenco muta la sua struttura : non più una lista di persone, bensì una lista di oggetti preziosi, indicando il loro utilizzo in die transitus mei. Si tratta di due ciotole e un bacile d’argento «quod emi de Roderate» e di un calice «quod emi de Ambrosio clerico» che, qualora non vengano assegnati diversamente nel frattempo, devono essere spezzati e distribuiti ai poveri «ibi presentibus» per l’anima di Rottopert; lo stesso rituale della rottura e della distribuzione ai poveri è previsto per la «ringa mea aurea» – cioè della cintura con guarnizioni a puntali d’oro – nel caso che il figlio di Rottopert (che non compare come destinatario di alcun altro bene in questa carta) non voglia riscattarla al prezzo di cento sol-di. Se invece il figlio la riscatterà saranno i cento soldi a costituire il tramite immediato della munificenza funeraria di Rottopert57. Il rituale del funerale di Rottopert comprende dunque la spartizione rituale di alcuni oggetti preziosi acquistati dal defunto, riferibili al rituale del pasto, e delle guarnizioni della cintura, di proprietà personale, che tutti insieme definiscono lo status aristocratico dell’uomo58. Il compito di effettuare questa distribuzione è affidato a Rotruda, la moglie di Rottopert, la quale la effettuerà per l’anima di Rottopert e in memoria del suo defunto fratello Dondone. Quanto al vestimentum di Rottopert la metà sarà distribuita ai poveri pro suprascripta Rotruda. I mobilia sono quindi utilizzati come strumento di trasmissione della persona sociale di Rottopert, di Rotruda, della memoria della parentela stretta (il fratello Dondone) in un rituale che avviene il giorno del decesso di Rottopert e che, nonostante sia esplicitamente collocato in una dimensione salvifica, è praticato in contesto integralmente familiare. Scopo del rituale è non solo ricordare e onorare il defunto, ma anche definire la posizione di Rotruda, la quale è nominata erede della memoria del marito e responsabile di perpetuare il suo ricordo. Tale status è strettamente correlato al fatto che essa rimanga per il resto della vita la «vedova di Rottopert» senza più risposarsi, ed è anche la ragione in base alla quale la donna, nel testamento, è nominata usufruttuaria di alcune terre patrimoniali, i cui frutti potranno essere utilizzati in futuro come donazioni per l’anima di Rottopert a chi la donna vorrà. Se invece Rotruda si risposerà essa perderà integralmente, oltre alle terre anche il suo ruolo funerario : «suficiat ei lex sua, nam amplius de rebus meis non consequatur»59.
18Il valore non solo rituale, ma anche di collegamento e di trasmissione sociale, degli oggetti distribuiti durante il funerale risulta evidente dal controllo che il marito esercitava sui mobilia della pro-pria moglie o il padre su quelli della propria figlia, come appare chiaro dalle carte con cui alcune di esse richiedono e ottengono dal proprio mundoaldo la possibilità di assegnare la propria scherpa liberamente : per esempio, nel 771, il chierico Guntelmo concede a sua figlia il permesso scritto di donare «res mobile vel ischerpa pro anima sua» anche se «filii mei consentire non volueret»60; e nel 773 Davit lascia alla moglie Ghiserada «omni scherpa tua, quem ad no men tuum hauis, pro anima tua iudicandi et dispensandi qualiter volueris»61.
19Naturalmente, Rotruda non è un’eccezione isolata nella documentazione del secolo viii. Come Rotruda, anche Ansa, moglie di Teuderacio di Rieti, ebbe dal marito il compito di distribuire pro anima «caldaria II, concas de auricalco II, caballum maurum I et alium cavallum graum», liberare i servi e di donare altri tre cavalli62; e Rattruda ancilla Dei parente mea fu incaricata da Anspaldo di Lucca di reggere la chiesa di S. Maria fondata da lui fondata, di liberare i servi e di assegnare i mobilia (composti da aeramenta, ferramenta usitilia lignae) per la sua anima63. Alcuni documenti permettono di individuare di quali oggetti la scherpa si componeva : nel 774, Taido gasindio regio assegna pro anima «aurum et argentum, simul et vestes atque caballi»64, nel 740 l’arciprete Sichimundo di Lucca disponeva a riguardo di «omnia usitilia, tam pannis, eramen, vel auricalco, codicis»65; nel 777 il prete Teuferio offre al monastero di Farfa tutti i suoi beni, tra cui «carros ferratos duos, boum paria ii, lectistrata ii cum cultricis suis, concam i, aquarios manuum parium i, secula ii, caldaria iiii»66; nel 786, il prete Deusdona di Lucca, nel donare il proprio monastero di S. Angelo, si riserva il diritto di assegnare per la sua anima «omnem schirpas meas, pannos, usitilia, lignea, vel ferrea, ramentea, auricalca, aurum, argentos»67; infine Warnefrit, gastaldo di Siena, nel fondare il monastero familiare di S. Eugenio «pro redemptione animarum genitori et genitrici nostre et remedio anime nostre et pro animabus parentorum nostrorum qui iam fuere et qui per futura tempora fuerint», dopo aver stilato un minuzioso elenco dei beni fondiari che vengono a comporre la ricchezza del nuovo ente familiare, inserisce un elenco, altrettanto preciso di oggetti di bronzo, di ferro, di attrezzi agricoli, e di oggetti di metallo prezioso, provenienti dall’ornamentum della moglie Optileopa : «mantoras siricas, palleas, tunicas, fibulas maurenas et aris vestra anulos»68. È chiaro che gli oggetti della scherpa, distribuiti pro anima tra coloro che partecipavano al rituale funerario, erano pensati mantenere intatta l’identità del loro proprietario, servivano a diffonderne il ricordo, ma anche a garantirne gli atti69.
20Il rituale della distribuzione degli oggetti insieme con le donazioni fondiarie pro anima strutturano un rapporto immediato di scambio con l’al di là : il rafforzamento dell’anima del defunto è pensato realizzarsi direttamente, come semplice conseguenza di questi atti, senza che siano necessarie azioni rituali reiterate nel tempo. Si tratta di azioni che avvengono integralmente all’interno del gruppo familiare, senza che sia possibile verificare differenze significative tra l’atteggiamento dei laici e quello degli ecclesiastici.
21In alcuni casi, assai più rari, in verità, il rafforzamento dell’anima viene a essere interpretato non già come effetto della donazione, bensì come conseguenza, protratta nel tempo, di rituali reiterati a scadenze precise : luminarie, pasti e preghiere, da effettuarsi, ancora una volta, all’interno dell’ambito familiare. A Lamperga, moglie del gasindio regio Taido, fu affidato dal marito il compito di commemorarlo nel tempo attraverso pasti da distribuirsi «a dece no-mina Christi pauperibus per omni ebdomata dies veneris sufficienter pane, vino et companatico»70. La mediazione ecclesiastica non è perciò da considerarsi esclusiva neppure in questo ambito di intermediazione, né, quando invece essa è presente, è da considerarsi antitetica a quella familiare, poiché si tratta di membri della famiglia – normalmente femminili – che hanno preso la veste monastica. Tra i compiti di Muntia, Perterada e Ratperta, rispettivamente madre, moglie e sorella di Ratperto di Pistoia, monacate presso il monastero familiare di SS. Pietro Paolo e Anastasio, vi è quello di pregare «pro anima mea gravata ponderis peccatis meis die noctuque»71; Altiperga nel donare la sua casa alla chiesa di S. Salvatore di Valdottavo, presso Lucca, chiede che il prete Leopardo, suo parente, dopo la sua morte «pro me peccatrice et indigna missas et orationes cottidie proficiscat»72. La connessione familiare prevale su quella genericamente monastica anche nei casi di donazione a monasteri già esistenti : nel 768, Teuderacio, in partenza per la guerra, stabilisce la sua chiesa familiare di S. Cecilia e i suoi beni siano destinati, dopo la morte del figlio Pietro, al monastero di Farfa, i cui monaci già «die ac nocte canunt pro antecessore nostro» affinché essi «pro anima nostra orent et pro nobis»73.
22Per converso è assai rara nelle donazioni di tipo testamentario qui esaminate la precisazione del luogo in cui si desidera essere seppelliti, dimostrando la tendenza, ben evidenziata dalle recenti ricerche archeologiche sulle chiese rurali, di ogni gruppo familiare a costituire spontaneamente dei nuclei di commemorazione funeraria all’interno o nelle immediate prossimità della propria chiesa, a par-tire dall’inizio del vii secolo74, utilizzando cioè le chiese come strumento di continuità della memoria familiare. Quando tale precisazione compare per prima volta, nel 786 a Rieti, essa è volta infatti a stabilire una regola in controtendenza. Donando la chiesa familiare di S. Agata presso Rieti al monastero di Farfa, il chierico Ilderico stabilisce, non per sé ma per i suoi eredi, che essi «in ipsa ecclesia et in atrius ipsius ecclesie sepulturas sibi faciant» : poiché la donazione viene effettuata «pro anima fratris mei Valerini», l’amministrazione dei beni della chiesa è affidata alla moglie Gutta «cum filiabus suis», è evidente il desiderio di Ilderico di trasformare la propria chiesa in un vero e proprio centro di commemorazione dinastica, a dispetto delle tendenze centrifughe della sua parentela75.
23In conclusione, mentre sembra risultare del tutto ovvio, al punto che non si sente mai la necessità di precisarlo, il luogo della propria sepoltura, non altrettanto si può affermare nei confronti degli altri rituali, come la distribuzione dei mobilia, i quali invece si presentano come oggetto di disputa all’interno del nucleo familiare.
Un passo indietro. Memoria materiale e memoria immateriale
24Seppure all’interno di contesti molto spesso ecclesiastici, i rituali funerari dell’viii secolo sono profondamente caratterizzati come rituali praticati in pubblico dal gruppo familiare : soltanto a partire dalla fine del secolo viii, la graduale affermazione dei monasteri regi di S. Silvestro di Nonantola, di S. Salvatore di Brescia, e in Italia centrale, dei monasteri di Farfa e di S. Vincenzo al Volturno, in un processo che coinvolge complessivamente l’irrobustimento dell’autorità regia longobarda, finisce col proporre le sedi della munificenza e del controllo regio come strumento di raccordo e di protezione dei beni dell’aristocrazia76. In questa prospettiva, la sostituzione dei Carolingi nel regno longobardo si inserì dunque in una linea che aveva già avuto un suo autonomo e indipendente sviluppo locale77.
25La presenza di oggetti preziosi che sono distribuiti in occasione del funerale nel corso dell’viii secolo, permette di identificare all’interno del patrimonio dell’aristocrazia una serie di status symbols collegata con la persona del loro detentore : non si tratta – come nel caso del calice e delle ciotole d’argento di Rottopert – necessariamente di oggetti antichi ed ereditati dalla generazione precedente, bensì di oggetti che nel presente sono saldamente connessi con l’identità del loro possessore e strumento della sua generosità funeraria, oggetti che sono stati acquistati dallo stesso testatore da personaggi anch’essi specificamente elencati. Questa stretta connessione permette di esaminare in una luce nuova un gruppo di ritrovamenti funerari, databili tra vii e viii secolo, che in modo più spiccato di altri dimostrano il legame esistente tra il rituale della spezzatura dei mobilia e quello precedentemente in uso della tesaurizzazione degli stessi mobilia in una sepoltura. Tale raccordo è tanto più significativo poiché una parte di questi oggetti è stata rinvenuta presso Trezzo d’Adda, vale a dire proprio nell’area dove Rottopert de Grate possedeva il nucleo principale del suo patrimonio fondiario. Si tratta infatti di due anelli a sigillo d’oro, ritrovati in una piccola necropoli dell’inizio del vii secolo : il nucleo indagato archeologicamente comprendeva cinque sepolture maschili, dotate tutte di armi e scudo; in tre di esse (le nn. 1, 2 e 4) il defunto portava al dito pollice un anello d’oro di identica forma che recava nel castone in un caso una gemma romana, in due casi l’immagine del busto di un uomo barbuto. Sul bordo del castone corre un iscrizione con un nome maschile78. Gli anelli ritrovati a Trezzo fanno parte di un gruppo di esemplari, due dei quali noti già al Muratori nel xviii secolo, che sono stati riesaminati complessivamente da Otto von Hessen e poi da Wilhelm Kurze, giungendo però a conclusioni del tutto opposte79. Per analogia con quanto supposto da Percy E. Schramm in ambito franco, von Hessen ha infatti proposto che gli anelli si riferiscano a funzionari regi : l’immagine riprodotta sull’anello sarebbe il ritratto del re in quanto autorità delegante mentre il nome iscritto sarebbe quello del funzionario delegato80, effettuando cioè quella stessa scissione tra legenda e immagine che è stata riscontrata nei tipi monetali81. Kurze ha integralmente negato la validità di questa supposizione, negando che gli anelli di questo tipo esprimano qualsiasi significato di formale raccordo istituzionale tra il re longobardo e i suoi funzionari. Sia l’immagine ritratta sugli anelli, sia il nome iscritto si riferibbero allora a un solo individuo, vale a dire il proprietario dell’anello stesso.
26La classificazione archeologica, tesa a individuare tipi diversi a seconda delle loro peculiarità formali, distingue il gruppo degli anelli «a sigillo» in tre diversi tipi, a seconda di ciò che è rinchiuso nel ca-stone : si tratta in due casi di una moneta antica (Cividale; Romans d’Isonzo); in almeno due casi di una gemma romana (Trezzo sull’Adda, tomba 1; Campochiaro); in nove casi di raffigurazioni di busti umani incise su una lamina d’oro che recano in otto casi un’iscrizione rovesciata. Soltanto in un caso, quello dell’anello ritrovato nella tomba 33 di Campochiaro, in Molise, la gemma romana e la raffigurazione umana su lamina incisa sono entrambi presenti, rispettivamente sul recto e sul verso dell’anello. A questi anelli sono poi da aggiungersi lo stampo plumbeo recentemente rinvenuto presso lo scavo della Cripta Balbi di Roma, che presenta anch’esso un volto maschile e l’iscrizione ANSO DUX, e l’anello sigillo, ora perduto, ritrovato nel xvi secolo in una sepoltura con armi presso l’altare della chiesa di S. Eusebio di Vercelli82. Nei casi in cui il castone dell’anello reca, oltre alla raffigurazione del busto di un personaggio, anche un’iscrizione, in sette casi su otto si tratta di un nome maschile e in un caso di un nome femminile; in un caso l’indicazione del nome si accompagna a una scritta augurale (AVE), in un caso a un epiteto di eccellenza (VIR ILLUSTRIS), in un caso a un titolo militare (DUX). La datazione degli esemplari finora rinvenuti nel territorio italiano spazia dalla fine del vi secolo alla fine del vii secolo, anche se la maggioranza degli anelli sigillo rinvenuti in Italia pare collocarsi entro la prima metà del vii secolo (tabella a pagina seguente). La classificazione archeologica tende quindi a proporre una separazione, oltre che tipologica, anche funzionale degli anelli, supponendo che ciascun tipo avesse funzioni diverse, e perciò indicasse il diverso rango del suo proprietario. In questa rigida prospettiva, l’anello double face rinvenuto nella tomba 33 di Campochiaro, ove il ritratto «regio» è riprodotto sul retro dell’anello, cioè nella parte che si trovava nascosta, a diretto contatto con il dito del suo proprietario, Ermanno Arslan ha supposto che il detentore dell’anello avesse con il delegante un legame segreto, e per questo di natura ancor più stringente e personale83.
27L’ipotesi funzionariale proposta dal von Hessen risulta total-mente priva di fondamento. Essa attribuisce al regno longobardo dell’inizio del vii secolo, e in particolare al regno di Agilulfo una struttura compiutamente formalizzata e saldamente articolata, con cariche pubbliche distinte in base a compiti e funzioni, mentre è noto che l’inizio del vii secolo costituisce semmai il primo disorganico tentativo di organizzazione del potere regio su base locale84. L’ipotesi funzionariale è poi totalmente smentita dalla presenza, all’interno del gruppo di anelli qui considerato, di un esemplare che reca un nome e un immagine femminile (GUMEDTRUT AVE), che se permette di escludere la presenza, all’interno del regno longobardo, di una «funzionaria», permette parallelamente di escludere questa stessa funzione anche per gli anelli recanti un ritratto maschile85.
28Nel caso degli anelli rinvenuti nel regno dei Longobardi pare dunque assai difficile che ci troviamo di fronte a testimonianze materiali volte a esprimere il ruolo di funzionario pubblico di coloro che li possedevano, tanto più che nessuno degli anelli menziona alcun titolo pubblico – come gastaldus o iudex – accanto ai nomi iscritti, poiché l’appellativo di VIR ILLUSTRIS che si ritrova sull’anello di Rodchis (Trezzo, tomba 4), è un semplice epiteto di eccellenza. Per contro, la presenza del titolo DUX sulla bolla ritrovata presso la Crypta Balbi è la prova che qualora un titolo fosse real-mente detenuto dal proprietario dell’anello, questo veniva esplicitamente menzionato.
29Le scritte augurali che si ritrovano sull’anello di Gumedtrut (AVE) e di Marchebaudus (VIV(at)), che si ritrovano del tutto analoghe su cucchiai e fibule86, connotano piuttosto questi anelli come oggetti identificativi di uso privato. Varie sono infatti nelle fonti scritte e archeologiche le testimonianze in tale senso : a partire dal celebre caso di Clodoveo, raccontato dallo Pseudo Fredegario. Se-condo questa fonte, infatti, Clodoveo aveva donato a Clotilde, per suggellare il patto di promessa nuziale, il proprio anello («anolum Chlodoveo regis») e la donna lo aveva segretamente deposto nel tesoro regio dei Burgundi. Quando, tempo dopo, Clodoveo chiese a Gundobaldo – re dei Burgundi e zio di Clotilde – di avere in moglie la sua promessa sposa, Gundobaldo, che si opponeva alle nozze, trovò «in thesauris regis anolum Chlodovechi inscriptionem vel imaginem inscriptum» e allora si trovò costretto a dare il suo consenso87. L’anello di Clodoveo all’interno del tesoro regio dei Burgundi era dunque la testimonianza di una promessa a Clodoveo contratta dal re Gundobaldo : l’anello, che recava il nome e l’immagine del re conservava dunque l’identità del suo proprietario. La stessa qualità, primariamente identificativa, va inoltre attribuita e all’anello ritrovato in una sepoltura femminile all’interno della basilica parigina di Saint-Denis, e attribuito alla regina Aregonda, moglie di Clotario I88. Nella stessa direzione vanno anche alcune attestazioni scritte, relative a carte di tipo testamentario : per esempio, nel testamento di Erminetrude – databile tra vi e vii secolo –, strutturato come preciso elenco di donazioni della donna ai suoi parenti e a un gruppo di enti monastici parigini, compare accanto ad altri oggetti preziosi anche un «anolo aureo, nomen meum in se habentem scriptum» donato alla chiesa di S. Gervasio e Protasio89, il quale, evidentemente, serviva a definire l’identità del suo proprietario originario, qualificandone il ruolo di donatore.
30La stretta correlazione identificativa tra gli anelli e i loro proprietari, che appare ulteriormente enfatizzata dal contesto funerario in cui essi sono di norma ritrovati, pone in rilievo che le distinzioni tipologiche degli anelli in diverse categorie non fosse affatto avvertita come tale nel vii secolo, e che tutti questi anelli – ivi compresi quelli che riutilizzano una gemma romana, oppure una moneta romana» fossero utilizzati e indossati con finalità del tutto analoghe, cioè di ostentazione e preminenza sociale : in quanto oggetti che conservavano l’identità del loro proprietario al di là di chi li deteneva materialmente90, essi potevano essere variamente utilizzati : sia permanendo fisicamente al dito del loro proprietario – come nei casi riscontrati archeologicamente – sia come strumento di collegamento per il futuro, diventando doni fortemente personalizzati, come nel caso di Erminetrude91. Nella stessa direzione identificativa e personale saranno allora da considerare anche le guarnizioni da cintura recanti monogrammi e iscrizioni, ritrovate all’interno di alcune sepolture di età longobarda a Castel Trosino, Offanengo, Cividale e nel territorio di Ascoli Piceno : ad esempio, il puntale rinvenuto a Cividale reca infatti, rispettivamente sul recto e sul verso la scritta SEBASTANE, UTERE FELIX92.
31La presenza all’interno delle sepolture di età longobarda di un gruppo di oggetti, variabili nella loro tipologia, ma accomunati dalla loro carattere identificativo, permette di individuare non solo uno dei processi di trasformazione del rituale funerario di età longobarda dal VII all’viii secolo, ma anche di trasformazione delle identità aristocratiche. La scherpa, formata dai mobilia che definiscono l’identità del defunto, è utilizzata dai parenti che amministrano il rituale funerario come attivo strumento volto a rivendicare a se stessi le prerogative sociali del defunto : tale rivendicazione non risulta però più effettuata attraverso la tesaurizzazione nel sepolcro di questi ornamenti personali, bensì è proiettata all’esterno della sepoltura, attraverso la rottura e la distribuzione di quegli stessi oggetti. Il rituale che, come risulta chiaro dal testamento di Rottopert, è detto aver luogo lo stesso giorno della morte, prende dunque il posto di quello dell’abbigliamento del defunto e della sua esposizione pubblica prima della sepoltura. Il mutamento di destinazione degli oggetti (dall’interno all’esterno della sepoltura) non risulta mutare la loro originaria funzione di tramiti della memoria individuale e di strumento della continuità del gruppo familiare. Il passaggio dalle tombe con corredi funerari alle tombe senza corredo non risulta perciò né il frutto di un’azione coercitiva da parte della Chiesa, esplicitamente e consciamente progettata per inglobare nei propri «tesori» gli oggetti preziosi, né il risultato della passiva acculturazione in senso «romano» o «cristiano» dei Longobardi : esso appare piuttosto un indicatore della graduale stabilizzazione delle identità aristocratiche, attraverso un lungo processo che comprese anzitutto la redazione scritta della legge e delle sue progressive revisioni sul tema della trasmissione delle proprietà nel loro complesso. Tale passaggio è inoltre il segno della trasformazione delle pratiche cristiane, avvenuta in seno alle élites del regno, attraverso la quale le risorse materiali e immateriali delle aristocrazie da eredità interna al nucleo parentale divennero strumento di proiezione del proprio ruolo sociale.
Notes de bas de page
1 M. Vovelle, Encore la mort : un peu plus qu’une mode?, in Annales E.S.C., 37, 1982, p. 276-287.
2 S. Price, From noble funerals to divine cult : the consecration of Roman emperors, in D. Cannadine e S. Price (a cura di), Rituals of royalty. Power and ceremonial in traditional societies, Cambridge, 1987, p. 56-105; J. Arce, «Funus imperatorum». Los funerales de los emperadores romanos, Madrid, 1988; sulle pratiche funerarie dell’aristocrazia romana, K. Hopkins, Death and renewal. Sociological studies in Roman history, II, Cambridge, 1983.
3 I. Morris, Burials and ancient society. The rise of the Greek city-state, Cambridge, 1987; L. Hedaeger, Iron-Age societies, Oxford-Cambridge (Mass.), 1992; S. Bassett (a cura di), Death in towns. Urban responses to the dying and the dead 100-1600, Leicester-Londra-New York, 1992.
4 P.-A. Février, La mort chrétienne, in Segni e riti nella chiesa altomedievale occidentale, Spoleto 1987 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 37), p. 881-942; F. Paxton, Christianizing death. The creation of a ritual process in early medieval Europe, Ithaca-Londra, 1990; C. Treffort, L’Église carolingienne et la mort, Lione, 1996.
5 Cfr., per esempio, S. Epstein, Wills and wealth in medieval Genoa (1150-1250), Cambridge-Londra, 1984; come esempio dell’uso dei testamenti come fonti per la religiosità, cfr. A. Rigon, Orientamenti religiosi e pratica testamentaria a Padova nei secoli xii-xiv (prime ricerche), in «Nolens intestatus decedere». Il testamento come fonte della storia religiosa e sociale, Perugia, 1985, p. 40-53, V. Pasche, «Pour le salut de mon âme». Les Lausannois face à la mort (xive siècle), Lausanne, 1989; A. Rigon, I testamenti come atti di religiosità pauperistica, in La conversione alla povertà nell’Italia dei secoli xii-xiv. Atti del XXVII Convegno storico internazionale del Centro di studi sulla spiritualità medievale, Spoleto, 1991, p. 391-414. Una rassegna generale dei diversi approcci utilizzati è quella di M. Vovelle, Les attitudes devant la mort : problèmes de méthode, approches et lectures différentes, in Annales E.S.C., 31, 1976, p. 120-132; M. Bertram, Mittelalterliche Testamente. Zur Entdeckung einer Quellengattung in Italien, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 68, 1988, p. 509-544.
6 Gli scritti del Bognetti sono raccolti in G. P. Bognetti, L’età longobarda, IIV, Milano, 1967-1968; sull’influenza di Bognetti negli studi altomedievistici italiani, cfr. G. Tabacco, Espedienti politici e persuasioni religiose nel Medioevo di Gian Piero Bognetti, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, 24, 1970, p. 504-523, e A. A. Settia, Vicenza di fronte ai Longobardi e ai Franchi, in Storia di Vicenza. II. L’età medievale, Vicenza, 1985, p. 1-15.
7 Cfr. C. La Rocca, Introduction, in Id. (a cura di), Italy in the Early Middle Ages, Oxford, 2002, p. 3-7.
8 Si veda, per un inquadramento generale, R. Chapman, I. Kinnes e K. Randsborg (a cura di), The archaeology of death, Cambridge, 1981. Studi specifici di tipo archeologico, sono, per esempio, B. K. Young, Exemple aristocratique et mode funéraire dans la Gaule mérovingienne, in Annales E.S.C., 41, 1986, p. 379-407; B. Effros, Symbolic expressions of sanctity : Gertrude of Nivelles in the context of Merovingian mortuary custom, in Viator, 27, 1996, p. 1-10; sul consolidamento ecclesiastico degli spazi funerari : Id., Beyond cemetery walls : early medieval funerary topography and Christian salvation, in Early Medieval Europe, 6, 1997, p. 1-23.
9 Per esempio si vedano i lavori archeologici raccolti nel volume a cura di L. Paroli, L’Italia centro-settentrionale in età longobarda, Firenze, 1997, ancora largamente volti a identificare e a distinguere etnicamente le sepolture longobarde da quelle «autoctone» in base alla tipologia degli oggetti del corredo funebre.
10 Si vedano, a questo proposito, le conclusioni di A. A. Settia, I Longobardi in Italia : necropoli altomedievali e ricerca storica, in Rivista storica italiana, 105, 1993, p. 744-763 (in particolare p. 762-763), che riprende G. Duby, Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel medioevo, Roma-Bari, 1975 (ed. originale in francese, Parigi, 1973), p. 68-71.
11 La distinzione tra «mort du chrétien» e «mort chrétienne», articolata in una serie specifica di rituali cristiani è proposta da P.-A. Février, La mort chrétienne... cit. n. 4 (la distinzione tra le due definizioni alle p. 881-883). Di questo parere è infatti P. Delogu, Longobardi e Romani. Altre congetture, in S. Gasparri e P. Cammarosano (a cura di), Langobardia, Udine, 1990, p. 143-145, il quale presume, parallelamente, la continua persistenza di nuclei di tradizione longobardi, che rivendicano con tenacia l’etnicità delle proprie origini.
12 Cfr. G. Spreckelmeyer, Zur rechtlichen Funktion frühmittelalterlicher Testa-mente, in P. Classen (a cura di), Recht und Schrift im Mittelalter, Sigmaringen, 1977 (Vorträge und Forschungen, 23), p. 91-113.
13 M. Amelotti, Testamenti ed atti paratestamentari nei papiri bizantini, in D. H. Samuel (a cura di), Proceedings of the Twelfth international congress of papirology, Toronto, 1970, p. 15-17.
14 Cfr. R. Le Jan, «Malo ordine tenent». Transferts patrimoniaux et conflits dans le monde franc (viie-xe siècle), in Les transferts patrimoniaux en Europe occidentale, viiie-xe siècle (= Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge, 111, 2, 1999), p. 951-972.
15 Sul rapporto tra norma e pratiche, cfr. il recente dibattito promosso sulla rivista Quaderni storici : R. Ago, Premessa, in Diritti di proprietà (= Quaderni storici, 88, 1995), p. 3-8, con la relativa bibliografia; A. Arru, Premessa, in Gestione dei patrimoni e diritti delle donne (= Quaderni storici, 98, 1998), p. 268-274.
16 M. Amelotti, Il testamento romano attraverso la prassi documentale. I. Le forme classiche di testamento, Firenze, 1966, p. 18-25.
17 Dichiarazioni esplicite in ChLA, XXX, n. 905 (727); n. 906 (726-729); ChLA, XXVIII, n. 855 (777); ChLA, XXVI, n. 806 (763); n. 811 (783); ChLA, XXXVII, n. 1078 (781).
18 A. Prosperi, Premessa, in I vivi e i morti (= Quaderni storici, 50, 1982), p. 391-410.
19 U. Nonn, Merovingische Testamente. Studien zum Fortleben einer römischen Urkundenform in Frankreich, in Archiv für Diplomatik, 18, 1972, p. 1-129; P. J. Geary, Aristocracy in Provence. The Rhône basin at the dawn of the carolingian age, Stoccarda, 1985 (Monographien zur Geschichte des Mittelalters, 31); B. Kasten, Erbrechtliche Verfügungen des 8. und 9. Jahrhunderts, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte – Germanistische Abteilung, 108, 1990, p. 236-338; sui testamenti di area anglo-sassone, A. Wareham, The transformation of kinship and the family in late Anglo-Saxon England, in Early Medieval Europe, 10, 2001, p. 375-399.
20 CDL, II, n. 230 (769); CDL, V, n. 52 (768).
21 CDL, I, n. 90 (747); n. 96 (748); CDL, II, n. 163 (763); n. 171 (763).
22 CDL, II, n. 133 (759); CDL, V, n. 100 (786) : «considerantes simulque expavescentes voracitatem ignis».
23 CDL, II, n. 287 (773).
24 CDL, II, n. 171 (763); CDL, V, n. XVI (785, Benevento). Di recente si è supposto che tali puntualizzazioni siano una diretta spia della novità che per i Longobardi rappresentava il far uso di documenti scritti per stabilire le proprie volontà dopo la morte : nell’Italia meridionale bizantina, dove si continuò semplicemente la tradizione precedente, le motivazioni che avevano spinto il testatario a redigere l’atto non compaiono quasi mai : P. Skinner, Women, wills and wealth in medieval southern Italy, in Early Medieval Europe, 2, 1993, p. 135-136.
25 Esempi di esplicita esclusione dei mobilia dalla donazione post obitum sono : CDL, II, n. 157 (761) : donazione di Pettula alla chiesa di S. Paolo di Lucca «excepto scherpa mea quod pauperibus vel sacerdotibus pro anima mea potestatem habeam dispensandi». Cfr. inoltre ChLA, XL, n. 1158 (797); n. 1164 (798); n. 1166 (798); n. 1180 (800); ChLA, XXXIX, n. 1145 (795); ChLA, XXXVIII, n. 1089 (783); n. 1102 (786); n. 1114 (787); ChLA, XXXVI, n. 1045 (773); n. 1057 (776); n. 1059 (777). Nel 771 il chierico lucchese Guntelmo permette alla figlia Rachiperga «si ipsa filia mea de res mobile vel ischerpa, si abueret, et dare volueret pro anima sua et filii mei ipsei consintire non volueret, ut ipse filia mea aveas dando pro anima sua comodo volueret» : CDL, II, n. 254 (771); così anche in CDL, II, n. 230 (Pisa, 769), n. 287 (Lucca, 773). La scherpa è definita da locuzioni del tipo «omnem schirpas meas, pannos, usitilia, lignea, vel ferrea, ramentea, auricalca, aurum, argentos» (ChLA, XXXVIII, n. 1102 [786]); CDL, I, n. 73 (740) : «omnia usitilia, seo scherpam meam, tam pannis, eramen, vel auricalco, codicis»; CDL, II, n. 293 (774) : «mobilia vero rebus meis, hoc est scherpa mea, aurum et argentum, simul et vestes atque caballi».
26 CDL, I, n. 30 (722) : «nolite thesaurizare vobis super terram, ubi furis effodiunt et furantur, sed thesaurizate vobis thesaurum in caelum, ubi fur, id est diabolus, non adpropinquat. Et iterum dicens : facite vobis amicus de mamone iniquitatis, ut cum defeceritis recipiam vos in aeterna tabernacula». CDL, I, n. 50 (730) : «Quisquis in hoc seculo, dum advivere meruerit, semper de aeterna vita cogitare et peragere videatur, ut dum venerit ad exeunte sacro Dei iudicio, de gravia sua ponde-ra leviter possit ad vitam aeternam pertingere; quoniam in hoc seculo nulla meliora esse cognoscitur quam in Deo vivere semper». CDL, I, n. 78, (742) : «De spe eterne vitae salutis animae remedium cogitat, qui in sanctis locis de suis rebus confer terrena, ut a Christo recipiat eterna celestia. Et ut votis meis expleatur dilectio, oblatione meam munera offero, non quantum debeo, set quantum valeo». CDL, I, n. 82, (745) : «Rottopert vir magnificus de Grate, considerans casus umane fragilitatis et repentinam mortem venturam, previdi de rebus meis dispositionem facere vel pro anima mea iudicare, ut, cum de hoc seculo vocare iussero, michi pro sua pietate peccatorum meorum veniam condonare dignetur».
27 Per la stretta compenetrazione tra famiglia e chiesa nell’altomedioevo, cfr. B. Rosenwein, Property transfers and the Church, eight to eleventh centuries : an overview, in Les transferts patrimoniaux... cit. n. 14, p. 563-575. Non sembra perciò indispensabile sottolineare l’influenza ecclesiastica nella struttura dei testa-menti come invece fa G. Spreckelmeyer, Zur rechtlichen Funktion... cit. n. 12, p. 95-98.
28 Cfr. ad esempio, C. Giardina, Successioni. Diritto intermedio, in Novissimo Digesto italiano, XVIII, Torino, 1971, p. 727-748.
29 Una simile valutazione, seppure più sfumata, è quella di C. Wickham, Land disputes and their social framework in Lombard-Carolingian Italy, 700-900, in W. Davies e P. Fouracre (a cura di), The settlement of disputes in early Medieval Europe, Cambridge, 1986, p. 113-114. Si veda, su questo punto, la discussione di B. Rosenwein, Property transfers... cit. n. 27, p. 570-573.
30 Per ciò che riguarda i diritti dei figli maschi legittimi e naturali, cfr. Roth., 154, 162. Sui diritti delle figlie femmine e dei figli maschi naturali (in mancanza di figli maschi legittimi) : Roth., 158, 159, 160. Il divieto di diseredare i figli sine certas culpas in Roth., 168, 169.
31 G. Tabacco, La connessione fra potere e possesso nel regno franco e nel regno longobardo, in I problemi dell’Occidente nel secolo viii, Spoleto, 1973 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 20), p. 133-168.
32 L’importanza dello scambio dei doni come strumento di negoziazione dello status sociale è stata sottolineata, per l’alto medioevo, anzitutto da C. Wickham, Problems of comparing rural societies in early medieval western Europe, in Id., Land and Power. Studies in Italian and European social history. 400-1200, Londra, 1994, p. 201-226. Sui rituali dello scambio, cfr. M. J. Enright, Lady with a mead-cup. Ritual, group cohesion and hierarchy in the Germanic warband, in Frühmittelalterliche Studien, 22, 1988, p. 170-203.
33 Per un esame delle leggi altomedievali in questa prospettiva, cfr. P. Wormald, «Inter cetera bona... genti suae» : law-making and peace-keeping in the earliest English kingdoms, in La giustizia nell’alto Medioevo, Spoleto, 1995 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 42), p. 963-993; per il mondo franco, cfr. I. Wood, The Merovingian kingdoms, Londra-New York, 1994, p. 65-69; H. Nehlsen, Entstehung des öffentlichen Strafrechts bei der germanischen Stämme, in K. Kröschell (a cura di), Gerichtslauben-Vorträge. Freiburger Festkolloquium zum fünfundsiebzigsten Geburtstag von Hans Thieme, Sigmaringen, 1983, p. 1-16. Questo stesso approccio è stato anche di recente adottato nei confronti della legge tardo romana : J. Harries e N. I. Wood (a cura di), The Theodosian Code, Ithaca, 1993.
34 Roth., 153-223.
35 Rispettivamente : Roth., 154-169; 168.
36 Roth., 171. Roth., 375 specifica inoltre che le donazioni fatte ai funzionari regi sono da intendersi come donazioni effettuate a favore del fisco regio e non di colui che momentaneamente ricopre la carica di funzionario.
37 Si tratta rispettivamente di Roth., 158-160 (eredità femminile), 164-166 (l’interruzione del matrimonio), 178-199 (doni nuziali), 200-203 (crimini contro le donne libere).
38 Cfr. Roth., 155-157, 168-170, 174, 185.
39 P. Wormald, «Inter cetera bona...» cit. n. 33, p. 963-974.
40 Liut., 1-5. Sul patrimonio delle sorelle nubili o sposate, cfr. anche Liut., 14, 145; sulla facoltà di assegnare eredità alle figlie attraverso una donazione, Liut., 102. Sulla facoltà di privilegiare i figli «sibi bene servientibus», Liut., 113. Le prerogative ereditarie sono poi stabilite anche nei rapporti tra zie e nipoti Ahist., 10.
41 Liut., 6.
42 Sulle donazioni tra vivi : Liut., 43, 54, 58, 59. La distinzione delle donazioni in due categorie (tra vivi e pro anima) è evidente in Liut., 65, ove si proibisce all’uomo libero che abbia soltanto una figlia nubile «ut de rebus suis amplius per ullum titulum cuiquam per donationem aut pro anima sua facere possit nisi partis duas».
43 Roth., 172, 175.
44 Liut., 73. «Excepto si in ecclesiam aut in loca sanctorum aut in exeneodochio pro anima sua aliquit quiscumque donaverit, stavile deveat permanere, quia in loga sanctorum aut in exeneodochio nec thinx nec launigild impedire devit, eo quod pro anima factum est».
45 Sul valore del «contro-dono» : M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Id., Teoria generale della magia, Torino, 1965 (trad. italiana dell’ediz. originale Sociologie et antropologie, Parigi, 1950). Sul dono «gratuito» : J. Parry, The gift, the Indian gift and the «Indian gift», in Man, n. s. 21, 1986, p. 453-473; A. Gurevic, Représentations et attitudes à l’égard de la propriété pendant le haut Moyen Âge, in Annales E.S.C., 27, 1972, p. 523-547; R. Michalowski, Le don d’amitié dans la société carolingienne et les «Translationes sanctorum», in Hagiographie, culture et sociétés. ive-xiie siècle, Parigi, 1981, p. 399-416.
46 Ahist., 12 (rispetto alla liberazione di servi che viene disattesa); Arech., 14 (rispetto alla vedova che intenda donare pro anima e i suoi figli minime consenserint).
47 Roth., 360 : «Et ille qui pulsat et wadia suscipit, proximioris sacramentalis, qui nascendo sunt, debeat nominare : tantum est excepto illo, qui gravem inimicitiam cum ipso, qui pulsat, commissam habet, id est si ei plaga fecit, aut in mortem consensit, aut res suas alii thingavit : ipse non potest esse sacramentales, quamvis proximus sit, eo quod inimicus aut extraneus invenitur esse».
48 Arech., 16.
49 Liut., 113.
50 Ahist., 13.
51 CDL, V, n. 50 (768, Rieti).
52 CDL, I, n. 30 (722, Lucca).
53 CDL, II, n. 178 (764, Lucca).
54 Nel regno longobardo, com’è noto, le donne devono essere rappresentate giuridicamente da colui che detiene il loro mundio, cioè la loro tutela : cfr. Roth., 204.
55 CDL, I, n. 82 (745). I luoghi menzionati in questo testo sono stati analizzati da A. M. Ambrosioni e S. Lusuardi Siena, Trezzo e le terre dell’Adda nell’alto Medioevo, in E. Roffia (a cura di), La necropoli longobarda di Trezzo sull’Adda, Firenze, 1986, p. 167-234; si vedano inoltre le mie osservazioni in C. La Rocca, Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni «post obitum» nel regno longobardo, in L. Paroli (a cua di), L’Italia centro-settentrionale in età longobarda... cit. n. 9, p. 31-54.
56 CDL, I, n. 82 : p. 240 (a S. Stefano) : «et est ipsa petia iusta Incera, fine clausura Boniti et fine supradicto ipsius Rotoperti); p. 241 (al rettore dello xenodochio) : novellas illas qui dicitur Calabratro (...) qui est ipsa petia de uno capite et ab alio latere vites veglas ipsius Rottoperti (...) et terra arbusta cum limetes de quantum ad germana habere videor».
57 CDL, I, n. 82, p. 242.
58 Sulla cintura, come elemento dell’ornamento maschile, che si specializza, nel corso del tempo, a indicare il rango pubblico del suo detentore, cfr. C. La Rocca e L. Provero, The dead and their gifts. The will of Eberhard count of Friuli and his wife Gisela, daughter of Louis the Pious(863-864), in J. L. Nelson e F. Theuws (a cura di), Rituals of power. From late Antiquity to the early Middle Ages, Leiden, 2000, p. 249-259, con la bibliografia ivi citata.
59 CDL, I, n. 82, p. 243.
60 CDL, II, n. 254 (771 Lucca) : «si ipsa filia mea de res mobile vel ischerpa, si abueret, et dare volueret pro anima sua et filii mei ipsei consintire non volueret, ut ipse filia mea aveas dando pro anima sua comodo volueret». Concessioni alle donne della famiglia ad assegnare liberamente la propria scherpa si trovano anche in CDL, II, 230 (Pisa, 769).
61 CDL, II, n. 287 (773, Lucca).
62 CDL, V, 52 (768, Rieti), p. 187.
63 CDL, II, 175 (764, Lucca). Sul ruolo delle donne nella commemorazione dei defunti in età carolingia : J. L. nelson, The wary widow, in W. Davies e P. Fouracre (a cura di), Property and power in the early Middle Ages, Cambridge, 1995, p. 82-113; P. J. Geary, Phanthoms of remembrance. Memory and oblivion at the end of the first millennium, Princeton, 1994, p. 51-73.
64 CDL, II, n. 293 (774).
65 CDL, I, n. 73 (740).
66 CDL, V, 82 n. (777).
67 ChLA, XXXVIII, n. 1102 (786).
68 CDL, I, n. 50 (730).
69 Si tratta cioè di «beni inalienabili» : cfr. A. Weiner, Inalienable possessions. The paradox of keeping while giving, Berkeley, 1992, specialmente p. 138-146.
70 CDL, II, n. 293 (774, Bergamo).
71 CDL, I, n. 96 (748, Pistoia).
72 CDL, I, n. 103 (752, Valdottavo).
73 CDL, V, n. 52 (768, Rieti).
74 La caratterizzazione delle chiese rurali dell’Italia settentrionale anzitutto come luoghi di sepoltura familiare è messa in evidenza nei singoli contributi del volume G. P. Brogiolo (a cura di), Le chiese rurali tra vii e viii secolo in Italia settentrionale, Mantova, 2001.
75 CDL, V, nn. 101, 102 (786, Rieti).
76 Cfr. S. Gasparri, Grandi proprietari e sovrani nell’Italia longobarda dell’viii secolo, in Atti del 6o Congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, 1980, p. 429-442; C. La Rocca, La reine et ses liens avec les monastères dans le royaume d’Italie, in R. Le Jan (a cura di), La royauté et les élites dans l’Europe carolingienne (du début du ixe siècle aux environs de 920), Lille, 1998, p. 269-285.
77 Sulle modificazioni dei rituali in età carolingia, cfr. C. Treffort, L’Église carolingienne et la mort... cit. n. 4; con le puntualizzazioni di R. Le Jan, Remises d’armes et rituels du pouvoir chez les Francs : continuités et ruptures de l’epoque carolingienne, in Id., Femmes, pouvoirs et société dans le haut Moyen Âge, Parigi, 2001, p. 171-189. Per il caso italiano, G. Tabacco, L’avvento dei Carolingi nel regno dei Longobardi, in S. Gasparri e P. Cammarosano (a cura di), Langobardia... cit. n. 11, p. 375-403.
78 Cfr. la relazione degli scavi archeologici : E. Roffia (a cura di), La necropoli... cit. n. 55.
79 L. A. Muratori, De sigillis medii Aevi. Dissertatio trigesimaquincta, in Id., Antiquitates Italicae medii Aevi, III, Milano, 1740, III, col. 113-117; O. von Hessen, Considerazioni sull’anello a sigillo di Rodchis proveniente dalla tomba 2 del cimitero longobardo di Trezzo sull’Adda, in Numismatica e antichità classiche, 7, 1978, p. 267-273; Id., Anelli a sigillo longobardi con ritratti regali, ibid., 11, 1982, p. 305-312; W. Kurze, Siegelringe aus Italien als Quellen zur Langobardengeschichte, in Frühmittelalterliche Studien, 20, 1986, p. 414-451.
80 P. E. Schramm, Herrschaftszeichen und Staatssymbolik. Beiträge zu ihrer Geschichte vom dritten bis zum sechzehten Jahrhundert, I, Stoccarda, 1954 (M.G.H., Schriften, 13/1), p. 214-237.
81 Cfr. E. A. Arslan, Emissioni monetarie e segni del potere, in Committenti e produzione artistico-letteraria nell’alto medioevo occidentale, Spoleto, 1992 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 39), p. 832-833.
82 Dopo che questo contributo era già stato consegnato è apparso il volume I signori degli anelli, a cura di S. Lusuardi Siena, Milano, 2004, in cui la curatrice del volume presenta l’ipotesi (Osservazioni non conclusive sugli anelli sigillari longobardi «vecchi» e «nuovi», p. 112-116) che l’anello di Gumedtrut possa identificarsi con quello di una badessa, rifacendosi all’appellativo di «virgo egregia» che compare nell’iscrizione dell’anello stesso. L’ipotesi, di un certo interesse, urta però con il fatto che l’appellativo di «virgo egregia» non è presente nelle fonti narrative e documentarie in ambito longobardo (appare piuttosto diffuso invece l’epiteto di «ancilla Dei» o di «abbatissa»); inoltre, poiché la rappresentazione fisica dell’immagine di Gumedrut è opportunamente paragonata all’iconografia regia e imperiale femminile, mi pare problematico che una badessa continuasse a osten tare i simboli del suo status prima della monacazione, cerimonia che, come attestato da tutte le fonti in nostro possesso, prevedeva appunto la rinuncia materiale degli status symbols mondani, quali anzitutto i gioielli (Vita sanctae Balthildis, ed. B. Krusch, in M.G.H., Scriptores rerum Merovingicarum, II, Hannover, 1888, p. 476; Vita sanctae Geretrudis, ed Id., ibid., p. 448). Mi riservo comunque di argomentare in modo più disteso le mie osservazioni.
83 «L’anello portava quindi nascosto il segno della fedeltà del morto al duca, con valenze tanto forti da non giustificarne la comunicazione agli altri» : E. A. Arslan, L’anello, il cavaliere, il duca. La tomba 33 di Campochiaro Vicenne (CB), in Numismatica e antichità classiche, 29, 2000, p. 348.
84 S. Gasparri, Il regno longobardo in Italia. Struttura e funzionamento di uno stato altomedievale, in Id. e P. Cammarosano (a cura di), Langobardia... cit. n. 11, p. 254-262.
85 Discuto il problema in modo più dettagliato nel mio lavoro dal titolo L’archeologia e i Longobardi in Italia. Orientamenti, metodi, linee di ricerca, in S. Gasparri (a cura di), Langobardia, Spoleto, 2002.
86 Elemento già notato da P. E. Schramm, Herrschaftszeichen... cit. n. 80, p. 236-237
87 Fredegarii Liber Historiae Francorum, a cura di B. Krusch, 12, M.G.H., Scriptores rerum merovingicarum, II, p. 257.
88 Basti qui citare i casi particolari esaminati da J. Werner, Namensring und Siegelring aus dem gedidischen Grabfund von Aphaida (Siebenbürgen), in Kölner Jahrbuch, 9, 1966-1967, p. 120-123; la serie di anelli, ripresa dal corpus di M. De-loche, Études historiques et archéologiques sur les anneaux sigillaires et autres des premiers siècles du Moyen Âge, in Bullettin de la Societé nationale des antiquaires de France, 1900, presentata da H. Ament, Zum Ring der Königin Arnegunde, in Germania, 43, 1965, p. 325-326; a cui si aggiungano almeno i due anelli con monogramma ENDULUS e PRETORIA, ritrovati nella necropoli di età merovingia presso l’abbazia di Saint-Évre a Toul (A. Liéger, R. Marguet e J. Guillaume, Sépultures mérovingiennes de l’abbaye de Saint-Évre à Toul (Meurthe-et-Moselle), in Revue archéologique de l’Est et du Centre-Est, 35, 1984, p. 315-317.
89 ChLA, XVII (France, V), Zurigo, 1984, n. 592, p. 72-78.
90 L’espressione è di A. Weiner, Inalienable possession... cit. n. 69.
91 Quanto alla funzione pratica di questi anelli – cioè se e che cosa essi dovessero sigillare – nel vuoto di informazioni a proposito potrebbe ben essere possibile che essi non ne avessero alcuna e mantenessero del sigillo soltanto il loro «power of being (matrices)» mantendendo come potenziale il loro «power of becoming (impression)». Cfr. B. Bedos-Rezak, Préface, in Id., Form and order in medieval France. Studies in social and quantitative sigillography, Oxford, 1993, p. ix-xi.
92 Cfr. P. Delogu, I Longobardi e la scrittura, in Studi storici in onore di Ottorino Bertolini, I, Pisa, 1979, p. 313-324 (puntale di Cividale, fig. 7).
Notes de fin
* Abbreviazioni :
CDL, I-II : L. Schiaparelli (ed.), Codice diplomatico longobardo, I-II, Roma, 1929-1933 (Fonti per la storia d’Italia, 62-63)
CDL, V : H. Zielinski (ed.), Codice diplomatico longobardo. V. Le chartae dei ducati di Spoleto e di Benevento, Roma, 1986 (Fonti per la storia d’Italia, 66).
ChLA, XXVI-XL : Chartae Latinae antiquiores, Zurigo, 1988-1994.
Roth., Liut., Ahist., Arech.: Edictum Rothari, Liutprandi Leges, Ahistulfi Leges, Principum Benedenti Leges, in F. Beyerle (ed.), Leges Langobardorum 643-866, Witzenhausen, 1962 (Germanenrechte, neue Folge. Westgermanisches Recht).
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