I testamenti nell’Italia settentrionale fra viii e ix secolo
p. 97-113
Texte intégral
1L’arco cronologico del dossier che viene qui esaminato, e che è costituito da trenta carte, comprende il periodo che va dal 714 all’877, ovvero l’viii secolo longobardo e l’età carolingia del regno italico. La scelta di questo periodo non è casuale: se, per quanto concerne il suo inizio, essa è condizionata dalla mancanza di una documentazione degna di questo nome per il periodo immediatamente precedente, la scelta di comprendere insieme il periodo di massima fioritura del regno longobardo e la sua fase carolingia è dovuta invece alla convinzione che, pur attraverso un ovvio processo di ridefinizione della società, delle istituzioni e della cultura delle élites, gli elementi di continuità siano largamente prevalenti all’interno di tutto il periodo qui considerato. Una tale continuità naturalmente non si interrompe così bruscamente come, per necessità pratiche, finisce il dossier che viene presentato qui. La base geografica di questo intervento è rappresentata da Veneto, Lombardia centro-orientale, Emilia: un blocco territoriale che ha una sua evidente coerenza interna.
2Qualche ulteriore commento sulla composizione interna del dossier. Fra i documenti ci sono sia testimonianze di privati homines che di honorati. Questi ultimi sono presenti in nove casi, con cinque vescovi, un conte, un duca venetico, due regine. Mentre è abbastanza chiaro il motivo, legato alla cultura dei testatori e alla privilegiata conservazione documentaria, della prevalenza numerica delle carte vescovili, va sottolineato il fatto che si è volutamente considerata come parte integrante di questa riflessione l’area del ducato venetico: i due testamenti del duca Giustiniano Particiaco e di Orso vescovo di Olivolo, forse parente del primo, pur nella fragilità di un paragone che si regge su due soli testimoni possono suggerire infatti interessanti confronti con l’entroterra italico. Dal punto di vista tipologico, infine, l’esame non si è limitato alle donazioni post obitum, ma sono state considerate tutte quelle carte nelle quali fosse evidente la volontà di definire il destino del patrimonio dopo la morte del suo proprietario.
3Un’ultima osservazione preliminare. La prima carta, quella di Senatore e di sua moglie Teodelinda (una carta interpolata, e che tuttavia, nonostante tutte le incertezze, ritengo possa essere presa in considerazione), fu redatta solo un anno dopo che Liutprando, nel capitolo 6 delle sue leggi, aveva legittimato le donazioni pro anima, a riprova del fatto che tale norma veniva incontro, evidentemente, ad un’esigenza non solo spirituale, ma anche sociale del ceto dei possessori longobardi1. Non solo in questo modo si apriva un altro canale, oltre quello rappresentato dall’impiego dei beni provenienti dai doni matrimoniali, che sfuggiva al controllo da parte del gruppo degli eredi, ma si potenziava il ruolo dell’elemento femminile, fondamentale nei rituali funerari, e si rendeva possibile consolidare il patrimonio intorno ad un ente religioso che fosse in grado di garantirne la continuità2. Si moltiplicavano così le possibilità di attivare legami sociali, di costruire reti di rapporti centrati intorno ad una chiesa o ad un monastero, sia che questi enti fossero già esistenti o che fossero costruiti dal testatore stesso3.
4In effetti, fin dagli esempi più antichi alla base di molte delle disposizioni testamentarie c’è la fondazione, sia che avvenga in quel momento o che sia già avvenuta, di un monastero o di uno xenodochio, spesso affiancato da una chiesa. Si veda il caso del documento già citato di Senatore e Teodelinda, del 714: dopo una complessa e raffinata arenga, nel testo si ricorda la precedente fondazione di un monastero in domo propria, dentro Pavia, dove la figlia dei donatori, Sinelinda, è monaca insieme alla sorella di Senatore, Liceria. A tale monastero i due coniugi donano tutti i loro possessi presenti e futuri, ereditati, ricevuti in dono dal re o da chiunque altro. Il testo rivela la contiguità della coppia con i vertici ecclesiastici e laici della capitale del regno. Teodelinda sottoscrive di propria mano, mentre Senatore non lo fa, ma ci tiene a sottolineare, per ben due volte, che questo avviene perché egli ne è fisicamente impedito: emerge così la consapevolezza che sottoscrivere di proprio pugno sia un fatto che esprime l’appartenenza ad un’élite sociale precisamente individuabile4.
5Vicinanza al re, appartenenza ai vertici della società testimoniata anche dalla presenza di clientele (gasindi e liberti), fondazione di un monastero, sistemazione del ramo femminile della famiglia5: questi sono i tratti che definiscono la fisionomia di Senatore e Teodelinda e la loro azione. Ma già con il secondo esempio, il testamento di Rotperto di Agrate, del 745, entrano in scena altri elementi, direttamente finalizzati a preservare la memoria del defunto6. Al monastero si sostituisce uno xenodochio e conseguentemente entrano in scena i pauperes e i pellegrini. I primi potranno contare anche sulla distribuzione rituale, al momento della morte di Rotperto, degli oggetti preziosi che fanno parte dei mobilia del defunto; per ciò che concerne invece il cinturone (ringa mea) di Rotperto, sarà distribuito il suo controvalore, cento solidi, nel caso esso sia stato riscattato dal figlio, altrimenti il cinturone seguirà la stessa sorte degli altri oggetti paterni. Il rituale della distribuzione ai poveri è affidato alla vedova Ratruda (che dovrà prima spezzarli), cui si lasciano in usufrutto due domuscultae; inoltre si prevedono donazioni per due figlie e due sorelle e una speciale considerazione per l’ultima figlia, Gradane, che ha ancora la possibilità di contrarre matrimonio, e alla quale in quest’ultimo caso si lasciano ben trecento solidi, dieci servi e un vestito intessuto d’oro.
6A partire da questo momento, le testimonianze si fanno relativamente frequenti. Sempre nel 745, le due sorelle veronesi Austreconda e Natalia alle varie donazioni uniscono la liberazione dei loro servi, così come fa, vent’anni più tardi, Cunimondo di Sirmione, e con lui la grande maggioranza dei successivi testatori7. Dal canto suo, prima del 759, lo strator Gisulfo lascia l’usufrutto dei suoi beni alla moglie Radoara, ma fa suo esecutore testamentario il vescovo di Lodi; questi procede alla vendita, ad un prezzo altissimo, della metà della corte di Alfiano per distribuirne il ricavato ai poveri, però solo dopo aver avuto l’assenso del re Desiderio, sottolineando così i duplici legami della famiglia di Gisulfo8. Gerarchie ecclesiastiche e donne della famiglia si dividono i rituali funerari; torna la vicinanza al vertice regio9.
7In modo sempre più netto, l’elemento rituale collegato alla celebrazione della memoria del defunto emerge come centrale nelle disposizioni testamentarie, accoppiandosi ad oculate disposizioni tese a garantire il godimento in usufrutto per più generazioni dei beni donati. Fondamentale diventa l’elemosina consistente nello sfamare pubblicamente, in date fisse, un certo numero di poveri. Così è nelle carte emesse tra il 768 e il 774 da due monzesi, il prete Teodoaldo e il diacono Grato, e dal gasindio regio Taido di Bergamo. La cartula dispositionis di Teodoaldo parte dalla donazione di tutte le sue sostanze in favore della chiesa di S. Agata, di cui egli è custode, con riserva di usufrutto dapprima per sé, poi per suo fratello Giovanni e sua sorella Teotilda; dopo la morte di costoro subentreranno i suoi nipoti, il chierico Teoderis e la monaca Teoderuna, che dovranno servire nella stessa chiesa10. Teoderis inoltre dovrà nutrire dodici poveri ogni Quaresima con una quadra di pane, tre fiolae di vino, fave e panico; all’Ascensione e alla vigilia dell’Epifania il panico sarà sostituito dal lardo. Grato invece prevede che nello xenodochio da lui fondato ci sia una mensa pauperum che sfami ogni settimana sei poveri per tre giorni ad satietatem11.
8La pagina ordinationis del gasindio regio Taido di Bergamo chiarisce invece che le ingenti donazioni terriere a numerose chiese serviranno per loca sanctorum et venerabilia seo et sacerdotibus atque Christi pauperibus: è la prima volta che vengono menzionate le chiese e i sacerdoti accanto ai poveri12. La moglie Lamperga, se non si risposerà, avrà l’usufrutto di tutte le sue sostanze ma dovrà sfamare, finché vivrà, dieci poveri ogni venerdì, con pane, vino e companatico. Alla morte di Taido e della moglie, i servi, le ancelle e gli aldii saranno condotti davanti all’altare di S. Alessandro e liberati secondo l’editto: l’allusione è al capitolo 23 di Liutprando, del 72113.
9Tutto quello che Taido avrà lasciato «non giudicato», compresi i suoi mobilia, oro e argento, sarà venduto dal vescovo di Bergamo e distribuito ancora una volta a poveri e sacerdoti.
10Il modello di queste donazioni si va precisando. Si conferma, ora e negli esempi successivi, sia l’usufrutto da parte della vedova, purché non si risposi, sia il ruolo di garante ed esecutore delle ultime volontà svolto dai vertici ecclesiastici locali. Alla triplice destinazione delle donazioni si aggiunge che il loro impiego è finalizzato all’illuminazione delle chiese ed alle messe in ricordo del defunto; si tratta delle prime attestazioni di messe votive14. Ci sono poi i luminaria, le illuminazioni delle chiese: «a gift of some liturgical significance and economic importance», come ha scritto Paul Fouracre, sottolineando il ruolo forte svolto dai luminaria nello sviluppo dell’immunità, per la loro funzione pratica di illuminazione dei luoghi sacri e per il loro radicamento nel testo veterotestamentario15; ac-canto all’esplicito riconoscimento della sacralità delle chiese, il dono finalizzato all’illuminazione rappresenta al tempo stesso la prefigurazione della luce eterna cui l’anima del benefattore è destinata. I luminaria sono centrali ad esempio nel testamento del 777 di Totone di Campione, che fonda e dota uno xenodochio ed un oratorio nella sua domus di Campione ponendoli sotto la potestà della chiesa milanese di S. Ambrogio e dell’arcivescovo milanese. Lì dovranno essere nutriti dodici poveri ogni venerdì, durante la Quaresima il venerdì e il mercoledì, unde nobis maneat gaudium sempiternum. Il preposito dello xenodochio inoltre dovrà dare moltissimo olio per i luminaria a S. Ambrogio, a S. Zenone di Campione e a numerose chiese milanesi16.
11Nella carta ora citata, i servi e le ancelle di Totone diventano aldii dello xenodochio, dunque non sono liberati: anzi si chiarisce che in futuro essi sono destinati a fornire allo xenodochio le stesse operae che forniscono ora. La questione dei servi e dei lavoratori dipendenti in effetti sarà d’ora in poi affrontata in modo sempre più articolato, nelle carte che esprimono le ultime volontà, a dimostrazione del fatto che siamo di fronte a personaggi che controllano una popolazione numerosa e che quindi il punto ha una valenza sociale evidente17. Due ecclesiastici lombardi, Lupo e Ansperto, che nel febbraio dell’800 lasciano i loro beni alla chiesa di S. Alessandro di Bergamo, liberano totalmente, con un solenne riferimento sia al diritto longobardo che a quello romano, servi e ancelle, aldii e aldiane, però distinguendo fra quelli che risiedono sul massaricio e gli altri, che risiedono sul domocoltile18. I primi, se vorranno restare sulle terre dove ora si trovano, dovranno dare alla basilica cinque moggi di grano e la metà del vino; se invece vorranno andare via, dovranno depositare sull’arca di S. Alessandro quattro denari ciascuno. Dal canto loro, le familiae che risiedono sul domocoltile per poter andare via dovranno pagare lo stesso quattro denari a testa pro mundio suo, ma si lasciano indefinite le condizioni alle quali possono rimanere: ciò potrebbe corrispondere al carattere più personale, e di rado contrattualizzato, del loro rapporto con i padroni. Viene ribadito che, anche in caso di divisione dei beni, i massari non dovranno pagare di più di ciò che era stato stabilito sopra. Sono preoccupazioni che tornano anche in altre carte successive. Ad esempio, nel suo testamento dell’806 il vescovo di Bergamo, Tachimpaldo, libera i suoi servi e aldii, sia dei domocoltili che delle case massaricie o aldionaricie, specificando che ad essi appartiene il loro conquestum, in sostanza ciò che avevano guadagnato con il loro lavoro; per le donne facenti parte della sua familia il vescovo specifica che, se si sposano, avranno come mundio quattro denari, che dovranno porre sull’altare del monastero di S. Salvatore di Casalecchio; se invece si uniranno con servi di altri, dovranno consegnare ai custodes del monastero la vacuria, non il mundio di un tremisse19. È evidente insomma che la liberazione si unisce al mantenimento di una superiorità signorile nei confronti dei lavoratori, da parte del vecchio padrone o del nuovo dominus ecclesiastico. In termini pratici, la stessa possibilità offerta ai rustici di abbandonare le terre sembra molto ridotta.
12Nel suo testamento Tachimpaldo, vescovo figlio di un gastaldo, assegna subito alle chiese beneficiarie i beni donati, invece i beni lasciati a suo nipote Teopaldo si riserva finché vive la facoltà di destinarli altrimenti, qualiter mihi mens mea melius suggerent: un modo evidente per tenere saldamente il controllo dei rapporti economici all’interno della famiglia, uno stimolo in più per il nipote ad essere «bene servente», come si esprime il capitolo 113 di Liutprando20. Ed è significativo che tale disposizione appaia in questo che è il primo testamento di un honoratus, un personaggio cioè che era di livello sociale molto elevato e la cui famiglia era in grado, di conseguenza, di esercitare una pressione maggiore rispetto a quella degli indistinti eredi che si erano affacciati qua e là ai margini delle carte precedenti. La carta del vescovo di Bergamo sollecita infine un’ultima osservazione, di ordine differente rispetto a quelle svolte sin qui, tuttavia interessante per cogliere il clima culturale nel quale si muovevano gli autori di queste donazioni, tutti esponenti del ceto dei possessori. Tachimpaldo infatti stabilisce che dai suoi beni siano ricavati per i poveri trenta moggi di grano e tre anfore di vino all’anno, ma al tempo stesso si chiede, quod Deo iuditio non scio, cosa accadrà si tales evenerit tempus che il grano e il vino non siano disponibili. Si rimette allora al giudizio dei custodes, che provvedano per il meglio, e come possono, al victum vel vestimentum dei poveri, in modo tale che queste familiae non siano in difficoltà. Sono le stesse razionali considerazioni legate alla produttività dei campi, sulla base delle condizioni climatiche e dunque delle diverse annate, che troviamo menzionate in altre carte di questo periodo21.
13L’evoluzione dei testi del dossier che stiamo considerando segue una linea coerente, senza brusche novità fra età longobarda e carolingia. La prima vera novità si verifica con l’apparizione nella documentazione dei transalpini, perché allora si affacciano nella documentazione personaggi di tipo nuovo. Nelle disposizioni di un vescovo veronese, l’alamanno Billongo (846), sono i suoi vassi e parenti Fulcherno e Gerardo a ricevere case e beni in Gussenago, come usufrutto e residenza vita natural durante, pro suorum fidele servitium; essi dovranno però, ogni primo del mese, sfamare sufficienter dei poveri per l’anima del vescovo e dei suoi parenti e, inoltre, saranno tenuti a versare ogni anno un censo di cinque solidi, nel giorno dell’Ascensione di Maria, alla schola sacerdotum della chiesa di Verona, cui andrà tutto alla loro morte22. Quindi i vassalli assumono il ruolo di eredi ed esecutori testamentari, di famiglia artificiale23.
14I beni mobili di Billongo sono di notevole consistenza e varietà: si va dall’oro, all’argento, al vestiario di lusso, ai codici, alle armi e alle corazze, al bestiame, al grano e al vino24. Tutti questi mobilia – con un tratto che appare di nuovo razionale e concreto allo stesso tempo, si specifica che per quanto concerne il grano e il vino si parla solo di ciò che al momento della morte sarà materialmente presente nei suoi magazzini (o che comunque dovrà entrare sicuramente, per via di canoni o simili) – sono destinati ai sacerdoti e agli egeni peregrini. Il vescovo alamanno Billongo, uomo di cultura e di guerra e attento gestore del suo patrimonio, come già il vescovo longobardo Tachimpaldo, stabilisce che, se i suoi parenti andranno contro le sue disposizioni, incorreranno in una pena severa, due libbre d’oro e tre pondera d’argento da dare al fisco.
15Ad un livello sociale alto, come si è detto, la pressione della famiglia è notevole. Tuttavia il modello, con l’apparizione dei vassalli a fianco della famiglia e degli ecclesiastici, è ormai sostanzialmente completo e nei decenni successivi tende ad assumere caratteri fissi, che tornano sempre: così è ad esempio nel testamento di Hunger, milanese, nel quale appaiono gli esecutori testamentari (rogatarii) ecclesiastici, la cura persistente per il ramo femminile, i vassalli che vengono dotati di beni, i servi liberati, i mobilia che sono distribuiti dai rogatarii fra i preti e i poveri; sullo sfondo, si staglia il grande monastero di S. Ambrogio, presente anche in numerosi altri casi lombardi25. Disposizioni analoghe si trovano nei testamenti dei milanesi Teutpaldo e Scaptoaldo e in quello di Donato, di Cologno Monzese: quest’ultimo nell’853 ribadisce che la moglie Roperga avrà in usufrutto un quarto dei suoi beni a Cologno, se gli sopravviverà e custodirà il suo letto. Donato si preoccupa delle due figlie, che vivano con i suoi figli finché si sposano; in die votorum ognuna di esse avrà novanta denari e la scerfa (i mobilia) che avrà acquisito sino ad allora26. Cento anni dopo Rotperto di Agrate, l’orizzonte mentale è lo stesso.
16Ben nota è l’ordinatio di Engelberto del fu Grimoaldo di Erbè, presso Verona (846)27. Memore dell’ammonizione evangelica, secondo la quale il giorno del Signore – quello della morte – sicut fur in nocte veniet, Engelberto, sano di mente ancorché in lectulo recubens, decide di ordinare i suoi beni per la salvezza della sua anima (pro animola mea)28. Di tutti i suoi beni egli fa erede suo figlio Grimoaldo; se costui dovesse però morire infra etate o non avesse figli da legittimo matrimonio, allora alla sua morte i beni – corti e domocoltili fra Veneto e Lombardia – saranno divisi fra gli altri eredi, sorella, nipoti, parenti più lontani, clienti e vassalli. Tutti però dovranno riscattarli, pagando parecchie centinaia di solidi d’argento; il mancato riscatto porterebbe i beni stessi in possesso di numerosi enti ecclesiastici, la cui localizzazione, da Brescia a Verona, conferma il raggio di interessi territoriali di Engelberto. Lo scopo principale, esplicitamente affermato, che questi si prefigge è sempre quello di sostentare i sacerdoti e i pauperes Christi; a costoro andrà la terza parte dei suoi mobilia, dagli animali, ai vasi di legno, al grano, al vi-no, al lardo che sarà nei magazzini presenti die obiti mei, insieme con oggetti da casa, da mensa e da guerra (spada, balteo, speroni, cavalli), pelli di cervo, oro e argento. Questo testamento, redatto in curte mea in Erbeto, ci presenta l’immagine di un proprietario di buona condizione sociale, tipico esponente di un’aristocrazia di livello provinciale.
17Engelberto inoltre non esclude la possibilità di avere un altro figlio e di dovere di conseguenza ridisegnare almeno in parte il quadro che ha appena delineato con la sua ordinatio. Dunque, pure se malato egli non pensa affatto che la morte sia il suo unico destino; di più, va sottolineato come, accanto al sostentamento di pauperes e chierici, scopo parallelo e forse anche più autentico di Engelberto, nel redigere la carta, appaia in realtà la sollecitudine per il futuro del proprio gruppo familiare, la cui autocoscienza può del resto essere colta nella ripetizione al suo interno del nome Grimoaldo (dal non-no al nipote): ciò che si ipotizza non è la fine della famiglia, ma un futuro del gruppo in un preciso rapporto di protezione, e al tempo stesso di collegamento clientelare, con enti religiosi in grado di stabilizzarne il rango sociale.
18A partire dagli anni sessanta-settanta del ix secolo, alcune ordinationes si caratterizzano per l’accento – che appare nuovo – messo sulla ricorrenza della morte del donatore come momento da celebrare, in alternativa o accanto alle scadenze del calendario liturgico ovvero alla festa del santo cui è dedicata lo stabilimento ecclesiastico, beneficiario dei beni e custode della memoria del defunto29. Ad esempio nell’875 si stabilisce che, alla morte del diacono bergamasco Stefano, il chierico Giovanni otterrà l’usufrutto di una cappella intitolata a S. Vittore, ma in cambio dovrà pascere pro omni annoali della morte di Stefano 12 sacerdoti e 10 poveri (si tratta di numeri fissi, che ritornano sempre), a ognuno dei quali andranno pane, carne e formaggio30.
19Scarsa è stata per il momento, all’interno del dossier che stiamo analizzando, la presenza di honorati. Costoro sono però rappresentati al più alto livello dal testamento di Everardo e Gisla, dell’863/864, celeberrimo e di recente analizzato in modo esauriente da Cristina La Rocca e da Luigi Provero31. Lo considererò quindi brevemente.
20L’intendimento dei due coniugi è che i figli dopo la loro morte si possano dividere il loro predium senza impedimenti o litigi, per scoraggiare i quali essi prevedono una penale di ben mille libbre. Al primogenito Unroch lasciano tutti i beni di loro proprietà in Langobardia e in Alamannia, mentre gli altri (Berengario, Adalardo, Rodolfo, gli ultimi due indirizzati alla carriera ecclesiastica, e le figlie Ingeltrud, Judith ed Heiliwich) ricevono beni in quantità decrescente a seconda dell’età e del sesso. Di particolare interesse è la divisione dei mobilia, con un elenco ricco, articolato e significativo, che comprende oggetti de paramento nostro e de paramento capelle nostre; ad Unroch sono destinati una spada con decorazioni d’oro, un pugnale, una cintura e speroni d’oro e gemme, un vestito e un mantello de auro paratum con fibbia d’oro, una seconda spada, elmo, corazza, tibiali, preziosi oggetti da tavola e, fra gli oggetti della cappella, la corona d’oro con la reliquia della Croce, tipica dei Carolingi – Gisla era figlia di Ludovico il Pio –, oltre a molti altri oggetti d’oro, d’argento e d’avorio. Su Unroch è l’investimento maggiore; gli altri figli ottengono oggetti in parte analoghi per tipologia (con diversità soprattutto per i due minori), ma di valore decrescente: ad esempio a Berengario è riservato un vestito intessuto d’oro e speroni d’oro, ma la spada ha decorazioni d’argento e l’Evangeliario è meno prezioso di quello che riceve Unroch; e così via. Anche alle figlie spettano i mobilia, e tra essi vi sono i libri, e non solo di chiesa: ad Ingeltrud, ad esempio, sono lasciate le leggi longobarde. Pure ai figli maschi sono lasciati i libri, a conferma dell’alto livello culturale della famiglia di Everardo e della sua cerchia; al più piccolo, si dice con una notazione affettivamente intensa, è destinato il salterio che la madre ad opus suum habuit. È una conferma ulteriore del fatto – ormai ben noto – che i mobilia veicolavano ricchezze di un tipo particolare, sottratte per loro natura ai normali circuiti economici, il cui valore primario risiedeva nell’ostentazione dello status sociale e nella trasmissione della memoria familiare32. Interessante è anche la diversa considerazione, presente nel testamento, fra i servi originari del nucleo delle proprietà familiari e gli altri: i primi saranno liberati, i secondi, quelli de nostra familia, qui non de predio nostro sunt, sono invece divisi fra i figli.
21Scritto nel comitato di Treviso, in corte nostra Musiestro, confermato solennemente dall’elenco dei nomi di tutti i figli e dei fedeli presenti, il testamentum divisionis della coppia comitale presenta caratteri che lo collocano più fra i documenti pubblici che fra quelli privati: è evidente la sua analogia con documenti quali il testamento di Carlo Magno, la divisio regnorum dell’806 o l’ordinatio imperii dell’81733. Come scrivono i due autori sopra citati, il progetto appare quello di creare, attorno al primogenito Unroch, una famiglia total-mente nuova dalle caratteristiche potenzialmente imperiali34.
22Problemi in parte simili si ritrovano nei due testamenti di regine appartenenti a questo periodo. La regina Cunegonda, vedova di Bernardo (835), pro mercedem et remedium anime seniori meo Bernardi inclite regis, dell’anima sua e del figlio Pipino, dona al monastero di S. Maria e S. Alessandro di Parma, costruito da lei stessa in nostris propriis rebus, tutti i suoi beni nei territori di Parma, Reggio, Mode-na (monasteri, corti, case massaricie), riservandosene comunque l’usufrutto35. Dopo la sua morte, l’usufrutto passerà a suo figlio Pipi-no e ai suoi figli e ai figli dei figli, e così via per le generazioni, a eredi e proeredi legittimi e maschi qui propinquiores inventi fuerint. L’intero gruppo familiare di Cunegonda, un ramo della potente stirpe dei Supponidi, si ristruttura dunque al riparo del monastero di famiglia, mantenendo il pieno godimento di beni che formalmente appartengono ormai al monastero. In questo senso, alla donazione «in vita» si unisce, in questo testo, un vero e proprio testamento. Testo «privato», dunque: ma la garanzia del fisco (già presente nel caso del vescovo Billongo), al quale va versata l’eventuale penale di trenta libre d’oro e cento pondera d’argento, non consente di dimenticare la posizione particolare di Cunegonda e dei suoi familiari36.
23Ha invece la solennità di un documento pubblico – come si vede dalla schiera di vescovi e conti che lo sottoscrivono – il testamento dell’imperatrice Angelberga (877), che, con il consenso di propinqui e parenti, delibera di edificare nella città di Piacenza, per l’anima dell’imperatore e sua, della loro figlia e dei parenti comuni, la chiesa di S. Sisto, con un monastero femminile e uno xenodochio per i pellegrini, dotandoli riccamente con possessi (ereditari, acquisiti o pervenuti a lei in dotis nomine) sparsi fra Lombardia ed Emilia37. Finché vive, Angelberga si riserva la ordinatio vel dispositio delle sue fondazioni, che passerà poi a sua figlia Ermengarda, se costei prenderà la veste religiosa. E se poi Ermengarda avrà fatto educare la propria figlia nel monastero, quest’ultima ne diverrà la badessa, e così in seguito tutte le altre che abbiano indossato il santo abito e che siano de ipsa linea filie mee, in mancanza delle quali si attingerà alla famiglia paterna e poi a quella materna di Ermengarda. L’imperatrice istituisce per l’anima sua e del marito messe quotidiane, uffici diurni e notturni con canto in comune dei salmi. Trecento poveri dovranno essere sfamati nel giorno della morte del marito e nel suo, e ventiquattro (dodici per ognuno) dovranno essere essere sfamati e vestiti ad ogni ricorrenza della cena Domini. Nello xenodochio ci dovranno essere sempre ventiquattro letti pronti, per poveri o pellegrini. È evidente il rilievo eccezionale non solo della donazione, ma anche del meccanismo memoriale messo in piedi da Angelberga, intorno ad un monastero destinato a rimanere sotto il controllo del gruppo familiare tramite il suo elemento femminile38.
24La consapevolezza del proprio ruolo non altera invece la natura privata dei due più tardi testamenti di vescovi di età carolingia. Si tratta in entrambi i casi di longobardi, cioè di italici. Il primo è il vescovo veronese Audone (860), le cui ultime volontà rappresentano in tutto e per tutto una sorta di testamento-tipo39. Più complicato invece è ciò che traspare dal testamento del vescovo bergamasco Garipaldo, dell’870, che con il consenso del fratello, il vasso imperiale Autprando, stabilisce di fondare, dotandolo con molti beni, uno xenodochio nella sua corte di Anticiaco, dove dovranno essere sfamati poveri e sacerdoti40. Custode e rettore dello xenodochio sarà Gundelasio, un chierico figlio di Antelmo, ossia di colui che aveva venduto i beni sui quali sarà costruito lo xenodochio. Dalle minute norme del testamento di Garipaldo, che coinvolgono anche moglie e figlia di Antelmo, traspare la necessità di regolamentare i rapporti con l’intero gruppo familiare di quest’ultimo, che, oltre ad essere (forse) un parente, è senz’altro definibile come un cliente del vescovo, al quale ha trasferito probabilmente tutte le sue proprietà. Qui come altrove, i testamenti ci aprono un breve, e purtroppo insufficiente, squarcio che ci rivela quanto diffuso ed articolato fosse il tessuto clientelare all’interno della società del regno italico in età carolingia41.
25Con il testamento del duca Giustiniano Particiaco entriamo in un’area diversa, nella laguna veneta42. Il testo è famoso soprattutto perché nella sua parte finale il duca ordina a sua moglie Felicita di costruire una basilica in onore del corpo di S. Marco nel territorio del monastero di S. Zaccaria. Vediamo il testamento. Nell’828 o 829, il duca, caduto in malattia e tuttavia in grado di muoversi e sano di mente, decide di scrivere un testamentum ac iudicium, sottoscrivendolo di sua mano e trovando i testi in numero sufficiente (sette) come prescrive lo ius civilis43. Sembra di entrare in un altro mondo, ma non è così: infatti alle forme romane non sempre corrisponde una altrettanto radicale diversità della sostanza delle disposizioni rispetto alla terraferma. La moglie e la nuora del duca, Felicita e Romana, ricevono le tre parti principali del suo patrimonio, terra, casa, oro, argento, spezie, ornamenti, solidi, utensili, letti, ferro, oggetti mobili. Le altre parti si riserva il diritto di darle lui stesso per medelam anime mee. Stabilisce poi che i monasteri di S. Zaccaria e di S. Ilario – i due enti religiosi che convogliano su di loro la devozione e la politica patrimoniale dei Particiaci, originari delle isole realtine44 – rimangano in vera libertate e che non si pretenda da loro alcun tributo o angaria pubblica. Moglie e nuora potranno decidere di abitare in monastero con i loro beni: in effetti S. Zaccaria era destinato a rimanere, anche nei secoli successivi, il monastero femminile dell’aristocrazia veneziana, strettamente legato alla famiglia ducale. Il duca fa l’elenco delle ricche donazioni fatte al monastero: ci sono oggetti preziosi e terre, vigne e animali, ma anche navigia e specchi d’acqua con mulini (aquimuli), piscationes e avium captiones. Servi e ancelle vengono liberati, 160 libbre vanno al monastero di S. Ilario. Il patrimonio del duca complessivamente ha un valore di 1200 libbre; se ne guadagnerà ancora, in futuro il duca aggiungerà alle sue donazioni de laboratorio solidi, sia per verbo ore nostris aut breve, un accenno quest’ultimo interessante quanto ai rapporti esistenti fra oralità e scrittura anche in ambienti fortemente permeati di tradizione documentaria antica come quello lagunare. Inoltre Giustiniano precisa, in un passo purtroppo lacunoso, che la valutazione del suo patrimonio dipende in ogni caso dal fatto che spezie, oggetti preziosi e solidi tornino sani e salvi a Venezia: si salva de navigacione reversa fuerint, afferma, con un riferimento certo ad una spedizione commerciale45. La presenza dell’acqua e delle attività ad essa collegate, dalla pesca alla caccia agli uccelli acquatici, e poi il commercio e dunque il guadagno, disegnano certo un quadro nuovo. Ma la struttura di fondo è la stessa dei testamenti della terraferma. A ben vedere, forse la maggiore differenza è data dalla presenza, in laguna, di un potere pubblico forte e vicino.
26Logico accostare a quello di Giustiniano il secondo testamento veneziano, quello del vescovo Orso di Olivolo, dell’853, anch’esso provvisto di testes [...] numero compitentes46. Orso dispone delle sue proprietà che comprendono in primo luogo la basilica di S. Lorenzo – cui deve rimanere sempre unita quella di S. Severo – con i suoi possedimenti (case, terre con vigne circondate da muri, e poi i mobilia, ovvero libri, pallii, reliquie di santi). Egli dota ulteriormente la basilica e vuole che rimanga in privilegio et vera libertate in patriae Veneciae, senza che alcuno le imponga angarie o scuphia publica; in essa avrà dominio solo sua sorella Romana, che godrà dell’usufrutto, offrendo sacrifici e cantando laudes Deo per l’anima sua e dei suoi parenti, con la possibilità di destinare, dopo la sua morte, il monastero a chi vorrà. Il resto dei suoi beni dovrà essere destinato come avrà deciso lui stesso per breve mea, sia ai suoi parenti sia alla chiesa vescovile, in quest’ultimo caso esso dovrà essere impiegato per i pauperes e i captivi oltre che per il mantenimento dei sacerdoti e per il restauro delle chiese e dei monasteri. Orso ricorda inoltre che è stato lui stesso a fondare la chiesa vescovile di S. Pietro di Olivolo, dotandola con ornamenti di ogni specie, ed ora offre trecento libbre de argento bono per il suo restauro.
27Molti elementi accomunano i due testamenti veneziani: la presenza, solida e forse ingombrante della collettività politica, la patria Venecia; il commercio (nel testamento di Orso, tra le varie donazioni, appaiono un sacco di pepe e altre spezie, uno sacco de pipere et alium de alivano); l’intenso fervore dell’attività costruttiva, che coinvolge, in questa fase genetica dell’abitato della Venezia-città, le isole realtine dove è insediata l’aristocrazia dominante, che nel caso dei Particiaci controllava tutte le chiese fondamentali della topografia religiosa venetica. Sono menzionati i prigionieri da riscattare e così pure i rischi della navigazione, in specie commerciale: e sono dati di forte attualità, visti gli eventi contemporanei dell’Adriatico minacciato da Slavi e Saraceni. Ma, per il resto, la natura aristocratica dei due testamenti veneziani è assolutamente assimilabile agli esempi che abbiamo già visto. Sono esempi che delineano un modello, quello che abbiamo visto formarsi in queste pagine, in grado non solo di superare barriere politiche, come quelle fra regno italico e ducato venetico – che non vanno scambiate per troppo nette cesure di civiltà47 –, ma capace anche di articolarsi nel tempo in uno sviluppo coerente, che riflette il consolidarsi nel possesso fondiario e nel tessuto sociale dell’aristocrazia italica, sia essa longobarda, franca o di tradizione bizantina.
28Questo modello si costruisce prendendo in considerazione al tempo stesso donazioni pro anima, donazioni post obitum e testa-menti veri e propri, senza tenere in conto quindi distinzioni che sono essenzialmente di natura giuridico-formale ma non sono significative dal punto di vista della storia della società. Esso si articola attorno ad alcuni punti forti: il monastero e/o lo xenodochio familiare, oppure le chiese vescovili e i monasteri più importanti del luogo di residenza del donatore, all’ombra dei quali si colloca l’usufrutto che spetta, in generale, alla linea femminile, che appare la più adatta a garantire il permanere compatto per diverse generazioni del patrimonio familiare; i solenni rituali di conservazione della memoria, affidati prevalentemente al clero e all’elemento femminile della famiglia, che si articolano su tre livelli, luminarie, messe votive e pasti per poveri e sacerdoti e che si focalizzano progressivamente sul dies annoalis, la ricorrenza della morte dell’autore della donazione; la gestione accurata del futuro destino delle familiae di dipendenti, volta ad individuare una diversa gerarchia al loro interno, funzionale ai rapporti con essi nel presente, fra lavoratori del dominico e del massaricio, fra servi nati sulle proprie terre e servi acquistati più tardi; infine, la particolare considerazione dei mobilia, mai semplici oggetti di valore economico, ma carichi al contrario di prestigio sociale oltre che di valore affettivo e dunque suscettibili di diventare i veicoli privilegiati della memoria, sia che vengano trasmessi all’interno del gruppo familiare sia che ne escano traumaticamente, ma in modo solenne e pubblico, tramite le distribuzioni ai poveri.
29Due osservazioni conclusive, la prima ovvia e la seconda forse meno ovvia. La prima è che i documenti considerati in queste pagine concernono, normalmente, soltanto una parte dei beni delle famiglie coinvolte e dunque ci offrono un’immagine forzatamente parziale dei patrimoni aristocratici. Tuttavia è indubbio che essi ci permettano di seguire la politica patrimoniale dell’aristocrazia in uno dei suoi aspetti più dinamici: si tratta dunque di una fonte preziosa, anche se da maneggiare con cautela. La seconda osservazione è che, a parte i casi eccezionali di Everardo e Gisla, di Cuneconda e Angelberga, persino la differenza tra honorati e non è sostanzialmente irrilevante, a fronte della costruzione di un modello aristocratico di carta testamentaria o paratestamentaria. Un modello inoltre che appare talmente forte da essere capace di imporsi anche al di là degli strati più alti della società, presso ceti o famiglie emergenti, come dimostra il caso famoso di Totone di Campione48.
Notes de bas de page
1 Liut. 6, in Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara e S. Gasparri, Milano, 1990 (rist. Roma, 2004), p. 130: Si quis langobardus, ut habens casus humane fragilitatis, egrotaverit, quamquam in lectolo reiaceat, potestatem habeat, dum vivit et recte loqui potest, pro anima sua iudicandi vel dispensandi de rebus suis, quid aut qualiter cui voluerit; et quod iudicaverit, stabilem debeat permanere.
2 C. La Rocca, La legge e la pratica. Potere e rapporti sociali nell’Italia dell’viii secolo, in C. Bertelli e G. P. Brogiolo (a cura di), Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno. Saggi, Milano, 2000, p. 45-69.
3 R. Le Jan, Femmes, pouvoir et société dans le haut Moyen Âge, Parigi, 2001, part. p. 132-148.
4 L. Schiaparelli, Codice diplomatico longobardo, I, Roma, 1929 (Fonti per la storia d’Italia, 62), n. 18, 27 novembre 714, p. 51-60.
5 Su molti di questi temi, vedi anche l’esempio trattato in S. Gasparri, Mercanti o possessori? Profilo di un ceto dominante in un’età di transizione, in S. Gasparri e C. La Rocca (a cura di), Carte di famiglia. Strategie, rappresentazione e memoria del gruppo familiare di Totone di Campione (721-877), Roma, 2005.
6 L. Schiaparelli, Cod. dipl. long., I, n. 82, aprile 745, p. 238-244. Su questo documento v. anche C. La Rocca, La legge e la pratica... cit. n. 2, p. 53-54.
7 L. Schiaparelli, Cod. dipl. long., I, n. 83, 10 maggio 745, p. 244-248, en. 188, 13 giugno 765, p. 171-173.
8 L. Schiaparelli, Cod. dipl. long., II, Roma, 1933 (Fonti per la storia d’Italia, 63), n. 137, 17 settembre 759, p. 29-34; sul documento v. S. Gasparri, Grandi proprietari e sovrani nell’Italia longobarda dell’VIII secolo, in Atti del VI Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 1980, p. 436-439, e anche C. La Rocca, La legge e la pratica... cit. n. 2, p. 66-68.
9 R. Le Jan, Il gruppo familiare di Totone: identità e strategie patrimoniali, in Carte di famiglia cit., in corso di stampa; sulla vicinanza al potere regio (la «Königsnähe») dell’aristocrazia, non solo longobarda, cfr. C. Wickham, Aristocratic power in eight-century Lombard Italy, in A. Callander Murray (ed.), After Rome’s fall. Narrators and sources of early medieval history. Essays presented to Walter Goffart, p. 153-170.
10 L. Schiaparelli, Cod. dipl. long., II, n. 218, aprile 768, p. 249-252.
11 L. Schiaparelli, Cod. dipl. long., II, n. 231, 19 agosto 769, p. 287-293. Su questi due documenti monzesi e il loro contesto ambientale, v. anche S. Gaspar-ri, L’alto Medioevo: da Teodorico a Berengario (secoli vi-x), in F. de Giacomi e E. Galbiati (ed.), Monza. La sua storia, Monza, 2002, p. 66-69.
12 L. Schiaparelli, Cod. dipl. long., II, n. 293, maggio 774, p. 429-437.
13 Liut. 23, in Le leggi dei Longobardi... cit. n. 1, p. 140: Si quis servum aut ancillam suam in ecclesia circa altare amodo liberum vel liberam demiserit, sic ei maneat libertas, sicut illi, qui fulfreal in quarta manus traditus et amund factus est (il riferimento qui è a Roth. 224). Se invece il padrone vuole fare del servo un aldio non lo conduca in chiesa ma faccia in altro modo, tramite cartula o qualiter ei placuerit.
14 É. Palazzo, Liturgie et société au Moyen Âge, Parigi, 2000, p. 23-25, fa riferimento all’apparizione delle messe private in età carolingia in funzione votiva, legandole all’evoluzione della pratica della penitenza. È tuttavia da segnalare la notizia riportata dalla Chronica Patriarcharum Gradensium, ed. G. Waitz, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. vi-ix, Hannover, 1878, p. 394, secondo la quale il patriarca di Aquileia Severo, che muore nel 608, avrebbe lasciato un testamento in favore della chiesa di S. Eufemia di Grado, relativo a tutti i suoi beni, prescrivendo che i sacerdoti di quella chiesa dovessero sfamare ogni sabato i poveri e celebrare messe pro ipso. È probabile comunque che i contenuti del testamento, così come sono riportati nella Chronica, riflettano più le pratiche del xii secolo, quando essa fu scritta, che quelle del VI.
15 P. Fouracre, Eternal light and earthly needs: practical aspects of the development of Frankish immunities, in W. Davies e P. Fouracre (a cura di), Property and power in the early Middle Ages, Cambridge, 1995, p. 53-81, cit. a p. 68.
16 Cfr. C. La Rocca, I testamenti del gruppo familiare di Totone di Campione, in S. Gasparri e C. La Rocca (a cura di), Carte di famiglia... cit. n. 5, in corso di stampa.
17 Sulla questione, con riferimento al caso di Totone ma con un inquadramento tematico generale, si veda L. Feller, Sulla libertà personale nell’viii secolo: i dipendenti dei Totoni, in S. Gasparri e C. La Rocca (a cura di), Carte di famiglia... cit. n. 5.
18 M. Cortesi et al., Le pergamene degli archivi di Bergamo, a. 740-1000, Bergamo, 1988, n. 6, 28 febbraio 800, p. 10-12.
19 Op. cit., n. 19, 26 gennaio 806, p. 14-16 (a parziale modifica di un precedente testamento del 799).
20 Per la verità la disposizione di Liutprando si riferisce in modo esplicito solo ai figli (Liut. 113, in Le leggi dei Longobardi... cit. n. 1, p. 184: Si quis langobardus voluerit in filios suos bene servientibus aliquit largiri, habeat licentiam...), tuttavia è evidente che in tal modo veniva aperta la via per operare una distinzione all’interno degli eredi, di qualunque grado di parentela essi fossero. Sul tema, per un caso concreto, v. C. La Rocca, Multas amaritudines filius meus mihi fecit. Conflitti intrafamiliari nell’Italia longobarda (secolo viii), in Mélanges de l’École française de Rome, Moyen Âge, 111-2, 1999 (= Les transferts patrimoniaux en Europe occidentale, viiie-ixe siècle [I]), p. 933-950.
21 L’esempio più eccezionale di questo punto di vista razionale è rappresentato, ad un livello più complesso, dal famoso – e più tardo (secolo x) – inventario del monastero di S. Tommaso di Reggio Emilia, dove sono addirittura indicate le rese cerealicole: V. Fumagalli, Rapporto fra grano seminato e grano raccolto nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio, in Rivista di storia dell’agricoltura, 6, 1966, p. 360-362.
22 V. Fainelli, Codice diplomatico veronese, I, Venezia, 1940, n. 182, 12 dicembre 846, p. 272-278.
23 Per una valutazione delle novità prodotte dall’introduzione in Italia dei rapporti vassallatico-beneficiari, cfr. G. Tabacco, L’avvento dei Carolingi nel regno dei Longobardi, in S. Gasparri e P. Cammarosano (a cura di), Langobardia, Udine 1990, p. 375-403, ora ristampato in S. Gasparri (a cura di), Il regno dei Longobardi in Italia. Archeologia, società e istituzioni, Spoleto, 2004, p. 443-479; per il rapporto complesso con le altre forme di dipendenza più antiche, S. Gasparri, Strutture militari e legami di dipendenza in Italia in età longobarda e carolingia, in Rivista storica italiana, 98, 1986, p. 664-726.
24 Sulla presenza di codici nelle donazioni, v. più avanti il testamento di Everardo (testo in riferimento alle note 31 e 32).
25 G. Porro Lambertenghi, Codex diplomaticus Langobardiae, Torino, 1873 (Historiae Patriae Monumenta, 13), n. 127, febbraio 836, coll. 226-228.
26 G. Porro Lambertenghi, Cod. dipl. Lang., n. 135, agosto 839, coll. 237-239 (Teutpaldo), e n. 181, gennaio 853, coll. 306-307 (Donato). Su quest’ultimo documento, inquadrato nei rapporti sociali della società locale, esiste il classico lavoro di G. Rossetti, Società e istituzioni nel contado lombardo durante il Medioevo. Cologno Monzese, Milano, 1968, p. 128-129.
27 Importante, su questo documento, è il saggio di A. Castagnetti, La distribuzione geografica dei possessi di un grande proprietario veronese del secolo ix: Engelberto del fu Grimoaldo di Erbè, in Rivista di storia dell’agricoltura, 9, 1969, p. 15-26.
28 V. Fainelli, Codice diplomatico veronese... cit. n. 22, n. 181, p. 263-272.
29 Su questo argomento, M. Fiano, Il banchetto regio nelle fonti altomedievali. Tra scrittura ed interpretazione, in Mélanges de l’École française de Rome, Moyen Âge, 115, 2003, p. 637-682, alle p. 668-675 per i banchetti di commemorazione previsti dai sovrani nelle loro donazioni ad enti religiosi, a partire da Carlo il Calvo (dunque tale pratica appare contemporaneamente o quasi nella documentazione pubblica e in quella privata).
30 M. Cortesi et al., Le pergamene degli archivi di Bergamo... cit. n. 18, n. 24, 11 settembre 875, p. 38-40; dopo Giovanni, dovranno provvedere ai pasti commemorativi due nipoti di Stefano, prima il diacono Rotpaldo e poi il chierico Andrea.
31 C. La Rocca e L. Provero, The dead and their gifts. The will of Eberhard, count of Friuli, and his wife Gisela, daughter of Louis the Pious (863-864), in F. Theuws e J. L. Nelson (a cura di), Rituals of power. From late Antiquity to the early Middle Ages, Leida-Boston-Colonia, 2000, p. 225-280. Il testamento è edito in Cartulaire de l’abbaye de Cysoing, ed. I. De Coussemaker, Lille, 1885, n. 1, p. 1-5.
32 La Rocca e L. Provero, The dead and their gifts..., p. 249-259 per imobilia.
33 M. Innes, Charlemagne’s will: piety, politics and the imperial succession, in The English historical review, 112, 1997, p. 833-855.
34 C. La Rocca e L. Provero, The dead and their gifts... cit. n. 31, p. 259-274.
35 U. Benassi, Codice Diplomatico Parmense. Secolo ix, Parma 1910, n. 2, 15 giugno 835, p. 101-106.
36 Sui testamenti di Cunegonda e di Angelberga, le regine di stirpe supponide, si veda l’esauriente analisi di C. La Rocca, Les cadeaux de la famille royale en Italie, in F. Bougard, L. Feller et R. Le Jan (dir.), Dots et douairies dans le haut Moyen Âge, Roma, 2002 (Collecion de l’École française de Rome, 295), p. 499-526, alle p. 511-516 (il volume pubblica gli atti del seminario Morgengabe, dos, tertia... et les autres. Les transferts patrimoniaux en Europe occidentale, viiie-ixe siècle (II), tenutosi a Lille e Valenciennes il 2, 3 e 4 marzo 2000).
37 E. Falconi, Le carte cremonesi dei secoli 8.-12., I, Cremona, 1979, n. 20, marzo 877, p. 49-58.
38 V. sopra, nota 36.
39 V. Fainelli, Codice diplomatico veronese... cit. n. 22, I, n. 219, 5 agosto 860, p. 325-330. Alla figura del vescovo Audone dedica parecchie pagine A. Castagnetti, Minoranze etniche dominanti e rapporti vassallatico-beneficiari. Alamanni e Franchi a Verona e nel Veneto in età carolingia e postcarolingia, Verona, 1990.
40 G. Porro Lambertenghi, Cod. dipl. Lang., n. 246, marzo 870, coll. 416-421.
41 Un primo contributo in questo senso è in S. Gasparri, Les relations de fidélité dans le royaume d’Italie au IXe siècle, in R. Le Jan (a cura di), La royauté et les élites dans l’Europe carolingienne (du début du ixe siècle aux environs de 920), Lille, 1998, p. 145-157.
42 L. Lanfranchi e B. Strina, Ss. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, Venezia, 1965 (Fonti per la storia di Venezia, sez. II, Archivi ecclesiastici, Diocesi castellana), n. 2 (25.12.828-31.8.829), p. 17-24.
43 M. Amelotti, Il testamento romano attraverso la prassi documentaria. I. Le forme classiche di testamento, Firenze, 1966.
44 Sui Particiaci e il testamento di Giustiniano, v. G. Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in P. Delogu, A. Guillou e G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, Torino, 1980 (Storia d’Italia, 1), p. 382-393.
45 Est enim omnis mea possessio confirmata et adbreviata cum illas iamdictas ducentas libras que in monasterio [...] cum speciebus et ornamentis et laboratoriis solidis, si salva de navigacione reversa fuerint (doc. citato a nota 42, p. 21).
46 F. Gaeta, S. Lorenzo, Venezia, 1959 (Fonti per la storia di Venezia, sez. II, Archivi ecclesiastici, Diocesi castellana), n. 1 (febbraio 853), p. 5-12.
47 Per un esempio della similarità di sviluppi fra ducato venetico e regno, S. Gasparri, Venezia fra l’Italia bizantina e il regno italico: la civitas e l’assemblea, in S. Gasparri, G. Levi e P. Moro (a cura di), Venezia. Itinerari per la storia della città, Bologna, 1997, p. 61-82.
48 S. Gasparri, Mercanti o possessori... cit. n. 5.
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