Nel solco di Roma tra filologia e autopsia
Note su scienza e antiquaria nel Cinquecento
p. 323-346
Texte intégral
1Il programma sulla cultura scientifica a Roma nell’età moderna partiva da un’ipotesi ben precisa, quella di provare a correggere un assunto storiografico che ci pareva sbagliato. Un assunto secondo il quale cultura cattolica e insorgere della scienza moderna fossero in stridente contraddizione o, quanto meno, che il contributo cattolico alla cosiddetta rivoluzione scientifica sia stato irrisorio rispetto a quello fornito da attori e istituzioni di area protestante. In realtà, almeno da questo punto di vista, abbiamo sfondato una porta aperta: nel senso che, storiograficamente, quella che va sotto il nome di «Merton thesis» è stata sottoposta a severe critiche già da almeno una quindicina d’anni, e l’equazione «rivoluzione scientifica = culture riformate», nella sua genericità e nella sua banalità, era stata dunque rimessa in discussione.
2Resici conto di ciò assai rapidamente – bastava in fondo aver letto, solo per esempio, il numero di Science in context del 1989 dedicato alla discussione della «Merton thesis»1 –, nel corso di questa ricerca collettiva ci siamo impegnati a fornire evidenza e argomenti al fatto, per la verità assai ovvio, che anche a Roma, nella Roma papalina e cortigiana, nella Roma fannullona e degenerata, nella Roma dell’Indice e dell’Inquisizione, la scienza abbia avuto modo di esistere e di svilupparsi – conformemente al contesto particolare, senza pregiudizi che ne compromettessero l’effettuazione e non unicamente tra le mura del Collegio Romano.
3Non è certo mio compito riassumere e ripercorrere tutte le tappe del programma di ricerca sulla cultura scientifica a Roma, ma – per dar pregnanza a quanto qui seguirà – devo ricordare due scelte che abbiamo operato e che conseguono immediatamente da questo breve preambolo: innanzitutto, abbiamo optato per una ricognizione ampia delle attività che possono essere considerate come afferenti al campo delle scienze, non a caso designato come «cultura scientifica» o «saperi scientifici», rispetto ad un’accezione più limitata come quella usualmente utilizzata nella storia della scienza a partire da una definizione anacronistica, odierna, di ciò che è – o pretende esse-re – terreno proprio ed esclusivo di teorie e pratiche scientifiche2; abbiamo, poi, cercato di individuare quegli elementi che caratterizzano fortemente l’identità di Roma tra ’500 e ’700 e di porli in relazione con ciò che stavamo costruendo intorno a Roma come luogo di produzione e di consumo di saperi scientifici. Abbiamo insomma cercato di individuare delle relazioni significative tra ciò che era Roma, nella sua specificità ed eccezionalità, e i presupposti, le pratiche e le posture assunti dagli attori della cultura scientifica dell’età moderna.
4Una serie di elementi «significativi» sono apparsi, così, di particolare pertinenza; la missione universalistica di Roma; Roma città di stranieri; Roma città dalle molteplici corti. E – naturalmente – Roma come straordinario ricettacolo della memoria dell’antico3. Poiché inevitabilmente l’identità di Roma è stata, ed è forse tuttora, segnata innanzitutto dal suo passato e da quanto di esso è sopravvissuto e si è conservato. È la presenza, se non addirittura l’invadenza dell’antico che ha cesellato l’immagine di Roma e, al tempo stesso, è l’antico che per secoli ha mosso verso Roma viaggiatori, gentiluomini, curiosi, umanisti, artisti e poeti:
Nouveau venu qui cherche Rome en Rome,
Et rien de Rome en Rome n’aperçois,
Ces vieux palais, ces vieux arcs que tu vois,
Et ces vieux murs, c’est ce que Rome on nomme.
5Così scriveva Joachim Du Bellay in un noto sonetto delle Antiquitez de Rome, una raccolta che egli pubblica nel 1558 a Parigi al ritorno da un lungo soggiorno a Roma: nei suoi versi presenza dell’antico e identità della città si confondono nella percezione del visitatore attonito4.
6Molti dei «nouveaux venus», infatti, se non si insediavano a Roma par ragioni curiali, vi giungono per motivazioni direttamente o indirettamente legate al culto, al fascino e all’interesse per l’antico. Poiché, in una temperie culturale agitata dal gusto dell’antico, per ragioni geografiche, politiche e militari, Roma, più della Grecia, costituiva la meta privilegiata di umanisti, viaggiatori e antiquari che agognavano un incontro materiale con l’Antichità classica. Insomma, Roma, già dal ‘400, sembra caratterizzarsi, al tempo stesso, come l’oggetto e il soggetto dell’antiquaria, dove per antiquaria vanno intese una serie di attività di carattere culturale, sociale e commerciale relative allo studio dell’antico5. Ciò credo consenta e giustifichi l’intento di avviare una riflessione sulle interazioni tra questo rapporto speciale di Roma con l’antico o, se vogliamo, tra questo tratto identitario marcato della romanità (mi si perdoni la genericitàdi questa espressione) e la cultura che animava quei circoli e quelle comunità che in varie parti d’Europa si interessavano di filosofia naturale e di medicina.
7A partire da tali considerazioni, pertanto, è parso importante, anzi indispensabile, soffermarsi sulla possibilità di coniugare l’oggetto di studio del nostro programma, la cultura scientifica romana, e la disciplina che di Roma soprattutto ha fatto il proprio oggetto di studio, l’antiquaria. Obiettivo di queste pagine è quello di suggerire qualche spunto di riflessione su questo rapporto che mi pare costitutivo della cultura scientifica romana, e tuttavia – salvo rare eccezioni – negletto dalla storiografia6. È insomma mia intenzione cercare di capire se l’«e» congiunzione tra scienza e antiquaria è pertinente, se tra le diverse forme in cui le attività degli antiquari si esplicano e quelle proprie alla cultura scientifica che si sviluppa a Roma, o intorno a Roma, è possibile individuare dei rapporti, e, eventualmente, di quale natura e di quale portata.
8Dico subito che è mia convinzione che tali rapporti sono stati intensissimi e che un vasto cantiere di studio e di riflessione può esse-re aperto. È necessario, pertanto, fornire qualche punto di riferimento di carattere storiografico e proporre qualche considerazione sui modi in cui il rapporto scienze (sapere scientifico) e antiquaria è stato problematizzato, per poi fornire alcuni esempi che possano da-re maggior vigore a queste considerazioni.
9Ogni volta che si scrive e si parla di antiquaria si comincia con una doverosa menzione ad Arnaldo Momigliano ed in particolare al noto saggio del 1950 – poi più volte ristampato – apparso nel Journal of Warburg and Courtauld Institutes dal titolo Ancient History and the Antiquarian7. Il tema centrale del saggio fa luce sul contributo decisivo dato dall’antiquaria all’elaborazione dell’«etica» dello storico e alla definizione della storia come discorso veridico. Nelle pagine di Momigliano l’antiquaria è intesa come sapere sistematico, governato dall’evidenza del documento, indipendente dalla materialità delle testimonianze, un sapere fondato sulla raccolta e la collazione delle informazioni, sull’osservazione, la critica e lo studio erudito delle fonti scritte e non scritte8. In questo saggio Momigliano accenna a due elementi che paiono particolarmente pertinenti per la discussione intorno ai saperi scientifici. Il primo è quello di rilevare che le prime testimonianze relative alla parola antiquarius o antiquario – come amatore, raccoglitore, scrittore e studioso di tradizioni antiche e vestigia – vengono direttamente dagli ambienti della cultura umanistica del xv e xvi secolo9, e come il concetto stesso di antiquario fosse un’emanazione di questa cultura. Il secondo elemento concerne il profilo intellettuale e professionale di alcuni tra i protagonisti della storia dell’antiquaria ricostruita da Momigliano:
Bianchini era un astronomo, Jacques Spon un dottore, come i suoi amici Charles Patin, Charles Vaillant e altri numismatici e antiquari. Uno di loro, H. Meilbomius, osservò nel 1684: Et nescio quidam an peculiari aliquo fato Medici nos veteris nummariae rei studio teneamur. Essi portarono nella ricerca storica qualche cosa del metodo scientifico dell’osservazione diretta10.
10Lascio per un momento da parte la questione dell’eventuale priorità dell’apporto di un «metodo scientifico» all’approccio antiquario. Il passo di Momigliano è per noi importante: in questo saggio, che è un incoraggiamento a sviluppare ricerche sulla storia dell’antiquaria in generale, fa capolino tra le piste proposte l’ipotesi di una comparazione tra antiquaria e scienze. Ciòè suscitato dal profilo professionale e culturale degli attori, ma la pertinenza del paragone appare addirittura fondata su un metodo comune d’approccio dei due campi disciplinari ai loro rispettivi oggetti d’indagine.
11Tra gli storici della scienza, l’intuizione di Momigliano non ha trovato gran seguito. A quanto mi consta, le ricerche di Giuseppe Olmi sono una rara e pregevole eccezione. Già nel libro su Ulisse Aldrovandi del 1976, Olmi – facendo leva su alcune osservazioni di Robert Klein su Les humanistes et la science (1961)11 – aveva rapidamente segnalato le propensioni archeologico-antiquarie della scienza cinquecentesca e, più in particolare, aveva ricordato quanto il libro di storia naturale, dal punto di vista formale e tipografico, potesse avere in comune con il libro di archeologia, e come entrambe queste discipline assegnassero, sul piano metodologico, una marcata priorità all’osservazione, alla scoperta e alla descrizione12. Qualche anno dopo, Olmi è tornato con maggior vigore sul tema dei rapporti tra storia naturale ed antiquaria, in questo caso più puntualmente riprendendo le indicazioni di Momigliano. In un saggio dedicato ai musei naturalisti in Italia in età moderna, Olmi menziona alcune figure di naturalisti e medici che nel corso dell’età moderna sono stati, al tempo stesso, studiosi e collezionisti di antichità, soprattutto di monete e medaglie: Ulisse Aldrovandi, naturalmente, ma anche, ad esempio, Charles Patin e Jacob Spon13. Superando l’aspetto biografico che rischierebbe di apparire occasionale e aneddotico, Olmi attira l’attenzione – sia pur brevemente – su alcuni caratteri che accomunano storia naturale e antiquaria dal punto di vista più propriamente metodologico: l’uso di strumenti interpretativi di tipo filologico e linguistico; il ruolo assegnato all’autopsia; il ricorso alle immagini e lo speciale statuto di somiglianza e affidabilità ad esse conferito. Tali aspetti che accomunano pratiche scientifiche e pratiche antiquarie, tuttavia, sono presentate da Olmi come caratteristiche di una fase successiva dei rapporti tra storia naturale ed antiquaria; una fase che andrebbe dalla seconda metà del xvii secolo alla fine del secolo successivo; una fase in cui si vedono, scrive Olmi, «gli antiquari mutuare, in modo sempre più evidente, i metodi di indagine, oramai piuttosto evoluti rispetto al periodo precedente, dalla ricerca naturalistica»14.
12Il periodo precedente, il Cinquecento e i primi decenni del Seicento – secondo Olmi – sarebbero invece caratterizzati da una logica accumulativa che vedrebbe un uso (quasi un abuso) delle antichitàe delle informazioni raccolte dagli antiquari da parte di medici e filosofi naturali: in buona sostanza, i naturalisti condividevano un interesse con gli antiquari, in quanto – banalmente – le vestigia dell’antichità classica potevano fornire delle testimonianze preziose, tanto iconografiche quanto letterarie, di fatti di interesse naturalistico – fatti perduti, sconosciuti, dimenticati, modificati dall’inesorabile fluire del tempo.
13Senza nulla togliere al merito di queste prime ricerche sui rapporti tra scienza e antiquaria in età moderna, mi trovo in profondo disaccordo su questa proposta di scansione cronologica. Mi pare, infatti, – ed è uno degli argomenti che cercherò di sviluppare nelle pagine che seguono – che già nel ’500 si instauri tanto nella medicina e nella storia naturale quanto nell’antiquaria, un regime dei protocolli di analisi erudita delle testimonianze e di verifica autoptica dei fatti che, in entrambi i campi, affondano le radici nella filosofia umanistica. Insomma, da subito, antiquaria e scienza convergono proprio sul terreno cruciale delle modalità in cui gli oggetti di indagine sono considerati e analizzati, sui metodi di indagine adottati, sul valore assegnato all’evidenza materiale e alla verifica empirica dei fatti.
14Un primo dato emerge accostando scienza e antiquaria ed è, dunque, quello segnalato da Meilbomius e, poi, ricordato da Momigliano e Olmi: evidentemente molti uomini di scienza, e soprattutto molti medici, hanno avuto interessi per le antiquitates – in modo particolare per la numismatica, ma anche per l’epigrafia, l’architettura, la statuaria, in parte greche, ma soprattutto romane. Cosa significano queste coincidenze? A cosa sono dovuti questi interessi? Di che natura sono? Direi, innanzitutto, che non si tratta di interessi dilettanteschi, né casuali o occasionali. Inoltre, per chiarire subito il mio punto di vista, mi sembra insufficiente interpretarli come interessi inscrivibili esclusivamente – come pretende certa storia della scienza – in ciniche e consapevoli strategie di «self-fashioning» e «self-promotion», attraverso cui gli attori adottano e adattano i propri gusti e saperi a quelli di principi e mecenati col preciso scopo di accattivarsi la loro benevolenza e di migliorare la propria posizione sociale, culturale e professionale. Sono invece interessi, mi sembra, connaturati ad un’identità culturale e sociale del medico e del filosofo naturale, identità profondamente permeata dalla matrice umanistica in cui è ancorata la loro formazione e una buona parte del loro esercizio intellettuale: il medico di formazione universitaria (il physicus) e il filosofo naturale – per non ricordare che l’ovvio – sono, infatti, per formazione degli umanisti nel senso stretto del termine; sono, innanzitutto, degli studiosi di testi antichi, letti e riletti, analizzati, commentanti, compendiati, comparati con gli strumenti critici propri del filologo e forniti dagli studia humanitatis e dalla filosofia.
15Già dalla metà del 400 si afferma nell’orizzonte umanistico un’attenzione particolare all’oggetto antico. Nel momento in cui l’acribia filologica – già riconosciuta essere strumento essenziale per la costruzione dell’etica dello studioso – si sposta dal testo alle cose, integrando verba e res nell’approccio all’antichità e alle sue vestigia, il medico e il filosofo naturale si trovano anch’essi inevitabilmente coinvolti nel medesimo processo. Ciò perché costoro fanno parte integrante della medesima comunità umanistica e condividono, appunto, la medesima formazione. Ma non solo: medici e filosofi naturali sono essi stessi carpiti nella tensione tra verba e res, tra testi e fatti nella specificità del loro agire quotidiano e in quanto studiosi delle cose di natura. Se, infatti, si riconosce l’incidenza di questo stigma umanistico (percepibile in filigrana nei valori, nelle formazioni e nelle pratiche culturali che caratterizzano tanto la medicina quanto la filosofia naturale dell’età moderna), allora la convergenza tra scienze e antiquaria segnalata da Momigliano appare in tutta la sua portata, così come la pertinenza di una riflessione approfondita su quanto questi due campi del sapere condividono. Sarà così più facile comprendere la molteplicità dei livelli in cui, tra Cinque e Settecento, scienza e antiquaria si intersecano, i modi in cui l’«e» congiunzione può essere legittimamente e fruttuosamente declinata.
16Il fatto che medici, filosofi naturali e antiquari appartenessero ad una medesima comunità intellettuale è per altro provato dalle fit-te reti di rapporti personali – di carattere amichevole, pedagogico, accademico o clientelare –, dagli epistolari e dalla composizione delle loro biblioteche, dai contesti istituzionali e dai luoghi in cui essi, congiuntamente, agivano: la corte, l’accademia, l’università, ma anche la tipografia, la biblioteca, il museo o lo studiolo. Essi, poi, operavano tutti nell’ambito del medesimo mercato delle professioni intellettuali e le loro sorti e carriere erano iscritte nel medesimo sistema economico. Assai simili, inoltre, erano alcune delle pratiche culturali che essi congiuntamente adottavano: collezione, sistematizzazione, scambio, esegesi, lettura, scrittura, insegnamento, discussione, conversazione.
17Sul piano, poi, più precisamente intellettuale ciò che lega ancora più in profondità le vicende di antiquari e di uomini di scienza è che per molti aspetti essi hanno operato, sin dal Cinquecento, nei rispettivi campi del sapere, facendo ricorso ai medesimi strumenti materiali e intellettuali. Per gli strumenti materiali si consideri, come già segnalava Olmi, l’uso delle illustrazioni, gli strumenti utilizzati e le pratiche messe in atto per realizzarle, la fiducia in esse riposta in quanto veicolo di conoscenza e la funzione assegnatagli di testimonianze visive (che si tratti di pesci o di monete, di uccelli o di iscrizioni, di statue o di comete)15. Per quanto attiene agli strumenti critici penso, invece, al comune ricorso – e anche questo già dal Cinquecento – ad un’argomentazione della prova fondata da un lato sull’erudizione e la filologia, dall’altro sull’autopsia e sull’esperienza. Tanto dalle pratiche culturali della storia naturale e della medicina, quanto da quelle dell’antiquaria in questo periodo, si evince infatti il riconoscimento del valore – direi – sovversivo assegnato al dato empirico, al fatto osservato e verificabile. L’evidenza materiale scoperta, poi filologicamente esaminata e comparata ad altri esemplari osservati e ad altre testimonianze raccolte, è utilizzata – in entrambi i campi – per confermare o confutare le attestazioni che fondano saperi che rimarrebbero altrimenti governati unicamente dall’adesione al verbo dell’autorità testuale. Insomma la filologia, quella filologia propugnata, per esempio, da Guillaume Budé come base di ogni tipo di sapere16, è convocata come modello epistemologico applicato congiuntamente e comparativamente ad oggetti e a testi per correggere gli errori, per affermare una nuova etica della professione intellettuale, un’etica fondata sulla verifica delle prove e dei processi conoscitivi messi in atto. Ciò accomuna storia e ornitologia, genealogie imperiali romane e anatomia, res vestimentariae e astronomia.
18Il riconoscimento di questo stigma umanistico tanto nella formazione, quanto nelle pratiche e nello strumentario (intellettuale e materiale) di medici e di naturalisti, è – a mio parere – il punto di partenza necessario che consente di capire la prossimità di cultura, di sensibilità, di metodi con il mondo dell’antiquaria17. Ciò consente inoltre di comprendere il senso dell’adozione e dell’innesto di un codice «antiquisant» – fondato sui documenti e sui monumenti della latinità, insomma sulle stesse verba e res che occupano gli antiquari – nell’ambito della cultura scientifica cinquecentesca. È mia convinzione, infatti – ma lungi da me dal voler proporre un’interpretazione essenzialista – che un aspetto caratterizzante il ruolo di Roma nell’ambito degli sviluppi della cultura scientifica del Rinascimento (1450-1650) è l’aver fornito ad umanisti, medici, filosofi naturali, i segni che costituiscono questo codice condiviso da medici, filosofi naturali, antiquari ed umanisti. Esso è, infatti, un codice che investe tanto il campo linguistico, lessicale e iconografico, quanto quello metodologico e, persino, etico. Si tratta di un codice che si è progressivamente forgiato tanto attraverso lo studio dei documenti e dei monumenti dell’antichità e grazie al fascino, all’interesse e alle passioni che essi hanno suscitato, quanto dalle pratiche e dai metodi di coloro che le antichità romane hanno studiato; un codice che si potrebbe definire genetico, in quanto forgiato per produrre lessici, pratiche e teorie che innervano, anzi fondano umanisticamente e nel solco di Roma una parte cospicua della cultura scientifica del Rinascimento. È un codice che serve anche ai medici e ai filosofi naturali per comunicare, per comprendersi, ma anche per riconoscersi, per sostenere il sentimento d’appartenenza ad una precisa comunità: quella degli umanisti della «République des Lettres» che avevano eletto Roma e la cultura latina classica come modello del proprio ethos intellettuale. Così, per esempio, si usa una Venere pudica o delle composizioni costituite da armature antiche (Juan de Valverde)18, dei vasi antichi (Charles Estienne)19, un Torso Belvedere o un paesaggio di rovine romane (Andrea Vesalio)20 per ornare e spiegare l’anatomia umana; si ricorre ad Orazio per scrivere di metalli e si studia Virgilio, oppure Lucrezio e Ovidio per scrivere di peste o di altre questioni di filosofia naturale (è il caso Georgius Fabricius)21; si fa appello al filologo per leggere e scrivere di fossili, di pietre e di gemme (lo fa Konrad Gesner)22; si collezionano monete romane antiche e si stabiliscono alcuni principi generali della sistematizzazione (Sebastiano Erizzo)23; si cita e si stracita Cicerone, soprattutto nei decenni a cavallo della metà del secolo, per scrivere di qualunque argomento di medicina e di filosofia naturale.
19Questo codice, insomma, fa inevitabilmente di Roma l’epicentro, attivo e passivo, volontario e involontario, di un lessico, di un metodo e di un ethos che dalla tradizione umanistica e antiquaria s’irradia, per confondersi, con teorie e pratiche, lessici e strutture, valori e identità, che – a torto – sono stati spesso riconosciuti frutto di una tradizione «altra», di carattere schiettamente filosofico e scientifico.
20Per dare carne e ossa a queste considerazioni preliminari è necessario fornire qualche esempio che consenta di far luce sulle modalità di interazione tra il campo dell’antiquaria e quello delle scienze cinquecentesche e, ancora più precisamente, che consenta di mettere in evidenza la forza e l’efficacia di questo codice, un codice improntato dunque sulla cultura filologica umanistica e sulla disciplina antiquaria.
21A tal fine si prenderanno in considerazione – benché succintamente – alcune figure che in modi diversi e a partire da orizzonti sociali, culturali e professionali diversi consentono d’intravedere le molteplici possibilità d’interazione tra questi due ambiti disciplina-ri, nonché il radicamento dei discorsi e delle pratiche intellettuali nel solco di Roma: Enea Vico, Ulisse Aldrovandi, Charles Estienne e Georgius Fabricius.
22Enea Vico è innanzitutto noto come pregevolissimo incisore su rame, stimato da Vasari24, collaboratore di tipografi quali Tommaso Barlacchi, Antoine Lafrery e Antonio Salamanca a Roma (in particolare per il progetto dello Speculum Romanae Magnificentiae), artista vicino ai potenti (ha ritratto Paolo III, Cosimo I, Carlo V) e assiduo frequentatore dei circoli artistici, letterari e umanistici (a Venezia, per esempio, era in relazione con l’Aretino, il Doni, Lodovico Dolce). Vico era poi noto come collezionista e, come ricorda un suo contemporaneo, era soprattutto «verissimo Oracolo degli Antiquari»25.
23Questa fama era certo dovuta alla sua straordinaria competenza in materia di numismatica – uno dei terreni d’elezione dell’antiquaria. Infatti, Vico, oltre a collezionarle, ha scritto una serie di testi sulle monete e sulle medaglie antiche che, tra le altre, gli hanno consentito di assumere, negli ultimi anni della sua vita, la carica di «Antiquario» presso la corte di Alfonso II d’Este: un trattato sulle immagini delle medaglie antiche e le vite degli imperatori romani, un altro sulle immagini delle donne auguste – entrambi ricchissimi d’incisioni26 –, e un libro contenente due discorsi intorno alla numismatica su cui vale qui la pena soffermarsi.
24Il titolo è eloquente: Discorsi di m. Enea Vico Parmigiano, sopra le medaglie de gli antichi divisi in due libri, ove si dimostrano notabili errori di scrittori Antichi, e Moderni, intorno alle Historie Romane. Si tratta di un testo di carattere teorico e tecnico in cui si propone e si dimostra l’apporto essenziale della numismatica, dell’«expertise» filologica e della «connaisseurship» per stabilire fatti e aspetti essenziali nella ricostruzione della storia romana. Così Vico annuncia nel proemio il suo intento e, più in generale, il progetto, proprio dell’approccio antiquario, di definire lo statuto di prova delle testimonianze materiali. Dopo aver ricordato che monete, rovine, archi, epigrafi, statue e monumenti costituiscono delle attestazioni inconfutabili della grandezza di Roma e servono a dissipare ogni dubbio sulla sua storia gloriosa27, Vico precisa qual è «il fine che reca l’honesta dilettatione delle Medaglie antiche»:
[...] e sia considerato, che per queste [medaglie], d’infinite cose si viene in cognizione, e si scorgono molti notabili errori di piu illustri scrittori, cosi antichi, come moderni, intorno a gli anni dell’Imperio de’ Cesari, intorno a’ gesti, intorno a’ prenomi, nomi, cognomi et agnomi, intorno all’ortografia, intorno alle imagini, intorno a’ numeri de’ Consolati, intorno a gli honori, e titoli d’essi Cesari, tutte queste cose affermando, et provando con l’autorità de’ marmi, e degli istessi historici con porre le istesse parole loro, dove in Greco, dove in Latino, e dove in Italiano, secondo che mi è parso meglio [...]28.
25Nel primo libro dei Discorsi, dedicato innanzitutto a questioni di ordine materiale e teorico (il valore monetario delle medaglie nell’antichità, la fattura, i metalli utilizzati, le parti che le compongono, l’abilità degli incisori e il valore estetico di esse, la loro rarità, i criteri per stabilirne il loro attuale prezzo, le falsificazioni e le frodi), Vico ancora ritorna sul valore informativo dei «riversi delle medaglie» e sull’uso di esse in quanto fonte per la storia. Nel capitolo XII, dal titolo Perché le sopradette cose da gli Antichi furono dimostrate in medaglie, il rapporto tra discorso storico, autorità testuale e evidenza acquisita dalle fonti materiali è così argomentata:
Queste cose da gli antichi, come in publici annali, furono fatte non senza ottimo giudicio in rame, in argento, et in oro, ma nel rame specialmente, perciochè questa materia è piu sicura, piu verace, e piu eternamente sostenta il nome, e la memoria delle cose passate, che la penna non fa: perche le medaglie sono figure de’ corpi, et Historia, che tace, e dimostra il vero; e le parole sono imagini, e pitture de gli animi, che parlano, e dicono quel che lor piace; la onde quelle per decreto publico, et volontà del Senato, et in que’ tempi furono fatte a honore, e gloria de’ Principi: e queste, dette, e scritte a voglia privata. Le medaglie, delle cose con verità narrate sono testimonio, delle falsamente scritte sono correttrici29.
26Il secondo libro dei Discorsi fornisce poi una serie di esemplificazioni di come queste riflessioni, queste convinzioni e le conoscenze acquisite attraverso l’approccio antiquario possano essere messe in atto per correggere informazioni e inesattezze relative alla storia romana, scritte dagli storici e tramandate nei secoli.
27Certo, i Discorsi hanno ben poco a che fare con la scienza: sono e rimangono un’opera essenzialmente consacrata alla numismatica, con riflessi importanti relativi alla storia e alle pratiche storiografiche. Tuttavia da essi emergono, mi pare, alcuni elementi di carattere metodologico che possono rivelarsi pregnanti anche nel campo di atteggiamenti e approcci relativi ai fatti scientifici. Si pensi, ad esempio, all’adozione cosciente di un lessico assai preciso e consistente relativo alle nozioni di prova, di testimonianza, di verità che si evince dai passi sopra riportati e nell’intero sviluppo argomentativo dei Discorsi. Questo lessico si coniuga qui ad un ethos dello studioso di antichità e dello storico umanista – preso tra passione del sapere, imperativo della veridicità e impegno nella trasmissione di fatti controllati e verificabili – che ha molto in comune, mi pare, con l’ethos che guida le pratiche culturali dei filosofi naturali in quel medesimo torno di tempo. Inoltre, da essi emerge – e mi pare forse l’elemento più significativo – un’indicazione precisa sul valore della testimonianza materiale e del dato empirico come mezzi per mette-re in discussione informazioni, fatti e conoscenze forniti dai testi delle autorità classiche e che eventualmente consente di contestare saperi e credenze cristallizzati in sistemi che, per decenni e per secoli, si presentavano come conchiusi, coerenti e inattaccabili. Questo valore assegnato al dato empirico e materiale che emerge dall’approccio antiquario proposto da Vico è comparabile, se non addirittura assimilabile, al valore assegnato, per esempio, ai fenomeni singolari, alle scoperte inaspettate in medicina e in filosofia naturale, ai noccioli d’esperienza («matter of facts» – come li chia-ma Francis Bacon) utilizzati per scardinare l’assetto del sistema aristotelico e scolastico d’interpretazione della natura e dei suoi fenomeni, per sottoporlo a revisione30.
28Alla Bibliothèque de Genève è conservata una copia dei Discorsi sopra le medaglie di Vico di particolare interesse per i nostri intenti. Un lettore particolarmente attento e interessato ha lasciato tracce del suo percorso di lettura nelle pagine del libro: glosse, segnalazioni di una parola tradotta in margine in latino, sottolineature e semplici trattini per indicare un passaggio significativo o una parola che ne ha risvegliato l’attenzione. Sfogliando le pagine e scorrendo i capitoli si nota una certa insistenza nell’indicazione di passi relativi agli animali menzionati nel testo di Vico, tanto perché rappresentati nelle medaglie, quanto perché utilizzati in una dotta citazione classica: compaiono, per esempio, il bue, il pavone, la lepre, il delfino, la civetta. Alla fine del testo il lettore si manifesta con una nota manoscritta: Istum finivi legeri [...] ego Ulisses Aldrovandus die 17 Augusti 156731.
29Questa copia del libro di Vico, dunque, era stato letta, segnata e annotata da Aldrovandi: le sottolineature, le glosse e ogni tratto di penna sul libro assumono quindi tutte un valore ben particolare nell’intento di capire qual è la logica che guida la lettura di un testo di numismatica da parte di un filosofo naturale. Non sorprende pertanto che tutti i passi in cui Vico menziona o descrive animali siano indicati da un tratto di penna o dalla traduzione latina del nome dell’animale trascritto in margine. Si consideri, ad esempio, il passo del testo di Vico accanto a cui Aldrovandi ha appuntato la parola pavones:
I Samii havevano nel loro danaio scolpito il Pavone, percioche essi adoravano Giunone, il perche tra l’altre cose notabili, che si trovano intorno al tempio, overo capella, dove era la imagine di questa Dea, vi erano i Pavoni consacrati a lei, de’ quali Ateneo nel libro quartodecimo, et cap. 25 della cena de’ Sapienti, proferendo le parole di Menodoto, cosi scrive: sunt Pavones sacri Iunonis, neque prius aut erant in Samo, aut nutriebantur; atque hinc in externa missi fuerunt [...]32.
30Se si confronta questo passo con il capitolo dedicato al pavone dell’Ornithologia di Aldrovandi, si può constatare, nella sezione Locus, come Aldrovandi si appropri e rielabori quanto contenuto nel passo letto nei Discorsi di Enea Vico, integrando l’informazione antiquaria nella descrizione propriamente naturalistica:
Quod etiam antiquissimis Samiorum numismatibus, in quibus Iuno cum Pavone, quasi primum ibi nato, et educato, ut Athenaeo Menedoti Samij authoritate nixo placet, depicta erat, refragari aperte videatu; attamen unius Alexandri Magni exemplo, quem conspectis primum apud Indos [...] his avibus, poenam nec is in eos, qui illos occidissent, constituisse ante diximus, necdum in Graecia, cum ipse imperabat, visos fuisse Pavones polam docemur [...]33.
31E poco più innanzi, nella sezione dedicata all’Usus in sacris icones, Aldrovandi attesta l’uso dell’immagine del pavone nelle medaglie e descrive le monete che la contengono34.
32Parrebbe in questo caso, di trovarsi dinanzi – come ha sostenuto Beppe Olmi – ad un uso «scientifico» delle informazioni antiquarie, caratterizzante i rapporti tra scienza e antiquaria fino ai primi decenni del xvii secolo; un uso essenzialmente dettato da una pratica della ricerca scientifica e della costruzione del discorso naturalistico fondati dal principio dell’accumulazione acritica dei dati e delle informazioni relativi ad un determinato aspetto della storia naturale, quasi un riversamento nella storia naturale di fatti e elementi raccolti in altri ambiti disciplinari che vengono ad arricchire, senza tuttavia alterare né correggere, gli assunti del discorso scientifico stesso. I Discorsi di Vico, al contrario, è un libro che propone una revisione critica degli assunti in ambito storico e antiquario e un metodo che mira a rimettere in discussione quanto attestato dalla tradizione e dall’autorità antica e moderna, alla luce dell’evidenza empirica e dell’approccio antiquario. Aldrovandi, lettore accorto di questo libro, non ha mancato di rilevare, penna alla mano, la proposta metodologica dell’incisore-antiquario, indugiando proprio su quei passaggi in cui l’autore puntualizza sul valore da assegnare alle testimonianze materiali in contrapposizione al discorso storico tramandato, sull’esigenza della ricerca di precisare, correggere e verificare, sull’etica dello studioso, sul tema della veridicità, della prova e dell’evidenza. Con tratto deciso Aldrovandi sottolinea la definizione dell’approccio antiquario, applicato alla numismatica: è»historia che tace, e dimostra il vero»35.
33Che Aldrovandi si interessasse di antiquaria non è una novità. È ben noto che il suo esordio come autore è costituito da un testo sulle statue antiche conservate nei palazzi e nei cortili romani, scritto nel 1550 e poi pubblicato da Giordano Ziletti, insieme ad un testo di Lucio Mauro sulle antichità romane: Le antichità de la città di Roma. Brevissimamente raccolte da chiunque ne ha scritto, o antico o moderno, per Lucio Mauro, che ha voluto particolarmente tutti questi luoghi vedere: onde ha corretti di molti errori, che ne gli altri scrittori di queste antichità si leggono. Et insieme ancho di tutte le statue antiche, che per tutta Roma in diversi luoghi, e case particolari si veggono, raccolte e descritte, per M. Ulisse Aldrovandi, opera non fatta piu mai da scrittore alcuno36. Il trattato di Mauro, dunque, come recita il titolo, è animato dal medesimo intento programmatico ravvisato nell’opera di Vico sulle medaglie di emendare quanto attestato dalla tradizione scritta a partire da un approccio empirico, proprio dell’antiquaria, che impone il confronto e la verifica sulla base dell’osservazione diretta e lo studio delle vestigia materiali del passato. Il testo di Aldrovandi sulle statue, editorialmente associato a quello di Mauro, se corregge anche alcune inesattezze tramandate dalla tradizione scritta precedente o ne verifica de visu l’eventuale veridicità, ha per intento principale quello di fornire un censimento il più possibile accurato e preciso del patrimonio statuario romano, nonché quello di localizzare e descrivere gli oggetti che lo costituiscono. Si tratta di una postura, di un approccio e di operazioni (censire, emendare, verificare, descrivere, localizzare) assolutamente assimilabili a quelle adottate e messe in atto, in quel medesimo torno di tempo, dal naturalista o dal medico di formazione umanistica che interroga fatti e oggetti della natura. Il rapporto che s’instaura tra tradizione scritta e dato empirico, tra parole e cose, così come la postura intellettuale e le pratiche culturali adottate sono del tutto simili, tanto che le res siano artificialia oppure naturalia. Non stupisce quindi che, con estrema naturalezza, Aldrovandi – filosofo naturale e umanista – sia passato dallo scrivere di statuaria romana allo scrivere di ornitologia, di entomologia, di ittiologia o di botanica; che la sua biblioteca sia ricchissima di libri di antiquaria a denotare il suo costante interesse per questo sapere nel corso degli anni37; che, addirittura, la sua copia di Delle statue romane antiche conservata alla Biblioteca universitaria di Bologna sia arricchita di osservazioni e note autografe di carattere naturalistico, a testimoniare l’intreccio nel proprio percorso intellettuale tra approccio antiquario e approccio scientifico38.
34Se i casi di Vico e Aldrovandi permettono di individuare alcuni aspetti dell’articolazione tra scienze e antiquaria e dell’ancoraggio romano di tale articolazione, le altre due figure che ho trascelto sono leggermente eccentriche – nel senso letterale del termine – e consentono di constatare la portata europea dell’irradiazione di un modus operandi umanistico fondato sul codice romano. Si tratta del francese Charles Estienne e del tedesco Georgius Fabricius. Il primo è noto soprattutto per il suo De dissectione partium corporis humani libri tres – un importante libro d’anatomia pubblicato a Parigi nel 1545 –; il secondo è ricordato soprattutto dalla storiografia consacrata allo studio dell’antiquaria romana per il suo Roma che Ioannes Oporinus – l’amico e editore di Vesalio – pubblica nel 1550 congiuntamente all’Itinerum liber unus – una sorta di taccuino di viaggi in versi39. Estienne e Fabricius hanno entrambi trascorso alcuni anni in Italia – tra la fine degli anni Trenta e i primissimi anni Quaranta; entrambi sono arrivati come precettori di giovani aristocratici d’oltralpe; nel corso del loro soggiorno italiano, entrambi hanno risieduto in Veneto e studiato innanzitutto a Padova, e hanno poi compiuto dei viaggi con soste di qualche mese a Roma. Non ho potuto trovare testimonianze che attestino un loro incontro o una relazione diretta tra i due, ma certamente a Padova hanno frequentato gli stessi ambienti e hanno incontrato le stesse persone che molto hanno contato nella formazione intellettuale di entrambi e nell’indirizzare le loro scelte culturali future: innanzitutto Paolo Manuzio e il filologo e magister ciceronianus Lazzaro Bonamico. Entrambi, infine, hanno adottato – contestualmente a questo passaggio – la filologia e il metodo antiquario come fondamenti del proprio lavoro intellettuale (in qualunque campo del sapere esso, poi, sarebbe stato applicato) e hanno contribuito a formulare quel codice di comunicazione, di comportamento e di riconoscimento ancorato nella matrice umanistica e che aveva Roma e la romanità come proprio nucleo d’identità culturale.
35Consideriamo i due casi separatamente, cominciando da Char-les Estienne40. Vorrei attirare l’attenzione su una serie di testi di agricoltura e di botanica la cui redazione ed edizione accompagnerà la vita di Charles per un trentennio. Si tratta delle seguenti opere41:
- De re hortensi libellus, uulgaria herbarum, florum, ac fruticum, qui in hortis conseri solent, nomina Latinis uocibus efferre decens ex probatis authoribus: in adolescentulorum gratiam, Lyon, héritiers de Simon Vincentius, 1536
- Seminarium et plantarium, Paris, Robert Estienne, 1536.
- Vinetum. Paris, R. Estienne, 1537.
- Sylua, Frutetum, Collis, Paris, R. Estienne, 1538.
- Arbustum. Fonticulus Spinetum, Paris, F. Estienne, 1538
- Pratum. Lacum. Arundinetum, Paris, S. de Colines et F. Estienne, 1543.
- De latinis et graecis nominibus arborum, fruticum, herbarum, piscium, et auium Liber [...] cum Gallica eorum nominum appellatione, Paris, R. Estienne, 1547.
- Praedium rusticum, Paris, R. Estienne, 1554.
- L’agriculture ou maison rustique de m. Charles Estienne, Paris, J. du Puy, 1564.
36I primi otto testi forniscono degli approcci settoriali a singole parti specifiche del paesaggio agricolo e delle specie botaniche che lo caratterizzavano. Attraverso un lavoro puntiglioso e ossessivo, guidato dalla lettura dei classici latini (in particolare Varrone, Columella, Plinio, ma anche Virgilio, Ovidio, Marziale, e naturalmente Cicerone), Estienne ricostituisce su basi filologicamente salde (è costante il richiamo a Budé) il lessico latino che consente di individuare nelle più minute sfumature e variazioni locali i nomi, le parti, ma anche gli usi e le pratiche specifiche dei diversi ambienti agricoli e delle specie botaniche descritti in ciascun trattato. Questo lavoro si estende naturalmente alle traduzioni volgari di molti termini: in francese e in italiano, e addirittura ad alcune forme dialettali – in particolare venete e romane.
37Charles, con regolarità ricostituisce la storia e l’etimo delle parole, compulsando le fonti greche e latine. Inoltre, fatto per noi importante, egli registra le occasioni e i luoghi – spesso con l’indicazione di testimoni presenti in tali occasioni – in cui, nei suoi viaggi, ha potuto verificare de visu et tactu le descrizioni fornite dai testi antichi per eventualmente correggerli o semplicemente incoraggiando il lettore all’«autopsia»: ad andare a verificare di persona. Scrive così, per esempio, nell’Arbustum a proposito del lauro, detto alessandrino:
Huiusmodi laurum fruticosam primum vidimus Patavij in hortis Gaspai à Gabrielis nobilis Patavini, et rei herbariae studiosissimi: erat autem folio myrti sylvestris, sed maiore: quanquam interdum minore postea conspecta sit à nobis et molliore ac candidiore, nec rigido: altero foliolo de primoribus foliis exeunte: rubro inter folia semine: radice myrto syvestri proxima, ac molli [...]42.
38Oltre alla ricostituzione di un lessico corretto, dotato di senso e dotato di storia (un esercizio questo comparabile a quello che Char-les Estienne mette in atto anche nella costituzione del Thesaurus Ciceroni – ancora oggi utilizzato dai latinisti43), oltre alla correzione degli errori ed al completamento delle informazioni fornite dai testi antichi (attraverso pratiche filologiche – di archeologia testuale, potremmo forse dire – e pratiche autoptiche), intento dichiarato di Charles è quello di stabilire rapporti chiari e immediati tra le parole di questo lessico antico (ma riattualizzato grazie all’esercizio filologico) e le cose della vita agreste, come si potevano presentare agli occhi curiosi di Charles e dei suoi lettori negli ambienti da essi frequentati.
39Ma il testo su cui vorrei attirare l’attenzione è L’agriculture ou maison rustique de m. Charles Estienne, pubblicato per la prima vol-ta a Parigi nel 1564, poche settimane dopo la morte di Charles. È questo un vero e proprio «best-seller» dell’editoria cinque-seicentesca: si contano 18 edizioni sino alla fine del xvi secolo e, ancora, più di una settantina sino ai primi anni del XVIII – con traduzioni in diverse lingue. Il libro esce quindi postumo, a cura del genero di Estienne, Jean Liébault, un medico che Allen Debus annovera a giusto titolo tra i paracelsisti francesi e che di edizioni in riedizione afferma, nei paratesti, la propria posizione autoriale con crescente protervia44. Il libro tratta – conformemente al titolo – di tutti gli aspetti che concernono la vita, il funzionamento, l’organizzazione di una villa: la «maison champeˆtre». Più precisamente come si dice nelle prime pagine del trattato, in un capitolo intitolato Le project de ce qui sera descrit cy apres:
Pour memoire, et comme par forme d’ordonnance de nostre Agricolture Françoise, nous vous proposerons un lieu campestre assis en tel endroit qui se pourra trouver, non pas choisir: & là dresseron, sans despens extraordinaires, une maison avec appartenances telles, ou à peu pres, pour nostre temps, que le bon Caton a figuré pour le sien, en son Agriculture Romaine: auquel endroit nous traitterons de l’estat et office du fermier, de sa femme, de ses gents, du bestail, des volailles, et autres telles choses45.
40Il libro si presenta quindi come una sorta di enciclopedia di agricoltura in volgare modellata sul modello latino – quello fornito da Catone, ma aggiornata, riadattata al proprio tempo. Diventa perciò un manuale di pratiche (un «how to-book») redatto a partire, da un lato, dalle informazioni, dalle distinzioni, dalle precisazioni e dalle correzioni che Charles aveva ricavato nello studio puntiglioso dei testi degli antichi contestualmente sottoposti a verifica autoptica e, dall’altro, dalla revisione lessicale e dagli accorpamenti verba/res che da ciò ne erano risultati.
41Ma La Maison Rustique va ben al di là di questo programma, sviluppandosi come un trattato di botanica, un prontuario di medicina domestica, un libro di segreti, un manuale di distillazione e di manipolazioni chimiche. Il tutto è governato dai medesimi principi generati dall’esercizio congiunto di archeologia testuale – messa in opera anche per i rimedi segreti e le ricette – e di verifica autoptica – in questo caso sperimentale – che abbiamo visto in atto nei testi pubblicati da Charles Estienne tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo.
42Questi libretti – ispirati al modello di una cultura umanistica sempre più attenta a temi e testi romani consacrati a saperi pratici e alla contaminazione erudita di verba e res46 – hanno fornito gli elementi di erudizione, di metodo, di lessico e di etica che costituiscono il codice propedeutico per la realizzazione di un’opera come la La Maison Rustique: un’opera «eterodossa», empirica e a sfondo paracelsiano, un’opera che resta tuttavia saldamente radicata nel solco della tradizione latina classica, anzi è da essa generata.
43Il percorso biografico di Georgius Fabricius è assai simile a quello di Estienne. Per le suggestioni suscitate dall’insegnamento del magister ciceronianus Lazaro Bonamico, filologo, filosofo ed esegeta finissimo della cultura latina, Fabricius intraprende con il suo giovane studente, Wolfgang Werter, un viaggio di iniziazione antiquaria in Italia, con una sosta di cinque mesi a Roma47. Pochi anni dopo, di ritorno a Meissen in Germania, pubblica, nel 1550, Roma: liber ad opt. autorum lectionem apprime utilis ac necessarius[...]. Il procedimento seguito da Fabricius è qui comparabile a quello di Estienne: un’accurata lettura e analisi delle fonti scritte – in particolare quelle classiche latine, ma non esclusivamente – associata alla verifica autoptica, de visu et in situ, delle informazioni e delle descrizioni fornite dagli auctores.
44Così scrive, nella dedica allo stesso Werter:
Quorum libros, cum nondum visa Urbe, admirarer, et bonos auctores legenti utiles et iucundos esse sentirem: tum in Urbem ipsam te-cum profectus vertere, magna (ut scis) diligentia conquisivi atque perlegi, ut eos communi studio, et labore mutuo cum rebus ipsis praesentes conferremus: quod cum totos quinque menses sine intermissione a no-bis ageretur, non pauca vel neglecta ab alijs, vel non satis animadversa, observatu tamen et scitu digna, annotavimus: ea autem in id tantummodo comparaveramus, ut nobis profectionis susceptae, et otij nostri ratio constaret48.
45Nell’Epistola nuncupatoria insiste, poi, sulla necessità di verificare e comparare quanto descritto dai testi con gli oggetti posti ante oculos e sull’imperativo di correggere gli errores varios certis testimoniis, al prezzo di apparire un arrogante49. Da queste pagine emerge l’etica e il carattere della figura ideale dell’umanista che Fabricius persegue, un ideale che sembra l’impronta di quella proposta nel De philologia di Budé e che si evince, per esempio, dalle pagine dei dialoghi di Sperone Speroni o di Pietro Bembo: egli deve coniugare philosophiae scientia, elegantia literarum et cognitione antiquitatis – dove la parola antiquitates si carica, nel libro dedicato alle antichità romane, di un valore forte assegnato alla materialità delle testimonianze del passato50.
46La curiosità di umanista di Fabricius si spinge ben oltre le testimonianze materiali della romanità abbracciando temi e oggetti propri della filosofia naturale, senza tuttavia tradire, anche in questo campo, l’approccio che aveva contraddistinto la sua attività di antiquario. In una raccolta di testi su pietre, fossili, metalli e gemme, curata nel 1565 dal medico di Dresda Johann Kentmann (una raccolta che contiene, tra le altre, un importante testo di Konrad Gesner su questi temi), è pubblicato un libretto dal titolo De metallicis ac nominibus observationes variae et eruditae, ex schedis Georgii Fabricii: quibus ea potissimum explicantur, quae Georgius Agricola praeteriit51. Il sodalizio fraterno tra Agricola e Fabricius è attestato da una serie di lettere (tra cui alcune a Wolfgang Werter, a Wolfgang Meurer, a Caspar Paucer) in cui Fabricius si fa promotore, per la tipografia di Froben, della raccolta di corrispondenza e di testimonianze per corredare e completare l’edizione postuma delle opere di Agricola (mor-to nei primi giorni del 1555). In una lettera del febbraio 1555 così scrive Fabricius:
Georgius Agricola mihi aliquantulum temporis eripuit, qui nunc emendat libros de subterraneis, ut cum Metallicis uno volumine exeant, qui saepius, quam antea, ad me de multis quaestionibus scripsit quas invicem tractavimus [...]52.
47Il diletto, l’interesse, il fascino suscitati dalle discettazioni «sotterranee» di Agricola sono state per Fabricius costanti. Scrive ad un amico nel 1547: Totus fui et adhuc sum in libris Agricolae, quorum lectio vix credis, quam mihi sit jucundam53.
48Il testo del 1565 è quindi la prova «edita» e il risultato di una costante frequentazione degli scritti di Agricola, del tipo d’esercizio svolto su di essi da Fabricius e del tipo di questiones che trattavano nei loro scambi epistolari. Come dal titolo si può desumere, il De metallicis è una raccolta di note erudite, di schede scritte da Fabricius nel corso della lettura del De re metallica, raccolta curata per quest’edizione da Iacob Fabricius, fratello di Georgius. Le schede sono un complemento di informazioni su una serie di undici metalli (oro, argento, argento vivo, rame, pirite, antimonio, etc.): informazioni di carattere filologico, lessicale e descrittivo desunte in gran parte dai classici, per lo più latini, con integrazioni – in perfetto stile antiquario – su fatti e elementi relativi alle conoscenze autoptiche di Fabricius su aspetti geologici e mineralogici concernenti aree geografiche che questi personalmente conosceva e aveva visitato. Inoltre, esse contengono ragguagli sugli usi tra i più disparati degli undici metalli, dal campo medico a quello ornamentale. Il tutto è accuratamente corredato di elementi fattuali e di testimonianze che consentono al lettore di constatare la veridicità di quanto affermato nel testo. Così Fabricius descrive l’intento del suo scritto, precisando il carattere del proprio contributo di filologo-antiquario alla conoscenza mineralogica:
Hae autem quae nunc a me summittuntur copiolae, ad philologos maxime pertinent, atque ut puto, cum ad intelligendum, cum ad inquirendum similia proderunt studiosis proprietatis, historiae, varietatis; tametsi nonnulla etiam afferuntur, quorum causa invenire atque exponere est peritiorum54.
49Qui, insomma, come nel testo su Roma, Fabricius segue un protocollo e una forma argomentativa sviluppati tra filologia, antiquaria e autopsia con l’intento di fornire elementi accertati (e dotati di storia) che possano costituire una base affidabile per uno sviluppo ulteriore delle conoscenze (storiche, ma anche scientifiche e pratiche).
50Immediatamente dopo l’epistola dedicatoria di Johann Kentmann a Konrad Gessner che apre la collezione di testi di mineralogia, il volume presenta un’immagine in cui è rappresentata una teca che racchiude l’insieme delle specie fossili di cui nel libro si scrive (fig. 1). In basso, si legge una quartina di Georgius Fabricius in lode di coloro che scoprono i tesori nascosti nel ventre della terra, in un’impresa di conoscenza che vuol essere, al tempo stesso, conoscenza di Dio:
Quicquid terra sinu, venisque recondidit imis,
Thesauros orbis haec brevis arca tegit.
Laus magna est tacitas naturae inquirere vires,
Maior in hoc ipsum munere nosse Deum55.
51L’idea della scoperta di tesori sotterranei – benché a volte fortuita, ma comunque frutto di lavoro e fatica indefessi – associata all’idea dell’arricchimento personale e collettivo conseguente ad essa, ricorre in alcuni passi del De metallicis. Sono citati e commentati, ad esempio, alcuni fortunosi ritrovamenti di glebae aureae durante l’aratura56. Fabricius aggiunge poi aneddoti riportatigli, egli precisa, da testimoni degni di fede, in cui si racconta di contadini che individuano una vena aurifera proprio rivoltando le zolle col vomere57. È interessante notare che ciò che Fabricius descrive, rispecchia quanto è rappresentato in un’incisione coeva (fig. 2), realizzata proprio da Enea Vico, in cui si illustra l’eventus. Anche sul piano delle scelte lessicali, la scoperta di vestigia antiche è comparabile alla scoperta delle vene aurifere descritte da Fabricius. Si legge in basso all’incisione: Thesauro invento casu fit dives arator. La sorte comune di scienze e antiquaria di questo periodo sembra emblematicamente radicarsi in quest’immagine della scoperta nel ventre della terra: dalla scoperta dei tesori antichi, a quella delle risorse minerarie, si-no a quella dei segreti dell’agricoltura rivelati nella Maison Rustique. Con l’evento straordinario della scoperta – che si tratti di naturalia o di artificialia, di metalli, di piante, o di vestigia romane – inizia tra filologia e autopsia il lavoro paziente di verifica, di confronto, di critica e di correzione del sapere tradizionale, un lavoro che materialmente e metaforicamente si svolge, per l’umanista europeo della me-tà del Cinquecento, innanzitutto nel solco di Roma.
Notes de bas de page
1 Science in context, 3, 1989. Si veda anche il saggio recente di W. Birken, Merton Revised: English Indipendency and Medical conservatism in the Seventeenth Century, in E. Lane Furdell (a cura di), Textual Healing. Essays on Medieval and Early Modern Medicine, Leiden – Boston, 2005, p. 259-283.
2 Cfr. il saggio di L. Giard, in questo volume, supra, p. 45-62.
3 Mi riferisco, naturalmente, all’opera Einaudi a cura di S. Settis, Memoria dell’antico nell’Arte Italiana, Torino 1984-86, 3 voll.
4 J. du Bellay, Le premier livre des antiquitez de Rome [...], Parigi, F. Morel, 1558. Ho utilizzato l’edizione preparata da François Roudaut, Parigi, 2002. Il sonetto citato è il III, p. 162 di quest’edizione.
5 R. Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, Oxford 1969 (trad. it. Padova 1989). Si veda in particolare il cap. V, Le rovine di Roma e gli Umanisti.
6 Un’eccezione significativa è costituita dal saggio di N. Siraisi, History, Antiquarianism, and Medicine: The Case of Girolamo Mercuriale, in Journal of the History of Ideas, 63, 2003, p. 231-251 e dai saggi contenuti in Ead., History, Medicine, and the Tradition of Renaissance Learning, Ann Arbor, 2007. Indicazioni importanti che vanno nel senso di questa ricerca si trovano anche in L. Daston e K. Park, Wonders and the Order of Nature, 1150-1750, New York, 1998 e in P. Findlen, Possessing Nature. Museums, Collecting, and Scientific Culture in Early Modern Italy, Berkeley, 1994.
7 A. Momigliano, Ancient History and the Antiquarian, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 13, 1950, p. 285-315. Il saggio è apparso anche in A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1955. Utilizzo qui la traduzione italiana Id., Storia antica e antiquaria in A. Momigliano, Sui fonda-menti della storia antica, Torino, 1984, p. 3-45. Si veda anche il saggio pubblicato postumo a partire da una delle Sather Classical Lectures che Momigliano aveva pronunciato nel 1961 e nel 1962 alla University of California at Berkeley, The Rise of Antiquarian Research, in A. Momigliano, The Classical Foundation of Modern Historiography, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1990.
8 Scrive Momigliano in conclusione del suo saggio, Storia... cit., p. 42.: «La preferenza per i documenti originali, la sagacia nella scoperta delle falsificazioni, l’abilità nel raccogliere e classificare le fonti e, soprattutto, l’amore sconfinato per la cultura sono i contributi dell’antiquario all’etica dello storico».
9 Momigliano cita il lemma antiquarius nel Vocabolario della Crusca in cui si segnalano, accanto ad alcune ricorrenze quattrocentesche: una lettera di Annibal Caro in Lettere familiari, Milano, 1807, III, p. 190: «e poichè io mi avveggo al vostro scrivere che siete piuttosto istorico che antiquario»; S. Speroni, Dialogo della Istoria, in Opere, Venezia, 1740, II, p. 300: «Antiquari [...] cioé amatori e ammiratori di cose antiche».
10 A. Momigliano, Storia... cit., p. 23-24.
11 R. Klein, Les humanistes et la science, dans Id., La forme et l’intelligible, Paris 1970, p. 327-338.
12 G. Olmi, Ulisse Aldrovandi. Scienza e Natura nel Rinascimento, Trento, 1976.
13 G. Olmi, Ordine e fama: il museo naturalistico in Italia nei secoli xvi e xvii, in Id., L’inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna, 1992. La sezione dedicata a storia naturale e antiquaria è alle p. 300-313.
14 G. Olmi, Ordine... cit., p. 304.
15 G. Olmi, Ordine... cit., p. 306-309.
16 G. Budé, De philologia libri II [...], [Parigi], Iodocus Badius, 1532. Si veda a questo proposito l’introduzione di Marie-Madeleine de la Garanderie all’edizione Paris, 2001, in particolare le p. XXII-XXVIII.
17 Sui rapporti tra umanesimo e scienze, oltre a R. Klein, Les humanistes... cit., si vedano Eric Cochrane, Science and Humanism in the Italian Renaissance, in American Historical Review, 81, 1976, p. 1039-1057; Pamela O. Long, Humanism and Science, in A. Rabill jr. (a cura di), Renaissance Humanism. Foundations, Forms, and Legacy. III. Humanism and the Disciplines, Philadelphia, 1988, p. 487-512.
18 Juan de Valverde, Historia de la composición del cuerpo humano, Roma, Antoine Lafrery e Antonio Salamanca, 1556, III, fig. 6. A questo proposito mi permetto di rinviare a A. Carlino, Tre piste per l’Anatomia di Juan de Valverde: logiche d’edizione, solidarietà nazionali e cultura artistica a Roma nel Rinascimento, in MEFRIM, 114, 2002, p. 513-541.
19 C. Estienne, De dissectione corporis humani libri tres, Parigi, Simone de Colines, 1545. Si veda B. Talvacchia, Taking Position: on the Erotic in Renaissance Culture, Princeton, 1999.
20 A. Vesalio, De humani corporis fabrica libri septem, Bâle, Johannes Oporinus, 1543. Sull’uso delle statue antiche in Vesalio si veda l’articolo di G. Harcourt, Andreas Vesalius and the Anatomy of Antique Sculpture, in Representations, 17, 1987, p. 28-61.
21 G. Fabricius, De re poetica libri IV. Item latinorum poetarum inter se comparationes ex Iulii Caesaris Scaligeri Critico desumptae, Antuerpiae, Christophorus Plantinus, 1565 (ho consultato l’edizione Lyon, Apud, Joannem Gasonem, 1583).
22 K. Gesner, De rerum fossilium, lapidum et gemmarum maxime, figuris et similitudinibus libri: non solum medicis, sed omnium rerum naturae ac philologiae studiosis, utilis et jucundus futurus, Zurigo, I. Gesnerum, 1565.
23 S. Erizzo, Discorso di M. Sebastiano Erizzo sopra le medaglie degli Antichi. Con la dichiaratione delle Monete Consolari, et delle medaglie degli Imperadori romani. Nella quale si contiene una piena et varia cognizione dell’Istoria di quei tempi, Venezia, Valgrisi, 1559.
24 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, ed. G. Milanesi, Firenze, 1880, V, p. 427-429.
25 Su Enea Vico si veda G. Bordon, Enea Vico. Fra memoria e miraggio della classicità, Roma, 1997. Così lo definisce Angelo da Erba in un manoscritto conservato nella Biblioteca di Parma: «Li Archivij de le Memorie di successi de le più illustri famiglie de la Mag.ca Città di Parma» (cit. in Bordon, Enea Vico... cit., p. 13).
26 Enea Vico e Antonio Zantani, Le imagini con tutti i riversi trovati et vite de gli Imperatori tratte dalle medaglie et dalle historie de gli antichi libro primo, Venetiis, s.e., 1548 (a questa hanno fatto seguito una serie di edizioni accresciute in latino. Segnalo soltanto: Venetiis, [ed. Aldina], 1553; s.l. [Venezia, Paolo Manuzio], 1554); Enea Vico, Le imagini delle donne Auguste intagliate in istampa di rame: con le vite et ispositioni di Enea Vico sopra i riversi delle loro medaglie antiche, Vinegia, [Enea Vico e Vincenzo Valgrisio], 1557 (anche questo successivamente tradotto in Latino e pubblicato a Venetiis, [ed. Aldina], 1558).
27 «Il Senato e Popolo Romano, si come è stato il maggiore, et piu bellicoso, et ha avuto il piu grande Imperio et il piu forte di tutte l’altre nationi del mondo; cosi ha dato a diversi scrittori ampia materia, e largo campo di narrare meravigliosi fatti, i quali alle orecchie nostre sono si grandi pervenuti, che per avventura molti dubitare ne potrebbono, se i fragmenti dell’antica Città, le mirabili rovine, gli archi, le iscrittioni, le medaglie, le statue, i camei, e le intagliate gemme, non ne rendessero apertissima testimonianza» (Enea Vico, Discorsi di m. Enea Vico Parmigiano, sopra le medaglie de gli antichi divisi in due libri, ove si dimostrano notabili errori di scrittori Antichi, e Moderni, intorno alle Historie Romane. Venezia, Giolito, 1558 [prima edizione, 1555], p. 11.)
28 Ibidem, p. 11.
29 Ibidem, p. 49.
30 Rinvio a questo proposito a L. Daston, Marvelous Facts and Miraculous Evidence in Early Modern Europe, in J. Chandler, A. I. Davidson, H. Harootunian (a cura di), Questions of Evidence: Proof, Practice, and Persuasion Across the Disciplines, Chicago-London, 1994, p. 243-281; G. Pomata, Observatio ovvero Historia. Note su empirismo e storia in età moderna, in Quaderni Storici, 31, 1996, p. 174-198 e al capitolo 6 del libro di K. Park, L. Daston, Marvels..., cit.
31 L’annotazione di Ulisse Aldrovandi è alla p. 112 dell’esemplare dei Discorsi della Bibliothèque de Genève.
32 E. Vico, Discorsi... cit., p. 43.
33 Dell’Ornithologia di Aldrovandi, la cui prima edizione in due volumi è: Bononiae, Franciscum de Franciscis, 1599-1603 (ho consultato, Ornithologiae to-mus alter [...], Bononiae, Nicolo Tebaldini, 1637. La citazione è a p. 11).
34 Ibidem, p. 23-24. Una simile attenzione alla rappresentazione iconografica degli animali e alla descrizione numismatica delle medaglie e monete che le contengono si trova, per fornire ancora un esempio, anche nel caso della civetta (Noctua) (p. 557-558). Nell’esemplare dei Discorsi annotato da Aldrovandi, le descrizioni della civetta sono anche segnalati (p. 45) e le informazioni integrate nel testo dell’Ornithologia.
35 E. Vico, Discorsi... cit., p. 49. Su questo punto si veda J. Cunnally, Images of the Illustrious. The Numismatic Presence in the Renaissance, Princeton, 1999, in part. cap. 12, Figure de’ Corpi, e Historia che tace: Empiricism and Rationalism in Renaissance Numismatics, p. 134-145.
36 Venetia, Giordano Ziletti, 1556. Giordano Ziletti, nella dedica a Giulio Martinengo, lascia intendere di aver lui stesso commissionato il libro: «E a tal fine io mi posi quest’anni a dietro a mettere in opera molti rari ingegni, valendomi ancora della gran cortesia e benignità di molti gran signori in Roma, per met-ter insieme un trattato delle antichità di quella città, che già ebbe imperio di tutto il mondo, materia tanto più desiderata, quanto qui rivoltata fin qui da molti. Nel che quanto questo mio trattato avanzi di lucidezza et di verità in compendio tutti gli altri, sarà poi giudicio di V. S. Ill. et di tutti gli altri quelli che se n’intendono. Et hovvi oltre à ciò aggiunto un altro trattato, di tutte le statue che sono in Roma. La qual’opera percerto à me è stata di tanta fatica, per tacer la spesa, che appena mi par di credere che sia vero ch’io l’habbia a fine».
37 Basti consultare il Ms. 147 della Biblioteca Universitaria di Bologna che contiene il catalogo della biblioteca di Aldrovandi, redatto probabilmente prima della morte di quest’ultimo, per constare la presenza cospicua di testi relativi all’antiquaria. Sono infatti presenti tutti i testi dei principali protagonisti dell’antiquaria cinquecentesca: Andrea Fulvio, Paolo Manuzio, Lazare de Baïf, Michele Mercati Carlo Sigonio, Onofrio Panvinio, Sebastiano Erizzo.
38 L’esemplare è segnato: A.IV.Q.11.30. Di queste note autografe ne scrive brevemente G. Olmi, Ulisse Aldrovandi... cit., p. 60. Nel primo capitolo di questo libro Olmi affronta, sia pure brevemente, qualche riflessione sul rapporto tra «ricerca archeologica» e storia naturale nell’attività di Aldrovandi.
39 C. Estienne, De Dissectione partium corporis humani, Paris, Simon de Colines, 1545. G. Fabricius, Roma Antiquitatum libri duo [...]. Itinerum lib. I. Auctiora omnia cum rerum et verborum [...] Indicibus, Basileae, I. Oporinum, 1550.
40 Lascio qui da parte il De dissectione e i rapporti tra questo testo e il De vasculis di Lazare de Baïf, un dotto trattato sui vasi antichi che Baïf, orator francese a Venezia, prepara nel corso del suo soggiorno in Italia e che – in seguito – Charles riduce ad epitome e pubblica nel 1541 in adolecentulorum gratiam atque utilitatem. C. Estienne, De Vasculis libellus, adulescentulorum causa ex Bayfio decerptus, audita uulgari latinarum uocum interpretatione, Parigi, Robert Estienne, 1547 (1a ed.: Lyon, 1537). Sui rapporti con il De dissectione rinvio a A. Carlino et H. Cazes, Plaisir de l’anatomie, plaisir du livre: La Dissection des Parties du Corps Humain de Charles Estienne (Paris 1546), in Cahiers de l’Association Internationale d’Etudes Françaises, 55, 2003, p. 251-274.
41 Fornisco qui le indicazioni bibliografiche della prima edizione dei singoli testi. Ciascun testo è stato più volte ristampato negli anni e nei decenni a venire, tanto in latino quanto in traduzioni volgari.
42 C. Estienne, Arbustum. Fonticulus. Spinetum, Parigi, R. Estienne, 1538, p. 20.
43 Id., Thesaurus M. T. Ciceroni, Parigi, Carolus Stephanus, 1556.
44 A. Debus, The French Paracelsians: the Chemical Challange to Medical and Scientific Tradition in Early Modern France, Cambridge, 1991. Su Liébault e Charles Estienne si veda anche C. Liaroutzos, Le pays et la mémoire: pratiques et representation de l’espace français chez Gilles Corrozet et Charles Estienne, Parigi, 1998.
45 C. Estienne, L’agriculture ou maison rustique de m. Charles Estienne, Parigi, J. du Puy, 1564. Utilizzo qui l’edizione del 1572, pubblicata dal medesimo editore, disponibile su Gallica. La citazione è al f. 1v.
46 La serie dei primi otto trattati era ispirata tutta al modello filologico, etico e comportamentale incarnato da alcuni autori umanisti che Charles aveva incontrato e frequentato negli anni della sua formazione e del suo passaggio in Italia – in particolare Ermolao e Daniele Barbaro, Pier Vettori, e gli ambienti umanistici veneti e fiorentini. In questi ambienti, la filologia si era allargata anche alla critica e all’esegesi dei classici che affrontavano tematiche di natura pratica.
47 Melchior Adam, Vitae gernamorum philosophorum, qui seculo superiori, et quod excurrit, philosophicis ac humanioribus literis clari floruerunt, Frankfurt am Main, Jonas Rosa, ex typis Johannis Lancelotti, 1615, p. 254. Vedi anche il ricordo elogiativo di Bonamico nell’Epistola nuncupatoria di Roma, p. 10.
48 G. Fabricius, Roma... cit., p. 6.
49 Ignoscent autem ij, quos patriae nomen offendit, hospiti mihi atque extero, si quid minus in rebus vetustate plane obrutis vidi: aut si in ijs etiam, quae ante oculos sunt, parum Lynceus fui. Hoc enim, quamvis arrogantiusculum sit, quia ta-men verum est, dicam, me posse aliorum, qui de Urbe scripserunt, errores varios certis testimonijs convincere (G. Fabricius, Roma... cit., p. 8).
50 Ibidem, p. 9.
51 La raccolta di testi curata da Kentmann reca il titolo De omni rerum fossilium genere, gemmis, lapidibus, metallis, et huiusmodi, libri aliquot, plerique nunc primum editi [...], [Tiguri], [s.e.], [1565].
52 Brani di questa lettera sono pubblicati in Jo. David Schreber, Vita clarissimi viri Georgii Fabricii Chemnicensis et monumentis ipsius leterariis epistolisque manuscriptis, nec non aliorum, qui ejusdem cum Fabricio aetatis fuerunt doctorum virorum libris eruta et commentatione peculiari descripta, Lipsiae, Johann Friedrich Gleditsch, 1717, p. 239-40.
53 Ibidem, p. 240.
54 G. Fabricius, De metallicis ac nominibus observationes variae et eruditae, ex schedis Georgii Fabricii: quibus ea potissimum explicantur, quae Georgius Agricola praeteriit, Tiguri, [se], 1565, ff. a2v.-a3r.
55 De omni rerum fossilium... cit., f. a5v.
56 In Hycarnia glebas maximas auro micantes reperiri ait Marcellinus, lib. 23, et in Galicia frequenter glebas aureas aratro excindi testatur Iustinus, lib. 44, quinetiam aurum terra fulgere proscissa detegi, scribit idem (G. Fabricius, De metallicis... cit., f. 1r).
57 Ibidem, ff. 1r-2v.
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