Una chiesa, due chiese, nessuna chiesa. Riforma italiana ed eretici italiani
p. 595-634
Texte intégral
1«Ni Rome ni Genève»1: questo titolo di un libro sulla Francia del ’500 potrebbe essere usato anche per l’Italia e forse a maggior ragione. Nella storia di quel fenomeno non marginale che fu il dissenso dottrinale italiano nell’età della Riforma la mancata obbedienza a Roma si accompagnò spesso al rifiuto di obbedienza ad altre chiese o a difficoltà di accettarle e di farvisi accettare. Bernardino Ochino, Lelio Sozzini, Celio Secondo Curione, Camillo Renato, Francesco Pucci e tanti altri compongono una galleria degna di figurare sotto una impresa di questo tipo. Il rogo di Giordano Bruno «d’ogni legge nemico e d’ogni fede» chiuse anche simbolicamente il secolo sotto il segno di una ribellione estrema, che non aveva risparmiato nessuna chiesa tra quelle nate dalla Riforma. Se poi si considera complessivamente il quadro delle intersezioni e delle analogie tra le storie religiose dei due paesi, il panorama delle scelte tra una chiesa e più chiese appare subito molto simile e attraversato spesso dagli stessi protagonisti. Una doveva essere la Chiesa cristiana: questo era il signum fondamentale della sua verità. Perciò si cercò a lungo di affermare quella unità al prezzo della cancellazione delle chiese giudicate eretiche, insultate come «sinagoghe di Satana» o burocraticamente indicate con termini che implicavano una presa di distanza: tale fu in Francia quella di «religion prétendue réformée» per gli ugonotti. Di quell’unica chiesa si poteva attendere il rinnovamento come un dato del processo naturale di generazione e corruzione descritto da Aristotele: così l’attendevano quei fiorentini eredi delle idee di Savonarola che progettando di recarsi in Germania attirati dalla fama di Lutero immaginavano la riforma della Chiesa come il processo con cui le serpi in estate si spogliano della «veste antica»2. Approfondendosi il contrasto, apparve inevitabile la divisione tra chi identificava la vera chiesa con quella di Roma e chi seguiva i diversi progetti di riforma e dava vita a ecclesiae animate da diverse e dissenzienti convinzioni e caratterizzate da riti e pratiche speciali: tale fu, ad esempio, il riunirsi per celebrare la Santa Cena come rito di memoria o per consumare deliberatamente carne nei dì vietati da norme giudicate esteriori, degne del ritualismo criticato nella religione ebraica e non della libertà del cristiano. Di queste chiese si trova traccia molto presto in terra francese come in terra italiana: a loro si diressero le lettere delle guide spirituali della Riforma e per loro si tradussero i testi essenziali della riforma intesa come ritorno alla purezza, deformata e macchiata dal papato. E fu soprattutto attraverso la viva voce di predicatori evangelici, giunti da lontano a rischio della vita, che si diffusero fermenti di novità e scelte di dissenso dall’impianto tradizionale. Le lettere di Bucer ai fratelli italiani, la presenza di Calvino nella corte ferrarese di Renata, i viaggi di un popolo di frati, di studenti universitari, di «barba» valdesi, fanno emergere una cartografia della diffusione del dissenso che ridisegna l’intera Europa e ne definisce i confini interni in modo nuovo. Solo alla fine di questo processo si ebbe la stabilizzazione di un assetto fondato su più chiese, ciascuna con un suo territorio e un suo popolo di fedeli. Nel ridotto alpino tra Francia e Italia come entità geografiche trovò rifugio la Chiesa valdese, piccola e perseguitata minoranza sopravvissuta al confine dopo che le milizie spagnole e la persecuzione inquisitoriale ne avevano distrutto gli insediamenti in Calabria e in Puglia. A quella presenza si dovette la coltivazione di un patrimonio di memorie che ha dato all’Italia unita il contributo di una storiografia parallela rispetto a quella della francese «société» per la storia del protestantesimo. Chi vuole avere oggi una informazione puntuale sulla storia dei seguaci dell’«altra» Chiesa nell’Italia cattolica ha a disposizione studi di storici valdesi, da Giorgio Spini a Salvatore Caponetto3 e il benemerito «Bollettino» della Società di studi Valdesi, le cui prime annate uscirono in francese a sottolineare il gemellaggio col periodico di storia del protestantesimo francese. La rete di queste minoranze ha dunque resistito nel tempo e ha contribuito a erodere l’intolleranza dell’unica Chiesa dominante, così come hanno fatto i seguaci della Chiesa di Roma laddove sono stati una minoranza (per esempio in Inghilterra). E se sui versanti dell’unica chiesa e della pluralità delle chiese si potrebbero inseguire contatti e analogie, altrettanto potremmo fare su quello della fuoruscita da ogni e qualunque comunione ecclesiastica.
2Ma, nel confronto tra le tendenze riformatrici italiane e quelle francesi, le differenze appaiono a prima vista più forti delle analogie. La più evidente è la mancanza di un’Italia confrontabile con la realtà storica della Francia del ’500. Chi metteremo al posto di Francesco I o di Enrico IV? Il candidato politicamente più forte e rappresentativo, poichè dominava le due aree più importanti della penisola italiana, era Carlo V e, dopo di lui, suo figlio Filippo II. Ma anche la Francia esercitò a lungo una forte autorità sulle cose italiane: quando nel 1601 il trattato di Lione siglò la rinunzia della Francia al marchesato di Saluzzo il residente fiorentino a corte Baccio Giovannini si fece portavoce dello sconcerto degli italiani per l’abbandono di quella che era la porta francese d’Italia4. Tutto questo rientra nel ben noto panorama politico della divisione degli italiani tra i due partiti di Francia e di Spagna. Certo, il panorama del secolo è dominato dalle guerre di religione con quello che il fenomeno comportò di messa tra parentesi del sentimento di appartenenza politica. Le guerre di religione in Francia furono un conflitto internazionale che vide la partecipazione di volontari e di milizie anche italiane. Ma furono anche l’occasione della nascita e dell’affermazione della tendenza dei «politici» e della riflessione politico-religiosa che accompagnò l’opera dei «moyenneurs»: François Bauduin dedicava al te-ma della concordia politica e religiosa il suo scritto sull’imperatore Costantino mentre intratteneva contatti con Melantone per conto del re di Navarra5. Intorno a figure come Michel de l’Hospital si incontrano uomini che leggono i testi degli umanisti, di Erasmo da Rotterdam e di Machiavelli e che sperano nella pace religiosa per la ripresa politica della monarchia nazionale: la tolleranza professata e consigliata da Lazarus von Schwendi, buon lettore di Machiavelli, mirava a consolidare la forza dello stato6. Invece in Italia non c’era posto per la riflessione politica di Machiavelli, che veniva messa in circolazione dall’editore esule Pietro Perna a Basilea; e questo perché il potere sovrano in Italia era un potere ecclesiastico: «Doppiamente sete voi capo, capo di Italia e capo di christianità», scriveva Girolamo Muzio rivolgendosi al papa7. E se il capo d’Italia era un Pontefice romano impegnato nel duplice compito di consolidare il potere politico nella penisola e di riguadagnare autorità spirituale sulle coscienze della cristianità occidentale al prezzo della moralizzazione del clero e della sorveglianza di inquisitori e confessori, non si poteva certo lasciare libero corso al pensiero politico di Machiavelli. Così fu in direzione delle cose di Francia che negli ambienti italiani favorevoli alla riforma della Chiesa si accesero nuove speranze, mentre l’Inquisizione romana vigilava sempre più sospettosa su ogni forma di propaganda religiosa e metteva sotto processo un calderaro di Piazza Navona perché vendeva ritratti di Enrico di Navarra8. In Francia, pur nel contesto di un conflitto di fede che passa-va all’interno di nazioni e di famiglie, il vincolo di appartenenza nazionale finì col mettere tra parentesi la lacerazione religiosa e politica del conflitto tra la Lega cattolica e gli ugonotti e ridette forza alla tradizione gallicana9. Nello scontro tra coscienza nazionale e sentimento religioso vi si svilupparono principi di tolleranza. In Italia invece la saldatura tra i due fattori fornì la giustificazione dell’intolleranza e della lotta accanita contro le infezioni ereticali.
3Al di là delle differenze non mancano tuttavia analogie con la realtà italiana: al posto del re abbiamo il papa di Roma, al posto del gallicanesimo la robusta tradizione di un cattolicesimo come pratica di sacramenti, obbedienza al corpo ecclesiastico, attaccamento alle istituzioni delle chiese locali. Sul piano politico e militare la potenza che si prefisse allora di rappresentare l’Italia e di difenderne la «libertà» chiamando in aiuto ripetutamente l’alleanza francese ma spostandosi all’occorrenza dalla parte asburgica fu il papato romano. Questo ci ricorda subito le ragioni politiche che resero vincente nella penisola la religione di cui Roma era a capo. Intorno al papato si raccolsero le molte e frammentate realtà politiche minori della penisola: città e signorie, dinastie dall’incerta legittimità, territori assegnati a figli di pontefici (dal ducato di Firenze per Alessandro de’ Medici figlio di Clemente VII a quello di Parma e Piacenza per il figlio di Paolo III Pierluigi Farnese) avevano bisogno di quella alleanza. L’unica grande realtà politica della penisola dotata di una sua autonoma e robusta tradizione, la repubblica di Venezia, era stata costretta da Giulio II con la forza delle armi a rinunziare a progetti di egemonia sull’Italia per difendere la propria esistenza, ma poté comunque garantire a lungo una relativa tolleranza per le tendenze eterodosse: bastò poi la minaccia di movimenti sociali alimentati da tendenze religiose radicali a far aprire le porte della Serenissima al tribunale ecclesiastico dell’Inquisizione e a collaborare alla repressione del dissenso dottrinale consentendo anche l’estradizione dei ricercati. Né si trattò solo di dinastie e di poteri politici: se scendiamo al livello della società, le ragioni di consenso che militarono in Francia a favore di un sovrano da cui – grazie al concordato del 1516 – dipendeva la scelta dei vescovi e l’assegnazione di benefici e di uffici sostennero vigorosamente in Italia un movimento di consenso verso Roma. Infine, last but not least, c’era la religione come tradizione, sentimento, pratica di vita, legame collettivo. È banale ricordare che convenienze politiche e interessi di classe o privilegi di ceto non bastano a comprendere la vittoria della Roma papale come guida e punto di riferimento per la società italiana. La pianta cattolica e romana aveva messo radici profonde nei popoli della penisola e si dimostrò capace all’occorrenza di una straordinaria creatività e vitalità. Le donne dei monasteri e delle congregazioni femminili, i creatori e gli animatori di nuovi ordini religiosi, gli stessi uomini di governo che sostituirono nelle diocesi e nelle istituzioni centrali un clero di vecchio stampo, ebbero in comune un sentimento antico e nuovo che li legò all’obbedienza al papato romano: era il potente sentimento della carità da piantare nei cuori per renderlo efficace nel soccorrere il prossimo, come recitavano le costituzioni dell’Oratorio del Divino Amore.
4Si dovrà dunque chiudere qui il discorso riserbando solo una distratta curiosità ai pochi circoli del dissenso, a una minoranza di eretici in rotta con tutte le chiese, di esuli religionis causa da considerare come un epifenomeno, un ramo abbandonato del grande fiume della storia che intanto procedeva verso l’appuntamento con la modernità? la questione è antica ed è stata dibattuta dagli storici fin dal tentativo di scrivere una storia imparziale («unpartaeische») fat-to da Gottfried Arnold. Ripresa nel ’900 da Ernst Troeltsch come storia delle sette, fu affrontata da Delio Cantimori nella sua opera maggiore (Eretici italiani del Cinquecento) come storia del processo moderno di scioglimento del nucleo teologico e metafisico della religione nella morale. La sua proposta suscitò fin da subito polemiche e reazioni negative: Benedetto Croce, l’intellettuale che secondo un celebre giudizio di Georges Sorel fatto proprio da Antonio Gramsci insegnava a vivere «senza religione» ma che mantenne sempre un atteggiamento cautamente conservatore nei confronti della Chie-sa, dette voce alla tradizione liberale filoprotestante ribadendo che il fondamento della moderna civiltà europea risiedeva nella versione calviniana della Riforma. Con violenza di uomo di chiesa il valdese Giorgio Spini distinse nei suoi studi i perseguitati e i martiri della Riforma protestante dalla tradizione ereticale in rotta con le chiese: e in questa vide solo una manifestazione faustiana dello «spirito che nega», prodottasi non casualmente nell’Italia cattolica «malgrado roghi e Controriforma» vera patria di elezione di «tutti i santi padri della miscredenza europea, dal Machiavelli al Pomponazzi, dal Vanini al Cremonini»10. In tempi recentissimi e da una prospettiva cattolica, Paolo Prodi ha invece riconosciuto a quegli eretici il ruolo di «parte essenziale di una componente profetica che non trova spazio e respiro nelle Chiese confessionali dell’età moderna»11. Un segno indiretto dell’importanza del tema lo si trova nella rinnovata attenzione alla fortuna dell’opera di Erasmo come ispiratore del dissenso religioso cinquecentesco e maestro del dubbio: così avventurandosi in queste parti uno storico dell’età contemporanea ha fatto risalire al De libero arbitrio di Erasmo l’avvio dell’idea di diritti di libertà come nucleo originario della crisi attuale dell’Europa cristiana12. Sul terre-no proprio della ricerca storica e seguendo non l’astratta genealogia delle idee ma la concreta storia dei contatti tra uomini e dei percorsi effettivi di libri e letture, Carlos Gilly ha individuato la consistenza del filo erasmiano come legame riconoscibile della tradizione radicale e ha posto su basi solide il rapporto tra il metodo filologico erasmiano di interpretazione della Scrittura e la negazione del dogma trinitario da parte degli eretici radicali spagnoli e italiani13. E nella ricostruzione di un disegno generale a maglie fitte della formazione della cultura illuministica, il posto occupato dalle tendenze e dalle elaborazioni intellettuali degli eretici radicali del ’500-’600 si è rivelato determinante per l’avvio di un «general process of rationalization and secularization» di ampiezza europea14. Tanto basti per concludere che la questione conserva una sua innegabile importanza. Ma per comprendere il carattere peculiare assunto negli studi dalla storia dell’eresia radicale e del dissenso religioso nell’Italia del ’500 sarà bene ripercorrere sinteticamente lo sviluppo storico delle discussioni e delle ricerche sul ’500 religioso italiano.
5In un paese tradizionalmente cattolico come l’Italia l’indagine sulle idee e sui movimenti di riforma nati in disaccordo e in polemica con la Chiesa di Roma ha assunto spesso il carattere speciale della ricerca di una alternativa storica che non si è realizzata. E questo ha suscitato la reazione critica sia della storiografia liberale di Benedetto Croce, fedele alla contrapposizione tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Calvino come alternativa tra la Controriforma e il mondo moderno, sia della storiografia cattolica nelle sue varie componenti portata a proiettare nel lungo passato l’ortodossa fedeltà del popolo italiano all’unica Chiesa cattolica. All’indefettibile cattolicesimo della popolazione italiana tutta e specialmente della sua componente «popolare» capace di opporre una «restaurazione» cattolica alla «rivoluzione» protestante e al «paganesimo» del Rinascimento si riferirono storici come Ludwig von Pastor e il gesuita Pietro Tacchi Venturi nell’età del conflitto tra Stato liberale e papato sulla «questione romana». Dopo la Conciliazione del 1929 e ancor più dopo la nascita della Repubblica italiana la ritrovata egemonia cattolica sulla società e sullo stato si espresse in una fioritura di studi sulla Chiesa nell’età del Concilio di Trento: divenne di uso corrente la tesi secondo cui la vera riforma alle soglie dell’età moderna sarebbe stata quella ope-rata dalla chiesa cattolica. Alle minoranze sconfitte e disperse di dissenzienti, l’ideologia liberale della borghesia ottocentesca aveva riserbato gli onori di precursori della civiltà moderna e di martiri del libero pensiero. Ma con l’avvento di un regime democratico di massa a maggioranza cattolica quella etichetta perse inevitabilmente il suo smalto.
6Di fatto ancor oggi una frattura sostanziale divide la ricerca storica sulla Chiesa romana e sulle forme del governo ecclesiastico da quella che si è concentrata su vite e pensieri di dissenzienti, di ribelli, di vittime della giustizia inquisitoriale. Le polemiche antiche sono sopite e in genere le due tradizioni storiografiche procedono per lo più ignorandosi. E tuttavia è stato sufficiente il ritorno di attualità di un antico oggetto della polemica anticlericale – l’Inquisizione – a suscitare reazioni non positive nella storiografia di ispirazione cattolica: e che sia stata l’imprevedibile creatività di un pontefice a riaccendere un diffuso interesse in questa direzione con l’apertura del più celebre archivio segreto in possesso della Chiesa non è bastato per cancellare una antica diffidenza. Valga l’autorevole giudizio di Paolo Prodi il quale, pur indicando con lucida intuizione l’importanza della svolta che indusse la Chiesa cattolica davanti alla prepotente avanzata degli stati a puntare tutte le sue carte sul controllo delle coscienze, non vede negli studi storici sull’Inquisizione che un aumento quantitativo di informazioni sostanzialmente privo di interesse15. Eppure è stato proprio il meccanismo di controllo messo in atto con l’uso inquisitoriale della confessione a permettere al dominio ecclesiastico sulle coscienze di diventare realtà nell’Italia cattolica. Ma l’Inquisizione è un oggetto desueto per chi è convinto che la via maestra della modernità è stata tracciata dalla Chiesa romana con le misure riformatrici del Concilio di Trento e non con la rafforzata e centralizzata polizia inquisitoriale.
7Queste osservazioni non hanno intenti polemici. Ricercare il vero nel conflitto dei presupposti è condizione essenziale per lo sviluppo di una storiografia autenticamente vitale. Ma si vuole ricordare il fatto indubbiamente singolare e degno di nota che ancora oggi la divisione nel campo della ricerca storica sull’età della Riforma obbedisce in un certo suo modo a quella antica opposizione tra i fedeli di questa o quella Chiesa e gli spiriti critici e ribelli a ogni chiesa: questo è il dato che permane negli studi sull’Italia dell’età della Riforma. Per molto tempo nella storiografia italiana si è assistito al caso singolare di un paese ufficialmente e sociologicamente cattolico dove gli studi storici su eretici e dissenzienti superavano quelli sul cattolicesimo16. Oggi le cose sono cambiate: ma, pur crescendo gli studi sul cattolicesimo moderno, perdura nelle ricerche storiche una divisione di interessi e di metodi e una reciproca disattenzione. Chi si occupa di quella minoranza di dissenzienti e di eretici sente gravare sul suo lavoro l’accusa di perdere di vista il percorso generale della storia, le forze che hanno vinto, le istituzioni, le elaborazioni concettuali e le forme della disciplina sociale generatrici di quelle «identità collettive» oggi sempre più protagoniste di un linguaggio da tempi di guerra e di paura. La risposta non è difficile: chi va raccogliendo storie di vite e tracce di pensieri e di idee di minoranze di esuli, di perseguitati, di sognatori, può sempre difendersi richiamandosi alla storia come ricerca di ciò che non si conosce, come archeologia di mondi scomparsi e di vite concluse che niente seppero della nostra, e obiettare alla storia delle grandi e astratte generalità – il Moderno, la civiltà, l’identità – ponendosi sotto l’impresa che recita «Dio è nel particolare» (non per niente coniata da un eretico). Ma la questione rimane aperta e il problema di un bilancio storiografico resta difficile da risolvere.
8Ricordiamo intanto come siamo giunti a questo punto. La questione dell’esistenza di un movimento di riforma italiano, autonomo da quello luterano e ad esso precedente, è antica. Il primo ad aprire il campo di ricerca è stato Leopold von Ranke quando, nei suoi Römische Päpste, intuì l’importanza di quelle che definì le «analogie col protestantesimo in Italia» e segnalò il gruppo della Compagnia romana del Divino Amore. Le sue indicazioni, sviluppate prima da storici di lingua tedesca e di cultura protestante (il primo fu nel 1836 lo svizzero Ferdinand Meyer, il più noto fu il tedesco Wilhelm Maurenbrecher che coniò il termine «Riforma cattolica») poi assunte dopo perplessità e resistenze iniziali anche dalla storiografia cattolica, si sono rivelate fondamentali per uscire dall’apologetica e dalla controversia ecclesiastica tra fronti confessionali contrapposti. Da allora dura una discussione e una ricerca che hanno indagato da un lato le ragioni e i caratteri delle tendenze di riforma della Chiesa in Italia e della vittoria del cattolicesimo, dall’altro il contributo della cultura e della religiosità italiana al moderno cristianesimo europeo. Le due questioni si sono a loro volta biforcate: se per il cattolicesimo vittorioso in Italia si è aperta la questione se si sia trattato di una «restaurazione» dell’antico o di una «riforma cattolica» dotata di una propria creativa religiosità, per le personalità e le correnti che si distaccarono dall’obbedienza romana si è trattato di verificare in quale misura abbiano aderito alla Riforma protestante o si siano invece inserite nel complesso mondo delle sette e delle tendenze radicali. Storia della Chiesa e storia d’Italia si sono intrecciate su questi temi in un modo che rispecchia la speciale natura di un paese unito per cultura e per religione ben prima di diventare uno stato unitario. Questo spiega perchè l’analisi delle componenti religiose e culturali della storia d’Italia abbia avuto nel passato e conservi tuttora una grande importanza. Ma l’indagine storica sulle minoranze di spiriti inquieti e di ribelli alla Chiesa romana e quella sulle maggioranze ortodosse stentano a confluire in un unico disegno della storia d’Italia. Il problema fu avvertito da Delio Cantimori quando, tornando a studiare la storia di quelli che egli stesso aveva definito «eretici» nel senso di ribelli a ogni chiesa, propose di leggerne i percorsi come uno specchio micro-sociologico per comprendere come si era svolta la vita religiosa della grande maggioranza degli italiani17.
9Il disegno prospettato da Cantimori nel testo pubblicato nel 1960 era sostanzialmente diverso da quello offerto da lui vent’anni prima. L’ultima pagina degli Eretici italiani indicava la continuazione ideale della vicenda negli esiti europei del socinianesimo in Polo-nia, in Olanda e in Inghilterra riserbando all’Italia una presenza «celata, oscura, ma a volte suggestiva», coperta dalle forme del nicodemismo. Le Prospettive furono invece rivolte in direzione della storia italiana. La conclusione sottolineava come «la fecondità di quelle dottrine, di quelle costruzioni, di quelle fantasie e profezie del Cinquecento sia dovuta proprio al fatto che la società di emigrati e di personaggi avventurosi che le produsse rispecchiava [...] lo spettro dei turbamenti e del disagio delle coscienze più semplici o più illuminate»18. Vi erano sottolineati temi come l’irenismo diffuso, l’indifferenza verso le dottrine ridotte al minimo attraverso la progressiva restrizione dei fundamentalia fidei, la pratica nicodemitica come simulazione e dissimulazione, l’insistenza sulla unità della Chiesa. Vi erano registrate le analogie tra le proposte del vescovo esule Marcantonio De Dominis e i memoriali di riforma cattolici, dal Libellus di Giustiniani e Quirini al Consilium de emendanda ecclesia.
10Il rapporto tra gli «eretici» studiati da Cantimori e la religiosità italiana del ’500 era stato nel volume del 1939 un rapporto di interpretazione e di trasmissione: vi si ricostruiva il modo in cui una minoranza di ribelli e di esuli eredi delle istanze della cultura umanistica aveva trasmesso alla cultura europea un deposito di valori varia-mente radicato nella realtà italiana e capace di superare il conflitto delle ortodossie contrapposte aprendo varchi alla tolleranza e risolvendo il duro nocciolo teologico in una superiore moralità. Tornando su quel nesso nel disegno sintetico del 1960 Cantimori metteva invece in primo piano i «turbamenti» dei membri ordinari della società italiana e il «disagio delle coscienze più semplici o più illuminate» e ne leggeva la storia riflessa e ingigantita nello specchio di singole figure fuori della norma. Ed è proprio su membri ordinari e coscienze più semplici, insomma sul complesso paesaggio della società italiana con tutte le sue diversità e fratture che hanno portato la loro attenzione le ricerche storiche nel corso degli ultimi decenni. La domanda che Federico Chabod pose nell’affrontare la storia religiosa del ducato di Milano – come si fosse svolta la vita religiosa nell’Italia del tempo19 – si è riproposta di frequente in singole e specifiche indagini su figure, ambienti, contesti, istituzioni. In molti hanno affrontato il nodo dell’età di volta in volta definita della riforma (cattolica, o anche tridentina), della controriforma, o del disciplinamento sociale. Non ci soffermeremo sulle definizioni, naturalmente, anche se non è questione secondaria quella delle generalizzazioni concettuali in uso tra gli storici. Ma il modello proposto da Chabod – incrociare le fonti inquisitoriali sull’eresia e quelle delle istituzioni di governo ordinario («pastorale») della Chiesa – ha trovato pochi seguaci. Sono state privilegiate le fonti per la storia delle istituzioni ecclesiastiche e dell’affermarsi del clero «pastorale»: le visite vescovili e le figure dei vescovi, i programmi di riforma disciplinare, gli atti del Concilio tridentino. La folla anonima di chi viveva all’ombra di queste istituzioni è stata considerata come fatta generalmente e salvo prova contraria di ricettori passivi e obbedienti delle norme calate dall’alto. Ma per altra via, accanto a questo popolo ascritto dagli storici al grande numero dei fedeli dell’unica Chiesa romana, è venuto crescendo parallelamente quello minoritario ma pur numeroso dei dissenzienti: non solo i seguaci delle chiese della Riforma o gli eretici e ribelli a ogni chiesa ma anche, se non soprattutto, i protagonisti sconfitti di tendenze riformatrici interne al cattolicesimo, i vescovi, i cardinali e i membri delle loro corti portatori di strategie di governo pastorale e di rinnovamento religioso alternative rispetto a quella volontà di «guerra spirituale» che animò il papato dell’Inquisizione. La vasta ricerca di Massimo Firpo sul caso del processo al cardinal Morone ha mostrato di quale occulta violenza sia stata capace la resa dei conti tra le diverse opinioni in seno al collegio cardinalizio e quali conseguenze e quanti echi ne giungessero allora nei più diversi ambienti – le corti, la società letteraria, il mondo dei predicatori e dei loro ascoltatori. L’esplorazione delle fonti inquisitoriali residue dopo le distruzioni dei secoli xviii e xix ha consentito una conoscenza più precisa dei pensieri di religione di individui e di ambienti di varia collocazione sociale: le fonti processuali con la loro precisa registrazione delle deposizioni e l’attenzione dei giudici agli intrecci di rapporti umani e di comunicazioni di idee hanno mostrato quanti legami si crearono allora tra il mondo dei «semplici» e quello dell’alta cultura. Si è confermato così quell’aspetto di sovversione dell’ordine sociale che scandalizzò e commosse fortemente i contemporanei dettando loro pagine di meraviglia e spesso di violenta riprovazione. Ne possono dare un’idea due testimonianze scelte fra le tante: «uno magistro da forme da scarpe de Maranello ha hauto ardimento parlare della fede, e disputare con altri ignoranti, et ha mezo involupato el cirvello ad homini grossi», annotava il cronista modenese Tommasino Bianchi de’ Lancillotti nel 1540; e pochi anni dopo il benedettino Gian Battista Folengo si rivolgeva al cardinal Pole con una dotta opera di interpretazione dell’epistola di san Giovanni per chiedere che i dotti svolgessero final-mente il loro ufficio in un mondo dove i sacri misteri della fede erano finiti tra gli operai dei lanifici e delle concerie20.
11Di fatto gli storici si sono spesso contentati di registrare gli effetti della differenza sociale iscritti nella diversa abbondanza delle fonti e hanno dedicato maggiore attenzione alle vicende e alle riflessioni individuali dei membri dell’élite sociale e culturale, contando invece coi mezzi della sociologia l’adesione delle classi popolari alle chiese in conflitto. Ma non è stata dimenticata la lezione di Cantimori nel seguire gli sviluppi dei pensieri dei dissidenti e degli eretici non nell’astratto mondo delle somiglianze tra le idee ma nei concreti legami e rapporti che unirono i dotti e i semplici, i seguaci delle dottrine neoplatoniche e quelli attirati dal radicalismo sociale dell’anabattismo. Il grande predicatore Bernardino Ochino amato da cardinali e nobildonne che muore in casa di un povero tessitore, il proselitismo dei Sozzini tra i contadini, la predicazione di Camillo Renato nelle campagne emiliane sono solo alcuni tra i numerosi episodi di scambi sociali di cui fu ricca la cronaca di quegli anni. L’Italia di metà ’500 assomiglia per certi versi al «mondo alla rovescia» che Christopher Hill ha descritto per l’Inghilterra della Rivoluzione puritana del ’600. Ma già col tardo ’500 tutto questo sembra ormai lontano dalla società italiana. La pressione inquisitoriale sui nuclei ereticali si venne allora attenuando mentre andò invece crescendo la sorveglianza su riti e miti delle culture folkloriche, dalla stregoneria alle più varie superstizioni su cui si esercitò l’opera più o meno dura-mente pedagogica dei portatori autorizzati della religione ortodossa. È come se, a partire dagli ultimi decenni del secolo xvi, il paesaggio registrasse la scomparsa del dissenso dottrinale consapevole per far emergere agli occhi delle autorità ecclesiastiche il problema delle difformità e deformazioni inconsapevoli della dottrina cattolica, prodotte dalle diverse stratificazioni culturali interne alla società italiana. Di fatto il duro scontro sulle verità contrastanti tra inquisitori ed eretici vi lasciò il posto alla conquista culturale per via di propaganda e di persuasione.
12E così si pone ancora una volta un problema di datazione: da quando daterebbe l’esistenza di un movimento o di una tendenza critica nei confronti della Chiesa di Roma? e quando e per quanto tempo la presenza di una minoranza dissenziente ha segnato la storia d’Italia? Per rispondere alla domanda bisogna registrare i nuovi percorsi indagati per ricostruire la storia delle tendenze critiche nei confronti del corpo ecclesiastico, cioè il complesso fenomeno tipicamente italiano ma non solo italiano che va sotto il nome di anticlericalismo.
13«O chierica o chierica, per te orta est haec tempestas». La dura condanna di Savonarola dette voce a un sentimento diffuso di critica dei costumi del clero. Nel ricostruirne storia e caratteri Ottavia Niccoli ha ricordato la proposta di Robert Scribner di studiare la diffusione delle idee della Riforma attraverso tramiti apparentemente secondari come le chiacchiere di piazza, le conversazioni private, i volantini, le poesie satiriche, i libelli infamatori e le pasquinate, e così via21. La ricerca di O. Niccoli si è indirizzata su queste fonti e permette ora di rispondere alla domanda in quale misura l’anticlericalismo del Rinascimento italiano abbia favorito la maturazione di critiche radicali alla Chiesa esistente e la circolazione delle idee della Riforma. Dalle pasquinate contro Alessandro VI allo Iulius exclusus di Erasmo da Rotterdam e ai Pasquilli di Celio Secondo Curione si può seguire l’evoluzione di argomenti e moduli satirici che nel contesto romano, come ha osservato Rotondò, restavano innocui ma nella circolazione fuori Roma potevano far maturare «contestazioni più radicali» fino a incrociarsi con la libellistica della Riforma che presentava il papa come figlio di Anticristo22. La ragione di questa singolare diversità nell’efficacia dell’anticlericalismo va evidentemente cercata negli anticorpi presenti nell’organismo della società italiana: qui, com’è noto, la carriera ecclesiastica e le offerte di fortune politiche e finanziarie esercitavano una potente attrazione verso Roma e verso il beneficio ecclesiastico, mentre fuori d’Italia l’anticlericalismo si colorava di anti-italianità con le accuse contro la rapacità degli italiani nell’impadronirsi di rendite ecclesiastiche dovunque fossero disponibili. In Italia critiche e proteste contro la Chiesa romana si risolsero spesso in profezie e visioni. Dalla reazione al connubio tra la religione e il potere venne alimentata una serie di progetti e proposte di riforma, intesa come ritorno alla semplicità evangelica e alla condizione della chiesa apostolica delle origini. Le voci più radicali giunsero fino al rifiuto della Chiesa esistente considerata come il regno dell’Anticristo. E, come ha scoperto Carlo Dionisotti, fu proprio un figlio di Biondo Flavio, Gabriele Biondo che dette espressione a un’eresia radicale simile a quella dei fraticelli, che sosteneva la necessità di ritirarsi e nascondersi rifiutando ogni obbedienza alla corrotta Chiesa di Roma. Fra le tante espressioni della diffusa critica della Chiesa contemporanea la più celebre, quel-la che ebbe allora la maggiore risonanza in Italia e fuori d’Italia, fu la predicazione penitenziale e profetica di fra Girolamo Savonarola. La vicenda del frate ferrarese caratterizzata dal suo appello alla «rinnovazione» della Chiesa e drammaticamente conclusa dal processo e dall’esecuzione capitale fu il punto di riferimento intorno al quale si raccolsero le tendenze più diverse. La lettura del futuro era allora un esercizio diffuso che impegnava profeti e astrologi. La differenza dei metodi tra gli interpreti dell’Apocalisse cristiana e i praticanti della scienza pagana delle stelle non corrispondeva a due diverse linee di annunci. Dall’interpretazione dell’Apocalisse si potevano ricavare previsioni confortanti di successi trionfali, come mostra il caso della glossa in Apocalypsim di frate Annio da Viterbo, il domenicano che godette pieno favore di papa Alessandro VI e che, divenuto Maestro del Sacro Palazzo, collaborò alla decorazione dell’appartamento Borgia in Vaticano: dalla lettura dell’Apocalisse Annio aveva tratto annunci confortanti di vittoria contro i mussulmani23. Dall’interpretazione delle congiunzioni astrali si potevano ricavare previsioni catastrofiche, come avvenne nel caso del Pronosticon de eversione Europae dell’Arquato24. Del resto la stessa predicazione profetica di Savonarola aveva unito diagnosi cupissime sulla decadenza della Chiesa ad annunci di un’età di rinnovamento e di trionfi. Fu in questo contesto che arrivarono le prime notizie della predicazione pubblica di Lutero. In ambiente fiorentino – a quanto si deduce dal dialogo Della mutatione di Firenze di Bartolomeo Cerretani – si vide nel monaco tedesco un continuatore dell’opera di Savonarola e nella sua azione una conferma della validità delle profezie savonaroliane. Nel precipitare drammatico della vicenda di Savonarola e della più generale situazione politica degli stati italiani si intensificarono le tendenze visionarie e profetiche tipiche di tempi di crisi, di incertezze del futuro e di mutamenti bruschi nell’assetto della vita sociale e delle istituzioni politiche e religiose. L’attesa di una riforma della Chiesa si accompagnò sempre più alla denunzia di una radicale corruzione degli ordinamenti e della moralità ecclesiastica tale da richiedere uno speciale intervento divino. Le opinioni si divisero intorno alla proposta di come indovinare profeticamente gli sviluppi futuri di una Chiesa che appariva profondamente decaduta e corrotta tanto da far attendere un intervento divino per correggerla. Tra gli esiti più importanti del savonarolismo possiamo considerare la fioritura di tendenze profetiche e visionarie che attrassero l’interesse di principi e di potenti personaggi: Ercole I d’Este fece condurre a Ferrara suor Lucia Brocadelli da Narni, la «santa viva» che con le sue profezie e col carisma della santità dimostrata dalle sue stimmate divenne come una protettrice della dinastia estense e della città di Ferrara: caratteri simili ebbero allora diverse figure di mistiche e di visionarie intorno alle quali si raccolsero circoli di devoti25. Tale fu il caso del gruppo che si raccoglieva intorno a suor Arcangela Panigarola nel convento milanese di Santa Marta, leggendo l’Apocalipsis nova dello pseudo-Amadeo e ascoltando le rivelazioni che la monaca affermava di ricevere direttamente dalla Madonna. All’interno del gruppo spicca il nome dell’umanista Giorgio Benigno Salviati e quello del cardinal Briçonnet, candidato al ruolo di Papa Angelico negli anni compresi fra il concilio gallicano di Pisa-Milano e il concilio Lateranense V. Siamo qui in presenza di uno dei frequenti contatti tra circoli italiani e ambienti francesi che si formarono nel ’500 intorno a speranze e attese di ri-forma della Chiesa. Un tratto caratteristico delle manifestazioni di inquietudine religiosa in Italia è costituito dalla presenza di figure femminili dotate di poteri carismatici. «Divine madri», profetesse, visionarie, ispirate e ispiratrici, le troviamo in ambienti diversi e socialmente lontani quali le corti, i monasteri, i circoli intellettuali e artistici. Se Lucia Brocadelli fu accolta a corte, Paola Antonia Negri finì la sua carriera di leader religiosa dei primi Barnabiti sotto il peso della condanna e della emarginazione. La reazione dell’autorità ecclesiastica tradizionale fu duramente espressa da Gian Pietro Carafa in una lettera del 1533: «Per una cosuzza che a lor entri in fantasia o per un appetito o un sogno de una feminuzza se ruinasse il cielo e la fede catholica periclitasse non se ne curano»26. Intorno alle donne come protagoniste della protesta religiosa il movimentato contesto lionese studiato da Nathalie Zemon Davis trova qualche analogia nel panorama cittadino modenese dell’epoca. Il ritorno ad una Chiesa governata da un potere ecclesiastico rigidamente maschile e gerarchico ebbe come conseguenza un sospetto sistematico nei confronti di circoli e ambienti raccolti intorno a figure femminili e la nascita di un tipo di reato inquisitoriale completamente nuovo: l’»affettata santità»27. Gli studi sull’argomento condotti su diari, autobiografie e visioni e su fonti processuali hanno rivelato una componente finora trascurata della religione di un’età di passaggio fatta di ricerca della perfezione e del contatto diretto col mondo divino che trovò nella società italiana le condizioni per uno sviluppo del tutto speciale. Al posto della chiesa istituzionale si sostituivano sette e congregazioni di piccoli gruppi aspiranti alla perfezione e alla santità visionaria: tendenze remotissime da quelle della Riforma protestante, che offrirono un terreno adatto al successo di un nuovo Ordine, la Compagnia di Gesù, vero rifugio di chi cercava la via della perfezione attraverso l’introspezione metodica dell’esame di coscienza unita all’attivismo nella conquista delle anime.
14All’interno di questi gruppi di visionari incontriamo spesso non solo una forma di comunità chiusa come una chiesa ma anche una embrionale gerarchia ecclesiastica culminante talvolta nell’attesa di un «papa Angelico». È questo il caso del gruppo raccolto a Milano intorno a suor Arcangela Panigarola unito dalla speranza di un intervento divino per riformare il papato sostituendo al papa monda-no un papa angelico. Si conferma così indirettamente la preminenza del papato come istituzione caratteristica della situazione italiana anche sul piano delle rappresentazioni e della mentalità. Lo studio della circolazione delle idee di Gioacchino da Fiore ha mostrato l’intensificarsi tra ’400 e ’500 dei vaticinii papali28. L’attesa del papa Angelico fu al centro di ambienti e movimenti non legati alla diffusione di idee della Riforma ma notevoli per il radicalismo religioso e sociale: alla metà del ’500 fu questo il caso di due gruppi diversi ma dai caratteri simili: da un lato il gruppo reggiano legato alla figura del medico Basilio Albrisio e dall’altro i seguaci del visionario monaco benedettino Giorgio Rioli detto Giorgio Siculo. La diffusione di profezie e di confuse attese di interventi divini nella storia umana fu tipica di tutta l’età che va dalla caduta di Costantinopoli al Concilio di Trento e oltre, fino alle ultime elaborazioni di Francesco Pucci e di Tommaso Campanella. Profezie, visioni e scoperte di sapienze segrete e di chiavi sacrali dei misteri si prestarono a funzioni diverse e perfino opposte: servirono a chi desiderava celebrare un determinato assetto presente come pure a chi invece opponeva alla realtà della Chiesa del tempo un progetto divino di Chiesa spirituale.
15Alla descrizione di un modello ideale di pontefice secondo il criterio della pastoralità corrispose in quegli anni un duplice processo: da un lato la trasformazione del papato secondo i canoni della moralità e del rigore della Controriforma e, dall’altro, la permanenza all’orizzonte mentale dell’attesa di un papa santo, inviato da Dio: un papa angelico; ma anche eventualmente una nuova incarnazione di Cristo stesso, un medius adventus prima del giudizio finale. Il mito visionario della nuova incarnazione si ripresentò allora quasi negli stessi anni sia dentro che fuori i confini italiani, proprio mentre il dissenso religioso veniva cancellato con la violenza sia da parte cattolica sia da parte riformata. Se Giorgio Siculo avanzò la sua candidatura al ruolo di profeta e di portatore di salvezza dopo l’abiura davanti all’Inquisizione e la conseguente morte disperata di Francesco Spiera, l’idea del medius adventus fu proposta da Celio Secondo Curione in polemica nei confronti della durezza della chiesa calviniana. Era un esito mistico delle tensioni e delle delusioni, un rinvio all’opera diretta di Dio tra i cristiani per risolvere problemi che sembravano insolubili. In primo luogo quello dell’unità della cristianità e quello della fede in cui salvarsi. In questo il ruolo del papato come istituzione fu decisivo.
16Se l’attenzione si sofferma sul papato come istituzione centrale dell’Italia del ’500 la risposta alla domanda che ci è stata proposta in questa sezione del convegno sembra piuttosto semplice: il panorama mentale italiano del tempo fu dominato da una sola chiesa, quel-la visibile di Roma con a capo il papa. Come ha scritto lo storico svizzero Ferdinand Meyer, «come avrebbe potuto un italiano [...] attaccare la supremazia del papa, il cui fulgore risplendeva su tutta la nazione?»29. Questo è un carattere specifico che è stato sempre riconosciuto alla cultura italiana della prima età moderna e che la rende diversa da quelle di altri paesi che ebbero con Roma un rapporto mediato da autorità politiche proprie. Diversa da quella francese naturalmente: ma anche da quella di una Spagna che pure strinse col papato e con Roma un’alleanza per più aspetti decisiva e che popolò le vie di Roma e le corti italiane di letterati prima di riempirne le piazze e le università di gesuiti. Il violento animo anticuriale che attraversa la cultura religiosa e politica del mondo tedesco e delle varie chiese nazionali europee non trova riscontro nella realtà italiana.
17Unità di cultura e di lingua, unità di religione e di chiesa: la questione attraversa l’intera storia italiana, coinvolgendo dissenzienti e ortodossi e imponendosi all’attenzione di storici e politici. Non è certo trascurabile il fatto che nel 1531 il contadino friulano Biagio di Totulo da Buttinicco, tornato dall’Austria con idee luterane, giustificasse l’abiura di quelle idee riconoscendo quella impostagli dall’Inquisizione come la «vera fede italiana»: né è un caso che un prete bergamasco polemizzasse conto i «nuovi barbari» in nome dell’»onore del nome italiano» mentre al Concilio di Trento il predicatore Cornelio Musso invitava i vescovi italiani a difendere «la grandezza della sede apostolica» perchè era l’ultimo rifugio politico per gli italiani, politicamente deboli e diventati tutti «preda non pur d’imperadori et regi, ma d’ogni minimo signoruccio»30. Di questa Italia il papato come realtà politica divenne parte sostanziale e potenza determinante proprio mentre si svolgeva la battaglia religiosa intorno alla Riforma. Da ciò la persistente discussione intorno ai caratteri del papato e al suo rapporto con la realtà italiana come un punto fondamentale per comprendere la tensione fra «una chiesa» e «nessuna chiesa» caratteristica delle tendenze ereticali.
18Una Chiesa dominava l’orizzonte ed era percepibile a ogni passo nella realtà italiana: quella di Roma. Un primo punto fondamentale è il mutamento che tra ’400 e ’500 si ebbe nella realtà politica e religiosa della Roma papale e nel suo rapporto col resto dell’Italia. Mentre il Papato diventato principato italiano adottava metodi e stili di vita che suscitavano scandalo di coscienze offese e critiche aspre di uomini pur diversissimi come Erasmo e Machiavelli, l’ascesa di Roma al rango di grande capitale la poneva al centro dei percorsi di vi-ta e delle ambizioni di carriera di chiunque aveva talenti da offrire. Karl Benrath, il primo storico che abbia esplorato i processi dell’Inquisizione di Venezia contro luterani e anabattisti, individuò qui le cause della frammentazione e della debolezza del movimento italiano di riforma: davanti alla crisi di Venezia e Genova, mentre Na-poli e Milano cadevano in mano straniera, l’unica forza che permetteva agli italiani di contare ancora qualcosa nel quadro della cristianità occidentale era la Roma papale31. Era evidente del resto anche per i contemporanei, come mostrano i sarcasmi di Calvino contro i «protonotari delicati», quanto forti fossero i legami che trattenevano gli italiani dal distacco da Roma. La crescita al vertice romano della Chiesa di un complesso apparato di potere esercitò un peso decisivo per le strategie di carriera: bisognava tenerne conto ben più di quanto facessero nello stesso periodo i cristiani dell’Impero, di Francia o di Spagna. Da ciò derivò uno sviluppo specialmente italiano dell’anticlericalismo ma anche la tendenza a opporre alla Chiesa reale una Chiesa spirituale, al papato mondano un papa angelico. Piuttosto che in una riforma religiosa che cancellasse il potere papale si sperava in un rinnovamento religioso personale e collettivo, in un mutamento capace di portare al vertice della Chiesa un pontefice santo, capace di riformare le istituzioni di governo e di imporre una severa disciplina ecclesiastica. È un processo all’interno del quale si possono individuare alcune tappe fondamentali.
19All’origine vi fu – ha indicato Paolo Prodi – la «decisiva cesura fra Medioevo ed Età moderna» che alla metà del ’400 fu segnata dalla trasformazione profonda della monarchia papale, con la vittoria sui concili e il nuovo assetto dello stato pontificio in «rappresentanza della Chiesa»32. Nel corso del ’400 il papato fa di Roma una moderna capitale statale. Di conseguenza cresce l’organizzazione degli uffici della Curia e della Camera Apostolica e questo attira a Roma molti uomini di cultura dalle più varie parti d’Italia. La crescita di potere e di prestigio del papato dopo la crisi dello Scisma e la minaccia del conciliarismo si fonda sul rapporto con le monarchie nazionali e con gli stati europei: un rapporto regolato spesso da concordati e fondato su di uno scambio di aiuti reciproci importanti: le case regnanti iberiche ricorrono al papato per la questione della spartizione del mondo extra-europeo, la giovane monarchia spagnola dei re cattolici investe moltissimo nell’alleanza col papato, la rivalità franco-spagnola apre margini di intervento ai pontefici romani come capi di stato interessati al controllo sullo spazio italiano. L’afflusso di uomini di lettere in cerca di fortuna si intensifica dato il carattere di Roma come grande capitale finanziaria in grado di disporre di uffici e di benefici ecclesiastici in tutta la cristianità occidentale.
20La memoria culturale degli umanisti fu portata naturalmente a confrontare la Roma presente con quella antica. La strada fu aperta in questo da Biondo da Forlì nella sua Italia illustrata e più ancora nella Roma instaurata. Qui nel libro terzo Biondo scrisse:
Non siamo noi de l’oppinione di coloro, che così hanno per niente lo stato de le cose di Roma d’hoggidì, come s’a punto ogni memoria di lei se ne fusse ita via con le leggioni, con consoli, col senato e con le bellezze e con gli ornamenti del Campidoglio e del Palatino. Egli sta ancora in piè certa la gloria e la maiestà di Roma, e fundata in più saldo terreno, benchè non sia così ampia come prima, et ha bene anco hoggi Roma qualche iuriditione sopra i regni e sopra le molte nationi, a conservatione et aumento de la quale non bisognano gli esserciti, non di cavalli, non di fantarie, non bisogna che venghino o per forza o per bona voglia o di Roma o di tutta Italia i soldati a scriversi, nè bisogna tenere le guardie nei confini per paura de gli nemici, perchè a mantenimento di questa republica non bisogna spargervi il sangue con l’arme in mano, solamente vi basta la religione sacratissima del Signor Giesu Christo, vero Iddio e vero Signore, et imperator nostro, che 1400 anni insino ad hoggi ha con tanti trionfi di santi martiri fatto, che Roma con tanti templi e reliquie di santi tenga soggetta una gran parte del mondo, con benignità e carità, più che non fè già con spavento e timore il dittatore perpetuo. E l’imperatore non è il successore di Cesare, ma è il successore e vicario del pescatore Pietro, il quale è adorato e reverito da tutti i principi de la terra, et in luoco del senato sono hoggi i cardinali33.
21Niccolò Machiavelli doveva ricordarsi di questa pagina quando – scrivendo a proposito dello stato pontificio – ne riprese in tono sarcastico l’argomento fondamentale della forza degli «ordini antiquati nella religione»: «Costoro soli hanno stati e non gli difendono; han-no sudditi e non li governano. E gli stati per essere indifesi, non sono loro tolti»34.
22Ai tempi in cui Machiavelli scriveva il paesaggio era cambiato. Sconfitta la candidatura della Repubblica di Venezia alla egemonia politica sull’Italia, la presenza della corte romana e del papato apparve nella diagnosi di Machiavelli nel 1513 come l’ostacolo fondamentale per la nascita di un principato nuovo creato da un Medici e capace di unificare l’Italia. Tornando sull’argomento pochi anni dopo quando l’ipotesi dello Stato toscano era tramontata Machiavelli aggiunse alla critica politica una dura critica morale contro gli effetti della presenza della Chiesa sugli italiani. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio accusò la chiesa non solo di aver impedito la nascita di «una republica o uno principe che la governassi (sc. l’Italia)» ma anche di aver reso gli italiani «sanza religione e cattivi» indebolendone il senso della stato e il valore militare (libro II, cap. XII). Sono argomenti che ritornarono a lungo nella tradizione culturale italiana ispirando un punto di vista anticlericale e «ghibellino» a cui replicarono i difensori del papato. Venne formulata allora la convinzione che la presenza del papato avesse portato all’indebolimento della moralità civile e politica italiana; e da allora in poi i progetti di unificazione politica della penisola andarono di pari passo con quelli di riforma morale degli italiani e alimentarono correnti di simpatia nei confronti della Riforma protestante la cui prima formulazione fu quella del celebre pensiero di Francesco Guicciardini: «Arei amato Martino Lutero quanto me medesimo [...]»35.
23Negli anni in cui scriveva Machiavelli il punto di vista fiorentino non era diverso da quello veneziano. A Venezia le ambizioni politiche del papato apparvero preoccupanti per più ragioni. Non per niente vennero proprio da uomini veneziani gli inviti al papa a lasciare da parte le preoccupazioni politiche di costruire un principato italiano per occuparsi invece del governo della Chiesa universale. Sono noti da tempo due esempi celebri: il Libellus ad Leonem X dei monaci camaldolesi Querini e Giustiniani del 1513, col quale proponevano al papa di occuparsi di vaste imprese di unificazione religiosa del mondo piuttosto che della politica italiana, e gli inviti di Gaspare Contarini a Clemente VII a non voler essere un qualsiasi «prencipe de Italia». Bisognerà comunque ricordare che «il Libellus forse non fu nemmeno sfogliato dall’augusto destinatario»36, prima di considerarlo come una «riforma prima della Riforma» in Italia37.
24All’altezza di questa data si può fissare un punto di osservazione importante per confrontare Italia e Francia: il concordato di Leone X con Francesco I del 1516 segnò una svolta importante verso la progressiva assunzione da parte dei poteri politici di compiti di governo ecclesiastico. La sua efficacia nel delineare una chiesa nazionale e nell’alimentare un sentimento di appartenenza sono stati richiamati all’attenzione degli storici da Alain Tallon38. L’elaborazione di simboli della regalità sacra, così importante nella tradizione francese dove i pellegrinaggi della Controriforma rafforzano una monarchia che intanto consolida e rilancia il rito della benedizione degli scrofolosi39 e ancor più importante nel caso spagnolo di una sovranità recente e fondata quasi solo sull’unità religiosa, appare sostanzialmente assente dal quadro italiano. Il tentativo di far leva su fenomeni taumaturgici e visionari per rafforzare i traballanti poteri delle famiglie signorili occupò i decenni centrali delle guerre d’Italia ma si esaurì rapidamente40. In Italia i titolari del potere politico ricorrono all’alleanza con la Roma papale e lasciano porte aperte alla erogazione curiale dei benefici ecclesiastici inclusi quelli maggiori.
25Con l’avvio della Riforma in Europa coincise la fine delle guerre d’Italia e il conseguente compromesso politico tra il papato e l’impero di Carlo V. Una volta definito sostanzialmente l’assetto della penisola il papato riprese l’iniziativa nei confronti della Riforma luterana e delle forme di dissenso religioso che si diffondevano anche in Italia. Se il papa non solo lesse ma richiese l’elaborazione di un programma di riforma, come avvenne quando Paolo III commissionò a un gruppo di prelati il Consilium de emendanda ecclesia, fu perchè si era avviato il processo della Riforma protestante e qualcosa bisognava pur fare. Ma documenti come questi sono testimonianze importanti delle speranze diffuse relative al papato. In ambedue i casi l’ampiezza delle misure richieste e la durezza delle critiche alla realtà contemporanea della chiesa si legano strettamente a una fondamentale delega al papato dei compiti di riforma che escludeva il ricorso al Concilio. In questo si trovarono d’accordo personaggi dalla cultura e dagli orientamenti più diversi: dal rigido tradizionalista Giampietro Carafa al mistico Reginald Pole. E lo stesso Pole si impegnò a descrivere il modello ideale di pontefice in un trattato sull’officium del papa proprio mentre era sotto attacco da parte di Carafa con accuse di eresia. Gli argomenti di Machiavelli conobbero allora diffusione in Europa grazie alla polemica avviata da Ginés de Sepùlveda in nome del modello spagnolo di stato fondato sulla religione armata della «reconquista». Ma posero anche un problema i cui echi giunsero lontano. Da parte dei vertici del mondo ecclesiastico giunse la replica di Reginald Pole che associò la condanna del «diabolico» Machiavelli alla proposta di un nuovo modello di pontificato caratterizzato dal dovere pastorale e non dal potere politico41. Di fatto il papato cambiò fisionomia rispetto al modello umano del principe rinascimentale, ma la svolta comportò anche un rigido controllo su qualunque espressione di spirito critico nei confronti dell’istituzione. Da parte della riflessione storica si ebbe il tentativo di Carlo Sigonio di ricostruire senza anacronismi la storia d’Italia e le origini dello Stato pontificio: tentativo bocciato dall’intervento della censura ecclesiastica, per cui «la via verso la modernità da lui pro-posta risultò soccombente»42. Doveva essere fra Paolo Sarpi a considerare l’affermazione del potere papale da lui definito totatus come la più grande «deformazione» che si fosse vista nella storia della Chiesa. Mentre il Principe di Machiavelli trovava ospitalità nella biblioteca di papa Sisto V, toccò all’oratoriano Tommaso Bozio difendere con i suoi libri il contributo del papato alla grandezza d’Italia e quello della presenza della Chiesa al valore degli italiani, proponendo un’alleanza tra appartenenza nazionale e appartenenza religiosa destinata a riaffiorare continuamente nella storia d’Italia fino ai nosti giorni. Certo, alla fine del ’500 la vittoria del papato e la sua incancellabilità dall’assetto italiano apparivano del tutto evidenti. Solo un oscuro ugonotto italiano riprese allora sarcasticamente la proposta di Machiavelli di mandare il papato tra gli svizzeri per vedere se ne sarebbe stato risanato o se invece avrebbe portato anche in mezzo a quel popolo ritenuto severo e valoroso i germi della corruzione43.
26Ma l’appuntamento decisivo per il papato fu il concilio di Trento, quella «Iliade del secol nostro» come la definì fra Paolo Sarpi: un appuntamento temuto e lungamente evitato ma che doveva rivelarsi provvidenziale per la ripresa del papato. Trento rappresentò anche un momento di confronto sulla Chiesa per tutta la cristianità, al di sopra delle frontiere nazionali. I documenti raccolti nel corso del ’900 nella grande silloge del Concilium Tridentinum hanno permesso di conoscere le preoccupazioni e le convinzioni di vescovi e di teologi dell’Europa cattolica che confluirono nell’opera del Concilio. Ma la mancanza di unità politica dell’area italiana ha trovato espressione in una frammentazione di ricerche locali che non hanno risposto se non parzialmente al programma lanciato da Hubert Jedin in occasione del IV centenario dell’apertura del Concilio. Invece per altri paesi e segnatamente per la Spagna e per la Francia l’esistenza di un potere politico centrale ha consentito una visione d’insieme della politica conciliare44. La stessa edizione delle fonti – verbali di visite pastorali, lettere e documenti di vescovi (si pensi in particolare al caso del Nachlass di San Carlo Borromeo), bibliografie di sinodi diocesani, documenti relativi all’opera di ordini religiosi e alle confraternite di laici – non ha seguito nessun disegno unitario. Gli studi più numerosi si sono concentrati sull’opera di governo sviluppata prima e dopo il Concilio da uomini di chiesa per indirizzare e correggere rituali, istituzioni, costumi. La ricognizione dello stato delle chiese e del clero in Italia tra ’400 e ’500 attraverso gli atti delle visite diocesane laddove sono conservati ha permesso di conoscere meglio la condizione e la preparazione del clero con cura d’anime mostrando come la divaricazione tra ufficio e beneficio fosse un fenomeno diffuso e desse sostanza a lamentele e proteste da parte dei laici. Ma le cause di quei problemi erano evidenti anche ai contemporanei e rinviavano al potere papale e ai meccanismi della Curia romana nel conferimento dei benefici. Dietro le tante chiese locali e dietro i vescovi è rimasto a lungo in ombra quello che allora, vincendo la sfida del conciliarismo, si riaffermò come il potere centrale della Chiesa: il papato. Abbiamo già ricordato l’importante studio di Paolo Prodi che ha messo in luce i caratteri nuovi assunti dalla figura del «sovrano pontefice». Fino ad allora al posto della Chiesa romana l’orizzonte degli studi aveva collocato piuttosto le molte chiese locali, punto di riferimento di una religione civica che è stata più presupposta che analizzata. Il localismo ha impedito di individuare non solo i caratteri dei problemi ma anche e soprattutto di rendere conto del drastico mutamento dei sentimenti e dei modi di concepire la Chiesa in una cristianità in cui veniva rapidamente emergendo il protagonismo politico e militare del papato. La trasformazione allora maturata del tradizionale anticlericalismo in una critica radicale della Chie-sa ha lasciato tracce consistenti nella cultura italiana: basti pensare al rimpianto di Niccolò Machiavelli (espresso nel capitolo XXVIII, libro III dei Discorsi), perché Gian Paolo Baglioni non aveva colto l’occasione di uccidere papa Giulio II quando gli si era offerta. Tenendo fisso lo sguardo sulla riconversione in senso statale dei vertici della Chiesa si vede meglio come da lì derivassero problemi nell’intera struttura: tra gli altri, la scissione tra beneficio e ufficio, la mancanza di una preparazione adeguata nei cappellani e nei vicari che sostituivano i titolari dell’ufficio, l’affidamento quasi esclusivo ai frati dei compiti essenziali di tipo culturale e religioso (predicazione e amministrazione dei sacramenti). E tutto questo alimentò un malcontento diffuso a cui si aggiungeva una estraneità crescente nei confronti di una predicazione incomprensibile nella sua astrattezza di scuola o nell’uso del meraviglioso e del visionario. La diffusione di testi di una nuova religiosità non formalistica come quelli di Erasmo e più in generale la lettura di scritti di pietà in volgare nonchè dei Vangeli e delle epistole paoline furono allora tra i fattori di una trasformazione profonda nel rapporto tra i laici, uomini e donne delle città d’Italia, e il clero45. L’erosione del consenso nei confronti della Chiesa di Roma come realtà istituzionale è emersa da più parti: l’esplorazione delle vicende di molte città e piccoli centri (specialmente quelle veneziane, friulane, modenesi, senesi, lucchesi, bolognesi, ferraresi, in minor misura di quelle genovesi), la ricostruzione della fortuna di Erasmo in Italia, la scoperta di nuove fonti sulla storia religiosa dei casali capuani, l’indagine sui fermenti culturali e religiosi della Sicilia tra ’400 e ’500, hanno portato alla luce personaggi e vicende che hanno arricchito moltissimo le nostre conoscenze su ciò che credevano, che speravano, che odiavano gli italiani dell’epoca.
27Il ritorno dei vescovi tridentini nelle loro diocesi e soprattutto la decisa presa in carico da parte del papato della interpretazione e dell’applicazione del concilio segnarono una svolta decisiva verso il consolidamento della fedeltà alla Chiesa di Roma. Si trattò di un processo che ebbe scansioni temporali diverse in Francia rispetto agli stati italiani. Se l’età dell’episcopato tridentino è culminata in Italia nell’opera di San Carlo Borromeo, quel modello tridentino di vescovo pastore divenne attuale in Francia solo in pieno ’600, dopo le guerre di religione. Le differenze di tempi e di modi appaiono importanti se si pensa che proprio intorno al modello tridentino di un corpo ecclesiastico deputato a controllare le pratiche, a insegnare dottrine e instillare convinzioni ed emozioni sono state individuate analogie e parallelismi al di là delle frontiere confessionali fino a proporre la nozione di una generale e complessiva età del disciplinamento ecclesiastico della società.
28Accanto a questa disciplina pastorale si è anche venuta configurando in termini sempre più precisi la storia della disciplina dura amministrata dai tribunali dell’Inquisizione. E questo riguardò solo l’Italia; mentre in Francia Margherita d’Angouleme metteva apertamente alla berlina nelle sue commedie la figura dell’Inquisitore, in Italia l’istituzione riprendeva vigore e terrorizzava fin dai suoi primi atti: c’era chi fuggiva oltralpe e chi tentava di salvarsi con docili abiure. La secolarizzazione della disobbedienza ereticale trasformata in delitto di ribellione politica e di lesa maestà segnò la differenza profonda della realtà francese da quella italiana dove invece si confermò e si rafforzò l’esclusiva giurisdizione ecclesiastica sui reati di fede. Per questa via si ripropose ancora a lungo negli stati italiani la sorveglianza dei frati su pratiche, letture, pensieri. Ma il fatto nuovo in gran parte d’Italia fu l’imposizione dell’autorità di un tribunale fornito di un’autorità superiore a ogni altra: il tribunale del Santo Ufficio dell’Inquisizione romana, l’unica istituzione centrale presieduta dal papa a cui tutti erano sottoposti. Come si è già ricordato, l’unità politica della Francia intorno a «une loi, une foi, un roi» trova il suo pendant nell’unitaria e generale soggezione degli italiani alla disciplina inquisitoriale governata dal papa. Nei corsi e ricorsi della storia, si ripresentò allora al papato e ai vescovi italiani un problema analogo a quello vissuto ai tempi della crisi dell’Impero romano, quando la struttura di governo ecclesiastica si offrì come la naturale erede del potere imperiale in crisi: anche i termini del problema di come usare l’autorità ripresero modelli antichi e ricalcarono rotaie profonde nel saldare la disciplina dura e punitiva, quella che S. Agostino definiva la correptio, alla persuasione e alla guida interiore e consolatoria della confessione46: ne nacque un esercizio flessibile e accorto della sorveglianza capace di incrociare i saperi di confessori e di giudici e di fare largo uso di delazioni e abiure. Da questo punto di vista si può dire che l’unità italiana trovò nell’unica Chiesa un vincolo sostitutivo di quello dell’unità statale francese. Questo spiega perché gli studi storici italiani abbiano dedicato tanto spazio alle indagini sui processi inquisitoriali sia come fonte per la storia delle opinioni dottrinali eterodosse e della loro circolazione sia come scavo nella ricostruzione delle diverse culture e tradizioni religiose che caratterizzavano la realtà italiana.
29Eppure sarebbe sbagliato sottovalutare la capacità del papato riformato dell’età tridentina di far presa sulle coscienze anche di chi era andato in esilio e viveva nell’Europa protestante. A questo proposito si deve ricordare la vicenda dei memoriali di fine ’500 redatti da Francesco Pucci per una «riforma nova del christianesimo» e il suo appello a Gregorio XIV: accanto a una critica durissima della «tirannide delle anime e dei corpi» esercitata dal papato, dell’errore capitale di aver dato al papa una maiestas che appartiene solo al popolo cristiano, della deformazione avvenuta con la divisione dell’Europa in due – da una parte il sistema retto dal papato, dall’altro quello che ha fatto delle Scritture sacre un pretesto per dividere il cristianesimo – Pucci chiese al papa di farsi promotore di un progetto di ritorno all’unità. In questo esito finale dell’esperienza di un esule si rende evidente un carattere originale delle attese e delle speranze religiose italiane: l’aspirazione all’unità, il rifiuto delle divisioni dottrinali, la disponibilità a investire il papato di un’autorità superiore di origine divina purchè quell’autorità fosse usata per la guida morale della società cristiana.
30Ma a questa data il movimento riformatore italiano era stato sconfitto, gli eretici costretti all’esilio e le idee che avevano animato il movimento avevano preso altre strade.
31La svolta era avvenuta intorno alla metà del secolo. La datazione al 1542 del passaggio dall’evangelismo alla controriforma, già proposta da Cantimori, è stata variamente discussa e precisata. Se in quell’anno la nascita della congregazione dell’Inquisizione e la fuga di Bernardino Ochino dettero il segno di una Chiesa romana che passava al contrattacco, dovevano trascorrere ancora diversi anni prima che l’urgenza di una scelta si avvertisse davvero. Si è generalmente d’accordo sul fatto che il segno più drammatico della fine delle incertezze lo dette la lunga agonia e la morte disperata il 28 dicembre 1548 del giureconsulto veneto Francesco Spiera, convinto di essere irrimediabilmente dannato per aver accettato di rinnegare le sue convinzioni con l’abiura davanti all’inquisizione. Fu quello l’avvenimento che dette a Pier Paolo Vergerio «l’impulso decisivo ad abbandonare la chiesa cattolica e l’Italia», ha scritto Silvano Cavazza47. La storia del suo caso conobbe una immediata diffusione in tut-ta Europa e un fiorire di interpretazioni e di discussioni tra il 1548 e il 1549: così mentre in Germania l’Interim di Carlo V assicurava il diritto di cittadinanza ai convertiti alla Riforma, nella Repubblica di Venezia che era lo stato italiano più vicino al mondo tedesco e più aperto alle nuove idee si voltava pagina. Di lì a poco, la scelta dell’esilio da parte di Pietro Martire Vermigli e, dietro il suo esempio, quella di Galeazzo Caracciolo (1551) offrirono un modello di scelta non nicodemitica ma resero anche evidente che il tempo dell’attesa e dell’incertezza era finito48. L’espulsione violenta o la vera e propria eliminazione dei gruppi più compatti di eterodossi cancellò i valdesi della Calabria e della Puglia49 e mise alle strette quelli delle valli piemontesi; costrinse nell’ombra i lucchesi passati alla Riforma che non emigrarono; impose alla comunità riformata italiana di Locarno di affrontare un duro esilio verso Zurigo. Rimasero isolati tentativi di sostenere chi intendeva «fuggire le superstizioni» cioè i riti cattolici diffondendo la conoscenza dei consigli di Calvino (i più rigidi) di Melantone e di Bucero (molto più flessibili e adattabili alle concrete situazioni di paesi cattolici)50.
32Il momento di massima divaricazione ereticale raggiunto all’interno della società italiana è stato fissato intorno alla metà del ’500, con l’ondata di delazioni e di abiure che misero in luce la profondità del dissenso religioso. I costituti di don Pietro Manelfi documentano la diffusione popolare delle nuove idee della Riforma e soprattutto le punte dottrinali estreme di tipo anabattistico raggiunte dalla elaborazione ereticale. L’attenzione alle religioni delle classi popolari ha stimolato la ricerca di John Martin sul mondo degli artigiani veneziani che ha confermato le osservazioni di L. Febvre sulla diffusione delle nuove dottrine in Francia: i nobili hanno scarso interesse per la Riforma mentre artigiani e classi popolari ne sono più attirati51. All’indagine sui processi inquisitoriali come documento non solo delle dottrine eterodosse ma anche dei conflitti di potere ad alto livello ha dato un potente impulso il lavoro assiduo svolto da Massimo Firpo sia nell’edizione dei grandi processi del ’500 contro gli «spirituali» (con la collaborazione di Dario Marcatto e di Sergio Pagano) sia negli studi sulla fondazione della macchina inquisitoriale e sui suoi effetti nel modificare la struttura del governo ecclesiastico e le regole di avvicendamento dei pontefici. Inserendosi nel percorso aperto dagli studi di Delio Cantimori, Luigi Firpo e Antonio Rotondò, Massimo Firpo ha concentrato il suo interesse sull’episodio centrale del conflitto di potere interno alla Chiesa cattolica determinatosi a metà ’500 in materia di strategie di confronto con la Riforma. Il disegno che ne è emerso ha rinnovato un antico tema della storia religiosa italiana del ’500, quello di volta in volta definito dell’»evangelismo» o «paolinismo», degli erasmiani o – col termine ormai affermato – degli «spirituali». Il disegno che gli studi di Firpo hanno sostanziato di documenti è quello di un’origine valdesiana della tendenza «spirituale» (con lontane ascendenze dagli «alumbrados» spagnoli), uno sviluppo e una crescita di importanza negli anni ’30 e ’40 del secolo (con prospettive di guadagnare il vertice della Chiesa con Reginald Pole o di modificare profondamente la vita di una diocesi con Soranzo), uno scontro finale con la fazione conservatrice dominata dal Carafa e l’arretramento difensivo di personaggi come il Morone mentre altri sceglievano l’esilio o salivano sul patibolo52. Questo filone centrale e più noto della crisi religiosa italiana ha sempre attirato la maggiore attenzione degli storici proprio per gli ambigui caratteri di quell’orientamento allora diffuso e che fu chiamato degli «spirituali»: era un orientamento che, collocando tra gli «adiaphora» differenze di dottrina e di pratiche rituali, riducendo il numero dei fundamentalia fidei e insistendo sulla carità fraterna e sulla elementare moralità cristiana apriva esiti all’indifferenza nei confronti di ogni chiesa e di ogni formulazione dottrinale oltre che di ogni pratica sacramentale. Ma era anche possibile ripiegare da lì verso la scelta della simulazione e dissimulazione («nicodemismo») quando veniva il momento della scelta pubblica se confessare la pro-pria fede o abiurare. Erano state queste le caratteristiche dell’evangelismo segnalate da Cantimori discutendo una ricerca sull’argomento di Eve-Marie Jung ispirata da indicazioni di don Giuseppe De Luca53. Gli studi hanno precisato e arricchito il quadro di una grande quantità di elementi nuovi, confermando questi caratteri fondamentali. Ne faceva parte, ad esempio, una decisa ripulsa nei confronti della dottrina calviniana della predestinazione come pure una naturale cedevolezza davanti alla pressione congiunta di confessori e di inquisitori cattolici, che raccolse gran messe di abiure e di denunzie da cui quella diffusa simpatia per le idee di riforma uscì re-pressa e sconfitta. Emblematico il caso del predicatore francescano Sisto da Siena, processato dall’Inquisizione nel 1551 per aver predicato in materia di predestinazione a Venezia e reintegrato dopo aver denunziato il gruppo di «eretici» con cui era in contatto54. L’analisi delle origini culturali e religiose delle tendenze «spirituali», allora sbrigativamente catalogate dagli inquisitori di mestiere come «eretici luterani», ne ha illuminato le radici sovranazionali (spagnole coi fratelli Valdés e gli «alumbrados», francesi con Jacques Lefèvre d’Etaples e il «circolo di Meaux») nonchè le ragioni storiche che resero possibile il radicamento italiano e l’efficacia durevole di temi e di atteggiamenti di varia origine. Ed è qui che vediamo l’incontro tra la realtà di una sola Chiesa (quella italiana governata da Roma) e il sogno di due chiese capace di accordare senza fratture una vasta e indefinita comunità dei cristiani con la piccola comunità di eletti dove si svolge la vita spirituale del gruppo, quale fu ad esempio l’Ecclesia Viterbiensis raccolta intorno a Reginald Pole. Sempre da questo nucleo si produsse talvolta l’esito pienamente ereticale di rifiuto di ogni chiesa come potere e come istituzione. Intorno a questo nucleo si incontrano personaggi influenti del mondo culturale ed ecclesiastico italiano: da qui si irraggiano tendenze diversissime che animeranno uomini impegnati nella Chiesa della Controriforma e spiriti inquieti in conflitto con le chiese della Riforma. Del fascino che emanava da questi ambienti e del modo del loro irraggiamento è fonte privilegiata la corrispondenza, col suo misto di confidenza intima e di proposta esemplare, di luogo d’incontro di spiriti eletti e di testimonianza di una vita religiosa fortemente soggettiva e libera da vincoli istituzionali55.
33Ma intorno a questo nucleo centrale della storia religiosa italiana del ’500 si sono moltiplicate indagini in ogni direzione che hanno portato alla scoperta di una straordinaria varietà e ricchezza di aspetti di un paese dove tradizioni precristiane e specificità locali vennero illuminate dalla luce cruda della lotta tra Chiesa Romana e Riforma. In primo piano è rimasto negli studi l’aspetto della espulsione forzata o dell’esilio volontario dei dissenzienti, dai seguaci di Lutero, di Zwingli, di Calvino agli eretici radicali. Sui tempi e sui modi dell’esilio non abbiamo una ricerca adeguata. È evidente tuttavia che si trattò di un fenomeno complessivo ma differenziato per le diverse realtà italiane: nella piccola realtà lucchese, ad esempio, fu determinante la minaccia dell’introduzione dell’Inquisizione romana, mentre Venezia istituì la magistratura dei Savi all’Eresia tenendo d’occhio il mutare del quadro tedesco e la vittoriosa campagna condotta da Carlo V56. Diverse le cause locali e i tempi, il fenomeno dell’esilio degli italiani acquista una sua caratteristica comune negli esiti fuori d’Italia. È qui che la storia italiana si salda a quella di altri paesi europei attraverso fenomeni di diffusione del grande patrimonio culturale italiano dell’epoca: il censimento dei protagonisti e dei temi di questa emigrazione raccolto con paziente e meritoria fatica da John Tedeschi disegna un panorama di grande ricchezza57. Insieme alla lingua e alla letteratura, quegli esuli portarono con sé le loro idee in materia di chiesa e di religione: e non è certo un caso che i giudizi sugli italiani esuli che si colgono nelle lettere dei capi delle Chiese della Riforma siano sempre di sospetto e di preoccupazione: inquieti, litigiosi, refrattari alla disciplina ecclesiastica, portatori di dubbio e di dissenso. L’eliminazione di gruppi locali di dissidenti o di seguaci di altre religioni ha lasciato tracce nelle fonti inquisitoria li. È stato possibile così svelare pagine inedite della cancellazione dei valdesi di Calabria o delle comunità riformate del Napoletano58. In direzione di dimensioni nuove e inesplorate della storia italiana ha aperto nuove strade uno storico creativo e geniale come Carlo Ginzburg: i suoi Benandanti (1966) e il suo Formaggio e i vermi (1976) hanno dato sostanza di ricerca alla tesi di una tipicamente italiana commistione di folklore, magia, religione come caratteri originali della storia religiosa italiana. Inoltre la scelta di scavare nella cultura e nella mentalità di figure delle classi popolari, dal friulano Menocchio al modenese Pighino, ha permesso di scoprire insospettate radici popolari di tendenze verso la libertà religiosa, la pratica delle virtù morali e l’indifferenza nei confronti dei conflitti ecclesiastici nonchè una tendenza al radicalismo religioso e al naturalismo scientifico di cui conoscevamo esempi celebri nella storia di eretici come Giordano Bruno.
34Il processo di uniformazione religiosa della popolazione di un paese politicamente diviso e socialmente e culturalmente assai differenziato è stato indagato attraverso lo studio di come si sono venute formando le reti di controllo inquisitoriale. Ma accanto alla sorveglianza dei tribunali dell’Inquisizione, di cui John Tedeschi ha documentato il carattere di istituzione retta da regole e tendenzialmente garantista nei confronti dei «rei», è emersa negli studi l’importanza del tribunale della confessione, l’unico veramente capace di raggiungere ogni individuo all’interno della società cristiana59.
35Per quanto riguarda la periodizzazione che abbiamo iniziato a fissare, è un fatto che dopo la metà del secolo e la massiccia operazione poliziesca scatenata dalla delazione del Manelfi nel 155160 protagonisti e forme del dissenso vennero mutando. Mentre si avviava un controllo ordinato e sistematico dell’ortodossia, si apriva la via dell’esilio religionis causa e una lunga migrazione di spiriti inquieti faceva i conti coi mutevoli fronti disegnati dai conflitti aperti e dalle guerre di posizione in Europa. Nella dura battaglia tra forze ineguali e nel contesto della propaganda e dell’imposizione violenta di ortodossie in conflitto assunsero grande importanza le forme della simulazione e della dissimulazione delle convinzioni religiose individuali. Approfondendo la traccia di quello che Cantimori chiamò «nicodemismo» si sono svelate dimensioni nuove e inesplorate, sfuggite per loro natura all’attenzione di chi ha misurato il successo dell’una o dell’altra confessione attraverso gli episodi di martirio eroico e di resistenza esplicita. L’analisi delle forme di diffusione del messaggio religioso ha raggiunto livelli di grande raffinatezza61. La sopravvivenza del dissenso è stata attestata da casi individuali, da episodi celati nelle pieghe della documentazione che hanno stimolato la ricerca storica verso i modi di un esercizio poliziesco fatto di congetture e di attenta analisi di tracce disperse. Forme sotterranee e sommerse di sopravvivenza di religioni cancellate a forza sono state indagate raccogliendo e valutando gli indizi di permanenze segrete di diversità sotto la superficie di una unità apparente. Da un lato abbiamo il caso dei marrani che è il più noto e anche il più studiato. Dall’altro si sono raccolte prove consistenti del modo in cui la frattura aperta dalla Riforma luterana fra i rituali ufficiali e cristianesimo interiore si andò progressivamente allargando e approfondendo, originandosi da lì una scissione sostanziale fra dettato delle chiese e coscienza dei cristiani. In quello spazio aperto dalla divaricazione tra norme rituali e norme morali è andato crescendo il contributo italiano al mondo dei «cristiani senza chiesa» che attraversa nel ’600 e nel ’700 tutte le chiese costituite62. Ne sono emerse non solo forme estreme di distacco dalla religione ufficiale ma anche lunghe durate di tradizioni precristiane conservate dalla cultura orale delle classi popolari. Le due realtà sono emerse in due successivi studi di Carlo Ginzburg che interrogando le tracce labili lasciate da minoranze sconfitte ha portato alla luce da un lato il carattere aggressivo di una formulazione teorica e di una pratica del nicodemismo in ambienti di raffinata cultura giuridica e teologica e dall’altro la critica radicale della religione ufficiale diffusa tra le classi popolari. I pensieri di Otto Brunfels e quelli del mugnaio Menocchio hanno rivelato due facce diverse ma per certi aspetti complementari di un mondo sconosciuto e insospettabile a chi era abituato a pensare a una cristianità europea ordinatamente divisa tra le diverse confessioni: non è casuale che ne abbiano tratto argomento gli studiosi delle forme sotterranee di trasmissione dell’ebraismo in mezzo ai marrani per suggerire l’utilità della categoria del nicodemismo63. Fu a realtà di questo genere che la Chiesa cattolica dovette adattare le forme tradizionali del suo governo: l’esplorazione del segreto attraverso le tecniche congiunte della confessione e dell’inquisizione si sta rivelando sempre più come una componente essenziale della storia dei tribunali ecclesiastici e della discussione di teologi e canonisti. Il mondo occulto dei pensieri segreti è diventato l’oggetto di studi intorno alle tecniche della confessione più che alle torture dei tribunali di foro esterno. Il detto Ecclesia de occultis non iudicat è stato il filo conduttore di ricerche che dalla storia delle dottrine canonistiche sono passate ai processi di «costruzione del foro interno» e all’uso del foro esterno e della coercizione in funzione della difesa della Chiesa come istituzione64.
36Nelle norme inquisitoriali e nelle leggi penali trovò espressione la coscienza del valore politico della compattezza religiosa: il pensiero politico italiano da Machiavelli a Botero ebbe ben chiaro questo punto e le leggi che punirono come crimine di lesa maestà il dissenso religioso in Francia e in Inghilterra ne furono il frutto. Sotto una ortodossia obbligata e simulata era inevitabile che si nascondessero dissimulate eresie. Questo non significa negare l’importanza dei processi di conversione attraverso i quali si venne definendo il volto dell’Europa moderna e si fissarono le divisioni fra le diverse confessioni – quella appartenenza religiosa che oggi, spesso, viene assunta come l’unica e fondamentale sotto il termine ambiguo e minaccioso di «identità»65. Si trattava non solo di vincere ma anche e soprattutto di convincere. La consapevolezza dell’importanza di questo punto si è espressa negli sviluppi raggiunti negli ultimi anni dalle ricerche di storia delle conversioni: ne sono stati oggetto gli strumenti e le forze che generarono le appartenenze religiose più o meno scelte e più o meno subìte, i linguaggi e le forme della persuasione e della costrizione, i comportamenti di «martiri» e di «traditori» (in genere, le stesse persone viste dagli opposti osservatorii della fede abbracciata e di quella abbandonata)66. Ne ha fatto parte in primo luogo la storia della propaganda, con la gamma dei suoi strumenti: dalla predicazione alla diffusione di immagini, dall’uso della forza all’invenzione di miti e di culti, in un intreccio di modi e di mezzi che unì la convinta e anche eroica predicazione della verità in cui si credeva all’inganno deliberato, a buon fine o meno che fosse: la salvezza delle anime essendo il più grande obbiettivo da raggiungere, quello al quale tutto è subordinato. E accanto alle azioni di conversione si tiene sempre più conto anche di ciò che esse hanno provocato, delle incertezze e delle crisi nel senso di sé del convertito67. L’attenzione è dunque sempre più concentrata sui convertiti sia per cercare di afferrarne e comprenderne turbamenti e disagi sia per accertare quali istituzioni abbiano inquadrato la loro esistenza e quali e quante tecniche di persuasione e di controllo siano state impiegate nel governarne le coscienze.
37Per quanto riguarda la società italiana, basterà ricordare che vi fu altissimo l’investimento nell’opera di conversione e di riconquista da parte di individui e di istituzioni e che i caratteri del rapporto collettivo con la Chiesa ne furono profondamente modificati. Le reti della norma ecclesiastica ufficiale vi ebbero un peso ben più significativo di quello delle strutture statali. Questo è un carattere che differenzia il caso italiano dal caso francese: per citare ancora il motto francese «une foi, une loi, un roi», si può dire che in Italia l’unità politica manca e quella che conta è l’unità culturale e religiosa, «di lingua e d’altare» come diceva A. Manzoni. Perciò la domanda relativa ai caratteri e alla consistenza delle tendenze ereticali e anomiche ha acquistato nella storia d’Italia una importanza speciale intrecciandosi gli elementi di dissidenza a quelli di unità. La dissidenza e l’unità investirono i due fattori già ricordati dal Manzoni: la lingua e l’altare. E su questi punti dobbiamo sommariamente soffermarci nel concludere la nostra rassegna.
38Un fatto sembra ormai accertato: su chiesa e religione si svolse in Italia tra ’400 e 500 un confronto ampio, profondo e appassionato. Dopo gli studi che sono stati fatti non è più sostenibile l’antico pregiudizio sulla irreligiosità e sul cinismo degli italiani come tipologia nazionale. Non si tratta semplicemente di capovolgerlo ma di prendere atto che per la sua storia e per la sua cultura anche la realtà italiana fu coinvolta profondamente nel processo di riassetto delle pratiche religiose e dei poteri ecclesiastici che investì l’Europa occidentale tra ’400 e ’500.
39Nel passaggio dai tempi di Biondo a quelli di Machiavelli si consumò anche la punta più ardita dell’apertura umanistica al dialogo fra le religioni. Gli studi condotti in tempi recenti da Albano Biondi sulle tesi di Pico della Mirandola68 hanno riportato l’attenzione sulla sconfitta di quel celebre tentativo di sottoporre la teologia alla filosofia e di aprire la cultura cristiana ai depositi dei sapienti antichi («caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini»). Piercesare Bori ha approfondito questa traccia mostrando gli elementi di conflitto tra l’universalismo umanistico come ricerca della verità in tutte le religioni e l’universalismo cristiano come diffusione mondiale del cristianesimo voluta dalla Chiesa69. La confutazione elaborata da Pedro Garzias vescovo di Ales per incarico di Innocenzo VIII ribadì la preminenza della teologia sulla filosofia, definì eretiche molte tesi che toccavano sacramenti e dottrine cristiane, condannò le componenti magiche e cabalistiche della proposta di Pico. Fu la crisi della «primavera del Rinascimento», come scrisse Henri De Lubac. Tuttavia molti percorsi diversi si aprono a partire dall’opera di Pico: c’è una corrente di interessi per la Cabala ebraica e per una interpretazione mistica dei misteri depositati nella tradizione cabalistica che si diffuse nella cultura umanistica europea, raggiunse personaggi come Johannes Reuchlin e trovò un attento lettore nel cardinal Egidio da Viterbo. È stata giustamente sottolineata l’importanza a questo proposito della traduzione latina di testi cabalistici affidata nel 1486 da Giovanni Pico all’ebreo siciliano convertito Flavio Mitridate, alias Raimondo Monacada70. Ma la ricerca di depositi segreti di sapienza antica anzi antichissima non si limitò all’esplorazione della tradizione cabalistica. Negli studi sulla cultura storiografica del ’400 è venu-to sempre più delinandosi il contributo importante che fu dato da Giovanni Nanni o Annio da Viterbo all’elaborazione dell’idea di una mitica sapienza originaria depositata in terra etrusca da Noè-Giano. Falsario, fabbricante di apocrifi, ma anche ingegnoso costruttore di una concezione sacrale della storia come opera sacerdotale, Annio proiettò una lunga ombra sulle elaborazioni storico-profetiche dell’età successiva e suscitò l’interesse di diversi uomini portati alle speculazioni mistiche e visionarie: particolarmente significativa fu la ricezione che se ne ebbe in Francia, dallo stampatore Badio Ascensio a Guillaume Postel fino a Jean Bodin.
40I misteri egizi da lui propagandati, prima della lunga fortuna rinascimentale che giunge fino a Giordano Bruno, trovarono una consacrazione ufficiale da parte di papa Alessandro VI Borgia nel cui appartamento in Vaticano il Pinturicchio affrescò nel 1498 i miti di Iside e del bue Api seguendo probabilmente un programma redatto dallo stesso Annio. La celebrazione di un dio egizio nel cuore del palazzo papale è stata studiata da Edgar Wind come l’irruzione di misteri pagani nel cristianesimo. E già allora ci fu l’anonimo che affisse alle colonne del palazzo pontificio un carme in distici che invitava il Tevere a sommergere i buoi nelle sue onde: Bos cadat inferno, victima magna Iovi71. E tuttavia bisognerà tener presente che dagli stessi scritti di Annio Guillaume Postel ricavò l’annuncio di un ritorno alla Chiesa primitiva contro le deformazioni del mondo ecclesiastico dell’epoca sua72.
41Sono filoni diversi quelli che si dipartono da queste premesse quattrocentesche: da un lato abbiamo la suggestione nazionalistica e identitaria dell’antiquissima Italorum sapientia, dall’altro una disponibilità alla tolleranza e alla ricerca della verità al di fuori dei vincoli di ogni ortodossia che doveva lasciare tracce profonde. La suggestione delle tradizioni altre – quella della cabala come quella di Ermete Trismegisto, quella del materialismo antico veicolato dal poema di Lucrezio, quella della cultura araba e della tradizione averroistica – è stata oggetto di molte indagini storiche sulla cultura italiana nel lungo periodo che va dai cabalisti cristiani a Pomponazzi per arrivare fino a Giordano Bruno.
42La crisi italiana del ’500 investì quella tradizione culturale. Per chiarire i modi e i tempi di quella crisi si sono indagate le forme di dissidenza e di propaganda religiosa, ma anche le varie elaborazioni di proposte e di messaggi e la loro sorte negli anni della relativa libertà di stampa e di predicazione e in quelli della progressiva irreggimentazione sotto il segno del controllo e della censura. L’esplorazione degli archivi della repressione, soprattutto di quelli dell’inquisizione ecclesiastica, è andata avanti insieme agli studi su relazioni e atti di visita sullo stato della vita religiosa ordinaria nelle diocesi e nei conventi. Da un lato l’inchiesta protosociologica dei visitatori ecclesiastici dall’altro l’indagine protoantropologica degli inquisitori su idee e comportamenti hanno allargato il quadro delle nostre conoscenze. Ma è stato più in generale dalla storia culturale e politica che è giunto un insospettato allargamento di orizzonti. Come ha mostrato nella sua approfondita ricerca Massimo Zaggia73, fu sotto la pressione delle scelte dell’età della Riforma che la Sicilia, aperta all’influsso ebraico e musulmano e politicamente soggetta a sovrani spagnoli giunse a prendere coscienza dell’appartenenza culturale e religiosa all’Italia e a condividere le stagioni della religiosità italiana dalla predicazione dell’Ochino fino a quella dei gesuiti. Il contributo siciliano alle tendenze di riforma in Italia ebbe i nomi di eretici radicali come Camillo Renato e Giorgio Siculo. Che proprio in Sicilia venisse scritta la prima redazione del testo fondamentale della riforma italiana, il trattatello Del beneficio di Cristo, è un dato di fatto assai significativo. Le fonti e le fasi di elaborazione del testo come anche le forme della ricezione hanno sollevato molte discussioni e sono state al centro di ricerche molteplici. Ma un punto è evidente: si tratta di un testo a stampa nel volgare letterario che si era affermato grazie al magistero del Bembo; vi si esprimeva in forma accessibile a qualunque lettore una religiosità essenzialmente personale e soggettiva, fondata su sentimenti e moti interiori, da cui era assente sia ogni definizione dottrinale dell’ortodossia sia la Chiesa come istituzione. Su queste basi fu possibile raccogliere intorno alla proposta del libretto una vasta gamma di posizioni teologiche, di inquietudini e di speranze. Di fatto il consenso dei lettori premiava una proposta religiosa che non comportava la rottura esplicita con la Chiesa di Roma e chiedeva l’adesione alla dottrina della giustificazione per fede tacendone le «illazioni». Il gruppo degli «spirituali», cioè di quegli uomini di chiesa che si riconoscevano nella predicazione evangelica di Bernardino Ochino e dei primi cappuccini e nell’azione di uomini come il cardinal Gaspare Contarini per la riforma della Curia romana e per la riunione coi protestanti, rimase a lungo legato alla speranza di un rinnovamento religioso interno della Chiesa di Roma e si affidò per questo alla figura carismatica del cardinale Reginald Pole. Come ha osservato Massimo Firpo, ci sono «sorprendenti nessi» tra la diffusione di istanze di riforma religiosa e l’affermazione della lingua volgare come strumento di comunicazione tra i laici delle più ardue questioni teologiche fino ad allora patrimonio dei teologi di mestiere74. E più tardi dovevano esserci altri nessi, forse meno sorprendenti, tra la rinnovata disciplina dei vescovi tridentini e la diffusione del volgare come lingua di comunicazione di un clero «pastorale»75. Anche in questo caso sembra che la Chiesa cattolica nella sua ripresa abbia dimostrato di avere imparato qualcosa dalla crisi e dalle forme del dissenso.
43Sta di fatto che la partecipazione alle discussioni religiose maturò in Sicilia insieme alla scelta dell’élite culturale per la lingua toscana codificata dal Bembo. Il passaggio intorno a metà ’500 dal volgare di umanisti e letterati e predicatori mossi da un nuovo fervore religioso al latino delle scuole dei gesuiti fu qualcosa che riguardò la Sicilia ma anche più in generale la società italiana. Il legame indicato da Carlo Dionisotti fra «l’evangelismo e il riformismo italiano da un lato e la nuova lingua e letteratura volgare dall’altro» è stato confermato con abbondanza di prove da Massimo Firpo76. Il riassetto della presenza della Chiesa romana in Italia passò attraverso una disciplina dei fatti linguistici e letterari che stiamo ancora imparando a conoscere sempre più da vicino. E qui incontriamo non l’ordinanza reale di Villers-Cotteret ma le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo e la disciplina autoimpostasi dalla società letteraria italiana, a cui si sovrappose in seguito la diversa disciplina dell’Inquisizione e dell’Indice. Si tratta di materia aperta a verifiche e scoperte da quando si sono resi accessibili agli studiosi i depositi della Congregazione dell’Indice ma i cui lineamenti d’insieme sono chiari: una censura di carattere morale oltre che teologico mirò a filtrare l’intera tradizione letteraria, mentre al latino restava affidata, con la materia teologica, la vita simbolica e rituale della Chiesa. Il panorama è molto vasto e complesso. La circolazione del sapere religioso in volgare tra i laici fu interdetta in forma rigida, colpendo soprattutto la lettura della Bibbia in volgare77. Invece fu più circospetta l’azione nei confronti della tradizione letteraria illustre dell’italiano: Boccaccio fu consentito in forma espurgata grazie all’impegno di Vincenzo Borghini, di Machiavelli si tentò senza successo la via di un’edizione degli scritti sotto pseudonimo. Religione, arte e cultura avevano manifestato orientamenti sospetti intorno agli anni ’40, quando Vittoria Colonna e Michelangelo ascoltavano le prediche dell’Ochino e i nudi della Sistina scandalizzavano i conservatori. L’abilità con cui la Chiesa si appropriò dell’eredità di Michelangelo nonostante le sue inquietudini religiose mentre condannava l’Ochino e censurava la poesia religiosa in volgare doveva caratterizzare stabilmente la capacità romana di appropriarsi di importanti veicoli di egemonia artistica. La successiva vicenda della lingua e della cultura italiana può essere seguita lungo due distinti percorsi: fuori d’Italia, dove grazie all’opera degli esuli religionis causa ne fu assicurata la diffusione internazionale; in territorio italiano, dove la letteratura fu disciplinata dall’intervento della censura ecclesiastica, ma si dedicò molta cura nell’accogliere una grande e prestigiosa eredità a gloria della Roma papale. Le strutture della produzione letteraria furono governate dall’opera delle Accademie come forme di autogoverno dei dotti mentre si elaboravano forme di contatto al di sopra delle Chiese che dettero forma alla respublica litteraria christiana78. All’interno dell’Italia cattolica, mentre il latino restava la lingua della liturgia e della teologia, la lingua volgare divenne strumento di comunicazione e di governo da parte del corpo ecclesiastico come mostra l’enorme epistolario di san Carlo Borromeo. In questo modo fu assicurata l’unità linguistica di territori politicamente diversi, alcuni dei quali rimasti stabilmente al di fuori dello Stato italiano, come i baliaggi ticinesi della Svizzera79.
44Per quanto riguarda la più generale unità religiosa italiana ricostituita sotto una sola Chiesa, resta comunque difficile penetrare il silenzio e il segreto che circondarono chi si nascose dietro simulazione e dissimulazione, resistendo da un lato all’invito di Calvino a confessare pubblicamente la verità accolta nel cuore, e dall’altro all’imposizione cattolica di una confessione piegata a strumento inquisitoriale. Nell’esperienza italiana le due versioni dell’invito alla scelta aperta di campo si produssero negli stessi anni: alla metà del ’500, mentre Lelio Sozzini discuteva in via epistolare con Calvino sui limiti entro i quali si poteva dissimulare la verità evangelica e piegarsi ai riti cattolici, la Chiesa romana costringeva i laici in occasione della confessione annuale obbligatoria a denunziare sospetti e indiziati di eresia e di lettura dei libri proibiti al tribunale dell’Inquisizione senza di che non si poteva avere l’assoluzione sacramentale.
45Il cinquantennio di studi successivo alle Prospettive ereticali di Delio Cantimori appare dunque segnato da quella stessa svolta che portò lo storico degli eretici a rivolgere l’attenzione alla storia italiana abbandonando il disegno tracciato nell’opera maggiore: domande e ricerche si sono concentrate soprattutto sugli sviluppi della storia italiana e in particolare sui modi di radicamento della Chiesa di Roma nella società italiana. La prospettiva europea continua a esse-re viva in chi esplora il contributo degli esuli religionis causa alla diffusione della cultura italiana nel mondo, come John Tedeschi80; o in chi, come Antonio Rotondò, affronta lo studio dell’affermazione della tolleranza e propone suggestivi quanto precisi sondaggi su irenismi, progetti di tolleranza civile e di tolleranza ecclesiastica, rivendicazioni della libertà di coscienza nello specchio della cultura olandese del ’600 e del ’70081. Lungo questi percorsi ritroviamo temi e testi del mondo ereticale cantimoriano, da Celio Secondo Curione a Lelio e Fausto Sozzini: in quell’Olanda fu ristampata l’opera maggiore di Curione e operarono i nuclei concettuali più profondi del pensiero sociniano82. Ma a quella data la scia lasciata dai Socini eretici non suscitava più preoccupazioni nelle autorità ecclesiastiche: a Roma ci si preoccupava di come accogliere i molti che si recavano nella città capitale del cattolicesimo per convertirsi. E doveva essere proprio un Mariano Sozzini, tardo erede della celebre famiglia senese, fattosi sacerdote, a dare forma al progetto di un «ospizio dei convertendi»83. Si capisce perciò che per gli storici della società italiana sia piuttosto l’eredità lasciata all’Italia dalla vittoria della Chiesa a stimolare in maggior misura indagini e domande.
Notes de bas de page
1 Th. Waneggfelen, Ni Rome ni Genève. Des fidèles entre deux chaires en France au xvie siècle, Parigi, 1997.
2 Cfr. B. Cerretani, Dialogo della mutatione di Firenze, a cura di G. Berti, Firenze, 1993, p. 17.
3 Di cui si ricordi almeno l’opera d’insieme su La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, 1992, 19972.
4 La lettera di Giovannini al granduca, datata 22-24 gennaio 1601, è citata da J.-F. Dubost, La France italienne, xvie-xviie siècle, Parigi, 1997, p. 72-73.
5 Cfr. M. Turchetti, Concordia o tolleranza? François Bauduin (1520-1573) e i «moyenneurs», Ginevra, 1984, p. 181.
6 Cfr. O. Christin, Lazarus von Schwendi: un «politique» allemand?, in De Michel de l’Hospital à l’édit de Nantes. Politique et religion face aux églises, Université Blaise Pascal, 2002, p. 85-96.
7 G. Muzio, Selva odorifera, Venezia, Gio. Andrea Valvassori detto Guadagnino, 1572, p. 137 (Discorso sopra il Concilio che s’ha da fare et per la union di Italia).
8 Il 22 maggio 1590 si aprì a Roma un processo pro fisco Sancti Officii contra retinentes imaginem pretensi Regis Navarrae di cui si conservano i verbali tra i manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi.
9 A. Tallon, Conscience nationale et sentiment religieux en France au xvie siècle. Essai sur la vision gallicane du monde, Parigi, 2002.
10 G. Spini, Ricerca sui libertini, Roma, 1950, p. 12-13.
11 P. Prodi, Ricerche e questioni aperte di storia del cristianesimo nella seconda metà del Novecento: l’epoca moderna. Ringrazio l’autore per avermi comunicato il suo saggio inedito.
12 Cfr. R. Vivarelli, I caratteri dell’età contemporanea, Bologna, 2005, p. 25 e passim.
13 C. Gilly, Erasmo, la reforma radical y los heterodoxos radicales españoles, in T. Martìnez Romero (a cura di), Les lletres hispàniques als segles xvi, xvii i xviii, Castelliò de la Plana, 2005, p. 225-376.
14 J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity 1650-1750, Oxford, 2001.
15 «Il tentativo della Chiesa romana è quello di costruire una sovranità parallela di tipo universale; non riuscendo più a sostenere la concorrenza sul piano degli ordinamenti giuridici punta tutte le sue carte sul controllo della coscienza» (P. Prodi, Ricerche e questioni... cit., ibidem).
16 «During recent years in Italy more scholarly books have appeared on heretical sects than on modern Catholicism» (A. Momigliano, Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, 1980, I, p. 335).
17 D. Cantimori, Prospettive di storia ereticale italiana del ’500, (1960) ora in Id., Eretici italiani del Cinquecento e altri studi, Torino, 1992.
18 D. Cantimori, Prospettive di storia ereticale... cit., p. 480.
19 F. Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano, (1938), ora in Id., Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, 1971, p. 233: «Co-me s’era dunque svolta, nella realtà, questa vita religiosa lombarda [...]?».
20 [...] Nostra [...] tempestate [...] non docti solum, verum etiam ii, qui lanificio, aut in tonstrinis sutrinisque victum sibi comparant, de mysteriis ipsis arcanis, atque omnino occultis disputant, ac aliis rem tantam velut hactenus ignoratam aperire contendunt (G. B. Folengo, Commentaria in primam D. Joannis Epistolam, Jo. Baptista Folengio monacho Mantuano auctore, Venezia, 1546, c. 2v).
21 R. Scribner, Popular Culture, Londra, 1987; O. Niccoli, Rinascimento anticlericale, Bari, 2005, p. 15.
22 A. Rotondò, Anticristo e Chiesa Romana, in Forme e destinazione del messaggio religioso. Aspetti della propaganda religiosa nel Cinquecento, Firenze, 1991, p. 19-164; v. p. 66.
23 De futuris Christianorum triumphis contra Turcos et Mahumetanos sive glossa in Apocalypsim, Genova, per Baptista Cavalum, 1480, copia in Bibl. Apostolica Vaticana, Inc. Ross. 787 (1).
24 Fondamentale su di lui la voce redatta da E. Garin in Dizionario biografico degli Italiani.
25 Dopo il fondamentale lavoro di G. Zarri, Le sante vive, Torino, 1990, v. T. Herzig, The Rise and Fall of a Savonarolan Visionary: Lucia Brocadelli’s Contribution to the Piagnone Movement, in Archiv für Reformationsgeschichte, 95, 2004, p. 34-60.
26 Cfr. D. Solfaroli Camillocci, I devoti della carità. Le Confraternite del Divino Amore nell’Italia del primo Cinquecento, Napoli, 2002, p. 242-43.
27 Su cui si veda ora A. Jacobson Schutte, Aspiring Saints. Pretense of Holiness, Inquisition and Gender in the Republic of Venice, 1618-1750, Baltimora-Londra, 2001.
28 Cfr. M. Reeves (a cura di), Prophetic Rome in the high Renaissance Period, Oxford, 1992.
29 F. Meyer, La comunità riformata di Locarno (1836), trad. it. a cura di B. Schwarz, Roma, 2005.
30 Si veda dello scrivente Tribunali della coscienza. Inquisitori confessori missionari, Torino, 1996, p. 33-34.
31 Cfr. K. Benrath, Geschichte der Reformation in Venedig (Schriften des Vereins für Reformationsgeschichte), Halle, 1886, p. VII.
32 P. Prodi, Il sovrano Pontefice, Bologna, 20062, p. 27.
33 Roma ristaurata, et Italia illustrata di Biondo da Forlì, tradotte in buona lingua volgare per Lucio Fauno, Venezia, 1542, c. 61v-62r.
34 N. Machiavelli, Il Principe, cap. XI (cito dall’ediz. delle Opere di Machiavelli a cura di C. Vivanti, Torino, 1997, vol. I, p. 148).
35 F. Guicciardini, Ricordi, ed. Spongano, p. 33; e v. Storia d’Italia, l. XIII, cap. XV.
36 E. Massa, Una cristianità nell’alba del Rinascimento. Paolo Giustiniani e il Libellus ad Leonem X (1513), Genova-Milano, 2005, p. 384.
37 S. D. Bowd, Reform before Reformation. Vincenzo Querini and the Religious Renaissance in Italy, Brill, 2002.
38 A. Tallon, Conscience nationale et sentiment religieux... cit.
39 Cfr. B. Maes, Le roi, la Vierge et la nation. Pèlerinages et identité nationale entre guerre de Cent Ans et Révolution, Parigi, 2002.
40 Cfr. G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’500, Torino 1990; O. Niccoli, Profeti e popolo nell’Italia del Cinquecento, Bari 1984.
41 Sul trattato di Pole sul Papato e l’inedita versione in italiano che se ne conserva si veda dello scrivente Il principe, il cardinale, il papa. Reginald Pole lettore di Machiavelli in Cultura e scrittura di Machiavelli, atti del convegno di Firenze-Pisa, Roma 1998, p. 241-262 (questo studio è sfuggito al pur accurato libro di Michael Wyatt, The Italian Encounter with Tudor England. A Cultural Politics of Translation, Cambridge, 2005). Per un saggio complessivo e aggiornato sul personaggio cfr. Thomas Mayer, Reginald Pole, Prince and Prophet, Cambridge 2000.
42 P. Prodi, Vecchi appunti e nuove riflessioni su Carlo Sigonio, in «Nunc alia tempora alii mores». Storici e storia in età postridentina, atti del convegno internazionale, a cura di M. Firpo, Firenze 2005, p. 291-310; v. p. 299.
43 Cfr. D. Cantimori, Visioni e speranze di un ugonotto italiano, in Rivista storica italiana, LXII, 1950, p. 199-217.
44 Cfr. A. Tallon, La France et le Concile de Trente (1518-1563), Roma, 1997; I. Fernàndez Terricabras, Felipe II y el clero secular. La aplicaciòn del Concilio de Trento, Madrid, 2000.
45 Sulle forme del sentimento religioso e delle idee che si espressero nella circolazione di testi erasmiani è indispensabile opera di riferimento il fondamentale libro di S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, 1987. Cfr. il censimento proposto da A. Jacobson Schutte, Printed Italian Vernacular Religious Books, 1465-1550. A Finding List, Ginevra, 1983.
46 Su Agostino e la nozione di correptio cfr. P. Brown, Religious Coercion in the Later Roman Empire, in History, XLVIII, 1963, p. 283-305; ora in Religion and Society in the Age of Saint Augustine, Londra, 1972.
47 S. Cavazza, Bonomo, Vergerio, Trubar: propaganda protestante per terre di frontiera, in G. Hofer (a cura di), «La gloria del Signore». La Riforma protestante nell’Italia nord-orientale, Gorizia, 2006, p. 91-157; v. p. 117.
48 Cfr. per alcune indicazioni di ricerca sul celebre caso del nobile napoletano il recente saggio di Jeannine E. Olson, An Exemple from the Diaspora of the Italian Evangelicals: Galeazzo Caracciolo and His Biographies, in Reformation, 10, 2005, p. 45-76.
49 Cfr. P. Scaramella, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria (15541703), Napoli 1999. Sulla direzione romana dell’opera inquisitoriale nel Viceregno napoletano è ora uscito dello stesso autore una fondamentale edizione di fonti: Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli 1563-1625, Trieste-Napoli 2002 (ma in realtà 2006).
50 Sulla traduzione e la stampa fiorentina del 1551 si veda ora E. Garavelli, Lodovico Domenichi e i «Nicodemiana» di Calvino. Storia di un libro perduto e ritrovato, Roma, 2004.
51 John Martin, Venice’s Hidden Enemies. Italian Heretics in a Renaissance City, Berkeley, 1993.
52 Per una sintesi delle indagini di Firpo sull’argomento cfr. M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (15091580) e il suo processo d’eresia (nuova edizione riveduta e ampliata), Brescia, 2005. Dopo la recente edizione del processo contro Soranzo Firpo ha in preparazione un saggio storico sull’argomento (cfr. M. Firpo, S. Pagano, I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558), Città del Vaticano, 2004).
53 La lettera di Cantimori alla Jung è stata parzialmete edita da C. Ginzburg e A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino, 1975, p. 21. Il saggio di E. M. Jung (On the Nature of Evangelism in Sixteenth-Century Italy; in Journal of the History of Ideas, XIV, 1953, p. 511-27) preludeva a studi che sono stati pubblicati successivamente (E. M. Jung, Il pianto della Marchesa di Pescara sopra la passione di Cristo, in Archivio italiano per la storia della pietà, X, 1997, p. 115-204).
54 Cfr. Fausto Parente, Quelques contributions à propos de la biographie de Sixte de Sienne et de sa (prétendue) culture juive, in D. Tollet (a cura di), Les églises et le Talmud, Paris, 2005, p. 57-94.
55 Cfr. A. Jacobson Schutte, The Lettere volgari and the Crisis of Evangelism in Italy, in Renaissance Quarterly, XXVIII, 1975, p. 639-688; e per i rapporti tra Italia e Francia cfr. B. Collett, A Long and Troubled Pilgrimage. The Correspondance of Marguerite d’Angouleme and Vittoria Colonna, 1540-1545, fasc. speciale di Studies in Reformed Theology and History, n. s., 6, 2000.
56 Su Lucca cfr. S. Adorni, «Una città infetta». La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze, 1994; per Venezia l’osservazione di S. Cavazza, Bonomo, Vergerio, Trubar... cit., p. 122.
57 J. Tedeschi, The Italian Reformation of the Sixteenth Century and the Diffusion of Renaissance Culture: A Bibliography of the Secondary Literature (ca. 1750-1997), Ferrara, 2000. Sul tema dei rapporti tra emigrati italiani e cultura elisabettiana v. ora Wyatt, The Italian Encounter cit.
58 Cfr. P. Scaramella, Con la croce al core». Inquisizione ed eresia in Terra di Lavoro (1551-1564), Napoli, 1995; id., L’Inquisizione romana e i valdesi di Calabria cit.
59 Cfr. J. Tedeschi, The Prosecution of Heresy. Collected Studies on the Inquisition in Early Modern Italy, Binghamton-New York, 1999, e G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze, 1990.
60 Cfr. l’edizione curata da C. Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago, 1970.
61 Forme e destinazione del messaggio religioso. Aspetti della propaganda religiosa nel Cinquecento, a cura di A. Rotondò, Firenze, 1991.
62 Cfr. L. Kolakowski, Chrétiens sans Église. La conscience religieuse et le lien confessionnel au xviie siècle (Varsavia, 1963), trad. francese Parigi, 1969.
63 Cfr. C. Ginzburg, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del ’500, Torino, 1970; Id., Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, 1976. Il modello della microstoria e l’esempio del caso di Menocchio studiato da Ginzburg sono stati proposti da M. Muslow e R. H. Popkin per lo studio della trasmissione delle convinzioni religiose ebraiche tra i mar rani (Secret Conversions to Judaism in Early Modern Europe, ed. M. Muslow e R. H. Popkin, Leida-Boston, 2004, p. 16-17). Sulla lunga durata delle trasmissioni occulte di memorie religiose represse e apparentemente cancellate cfr. N. Wachtel, La foi du souvenir. Labyrinthes marranes, Parigi, 2001.
64 Si veda l’approfondimento di indicazioni del fondamentale volume di P. Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, 2000, nello studio di J. Chiffoleau, «Ecclesia de occultis non iudicat»? L’Église, le secret, l’occulte du xiie au xve siècle, in Micrologus, XIV, Il segreto, Firenze, 2006, p. 359-481.
65 Cfr. A. Maalouf, Les identités meurtrières, Parigi, 1998; trad. it. Milano, 1999.
66 Una serie di sondaggi su casi e aspetti del problema tra il Medioevo e l’età moderna e tra l’Europa, il Perù e la Cina è offerta dalla raccolta curata da K. Mills e A. Grafton, Conversion. Old World and New, Rochester-New York, 2005. Invece, sotto il titolo generale della raccolta di saggi a cura di D. Tollet, Conversions et politique, Parigi, 2005, sono raccolti quasi esclusivamente saggi sui rapporti tra ebrei e cristiani in età moderna.
67 Cfr. M. Leone, Religious Conversions and Identity. The Semiotic Analysis of texts, Londra, 2004.
68 G. Pico della Mirandola, Conclusiones nongentae. Le novecento tesi dell’anno 1486 a cura di A. Biondi, Firenze, 1995.
69 Cfr. P. Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana, Milano, 2000.
70 L’opera è stata riproposta ora da Giulio Busi nell’ambito di un progetto editoriale relativo alla biblioteca cabalistica di Pico: The Great Parchment. Flavius Mithridates’ Latin Translation, the Hebrew Text, and an English Version, ed. G. Busi, S. M. Bondoni e S. Campanini, Torino, 2004. Sul dilemma cinquecentesco della cultura umanistica al bivio tra razionalismo eretico ed ermetismo magico richiama giustamente l’attenzione Michael H. Keefer in un saggio su di un au-tore il cui grande successo tra i lettori dell’epoca aspetta una ricerca adeguata (Agrippa’s Dilemma: Hermetic ‘Rebirth’ and the Ambivalences of De vanitate and the Occulta Philosophia, in Renaissance Quarterly, XLI, 1988, p. 614-653; v. p. 616). Uno studio su Agrippa è promesso ora da Simonetta Adorni Braccesi.
71 Cfr. O. Niccoli, Rinascimento anticlericale... cit., p. 6.
72 Cfr. A. Biondi, Annio da Viterbo e un aspetto dell’orientalismo di Guillaume Postel, in Bollettino della Società di studi valdesi, 93, 1972.
73 M. Zaggia, Tra Mantova e la Sicilia, Firenze, 2003.
74 Cfr. M. Firpo, «Disputar di cose pertinente alla fede». Studi sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, Milano, 2003, p. 8.
75 Sandro Bianconi, attento indagatore di queste forme di diffusione dell’italiano, ne ha offerto un esempio importante col suo ultimo libro: Giovanni Basso Prevosto di Biasca (1552-1629), Locarno, 2005.
76 Cfr. C. Dionisotti, Geografia e storia, Torino, 1967, p. 187; M. Firpo, Riforma religiosa e lingua volgare nell’Italia del Cinquecento, in Id., «Disputar di cose pertinente alla fede» cit. n. 74, p. 121-140.
77 G. Fragnito, La Bibbia al rogo, Bologna, 1997.
78 Cfr. H. Bots e F. Waquet, La République des lettres, Parigi, 1997.
79 Cfr. S. Bianconi, Il ruolo della Chiesa borromaica nel processo di diffusione dell’italiano nella Lombardia alpina e prealpina tra ’500 e ’600, in E. Banfi, G. Bonfadini, P. Cordin, M. Iliescu (a cura di), Italia settentrionale: crocevia di idiomi romanzi, Tubinga, 1995, p. 323-334.
80 Cfr. J. Tedeschi, The Italian Reformation... cit.
81 Cfr. A. Rotondò, Europe et Pays-Bas. Evolution, réélaboration et diffusion de la tolérance aux xviie et xviiie siècles. Lignes d’un programme de recherches, Firenze, 1992.
82 L. Simonutti, Fausto Sozzini, gli arminiani e il socinianesimo nell’Olanda del Seicento, in Faustus Socinus and His Heritage, ed. L. Szczucki, Cracovia, 2005, p. 251-283; v. p. 253.
83 Sulla figura del Sozzini e sull’ospizio dei convertendi, cfr. M. T. Bonadonna Russo, I problemi dell’assistenza pubblica nel Seicento e il tentativo di Mariano Sozzini, in Ricerche per la storia religiosa di Roma, 3, 1979, p. 255-280.
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