Postfazione
p. 443-445
Texte intégral
1La mia prima considerazione riguarda l’impresa alle radici di quest’opera, ovvero l’impossibilità che avverto come lettore a tenere distinte e separate le immagini di uno straordinario lavoro di équipe o – per meglio dire – di una “mente teatrale collettiva al lavoro” dai risultati materiali. Pensare a questo libro come impresa influenza, orienta e lascia scaturire una peculiare modalità di dialogo e di relazione con il testo che a me peraltro pare rivendicata esplicitamente nell’introduzione del volume e poi ribadita nelle diverse sezioni nei contributi dedicati a casi documentali trascelti come esemplari per restituire la storia del teatro romano aristocratico tra Seicento e Settecento.
2Intendo dire che il libro per come è concepito e per le sfide imponenti che affronta implica un inevitabile spaesamento che induce il lettore in maniera significativa e feconda a spostare, a dislocare e integrare lo sguardo dai contenuti e dai temi trattatati alla “fitta trama di conversazioni” da cui è scaturito. Prendendo in prestito questa formula warburghiana mi riferisco come è ovvio non soltanto all’insieme di scambi, discussioni, dibattiti, e appunto di “conversazioni” che hanno costellato preparazione, progettualità e organizzazione di questa impresa, ma anche e soprattutto alla stratificazione straordinaria, alla dismisura, mi verrebbe da dire, di studi, ricerche, approfondimenti, acquisizioni di conoscenze elaborate e messe a frutto nel testo.
3Come dire, in altro modo, che dalla lettura del testo affiora in controluce quasi inevitabilmente un fiume carsico, una flora e un humus sommerso (qualcosa di analogo alla individuazione da parte di Stanislavskij, nel caso del testo drammatico, di uno strato ulteriore nascosto che agli attori viene richiesto di attraversare e esplorare e che il maestro russo con una definizione folgorante descrive come il romanzo che manca al dialogo teatrale) che occorre prendere in considerazione se ci si vuole accostare poi in particolare alle scelte metodologiche operate in via programmatica dagli autori del volume.
4Questa modalità di lettura credo aiuti difatti a comprendere l’individuazione della performance come criterio guida, come «principio metodologico cautelativo», così come scrive nella sua ricca presentazione Anne-Madeleine Goulet, un principio metodologico che a mio parere funziona come tessuto connettivo capace di tenere annodate insieme le varietà di livelli e di piani che strutturano i racconti, la molteplicità di prospettive e di punti di vista che conferiscono ricchezza e complessità al testo, e di mettere in luce e riscontrare dialoghi latenti, nessi di continuità, così come scarti e differenze feconde che caratterizzano i diversi contributi.
5Purtuttavia poiché, come spesso è stato ricordato, il teatro di antico regime a Roma nella vita dei cittadini oltre ad avere significato e valore di disciplina pedagogica, di compito sociale, di passione disseminata e diffusa, ha funzioni accreditate di rappresentanza e mediazione, ha potere di orientare comportamenti e competenze, di stabilire protocolli, etichette, codici e convenzioni sociali, per questi suoi caratteri specifici e peculiari, e per i suoi profili continuamente ridisegnati e scontornati, l’approccio performativo «come spazio di interpretazione che dischiude la possibilità di individuare un intreccio di fenomeni convergenti» appare adeguato alla posta in gioco, al proposito di nuove e inedite prospettive storiografiche così come è enunciato nel testo.
6In questo caso l’analisi performativa piuttosto che assimilare, ricalcare o adottare lo stampo o il modello dei dialoghi tra teatro e antropologia che sono racchiusi nella felice e fortunata formula del “teatro oltre gli spettacoli”, ovvero nella messa in crisi del primato degli spettacoli e nella valorizzazione di una categoria ampia di fenomeni che corrisponde al contesto del “fare teatro”, penso possa essere ricollegata in maniera più pertinente a quell’idea di teatro come “specchio di civiltà” che risale nella storia della storiografia teatrale del Novecento a uno statuto fondativo della disciplina, a un orientamento critico e a una linea di ricerche promossa e inaugurata da Giovanni Macchia, uno dei padri fondatori degli studi italiani di teatro.
7D’altra parte per lo storico del teatro la scelta dell’approccio performativo lascia spazio a domande e interrogativi (e insieme favorisce la possibilità di mettere in crisi una serie di pregiudizi che peraltro scaturiscono dalla presa d’atto dei più spensierati e stravaganti risultati dei performance studies).
8Come risarcire dunque la specificità del fare teatro, come risalire la corrente degli sconfinamenti, degli arricchimenti operati dall’analisi performativa, come possibile riportare l’attenzione ai mezzi teatrali del tempo, ai profili del repertorio, ai comportamenti scenici, alle tecniche impiegate, alle persistenze della tradizione e alle tradizioni del nuovo che affiorano dalle eccezioni, dagli “scarti creativi”, dalle invenzioni che si discostano dall’individuazione di un «possibile modello organizzativo spettacolare romano». Credo che a ragione si possa sostenere che l’efficacia della scelta dell’analisi performativa, documentata peraltro dai risultati raggiunti in questa straordinaria impresa, così come il lettore ha avuto modo di constatare, possa essere ulteriormente avvalorata come efficace strumento di conoscenze se correlata alle metodologie di indagine della “nebulosa teatro” formulate fin dagli anni Settanta dallo storico del teatro Fabrizio Cruciani. Nel 1991 in una sua presentazione al volume Teatro. Guide bibliografiche edito da Garzanti, Cruciani individuava nella divaricazione tra “opere” e “modi di operare”, tra la settorialità e la parzialità delle testimonianze collegate alle opere e la possibilità di restituire al teatro continuità e durata nella storia che scaturisce dall’analisi dei modi di operare, una nuova e diversa prospettiva per gli studi teatrali.
9Scriveva in quell’occasione Fabrizio Cruciani:
I modi di operare esistono nella “durata” degli uomini di teatro e degli spettatori, nella civiltà che producono e di cui sono parte, nella tradizione in quanto sistema attivo (quando è un valore positivo) di creare relazioni con l’accaduto. In questo senso il teatro non è effimero, come non lo è l’operare degli uomini: il teatro è una categoria di lunga durata oltre l’evento presente dello spettacolo (p. 3).
10Il rovesciamento di prospettiva operato da Fabrizio Cruciani fondato sui “tempi lunghi” della storia lascia affiorare conoscenze, punti di vista, prospettive e approfondimenti inaspettati e imprevisti. A questo riguardo può essere considerata come un caso esemplare la questione della proscrizione delle donne a calcare le scene ovvero il fenomeno del cross casting che, come ricavo dalla lettura del volume, interessa anche fasti e imprese del teatro musicale del tempo. Una consuetudine plurisecolare che si tramuta in un marchio distintivo del teatro romano che influenza le scelte del repertorio (è alle origini della diffusione e della fortuna delle rielaborazioni del teatro spagnolo del siglo de oro che contemplano continui travestimenti e sovrapposizioni di identità collegati ad altrettanti colpi di scena), e che proprio attraverso le interferenze, gli spaesamenti, i cortocircuiti, gli slittamenti di senso che si producono, contribuisce a rimodellare le forme della relazione teatrale in un sistema autoreferenziale come quello romano del tempo in cui tutti i protagonisti sono altrettanti cittadini identificabili e riconoscibili.
11Se la si considera alla luce dei “tempi lunghi” del teatro, la viscosità e la persistenza della consuetudine di impiegare giovinetti nei ruoli femminili può aiutare ad esempio a spiegare le ragioni del fallimento dell’avventura romana di Goldoni al teatro Tordinona nel 1759 che di regola e non per caso viene addebitata proprio allo “scandalo e al tradimento del travestitismo”, all’incongruenza e alla inadeguatezza di attori impiegati nelle parti femminili. La recitazione artificiosa dell’attore nei panni femminili che per Goldoni è sintomo di dabbenaggine e arretratezza teatrale, che è agli antipodi rispetto alle concezioni del suo teatro riformato, è destinata nel volgere di pochi anni a tramutarsi nell’incanto e nel fascino che uno spettatore come Goethe sperimenta assistendo nel 1778 a Roma proprio a una Locandiera con una Mirandolina en travesti, alla performance di un attore che si spoglia di ogni intenzione caricaturale, che è capace, a suo giudizio, di accostarsi con i mezzi dell’arte, ovvero rinunciando alle scorciatoie dell’imitazione, a un’essenza sottile dell’energia femminile. In questo caso la conoscenza di un fenomeno del passato (nella fattispecie e per l’appunto la consuetudine di lunga durata della recitazione en travesti) viene a essere arricchita dal confronto di due differenti e divergenti punti di vista, dalla presa d’atto della compresenza dei due differenti “modi di operare”, quello dello spettatore e quello dell’artefice responsabile materiale dello spettacolo, che rappresentano le distinte polarità, gli aspetti fondativi del teatro che dal punto vista metodologico è necessario prendere in considerazione e integrare nei percorsi di ricerca.
12Con queste rapide considerazioni intendo soprattutto sottolineare (e ribadire) la straordinaria apertura per gli studi che scaturisce da questa impresa. Questo libro indica difatti la possibilità, inedita, originale e mai esplorata in maniera organica e compiuta prima d’ora, di connettere l’ambito del performativo agli studi storici, di mettere a frutto e valorizzare la nozione di performativo come linea guida per l’analisi degli eventi del passato. Cosa implica questa opzione? Dal punto di vista storiografico rappresenta un peculiare avanzamento degli studi poiché sottrae all’egemonia della contemporaneistica (alle ideologie del contemporaneo) l’appannaggio di uno strumento metodologico in grado di operare sconfinamenti, di stabilire intrecci e raccordi fecondi e di favorire nuovi e diversi orientamenti critici. È in questa prospettiva che il libro va valutato come una vera e propria pietra miliare, come un prezioso e significativo snodo fondativo degli studi.
13Ma oltre l’esercizio della critica, oltre la necessità di incessanti ripensamenti e di continue ridefinizioni degli strumenti d’indagine, la fascinazione che il teatro di quegli anni esercita per lo storico è poi racchiusa nelle tracce di memoria che è possibile disseppellire e nelle immagini “in vita” che si materializzano: la scena di un ballo di lavandare in giardino, la ripetizione di un verso del convittore di un collegio, la prova di un passo di danza di una giovinetta, i trionfi profumati di mirto di un banchetto principesco. Immagini che sfumano e lasciano spazio ad altrettanti frammenti in contrappunto. Ai ricordi delle veglie teatrali nei sontuosi palazzi romani, alla “catena perpetua” di fatiche teatrali che si protraggono anno dopo anno, o alla frenesia inquieta di quella notte di Carnevale in cui la regina Cristina si avventura in incognito nel teatrino più malfamato della città, che è un frammento isolato e disperso capace purtuttavia di restituire i profili controversi di Roma e della sua diversità, di racchiudere le visioni di una città cosmopolita e provinciale, ripiegata su se stessa, “buio e cupo antro del fanatismo”, così come la descrive in quegli anni Voltaire, e insieme aperta, trasgressiva e licenziosa capitale teatrale del mondo.
Auteur
Sapienza Università di Roma - roberto.ciancarelli@uniroma1.it
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