Arie e cantanti tra continuità e cambiamenti
Pistocchi e la stagione 1693 del Teatro Tordinona
p. 383-404
Résumés
Il contributo prende spunto da due peculiarità del dramma per musica del Seicento: il continuo processo di revisione a cui erano sottoposti libretti e partiture durante la loro circolazione e il ruolo dei cantanti nel determinare sia questo processo sia la percezione, da parte del pubblico, di questo genere come concreta rappresentazione. Per valutare le opere dal punto di vista della loro rappresentazione, in luogo di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulle modifiche apportate a testi e musiche nelle varie rappresentazioni, il presente studio si propone di analizzare, in maniera più sistematica di come è stato fatto finora, quelle modifiche testuali e musicali insieme a cambiamenti e continuità nei cast dei cantanti. A questo scopo vengono esaminate le due opere del Carnevale del 1693 al Teatro Tordinona: Il Seleuco e Il Vespasiano. Si tracciano le arie sostitutive e i cast delle varie produzioni che conducono alla rappresentazione romana, incrociando i dati della continuità e sostituzione di arie con i cantanti che le eseguivano. Così facendo, emerge una visione più dettagliata della correlazione tra la sostituzione di arie e di cantanti, nonché dei modi in cui la combinazione di questi due elementi plasmava l’esperienza di ascolto del pubblico. Il contributo si sofferma in particolare sul castrato Francesco Antonio Pistocchi, che sembra aver giocato un ruolo centrale nella stagione romana.
This contribution takes two characteristics of seventeenth-century opera as its starting point: the constant process of revisions of the librettos and music that the works underwent during their circulation, and the role of singers in this process and in audiences’ perception of the genre as actual performances. Instead of focusing only on changes in the text and music of various performances, the statement is made that, in order to judge these works as actual performances, the changes and continuities in the cast must be taken into account in a far more systematic way than has been done so far. This study looks at the case of the two operas that constituted the 1693 season at the Teatro Tordinona: Il Seleuco and Il Vespasiano. It traces the aria replacements and singers of a series of performances of these works during the years leading up to their performance in Rome, cross-referencing the continuities and replacements of arias with the singers that sang them. In so doing, a more nuanced view emerges of the correlation between singers and aria replacements, and of the ways in which the combination of those two elements shaped audiences’ listening experiences. The contribution focuses in particular on the castrato Francesco Antonio Pistocchi, who appears to have played a central role in the Roman season.
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Texte intégral
Continuità e cambiamenti
1Un discorso storico e critico sull’opera del Sei-Settecento comporta anzitutto la disamina di produzioni specifiche. Il funzionamento di questo genere, considerato nella sua fenomenologia di opere continuamente in circolazione e in evoluzione, è notoriamente complesso, non soltanto nella definizione concettuale ma in particolar modo nei tanti processi di cambiamento che governano quasi tutto il repertorio fino a Metastasio e oltre. L’opera dell’epoca era un insieme modulare, composto di arie tenute insieme col cemento del recitativo, che potevano essere sostituite come i mattoncini di una costruzione.1 Oltre a ciò ogni aria presenta una stratificazione interna: il testo e la veste musicale potevano infatti cambiare indipendentemente l’uno dall’altra. Se consideriamo la musica come pura performance si apre all’istante una vasta gamma di fattori e di sensazioni che superano la dimensione della traccia scritta.2 Anche a un livello più basilare la percezione della recita di un’opera dipende dall’interazione tra almeno tre strati: testo, musica e interprete.
2Le ragioni che sottendevano ai continui processi di revisione e ai cambiamenti erano molteplici, ma il ruolo dei cantanti, le loro capacità e preferenze erano un elemento chiave in questo contesto.3 Come i libretti e la musica erano soggetti a circolazione, così anche i cantanti si spostavano continuamente da un teatro a un altro.4 La loro mobilità interagiva indissolubilmente con la circolazione e gli adattamenti della musica. Ma in che modo? L’idea dell’“aria da baule”, un brano preferito che un cantante porta con sé per inserirlo quasi in ogni opera in cui canta, non è stata comprovata dalle fonti come una prassi comune nel Seicento.5 E cosa succede quando certi cantanti eseguono la stessa parte in un’opera nell’arco di più produzioni? Sono le loro arie quelle che rimangono immutate, mentre l’arrivo di un nuovo cantante comporta cambiamenti alla sua parte? Finché gli interpreti non diventano parte integrante delle analisi delle varianti non potremo rispondere a queste domande.6
3È importante esaminare i processi di cambiamento e continuità nell’opera del Sei-Settecento perché in questo genere essi rappresentano concretamente due modalità di godimento estetico: il piacere della novità e il piacere del conosciuto.7 Il presente caso di studio ha per oggetto le due opere della stagione 1693 del Teatro Tordinona, Il Seleuco seguita da Il Vespasiano.8 Questa stagione ha segnato lʼinizio di un periodo di successo per lʼopera a Roma dopo i lunghi anni di austerità sotto il pontificato di papa Innocenzo XI, contrario agli spettacoli teatrali, e dopo le stagioni poco fortunate del 1691 e 1692. Le due opere del 1693 ebbero la loro prima esecuzione a Venezia qualche anno addietro: Il Vespasiano, con musica di Carlo Pallavicino, il 24 gennaio 1678, per l’inaugurazione del Teatro di San Giovanni Grisostomo;9 Il Seleuco, su testo di Adriano Morselli e musica di Carlo Francesco Pollarolo, nel gennaio del 1691 nello stesso teatro (ma con il titolo La pace fra Tolomeo e Seleuco).10 Anche nel caso di queste due opere si possono registrare numerosi cambiamenti tra le prime esecuzioni a Venezia e le successive riprese in altre città, oltre alle versioni che andarono in scena a Roma. In generale, non è sempre possibile individuare i nomi di tutti gli interpreti che hanno preso parte a una determinata produzione e questo è il caso anche di Roma. La stagione del 1693 al Teatro Tordinona costituisce la prima occasione in cui i nomi dei cantanti vengano riportati nei libretti a stampa.11 Fortunatamente siamo pure a conoscenza di chi precedentemente aveva cantato nelle due opere in varie produzioni: questo ci permette di incrociare i dati riguardanti i viaggi dei cantanti con quelli dello stesso repertorio. Per riportare in modo efficace e intuitivo questa mole di dati includeremo anche alcuni schemi.
4La figura 1 mostra le principali produzioni de Il Vespasiano e Il Seleuco fino al 1693 per le quali conosciamo i cantanti.12 Sono stati elencati tutti i cantanti che parteciparono ad almeno due produzioni delle due opere, insieme alla parte o alle parti che interpretarono. Lo sguardo generale sul legame tra drammi, parti e cantanti offerto dalla figura 1 suggerisce varie linee di continuità. Emergono immediatamente alcuni dati: è interessante notare, ad esempio, quanti interpreti abbiano cantato più volte nella stessa opera in varie città, oppure osservare che cinque di loro (Pistocchi, Ballarino, Dati, Predieri, Benigni e Boni) hanno recitato in ambedue le opere. Si evince inoltre quanti e quali cantanti siano passati, quasi come una compagnia, da una produzione a un’altra. Il rapporto tra la produzione parmense de Il Vespasiano del 1689 e quella di Fabriano del 1692 è particolarmente forte: quattro cantanti, di cui tre nello stesso ruolo, presero parte ad ambedue le produzioni. Un simile rapporto esiste anche tra la produzione di Fabriano e quella del Tordinona, che vede tre cantanti migrare mantenendo la stessa parte (Pistocchi, Ballarino e Gherardini). Allo stesso tempo non era inconsueto vedere cantanti cambiare parte tra una produzione e l’altra. Le corrispondenze più forti tra ruolo e cantante si notano nei casi di Francesco Ballarino, che cantò la parte di Domiziano in tre produzioni de Il Vespasiano (Modena, Fabriano, Roma), e Francesco Antonio Pistocchi, che per tre volte ricoprì la parte di Antioco in La pace tra Tolomeo e Seleuco (Venezia, Piacenza, Roma). Il caso più chiaro nella stagione 1693 del Tordinona è appunto quello di Pistocchi, che fu l’unico interprete che in ambedue le opere aveva già cantato la sua parte precedentemente.13
Arie (im)mutate ne Il Seleuco
5La continuità è particolarmente evidente ne Il Seleuco: Pistocchi aveva cantato la parte di Antioco durante la prima assoluta a Venezia nel 1691, poi nella ripresa a Piacenza lo stesso anno (con il titolo La pace fra Tolomeo e Seleuco, con aggiunte e arie sostitutive di Aurelio Aureli messe in musica da Bernardo Sabadini), e in fine anche a Roma nel 1693. Soltanto Diana Margherita Aureli (Oreli), nel ruolo di Elvira, aveva partecipato a più di una produzione di quest’opera prima del 1693, a Venezia e a Piacenza. Ma come abbiamo già affermato, non basta guardare soltanto la continuità tra ruoli e interpreti. La figura 2 mostra gli incipit testuali delle arie (e duetti) di Antioco ed Elvira nelle tre produzioni de Il Seleuco. Pistocchi sosteneva la parte di Antioco in tutte e tre, mentre quella di Elvira era affidata ad Aureli a Venezia e Piacenza, e a Giuseppe Segni, detto Finalino, a Roma. Il fatto che Pistocchi e Aureli cantassero nella produzione inaugurale dell’opera a Venezia potrebbe far pensare che già allora la musica fosse stata confezionata per loro su misura, e che quindi ci sarebbero stati pochi cambiamenti da aspettarsi nelle edizioni immediatamente successive; piuttosto ci si aspetterebbe di trovare delle sostituzioni di arie per Elvira quando Segni interpretò la parte a Roma nel 1693.
6La figura 2 mostra, invece, che non fu così: per Aureli e Pistocchi ci furono cambiamenti già durante la produzione inaugurale di Venezia e altri ne seguirono per l’esecuzione a Piacenza nello stesso anno. L’unica modifica per Aureli (Elvira) riguarda l’aria francese «Les oyseaux de ce boccage» e la sua ripetizione immediata cantata sulla traduzione italiana del testo, all’inizio dell’atto III.14 Benché Aureli cantasse la parte di Elvira anche a Piacenza, in quest’ultima produzione appare un’altra aria, «Io sento a poco a poco», che sostituisce la coppia di arie franco-italiana. Nella ripresa al Teatro Tordinona del 1693 venne eliminata un’altra aria per Elvira nell’atto III, «Lungi o lumi lusinghieri», ma in compenso Giuseppe Segni, che cantava la parte, ricevette una nuova aria all’inizio dello stesso atto, «Sei caro a queste luci».15 Per le produzioni di Venezia e Piacenza di La pace fra Tolomeo e Seleuco esistono raccolte che comprendono una buona parte delle arie, mentre per la produzione romana le fonti musicali superstiti sono più frammentarie.16 Confrontando queste fonti musicali (benché parziali), non sono emersi casi di composizioni diverse sullo stesso testo; non si può tuttavia escludere che alcune arie con lo stesso testo celino in realtà versioni musicali differenti, anche se le fonti puntano nell’altra direzione, ovvero in una continuità della traccia sonora. Anche tra la produzione piacentina e quella romana, cioè quando l’interprete della parte di Elvira cambia da Aureli a Segni, non ci sembrano essere stati cambiamenti sostanziosi oltre quelli appena discussi.17
7Per Pistocchi, che cantava la parte di Antioco in tutte e tre le produzioni di La pace fra Tolomeo e Seleuco, ci sono ancora più modifiche: tra Venezia e Piacenza venne inserita una nuova aria alla fine dell’atto I, «Tratto qui da un cieco nume», e vennero sostituite non meno di tre delle quattro arie dell’atto II;18 due anni dopo, a Roma, venne cambiata una delle due arie nell’atto I che erano rimaste immutate dalla prima stesura: «Vò sugl’occhi del mio ben» in luogo di «Vicino al mio tesoro voglio morir»;19 inoltre, nell’atto II venne eliminata l’ultima aria, «Nel nome di Tamiri», che a Piacenza aveva sostituito l’aria originale. Così emerge che quando Pistocchi cantava Antioco a Roma nel 1693, cinque delle sue arie – senza contare i duetti – erano probabilmente uguali a quelle che aveva cantato a Piacenza nel 1691. Soltanto due delle sue arie rimasero immutate in tutte e tre le produzioni di La pace fra Tolomeo e Seleuco: «Col versar sì belle lagrime» (atto I) e «Pupille care» (atto II). Non esistono fonti musicali per confermarlo o confutarlo in modo assoluto, ma è probabile che anche la musica di queste arie fosse rimasta uguale nei tre casi.20
8Per quanto riguarda La pace fra Tolomeo e Seleuco, dunque, la continuità dello stesso interprete in una parte in tre produzioni diverse non portò a una grande continuità testuale (e musicale) ma piuttosto al contrario. Poiché Pistocchi eseguì la stessa parte in La pace tra Tolomeo e Seleuco nelle tre rappresentazioni successive, si potrebbe supporre che egli vantasse un maggior controllo sulle scelte musicali. Se così fosse, però, il fatto che più volte fece sostituire le sue arie apre nuove questioni. Per quale ragione? Essendo il resto rimasto uguale, presumibilmente questi cambiamenti non erano dovuti a ragioni strettamente muscali, ma erano piuttosto in qualche modo legati a circostanze specifiche di questa o quella produzione. Anche se non sappiamo quali fossero queste circostanze – un raffreddore, le preferenze dei mecenati o del pubblico ecc. – questo tipo di analisi, che prende in considerazione tanto le arie quanto il loro interprete, mostra con chiarezza che alla base della modifica delle arie potevano esserci motivi che non riguardavano le preferenze del cantante. Pur non conoscendo le ragioni dei cambiamenti, è tuttavia possibile non solo iniziare a documentare l’esistenza di questi altri motivi, ma anche identificare i casi precisi in cui ciò avvenne.
Un intreccio di cambiamenti: Il Vespasiano
9La pace fra Tolomeo e Seleuco è un caso relativamente poco complicato, sia per il numero di produzioni prima della stagione del 1693, sia per il numero di cantanti ricorrenti, così come per il numero di arie. La seconda opera di quell’anno al Tordinona, Il Vespasiano, è un caso più complesso ed è probabilmente più rappresentativa per l’epoca. Più appaiono complessi gli intrecci, maggiore è l’utilità degli schemi. Le figure 3, 4 e 5 mostrano le arie per i principali ruoli in cinque produzioni de Il Vespasiano fino al 1693 per cui conosciamo i cantanti (sottolineiamo che già non sono registrati tutti i ruoli, né tutte le arie o tutte le produzioni!).21 Anche qui le frecce indicano la continuità dei testi delle arie tra una produzione e un’altra, che a volte scompaiono per poi riapparire. Inoltre, mentre la figura 2 riguarda due cantanti soltanto ne Il Seleuco, ne Il Vespasiano a Roma tre interpreti avevano già cantato lo stesso ruolo in una produzione precedente: Francesco Pistocchi come Tito, Francesco Ballarino come Domiziano, e Rinaldo Gherardini come Gesilla.22 Nelle figure 3-5 le loro arie sono indicate su sfondo colorato, insieme a quelle di Carlo Andrea Clerici, che cantò Vespasiano a Parma nel 1691 e poi a Fabriano l’anno dopo. Seguendo orizzontalmente gli sfondi colorati si vede così, oltre alla continuità o meno delle arie, anche la continuità di cantanti tra le varie produzioni.23
10La presente ricerca non è la sede adatta per analizzare tutti i processi di cambiamento che diedero forma alla versione de Il Vespasiano messa in scena nel Teatro Tordinona nel 1693, e nemmeno tutte le modifiche intuibili dalle figure 3-5. Le figure vogliono essere non soltanto un supporto a questo testo ma anche un mezzo visuale autonomo per comunicare i processi di cambiamento e continuità. Vediamo però in modo più dettagliato alcuni esempi significativi.
11Così come ne Il Seleuco, anche ne Il Vespasiano ci sono più esempi di arie che vennero sostituite tra una produzione e l’altra, pur essendo cantate dallo stesso interprete. Il ruolo di Vespasiano, ad esempio, venne sostenuto da Carlo Andrea Clerici prima a Parma nel 1689 e poi a Fabriano nel 1692 (e poi da Giuseppe Scaccia a Roma nel 1693). Tra Parma e Fabriano si osservano nella sua parte le seguenti varianti: a metà dell’atto I la sostituzione di un’aria («A le stragi» in luogo di «Su, fieri guerrieri»); all’inizio dell’atto II l’inserzione di una nuova aria («Preparasi a cader»); e infine la sostituzione di un’altra aria all’inizio dell’atto III («Di fierezza un petto» in luogo di «Conbattuto ogn’or»). Quando, però, Scaccia canta la parte di Vespasiano a Roma, ci sono nuove modifiche proprio negli stessi punti: l’aria sostitutiva nell’atto I viene a sua volta rimpiazzata (con «Un nume disprezzato»), la nuova aria all’inizio dell’atto II viene anch’essa sostituita (con «Di fieri serpi armate») e l’aria sostitutiva all’inizio dell’atto III viene eliminata ma compensata più avanti nell’atto con una nuova aria («Più cara la speranza»). È chiaro, quindi, che sia la continuità di un cantante in un ruolo, sia l’arrivo di un nuovo interprete, possono portare alla sostituzione di arie in una parte.
12È importante sottolineare che i grafici nelle figure 2-5 si riferiscono ai testi delle arie. Stabilire la continuità del testo musicale è in genere molto più difficile, dal momento che raramente si conservano partiture per tutte o gran parte delle rappresentazioni. Ma quello del Vespasiano è un caso piuttosto fortunato visto che esistono non meno di tre partiture intere che riflettono le versioni di Venezia 1678, Venezia 1680 (non presa in considerazione qui) e Modena/Milano 1685.24 Inoltre esistono numerose raccolte di arie che contengono brani riconducibili a diverse versioni del libretto.25 Per un’idea più completa delle linee di continuità e cambiamento, che va oltre i soli testi, queste fonti sono ovviamente essenziali. Da esse ricaviamo, ad esempio, che non solo il testo della prima aria dell’opera «Sì sì vincerò» (Domiziano) rimase uguale, ma anche la musica di Pallavicino sostanzialmente non cambiò da Venezia a Modena, Fabriano e Roma.26 Dal momento che Francesco Ballarino cantò la parte di Domiziano a Modena nel 1685 e quindi a Fabriano nel 1692 e a Roma nel 1693, ne possiamo ricavare dunque un esempio di continuità completa: se uno spettatore fosse stato presente a ciascuna di quelle tre produzioni, avrebbe ascoltato lo stesso virtuoso cantare ogni volta lo stesso testo con la stessa musica, e lo stesso vale per alcune altre arie sue.27 Invece, mentre a Modena Ballarino cantò altre due arie di Domiziano (nell’atto III) sempre con musica di Pallavicino, nelle fonti romane associate alle produzioni di Fabriano e Roma gli stessi testi compaiono con musica nuova.28 Infatti, ci sono undici numeri – tra arie e duetti – su testi originali ma con musica diversa da quella di Pallavicino.29
13Oltre al rapporto tra le varie produzioni di una “stessa” opera, quali sono i fili che connettono i cantanti e le arie di queste opere ad altre? Il testo dell’aria di Elvira «Sei caro a queste luci», ad esempio, inserita a Roma per Giuseppe Segni nell’atto III de Il Seleuco, compare già nel Furio Camillo di Giacomo Antonio Perti nella prima esecuzione al Teatro Vendramin a Venezia nel 1692.30 Da una partitura che deriva da quella produzione si evince che anche la musica dell’aria è uguale a quella cantata a Roma l’anno successivo ne Il Seleuco.31 Il 17 gennaio 1693 il Furio Camillo andò in scena nel teatro Malvezzi a Bologna;32 sfortunatamente non conosciamo i cantanti per Venezia e Bologna, ma almeno per quest’ultima produzione, contemporanea alla stagione romana, si può escludere la presenza di Segni, impegnato a Roma. Forse aveva cantato nella produzione veneziana o ricevuto l’aria da Perti a Bologna, portandola poi a Roma.
14Un altro caso emblematico è l’aria «Di fieri serpi armate» all’inizio dell’atto II, che viene inserita per la prima volta nella produzione romana de Il Vespasiano, in cui Giuseppe Scaccia canta la parte eponima. Quest’aria sembra provenire da Il Pausania (Crema, 1692), in cui compare con testo identico come un numero di Pausania, cantato proprio da Scaccia in quella produzione. Inoltre, l’aria «Di fieri serpi armate» non compare nella prima versione dell’opera eseguita a Venezia tra il 1681 e il 1682. È probabile che si tratti di un’“aria da baule” di Scaccia, inserita perché gradita al pubblico.33 Più complicato è il caso dell’aria «Perdei per un crin d’oro», che appare nel libretto romano de Il Vespasiano come una nuova aria per Pistocchi (Tito) nell’atto III. Lo stesso testo compare già ne Il favore degli Dei (Parma, 1690) come un’aria per Apollo, interpretata da Giovanni Francesco Grossi.34 La connessione con Parma sicuramente non è casuale, ma il motivo per cui a Roma Pistocchi cantasse proprio quest’aria resta incerto.35 Queste arie provenienti da altre opere comunque puntano a dinamiche di popolarità e al piacere del noto. Su scala più piccola c’è inoltre il piacere del bis, la ripetizione istantanea. Una sera di fine gennaio 1693 «non finì di recitarse l’opera detta il Vespasiano», perché due uomini nel pubblico (tra cui un cantante) chiesero ad alta voce ad uno degli interpreti – sfortunatamente non sappiamo chi – di ripetere per la terza volta un’aria nell’atto III.36 Potrebbe trattarsi proprio di Pistocchi e dell’aria «Perdei per un crin d’oro»?
Pistocchi a Roma
15Abbiamo già notato la posizione particolare di Pistocchi nella stagione del 1693 al Teatro Tordinona, essendo l’unico cantante ad aver cantato la stessa parte in entrambe le opere già in produzioni precedenti. Inoltre, fu questa l’occasione in cui Pistocchi fece il suo debutto a Roma. José María Domínguez ha chiarito che l’ambasciatore spagnolo a Roma, Luis de la Cerda, duca di Medinaceli, giocò un ruolo chiave nel reclutamento di Pistocchi, usando il marchese Pompeo Azzolini come agente.37 Questi fatti fanno pensare che la stagione del 1693 del Tordinona era pensata almeno in parte per Pistocchi. Un dettaglio nella successione dei fatti sembra rinforzare quest’idea. Un avviso riporta che il 13 dicembre 1692 si diede «principio alle prove delli drammi Vespasiano e La pace tra Tolomeo e Seleuco», e che il 3 gennaio poté «cominciarsi la recita dell’opere in musica».38 Da una lettera inedita di Francesco Felini, agente a Roma del duca di Parma Ranuccio II Farnese, diretta al suo signore, sappiamo che Pistocchi era arrivato a Roma già il 3 dicembre, peraltro soffrendo di un gran raffreddore (appunto il tipo di peripezia che potrebbe portare alla sostituzione di un’aria se uno non guarisce in tempo):
È giunto in Roma Francesco Antonio Pistocchi musico di Vostra Altezza molto mal trattato dal viaggio e da un crudelissimo rafreddore, che m’ha recato gl’ordini riveritissimi di Vostra Altezza di doverlo vedere e ricevere volontieri, e d’assisterlo con tutto ciò che gli occorresse, la qual cosa è riuscita sommamente opportuna al suo bisogno, perché essendo molto infelice la stanza che gl’avea preparata l’affittuario delle comedie, con tal fondamento ho preso l’arbitrio di ricoverarlo in un piccolo apartamento detto della morte, di ragione di questo Palazzo Farnese, dove bisognerà ricevere anco gl’altri due per il medesimo motivo, stimando che possa piacere a Vostra Altezza, massime perché succede senza verun incommodo e spesa di questa casa. Né io lascierò tutte l’altre occasioni d’assister loro in tutto ciò ch’occorrerà, acciò siano considerati coll’onore che godono d’esser servitori di Vostra Altezza.39
16Alcuni altri dettagli della lettera sembrano degni di attenzione. Considerando il ruolo particolare di Pistocchi, non fu forse casuale che lui fosse il primo dei tre virtuosi del duca di Parma ad arrivare a Roma (gli «altri due» erano Giuseppe Scaccia e Rinaldo Gherardini). È anche interessante constatare che, nonostante il coinvolgimento di protettori importanti quali il duca di Parma e Medinaceli, fu compito dell’impresario fornire alloggio ai cantanti. Solo in seconda istanza ci si rivolgeva a un protettore per l’alloggio (quando Felini aveva di fatto già fornito stanze dietro Palazzo Farnese nel cosiddetto Casino o Palazzetto della Morte, accanto all’Arciconfraternita dell’Orazione e Morte sulla Via Giulia).40
17Abbiamo già visto come in La pace fra Tolomeo e Seleuco Pistocchi mantenne soltanto due arie immutate rispetto alla produzione inaugurale di Venezia del 1691, passando per Piacenza lo stesso anno, alla produzione romana. Mettiamo ora a confronto le arie di Pistocchi nel ruolo di Tito ne Il Vespasiano, andato in scena a Fabriano nel 1692 e a Roma nel 1693. Lasciando da parte i duetti – più difficili da valutare41 – osserviamo che cinque delle arie vennero probabilmente cantate a Fabriano con la musica originale di Pallavicino. Di queste, soltanto due resistettero fino alla produzione romana del 1693: «Ferma il piè deh non partir» (atto II) e «Chi non vede il sol ch’adoro» (atto III).42 Le altre tre vennero sostituite nella produzione romana: a «Care tende adorate» (atto I) si preferì «Per mirar chi al sol dà luce»,43 a «Per uscir da tante pene» (atto I) «Caro nume bendato»,44 a «Sei destinato a piangere» (atto III) «Perdei per un crin d’oro».45 Altre due arie di sostituzione per Pistocchi introdotte già a Fabriano vennero conservate un anno dopo per la produzione romana, quando Pistocchi le cantò di nuovo. Si tratta di «Parto ma lascio il core» (atto II) e «Bellezze idolatrate» (atto II).46 Una più intensa serie di cambiamenti riguarda l’aria «Miei spirti a l’armi, né già vi disarmi» (atto III), che fu introdotta a Fabriano – quindi appositamente per Pistocchi – in sostituzione di una precedente aria. A Roma però venne sostituita con un’altra ancora, «In man del furore si ponga la spada».47 Sommando questi dati a quelli de Il Seleuco, risulta che anche se Pistocchi avesse già cantato la sua parte in ambedue le opere in produzioni precedenti, non più di quattro arie – due in ciascuna opera – erano arrivate a Roma immutate dalle prime versioni delle due opere.
18Quanta conoscenza dell’origine delle due opere e dei cambiamenti ci fu però a Roma? Nel 1693 un diarista a Roma scrisse che «nel teatro di Tor di Nona si recitò per la prima volta la seconda opera musicale similmente recitata molti anni sono in Venetia, e poi in Fabriano, e quest’anno in Roma, intitolata Vespasiano», un’indicazione che l’origine dell’opera fosse nota.48 La reputazione delle due opere e anche estratti della musica (originale o rimaneggiata che fosse) potevano già essere arrivati prima a Roma, forse anche al di fuori del circolo ristretto dei mecenati direttamente coinvolti nell’organizzazione della stagione.49 Ad esempio, il conte Guido Pepoli di Bologna aveva sentito Il Vespasiano nella sua prima veste veneziana nel 1678, informando Flavio Chigi che «le opere di Venezia sono state assai buone, e particolarmente quella del nuovo teatro di S. Gio. Crisostomo accompagnata da molta sontuosità».50 Quanto erano note le versioni precedenti delle opere? È probabile che già dopo le recite de Il Vespasiano a Fabriano si decise di portare il dramma a Roma. L’inclusione in fonti musicali romane di arie che furono eseguite soltanto a Fabriano e non a Roma, suggerisce che anche la musica dell’opera già circolava in città.51 Altri potevano aver sentito qualche anno addietro Il Vespasiano a Fabriano (o a Parma) oppure Il Seleuco a Venezia (o a Piacenza). Come si arrivò a selezionare Il Seleuco è meno chiaro, ma il 2 dicembre 1692 l’impresario andò dal papa «per supplicarlo della licenza per far recitare le due opere musicali, Vespasiano, e La pace tra Tolomeo e Seleuco».52
19In ogni caso, gran parte del pubblico a Roma certamente non conosceva le versioni anteriori delle due opere. Per loro il dramma e la musica erano indubbiamente nuovi. L’effettiva percezione di qualcosa di nuovo verso qualcosa di conosciuto in una recita o una produzione è, in definitiva, un’esperienza individuale che dipende dalle proprie conoscenze. Un’altra questione spinosa diventa allora la conoscenza delle voci. Quali erano le voci “nuove” a Roma, non sentite prima in città? Senza pretese di riposte complete, anche qui qualcosa si può riscostruire. Il diarista già citato scrive il 6 luglio 1692 che «sono comparsi in Roma alcuni musici di esperimentato valore venuti da Fabriano, ove hanno recitato un’operetta musicale», ovvero Il Vespasiano. Tra questi c’era «quel celebre cantante, detto Ballarino».53 Chi fossero gli altri non sappiamo, ma è certo che Ballarino cantò nella chiesa di Santa Maria di Montesanto la settimana dopo e in una serenata a palazzo Savelli a inizio agosto.54 Era stato dunque sentito a Roma poco prima della stagione operistica. Anche Giuseppe Segni aveva già cantato a Roma nel 1687 e nel 1688, tra l’altro nel Teatro Colonna.55
20Alcuni romani avevano inoltre sentito due dei cantanti a Bologna. Tra il 1690 e il 1693 la carica di cardinale-legato di Bologna – il rappresentante del potere papale nella città – fu ricoperta da Benedetto Pamphilj.56 In almeno due occasioni Pamphilj aveva fatto organizzare eventi musicali a Bologna con la partecipazione di due cantanti che poi avrebbero cantato al Tordinona: Segni e Pistocchi. Nel dicembre del 1690 ci fu una recita musicale in onore di Urbano Barberini e sua moglie Cornelia Zeno Ottoboni a cui Segni prese parte; nel maggio del 1692 Pistocchi cantò in una serenata organizzata durante una visita del cardinale Pietro Ottoboni e sua madre; e il 17 novembre 1692 Segni e Pistocchi furono i due cantanti di una serenata a due voci su testo dello stesso Pamphilj che fu eseguita in presenza dei cardinali Ferdinando d’Adda e Francesco Barberini.57
21A quel punto Pamphilj, d’Adda e Barberini probabilmente sapevano già che i due cantanti sarebbero poi andati a Roma. Questo fatto dà un rilievo particolare a quest’ultima recita. Infatti, le spese di copiatura per questa serenata, la cui partitura completa di Carlo Cesarini non è sopravissuta, includono anche «tre arie copiate per l’emin.mo Barberini della cantata medesima». Grazie al libretto (manoscritto) si sono potute identificare queste arie in un volume di arie e cantate nel fondo Barberini della Biblioteca Vaticana.58 Le tre arie copiate appositamente per il cardinale Barberini sono tutte per Felsina (contralto) e furono dunque cantate da Pistocchi. Questa fonte costituisce perciò un raro esempio di una fonte musicale che suggerisce chiaramente un apprezzamento particolare per Pistocchi come cantante, e una specie di deposito cartaceo di un’esperienza auditiva.59
22Pistocchi sembra comunque essere stato una voce “nuova” a Roma. Il già citato diarista scrive nel gennaio del 1693 su Il Seleuco che «li rappresentanti sono di considerazione, tra quali un tal Pistocchino, contralto del Serenissimo di Parma, riesce mirabilmente tanto che poco riescono plausibili le altre voci, di Ballarino e Finalino, e pure sono celebri».60 L’espressione «un tal» suggerisce che per lui Pistocchi non fosse molto noto, ma il fatto che lo consideri più bravo di due «celebri» cantanti quali Ballarino e Segni sembra esprimere un senso di “piacere del nuovo” (paragonato alle due voci già sentite a Roma). Due mesi più tardi, però, quando Pistocchi era partito, lo stesso diarista parlava già del «celebre Pistocchino».61 La stagione sembra effettivamente aver consolidato la reputazione di Pistocchi a Roma, perché l’anno seguente tornò a cantare al Tordinona.
23Analizzare produzioni operistiche come è stato fatto qui, come configurazioni di continuità e cambiamenti in cui gli interpreti vengono trattati come una parte integrale dell’analisi, può portare a una visione più precisa dei processi di continuità e di cambiamento che governarono l’opera del Sei e Settecento: una visione in cui la performance torna a essere un elemento centrale.
Notes de bas de page
1 La flessibilità del genere è ormai un fatto assodato nella storiografia. Sulla trasformazione dei libretti si vedano ad es. già Powers 1961-1962 e Lindgren 1977, seguito da molti altri case studies, e più in generale Strohm 1976 e Caruso 1995. Sul sistema di produzione si vedano Bianconi – Walker 1984; Rosselli 1989; Piperno 1998; Glixon – Glixon 2006. Il concetto è accolto anche in testi generali come Bianconi 1991, p. 205-219, 235-252, e Taruskin 2005, p. 33-34.
2 Sulla musica come performance si vedano ad es. Annibaldi 1998 e Small 1998. Più in generale Eco 1977; Fischer-Lichte 1983, in particolare vol. 1, p. 180-189; Aston – Savona 1991, p. 99-122.
3 Sul ruolo dei cantanti nella sostituzione di arie, a partire già dal primo Settecento, si veda Poriss 2009, p. 13-36.
4 Rosselli 1989. Più in generale sulla circolazione di musica e musicisti cf. Strohm 2001; Rasch 2008; Goulet – Zur Nieden 2015; Zur Nieden – Over 2016.
5 Sulle arie da baule nel Seicento, cf. Brown 1995.
6 Le analisi della trasformazione di un’opera tendono a limitarsi a testo e musica, ad es. Powers 1961-1962; Lindgren 1977; McKee 1989.
7 Relativamente all’ascolto musicale si vedano ad es. Adorno 1994, in partic. 358-360, e Meyer 1956, p. 151-156, nonché gli approcci di Huron 2006 e i tre studi in King – Prior 2013, p. 11-106.
8 Il nome cambia tra «Vespesiano» e «Vespasiano» nei vari libretti. Per uniformità userò l’ultima ortografia in tutti casi.
9 Per la prima veneziana cf. Selfridge-Field 2007, p. 198. Sul teatro e il suo repertorio si veda Saunders 1985, e in particolare p. 454 per i cantanti di quella produzione; per la prima romana cf. Cametti 1938, vol. 2, p. 353-354; Franchi 1988, p. 655-656, n° 2.
10 Per un’analisi di tutti i libretti fino al primo Settecento, le principali fonti musicali e un’edizione critica dell’intera opera si veda McKee 1989. Sulla produzione veneziana del 1678 anche Selfridge-Field 2007, p. 125-126. Per un’altra fonte musicale della versione veneziana cf. Pascual León 2018. Sulla produzione romana cf. Cametti 1938, vol. 2, p. 355-356; Franchi 1988, p. 657-659, n° 5. Su un altro percorso, che portò Il Vespasiano a Napoli, si veda Menchelli Buttini 1995.
11 Come già notato da Cametti 1938, vol. 2, p. 354.
12 I nomi dei cantanti delle produzioni veneziane provengono da una fonte manoscritta contentente elenchi di cantanti (Saunders 1985, p. 447-466); per le altre produzioni questi sono indicati nei libretti a stampa.
13 Si veda anche Van der Linden 2011, p. 43.
14 Su quest’aria e in generale su arie francesi in opere italiane del periodo cf. Nestola 2015, p. 532-533, che però non sembra essere stata a conoscenza di una seconda edizione del libretto veneziano e dunque presume che il testo dell’aria non sia presente nel libretto; la musica dell’aria è in D-MÜs, Hs. 187, n° 24.
15 «Lungi o lumi lusinghieri», che appare con la stessa musica in D-MÜs, Hs. 187, n° 20 (Venezia) e in I-MOe, MUS.G.292, n° 21 (Piacenza), era forse un’aria di Aureli. Un’associazione con la corte torinese, dove la virtuosa era impiegata in quel periodo, potrebbe spiegare la migrazione di quella musica in Francia, dove nel 1708 appare nel quinto volume di arie italiane pubblicato da Ballard: Recueil des meilleurs airs 1708, p. 420.
16 La prima, per la produzione veneziana, è a D-MÜs, Hs. 187, mentre quella per Piacenza è a I-MOe, MUS.G.292. Arie legate alla produzione romana appaiono tra altro in I-Rli, Musica M 15/2 e D-MÜs, Hs. 904. Sui manoscritti a Modena e Roma appena citati si vedano rispettivamente Lodi 1923, p. 153; Chiarelli 1987, p. 134-135, cat. 564; Careri 1998, p. 146-148, cat. 248.
17 Per Elvira le fonti musicali superstiti permettono un confronto musicale diretto tra le versioni di Piacenza e Roma solo per un’unica aria, «Io sento a poco a poco» (atto III), e in quel caso in base all’incipit la musica sembra uguale. Si confrontino I-MOe, MUS.G.292 n° 17 e D-MÜs, Hs. 598, n° 9.
18 La musica di «Tratto qui da un cieco nume» per la produzione romana è in I-Rli, Musica M 15/3, cc. 25-29.
19 Una stesura della nuova aria per Roma è in D-MÜs, Hs. 3951, n° 6 e V-CVbav, Barb. lat. 4171, cc. 165-170. Sulla seconda fonte si veda Lindgren – Murata 2018, p. 262-266.
20 Dell’aria «Col versar sì belle lagrime» esistono testimoni associabili alle rappresentazioni di Piacenza (in I-MOe, MUS.G.292, n° 11) e di Roma (in I-Rli, Musica M 15/2, cc. 69-74 e D-MÜs, Hs. 904, n° 2). Le varie partiture musicali di «Pupille care» sono elencate in Lindgren – Murata 2018, p. 264.
21 Esclusa dalla lista è la produzione veneziana del 1680.
22 Oltre a Giuseppe Segni, che a Roma aveva ricoperto il ruolo di Arricida, mentre a Modena quello di Attilio.
23 Le figure 3-5 sono ricavate dal confronto diretto dei libretti e dalle informazioni in McKee 1989 che ne offre un’analisi completa. Sull’importante raccolta romana per Il Vespasiano in V-CVbav, Barb. Lat 4172, si veda Lindgren – Murata 2018, p. 266-276, che riporta le concordanze con le fonti musicali per le produzioni veneziane del 1678 e 1680 e quella modenese del 1685.
24 Per una descrizione di queste partiture cf. McKee 1989, vol. 1, p. 142-198. La partitura per Venezia 1678 è in I-MOe, MUS.F.894, quella per Venezia 1680 in I-Vnm, It. IV, 462 (= 9986) e quella per Modena e Milano 1685 in I-MOe, MUS.F.898.
25 Lindgren – Murata 2018, p. 274-276.
26 McKee 1989, vol. 1, p. 224 e Lindgren – Murata 2018, p. 266-267, n° 1, segnalano l’aria nelle due partiture per Venezia, in quella per Modena e in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 1-3v. Quest’ultima raccolta d’arie è riferibile alle versioni per Fabriano e Roma, perché contiene arie che compaiono solo nell’una o nell’altra delle due esecuzioni. A Fabriano/Roma l’aria è trasposta di una quinta in giù da Re a Sol maggiore.
27 Anche le arie «Sul mio crin ti voglio alloro» (atto II) e «Condottier di più bel giorno» (atto III), ambedue per Domiziano, mantengono la stessa musica da Venezia a Modena e a Fabriano/Roma, anche qui trasposta al grave nelle fonti romane. Si vedano McKee 1989, vol. 1, p. 262-263 e 291, e Lindgren – Murata 2018, p. 259, n° 7 e p. 273, n° 38 e p. 271 n° 23.
28 Si tratta di «Su le nemiche stragi» e «Per pietade, ahi, chi m’uccide?» (atto III): cf. McKee 1989, p. 279-280 e 295, e Lindgren – Murata 2018, p. 272, n° 31 e p. 271 n° 28. Se è probabile che queste nuove arie fossero state composte per Fabriano e Roma, è possibile che la musica fosse stata scritta già per Parma nel 1689 (quando la parte veniva cantata da Marc’Antonio Arigoni).
29 Lindgren – Murata 2018, p. 274-275. Alcuni di questi numeri potrebbero corrispondere alle varianti della partitura per Modena 1685 (I-MOe, MUS.F.898) che al momento non è stato possibile consultare.
30 Furio Camillo (Sartori 1990-1994, n° 11141), p. 52. Per la produzione veneziana cf. Selfridge-Field 2007, p. 201.
31 Si tratta della partitura del «Furio Camillo recitato nel teatro Vendramino di San Salvator drama del sig.r Mateo Noris musicha del sig.r Giacomo Perti, Venetia 1692» in D-B, Mus. Ms 17230. L’aria è alle cc. 45v-46r. Probabilmente riferibile alla ripresa romana del 1696 è l’aria in CVbav, Barb. lat. 4169, c. 100. Si veda Lindgren 2016, p. 180.
32 Sartori 1990-1994, n° 11142; Van der Linden 2016, p. 137, doc. 2.40 per la data.
33 L’aria de Il Pausania «Di fiere serpi» (cf. Sartori 1990-1994, n° 18220) sostituisce «La bella mia nemica» della prima esecuzione (Venezia, 1681: cf. Sartori 1990-1994, n° 18219). La musica dell’aria sostitutiva è in I-MOe, MUS.G.296, cc. 34r-36r, una raccolta che contiene anche «Bellezze idolatrate», un’aria sostitutiva per Pistocchi eseguita a Fabriano.
34 Il favore degli Dei (Sartori 1990-1994, n° 09837), p. 31. Pistocchi cantò la parte di Fama in questa produzione. Sulla produzione, eccezionale per molti versi, si veda Heller 2016.
35 La partitura si trova in I-Rli, Musica M 15/2, n° 1, e I-Bc, V.291, cc. 141r-146r, D-MÜs, Hs. 172, n° 18, e Hs. 3951, n° 16.
36 Si veda Della Libera – Domínguez 2012, p. 144, doc. 48, e p. 145, doc. 50 per l’identificazione dei due personaggi.
37 Domínguez 2013a, p. 92.
38 Staffieri 1990, p. 108-109, n° 141 e 143.
39 I-PAas, Carteggio farnesiano estero, b. 531, lettera del 3 dicembre 1692.
40 Sul palazzetto, cf. Witte 2008.
41 Il duetto di Tito e Attilio «All’armi a le stragi» (atto II) era probabilmente uguale a Modena e a Parma (McKee 1989, vol. 1, p. 253-254; non è presente nelle fonti musicali romane). Il duetto di Tito e Arricida «Con l’onda che scherza» (atto II) si presenta in due versioni musicali già a Modena nel 1685 (McKee 1989, vol. 1, p. 263). La versione a Roma in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 81-85, è diversa dall’originale di Pallavicino (Lindgren – Murata 2018, p. 273), ma non è chiaro se sia anche diversa da I-MOe, MUS.F.898. Non ci sono fonti romane del duetto di Tito e Gesilla «Sin ch’io vivo» (atto III). L’ultimo duetto di Tito e Arricida «T’abbraccio ti stringo» è presente solo nel libretto romano (McKee 1989, vol. 1, p. 297), la musica è in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 60v-61v (Lindgren – Murata 2018, p. 271, n° 27).
42 Non esiste una partitura per Fabriano o Roma, ma V-CVbav, Barb. lat. 4172 è la più ampia fonte per le due produzioni. Le due arie qui citate sono in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 72v-73v e 34v-35v (Lindgren – Murata 2018, p. 272, n° 34 e p. 269, n° 16). «Chi non vede» venne cantato per intero anche a Roma (non solo le prime due righe, come dice McKee 1989, vol. 1, p. 284).
43 «Ferma il piè» è in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 19-20v (Lindgren – Murata 2018, p. 268, n° 9), «Per mirar chi al sol da luce» in D-MÜs, Hs. 904, n° 6.
44 «Per uscir da tante pene, cieco Dio che far dovrò?» è in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 24v-27 (Lindgren – Murata 2018, p. 268-269, n° 12). Non sembra che si sia conservata una partitura per «Caro nume bendato».
45 «Sei destinato a piangere» è in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 39-40 (Lindgren – Murata 2018, p. 270, n° 19). «Perdei per un crin d’oro» compare in I-Rli, Musica M 15/2, n° 1 e D-MÜs, Hs. 3951, n° 16, nonché in una trasposizione più bassa in D-MÜs, Hs. 172, n° 18.
46 Queste due arie sono, tra altro, comprese in V-CBbav, Barb. lat. 4172, cc. 74-75v e 87-89 (Lindgren – Murata 2018, p. 272, n° 35 e p. 273, n° 41).
47 La partitura di «Miei spirti» (che appare solo nel libretto di Fabriano; si veda McKee 1989, vol. 1, p. 293) è in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 52-55 (Lindgren – Murata 2018, p. 271, n° 24). Per «In man del furore» non sembra esistere una fonte musicale.
48 Della Libera – Domínguez 2012, p. 144, doc. 47.
49 Sui rapporti tra Venezia e Roma per quanto riguarda l’opera si veda De Lucca 2011.
50 V-CVbav, Archivio Chigi, b. 277, cc. 30r-31r, lettera dell’8 marzo [16]78.
51 Esemplare è «Miei spirti a l’armi ne già vi disarmi» (Tito/Pistocchi, atto III), che compare solo a Fabriano, ma è compresa in V-CVbav, Barb. lat. 4172, cc. 52-55, e fu anche copiata per il cardinale Ottoboni nel gennaio 1693; si veda Marx 1968, p. 134, doc. 42c.
52 Della Libera – Domínguez 2012, p. 143, doc. 42.
53 Della Libera – Domínguez 2012, p. 141, doc. 29.
54 Della Libera – Domínguez 2012, p. 141, doc. 31, 34.
55 Mazza – Bianconi – Casali Pedrielli 2018, p. 45.
56 Sugli anni bolognesi di Pamphilj ci riferiamo a Van der Linden 2016.
57 Van der Linden 2016, p. 102-104. Se i due cardinali fossero poi presenti a Roma durante la stagione operistica non è chiaro.
58 V-CVbav, Barb. lat. 4206, cc. 42r-53 e Van der Linden 2016, p. 107.
59 Su raccolte d’arie a Roma come depositi di memoria si veda Murata 1990; Jeanneret 2017b.
60 Della Libera – Domínguez 2012, p. 143, doc. 45.
61 Della Libera – Domínguez 2012, p. 146, doc. 55.
Auteur
h.vanderlinden@gmx.com
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