Da Firenze a Parigi: l’eretico Francesco Pucci nella Francia delle prime guerre di religione
p. 263-280
Texte intégral
1Francesco Pucci nacque a Firenze nel 1543 da una famiglia della buona borghesia fiorentina e ricevette un’educazione chiaramente improntata ai valori umanistici. Gli scritti di Girolamo Savonarola, di Pico della Mirandola, insieme alle opere spirituali del Petrarca e di Dante furono il pane quotidiano con cui saziò «sino da fanciullo» la sua sete di conoscenza, cercando di appagare la sua irrestistibile «inclinatione per le cose divine»: ancora giovanissimo, avrebbe scritto di sé parecchi anni dopo, manifestò l’«inclinazione e ’l gusto più che l’ordinario [...] di udire attentamente i propositi e gli uffizi sacri, e di studiare gli autori, che delle cose divine trattano, secondo l’avviso e costume de’ miei parenti, i quali avevano sempre in mano e in bocca la Scrittura santa, gli scritti del Savonarola e di simili eccellenti predicatori»1. All’età di diciott’anni iniziò a seguire i corsi dell’Accademia dei Lucidi, fondata nel 1560 dal grammatico Eufrosio Lapini «per esercizio dei nobili giovanetti fiorentini», come recitava l’atto di fondazione2, e nell’aprile del 1561 u incaricato di tenere l’orazione per salutare l’elezione di Filippo Nerli al consolato dell’Accademia: «Molto più spesso la natura senza la dottrina che la dottrina senza la natura ha condotti gli uomini ai supremi gradi», pronunciò significativamente in quell’occasione, prefigurando l’inclinazione anti-intellettualistica di molte delle sue successive opere, in un testo peraltro privo di qualsiasi riferimento alla dimensione religiosa e tantomeno a quella teologica3. Non sappiamo molto delle sue letture, di quegli autori che «trattano delle cose divine» che tan-to attiravano la sua attenzione e che dovettero contribuire non poco alla sua formazione religiosa e dottrinale. È quantomeno probabile che non sfuggisse alla sua passione di lettore il Sermone della grandissima misericordia di Dio, traduzione del De immensa Dei misericordia (1524) di Erasmo da Rotterdam, testo tradotto già a Brescia nel 1542, a Venezia nel 1551, e da ultimo a Firenze nel 1554 proprio negli ambienti della Accademia fiorentina, in particolare all’interno di un gruppo di letterati dei quali facevano parte Ludovido Domenichi, il filosofo neoplatonico Pompeo della Barba, membro dell’Accademia, Simone della Barba e alcune figure minori4; così come non dovette sfuggire alla sua lettura il Beneficio di Cristo crocifisso, il best-seller della Riforma in Italia edito anonimo a Venezia nel 15435: si trattava di testi che avrebbero profondamente influenzato il suo pensiero teologico, tanto da fare del Pucci uno dei massimi sostenitori dell’ampiezza della misericordia divina e dell’«efficacia del benefizio di Cristo in tutti gli uomini»6. Quando, il 13 ottobre 1563, raggiunse la maggiore età, il ricco zio materno Mariotto Giambonelli lo nominò suo procuratore e lo inviò a far pratica d’affari a Lione presso il banco dei Rinuccini: nella città francese sarebbe rimasto, salvo periodici viaggi di lavoro tra Firenze e Roma, fino al 1570. A Lione il Pucci ebbe modo di entrare in contatto con una vivace comunità italiana, fiorentina in primo luogo, composta di grandi mercanti e uomini d’affari, ma anche di un forte nucleo di esuli antimedicei che cercavano a Lione le libertà perdute nella loro città natale, vivendo nel ricordo dei loro ideali savonaroliani e repubblicani e nella speranza di poterli un giorno introdurre nuovamente nella loro amata Firenze7. Pucci si trovò immediatamente in sintonia con quel clima. Quell’«affezione ardente» che aveva sempre manifestato «verso i cittadini amanti del ben comune e della loro patria»8 fu oltremodo rinvigorita dalla frequentazione di quegli esuli, politicamente motivati oltre che religiosamente ispirati. Ma il soggiorno lionese fu decisivo per la biografia pucciana anche perché nella città francese il giovane fiorentino entrò per la prima volta in diretto contatto con la dimensione della controversia e della polemica dottrinale e maturò la sua decisione, presa poi definitivamente a Parigi all’inizio degli anni settanta, di abbandonare il commercio per dedicarsi allo studio e alla ricerca della verità divina9.
2La Lione dei primi anni sessanta era – come noto – una città in pieno fermento. La popolazione si era andata estendendo fino a sessantamila abitanti; produzioni all’ingrosso e fiere annuali rendevano il suo mercato tra i più attivi centri del commercio europeo. Il protestantesimo, a partire dagli anni quaranta, si era diffuso rapidamente, fino a coinvolgere circa un terzo degli abitanti; al culmine della sua espansione, nel 1562, una vittoriosa rivolta calvinista aveva consegnato la città nelle mani dei riformati. Per circa un anno le chiese cattoliche furono tenute in ostaggio dalle milizie protestanti e la popolazione lionese fu costretta a seguire senza alternative il loro cul-to. Qualche mese dopo l’editto di Amboise (13 marzo 1563), la città tornò sotto l’autorità regia e non senza difficoltà i cattolici ripresero possesso delle loro proprietà e dei loro luoghi di culto. Il gesuita Emond Auger potè tornare a dire messa nella chiesa di Saint-Jean (il 13 luglio) e nell’autunno fece ritorno a Lione anche Antonio Possevino, il gesuita che già nel ’62 aveva tenuto nella città francese il suo ciclo quaresimale di predicazione. L’editto però autorizzava, tra le altre cose, la pratica del culto riformato nelle piazzeforti che, come appunto Lione, si trovavano in quel momento nelle mani dei protestanti e la città si preparò a un difficile periodo di convivenza interconfessionale10. Quando Pucci sbarcò a Lione si trovò dunque immerso in una realtà segnata da scontri e violenze quotidiane spesso perpetrate sotto lo sguardo impotente delle autorità ecclesiastiche. Non sembra difficile immaginarlo attento nel seguire l’evoluzione delle vicende religiose; soprattutto, attratto dalle numerose dispute e controversie dottrinali che si susseguirono nei mesi successivi al suo arrivo. Pierre Viret, da una parte, Emond Auger, Antonio Possevino e il frate minimo Jean Rospitel, dall’altra, si confrontarono ripetutamente – seppur a distanza – sui principali temi della polemica religiosa del tempo. Seguendo la pubblicazione dei loro infuocati libelli controversistici e lo svolgimento delle frequenti dispute che animavano la vita delle strade lionesi, Pucci fece in questi anni il suo apprendistato religioso imparando, come avrebbe testimoniato qualche anno più avanti, ad «esaminare liberamente, ad una ad una, le sentenze particolari che sono state e sono in controversia, con [il] proposito di fermarmi nelle conclusioni in cui io trovassi e sentissi le proprietà e le marche della verità divina»11. «Detta esamina» era fatta – sono sempre sue parole – «senza pregiudizio alcuno e con carta bianca, a fine di non impedire punto le buone inspirazioni che dal celeste Padre mi venissero»12. Schierarsi sull’uno anziché sull’altro fronte non sembrava materia che occupasse più di tanto l’esule fiorentino, anche se, come vedremo, fino al 1572 egli continuò a considerarsi un fedele seguace di Roma. Ciò che più interessava il Pucci era la possibilità di imparare ad ascoltare «le buone ispirazioni» che riceveva dall’alto mentre assisteva con animo e giudizio libero alle controversie che costellavano la vita religiosa lionese di quegli anni13.
3La questione eucaristica fu sicuramente uno degli argomenti più caldi della polemica religiosa di quei mesi e di quegli anni. Fu il Possevino, appena giunto a Lione, a fare il primo passo, diffondendo un fervente opuscolo sulla messa. Pierre Viret appena poche settimane dopo aveva già pronta la sua replica con le Cauteles et canons de la messe, estratto da un suo scritto edito qualche anno prima nel 1554 (Des actes des vrais successeurs de Jésus-Christ), in cui denunciava l’idolatria del rito cattolico della cena. Anche il gesuita Emond Auger intervenne nei mesi seguenti. La polemica, insomma, andò avanti per diversi mesi e ancora nella primavera del 1566 a Lione si continuava a discutere di eucarestia: questa volta però con interlocutori e ruoli diversi. Theodore de Bèze, il successore di Calvino, e due semi-sconosciuti membri della comunità riformata italiana di Lione, da una parte, e, dall’altra, il giurista piemontese Alamanni e il fiorentino Piero Capponi, membro dell’omonima famiglia di ricchi mercanti e banchieri antimedicei, trasferitisi a Lione già dall’inizio del secolo. Senza addentrarci nelle pieghe di una vicenda peraltro nota nelle sue linee generali14, in questa sede interessa fermare l’attenzione sui due italiani di Lione, il Capponi e l’Alamanni. Spiriti curiosi, irrequieta ingenia che non amano troppo le sottigliezze dottrinali, così li aveva già definiti con preoccupazione lo stesso Theodore de Bèze scrivendo al Bullinger nel 1564, incoraggiandolo ad inviare presso la comunità lionese il pastore di Chiavenna Girolamo Zanchi: «per tenere sotto controllo la loro audacia», scriveva15. La controversia verteva sulla presenza del corpo di Cristo nel rito eucaristico. Alamanni, portando alle estreme conseguenze la concezione simbolica della Cena difesa da Zwingli, sosteneva che non si poteva parlare di una comunicazione dell’anima con Cristo se non in senso puramente spirituale, dunque non si poteva parlare in alcun modo (né spirituale né tanto meno materiale) della presenza del corpo di Cristo nella Cena. Ma non furono le pur ardimentose riflessioni dottrinali dei suoi interlocutori a indignare maggiormente il riformatore ginevrino. La sfacciata noncuranza nei confronti dell’autorità magisteriale delle istituzioni ecclesiastiche, il continuo appellarsi degli avversari alla «pura verità di Dio», la loro ripetuta professione di rifiuto per tutte le «cavillazioni e sofisterie» dottrinali delle chiese costituite, il loro atteggiarsi a depositari di incomprensibili segreti divini, il presentare il proprio operato come la fedele realizzazione di inconfessabili profezie divine: furono questi gli aspetti più temibili ravvisati dal Bèze nella proposta religiosa di Alamanni e Capponi, ben al di là dunque delle loro posizioni specificatamente teologiche. Quella lezione di spregiudicatezza dottrinale condita con un intenso profetismo millenaristico di matrice savonaroliana dovette rimanere impressa nella memoria di Francesco Pucci, che di quella disputa fu con tutta probabilità testimone attento: appena pochi anni dopo, nel corso del duro scontro che tra il gennaio e il maggio del 1575 lo avrebbe opposto al concistoro della Chiesa francese di Londra, l’esule fiorentino avrebbe messo in qualche modo a frutto quella lezione lionese.
4Nel 1570, infatti, il fiorentino prese la decisione di «lassare i trafichi e negozi terreni, e darmi principalmente alla contemplazione e studio delle cose celesti ed eterne»16. La constatazione delle infinite «discordie e contrasti [che] sono sopra la terra fra religione e religione e fra Chiesa e Chiesa» non lo scoraggiò, anzi fece accrescere in lui la volontà di proseguire quell’«esamina senza pregiudizio» delle controversie religiose che aveva intrapreso a Lione. La morte dello zio Giambonelli, occorsa il 23 marzo 1570, lo investì improvvisamente di una ingente eredità, offrendogli un’occasione forse insperata. Dopo aver sbrigato a Firenze le necessarie commissioni relative all’acquisizione dell’eredità, il Pucci decise così di mettere quella grossa somma di denaro al servizio della propria missione spirituale. Prima tappa: Parigi. «Elessi – scriverà qualche anno dopo – di peregrinare a mie spese in regno e città libera e di gran nome per la facoltà teologica, cioè Parigi». Nella capitale francese, «dove io venni l’anno 71 e soggiornai uno anno», proseguì la sua incessante ricerca di chiarimento («cercando di chiarirmi»). Fu qui che la sua fedeltà a Roma cominciò a vacillare: gli orrori della notte di San Bartolomeo apparirono infatti al Pucci come una conferma delle accuse che in quei mesi aveva sentito ripetutamente rivolgere dalle «oltramontane sétte contra la Chiesa di Roma». La sua conversione al protestantesimo17, però, non durò molto: «tosto – avrebbe scritto – gli trovai [i calvinisti] senza fondamento di carità e di lealtà, ed ebbi con loro in quello e negli altri regni continuamente dispute»18. Fu l’inizio di una «faticosa peregrinazione di circa quattordici anni» che lo portò nelle principali città europee del tempo, da Londra, a Oxford, da Parigi ancora a Basilea, da Cracovia a Praga, per poi fare ritorno ancora in Francia e di lì intraprendere il suo ultimo tragico viaggio verso Roma, dove sarebbe stato condannato al rogo e arso in Campo dei Fiori il 5 luglio del 1597. Un lungo viaggio attraverso l’Europa in cui l’esule fiorentino si sarebbe fatto conoscere come il più acceso sostenitore della libera e diretta ispirazione divina in ogni credente, avversando con ogni mezzo la rigidità dogmatica e disciplinare delle chiese costituite. E la prima tappa di quella lunga peregrinazione fu appunto l’Inghilterra. Qui, dopo essere stato accolto (il 10 dicembre 1572) nella Chiesa degli esuli italiani a Londra19, e dopo essere stato allontanato con l’accusa di professare dottrine pelagiane dall’università di Oxford – dove il 18 maggio 1574 si era addottorato magister artium –, fu protagonista di una lunga controversia con il concistoro della Chiesa francese che Antonio Rotondò ha ricostruito con grande maestria20. Ebbene, di fronte al fermo richiamo del concistoro alla sottomissione al magistero ecclesiastico – «le don de prophétie extraordinaire estant cessé en l’Église» sentenziarono i membri del concistoro21, riecheggiando le parole utilizzate pochi anni prima da Théodore de Bèze nella controversia lionese –, l’esule fiorentino rivendicò apertamente la piena libertà di parola per ogni membro della comunità, una libertà – sosteneva – fondata sulla presunzione dell’ispirazione diretta dello Spirito Santo in ogni credente. Nelle parole di quel focoso fiorentino che furoreggiava contro la presunzione autoritaria delle istituzioni ecclesiastiche, rivendicando l’ispirazione divina che gli aveva aperto la porta a tutti i segreti delle sacre Scritture, la voce degli italiani di Lione sembrò così trovare a pochi anni di distanza una nuova, non scontata, incarnazione.
5Quando, all’indomani di quel duro scontro con il concistoro della Chiesa francese di Londra, il Pucci decise di lasciare l’Inghilterra, fu di nuovo Parigi la meta prescelta22. Il suo legame con il gruppo di fuoriusciti fiorentini in terra transalpina era rimasto molto solido e quel secondo breve soggiorno parigino – tra il dicembre 1576 e il maggio 1577 – fu l’occasione per rinvigorire vecchie amicizie. Una lettera di Sinolfo Saracini, ambasciatore toscano in Francia, al granduca Ferdinando I, scritta da Parigi pochi mesi dopo, nel luglio del 1578, quando il Pucci si era già trasferito a Basilea, illumina retrospettivamente la natura di quel legame e di quei contatti, offrendo una testimonianza importante dei progetti politico-letterari che l’esule fiorentino condivise in quegli anni con i suoi compatrioti fiorentini:
Avendo egli [«il Busini», informatore del Saracini] penetrato che [«il Girolami et il Corbinello»] fabricavano una scrittura [manca] con l’aggiunta di non so che dichiarazione di Lorenzino sopra la morte del duca Alessandro buona memoria, [...] mi è parso nondimeno d’inviarla e di render conto insieme della maligna intenzione di costoro, non lasciando di dire che io intendo dal medesimo Busini che seguiteranno secondo lo stile di questa di produrre alcune azioni del granduca Cosimo di felice memoria, e che disegnano di fare stampare questa opera in Basilea con l’aiuto e mezzo di un tale Francesco Pucci, non punto dissimile dalli costumi di questi ribaldi, il quale si trova là per eresia23.
6Il progetto di pubblicazione postuma dell’Apologia del tirannicidio di Lorenzino de’ Medici, redatta nel 1544 all’indomani dell’uccisione del duca di Firenze Alessandro de’ Medici24, si iscriveva in un più ampio disegno che comprendeva tra l’altro anche la stampa della Repubblica fiorentina di Donato Giannotti25. Il disegno era maturato dietro impulso dell’esule fiorentino Jacopo Corbinelli in anni dominati da un clima di sospetto e intimidazione nei confronti degli esponenti di quell’ideale repubblica fiorentina in esilio, costantemente minacciati dalle mire dei sicari medicei: un clima al quale aveva contribuito non poco la nomina a nuovo ambasciatore toscano, il 26 giugno 1576, del senese Sinolfo Saracini, scelto dal granduca Francesco de’ Medici al posto di Vincenzo Alamanni proprio per imprimere una forte accelerata all’opera di eliminazione degli esuli politici toscani residenti in Francia. Tra il 1577 e il 1578 un’ininterrotta catena di omicidi costellò la scena francese: caddero per mano medicea numerosi esuli, tra cui Francesco Alamanni, Antonio Capponi e il noto Troilo Orsini assassinato a Parigi da Stefano Caraccioli, sicario del granduca26. Fu in quel clima di intimidazione che il Corbinelli decise che i fiorentini si dovevano riappropriare degli ideali antitirannici che proprio in quegli stessi anni gli ugonotti francesi avevano posto al centro della loro riflessione politica con Etienne de La Boétie, Innocent Gentillet, François Hotman (tutti autori conosciuti e lodati dal Corbinelli). Nelle intenzioni del Corbinelli si trattava di rielaborare i toni e i contenuti della polemica antimachiavelliana e anti-italiana della trattatistica ugonotta francese adattandoli strumentalmente a una polemica diretta contro quanti, tra gli esuli, sembravano rassegnati ad accettare passivamente la vittoria della tirannide medicea27. Niente di più adatto a questo scopo della stampa dell’ancora manoscritta Apologia del tirannicidio.
7Quel testo, infatti, al di là della piena rivendicazione della legittimità politica e morale dell’omicidio politico, conteneva un duro atto di accusa nei confronti degli esuli fiorentini che, secondo Lorenzino – intento a rispedire al mittente le accuse piovutegli sul capo all’indomani dell’assassinio di Alessandro de’ Medici –, erano i veri responsabili delle mancate conseguenze politiche del suo riuscito gesto, dal momento che non avevano saputo approfittare del suo atto di eroismo, mancando clamorosamente l’occasione di istigare alla rivolta il popolo fiorentino. La riproposizione di quell’atto di accusa nel contesto francese di quegli anni suonava dunque da una parte come un chiaro invito ai suoi compagni di esilio a ribellarsi a quel clima di intimidazione istaurato dal duca Francesco, dall’altra come un avvertimento all’indirizzo delle orecchie più sensibili rimaste in patria, quasi un ammonimento a non considerare la partita definitivamente chiusa.
8Francesco Pucci – segnalava il Saracini – era stato chiamato a svolgere un ruolo non marginale in questo progetto editoriale e politico. Egli con tutta probabilità aveva conosciuto il Corbinelli a Lione alla fine degli anni sessanta, ed è altrettanto probabile che questi avesse discusso con lui progetti e ambizioni comuni proprio durante il suo ultimo soggiorno parigino nel 1576-77. A Lione, nel 1568, fuggendo da un invito di comparizione in giudizio emanato dagli Otto di Guardia e di Balia, Jacopo aveva raggiunto il fratello Bernardo, già bandito da Firenze nel 1559 in seguito alla congiura di Pandolfo Pucci ai danni di Cosimo I28. È facile immaginare che Pucci e Corbinelli condividessero le medesime frequentazioni e gli stessi luoghi di incontro, coinvolti in misura e modi forse diversi in quella rigogliosa e vivace comunità fiorentina lionese dedita a intense attività commerciali e mercantili ma anche, come detto, all’incessante culto della memoria savonaroliana e repubblicana. A Basilea, dunque, dove giunse all’inizio di maggio del 1577, il Pucci fu messo a parte di quel progetto e si offrì di contribuire alla stampa dell’Apologia presso una delle numerose stamperie basileesi. Condividere le sorti dei suoi compatrioti in esilio, partecipare alla loro attività editoriale e soprattutto agli ideali antitirannici di cui l’Apologia era simbolo era per Pucci la migliore occasione per onorare quell’«affezione ardente, che io ho sempre avuta verso i cittadini amanti del ben comune e della loro patria» e manifestare quell’«odio mortale contra ogni tirannia e parzialità» di cui avrebbe parlato nella sua lunga lettera autobiografica indirizzata a Clemente VIII nel 159229.
9Nonostante la mancata realizzazione di quel progetto30, i contatti tra i due proseguirono affettuosamente anche negli anni successi vi. Le prime copie dell’Informazione della religione cristiana che il Pucci, nuovamente in terra inglese, pubblicò negli ultimi mesi del 1579 presso il Wolf31 furono proprio per l’amico Corbinelli, allora a Parigi presso la corte francese, accompagnate dalla speranza che il vecchio amico fiorentino potesse contribuire alla diffusione di quel suo «libretto». È quanto risulta da una lettera del nunzio apostolico a Parigi Anselmo Dandino, il quale il 25 febbraio 1580 riferiva al cardinal Tolomeo Galli di essersi impadronito di un «pacchetto» inviato dal Pucci al Corbinelli, contenente «copie» d’un «libretto» del primo:
Essendo per sorte venuto in mano d’un amico mio per ricapito un pacchetto d’Inghilterra d’un Francesco Pucci, Fiorentino, auttore di quel libretto che mandai i giorni passati a V. S. Ill.ma et che le scrissi poi esser stato da lui inviato in alcuni luoghi d’Italia, ho creduto con aprire le lettere che vi erano di far cosa che possa essere di servitio di Dio et a grado a N. S.; et perciò m’è parso bene di farne cavare le copie che le mando alligate, havendole poi riserrate per farle have-re a Giacomo Corbinelli, a chi il pachetto era diretto. Questo Corbinelli è huomo che fa professione di lettere et si trattiene qui con qualche provisione del re, et è mio conoscente et molto amico di mons. di Nazaret et di mons. Gemmario, né io l’ho conosciuto già mai fin qui, come credo che né anch’essi, per huomo che non sia catolico, ma veggo bene hora che ha maggior intelligenza con colui che non converria, et intendo che ha havuto da lui molti di quelli suoi libretti et carica di farne spacciare da un libraro buon numero che ha mandati in questa città. Ma io sono appresso per farli comprar tutti et farli brugiare, non havendo altro modo per provedere al male che facilmente potriano causare a molti Italiani che stanno qui, et rompere in questa parte il dissegno di quel tristo32.
10Il tentativo di coinvolgere il Corbinelli si inseriva in un più ampio disegno di diffusione del suo «libretto» che Pucci intendeva promuovere sul mercato editoriale italiano ed europeo, inviandone quantità rilevanti a Padova, a Ferrara, nonché a Lione, dove poteva contare ancora sull’aiuto degli amici fiorentini: «in Lione – scriveva il Dandino – sono stati inviati 300 di quelli libretti al capitano Giovanni Battista Sassetti, Fiorentino, et in Padova ad un scolaro inglese heretico, figliuolo d’un vescovo d’Ille»33.
11Tuttavia, come era facile prevedere, quell’impegno di collaborazione era destinato a rimanere una parentesi isolata nelle biografie dei due fiorentini. Le prospettive nelle quali si muovevano erano davvero troppo distanti. Mentre il Corbinelli sceglieva, infatti, di continuare a coltivare le sue aspirazioni politico-letterarie alla corte di Caterina e di Enrico III, il Pucci non poteva che assecondare la sua natura speculativa ed errabonda. Quei sentimenti politici improntati al repubblicanesimo e coloriti di venature antitiranniche che aveva condiviso con gli esuli fiorentini, messi in dialogo con una preminente prospettiva teologica e dottrinale, con le sue doti profetiche di theodidactus (ispirato da Dio), non potevano che trovare sbocco in un ideale politico fortemente impregnato di istanze utopistiche, decisamente lontano dalla strada scelta dal Corbinelli. La Forma d’una republica catholica, opera pubblicata nel 158134, – quel «corpo di republica sano» in cui potrebbero trovare accordo tutti gli «huomini da bene [...] senza muoversi de paesi dove e’ vivono» – offriva in questo senso una testimonianza decisiva. Si trattava di una ideale società segreta, minuziosamente organizzata con tanto di collegi, statuti, consoli e ufficiali – un corpo di cittadini con le «membra sparse in diverse contrade», comunicanti tra loro per «mezzo delle lettere»35 –, governata da una dieta generale riunita periodicamente tra i deputati dei singoli collegi nella «terra di qualche gentilhuomo o signore nostro cittadino o amico, overo [in] qualcuna di quelle città d’Europa dove si fa qualche segnalata fiera, come Francoforte, Lione, Parigi et simili»36. «Una nuova concezione dinamica e rivoluzionaria del segreto nicodemismo religioso», è stata definita37. Ancor meglio, si trattava di una miscela del tutto originale di elementi utopistici e di istanze organizzative concrete: una repubblica utopica, certamente, che mai sarebbe stato possibile realizzare nei termini proposti dal suo ideatore, ma allo stesso tempo una pro-posta che si distingueva dalle molte utopie circolanti nell’Europa del ’500 per alcuni elementi estremamente realistici (i suoi statuti, le sue diete, etc.)38. Ad ogni modo, si trattava di qualcosa di molto lontano dalle aspirazioni intellettuali e dalle prospettive politiche di Jacopo Corbinelli.
12Fu solo al termine della sua lunga peregrinazione in giro per l’Europa che il Pucci fece ritorno in Francia per un’ultima volta, precisamente nell’autunno del 1591. L’esule fiorentino, che intanto aveva abiurato la sua eresia a Praga nelle mani del nunzio apostolico nel 158639, arrivò a Parigi carico di speranze nei confronti di Enrico di Navarra, da molte parti indicato come la personalità più adatta a porre termine al lungo periodo di guerre civili che affligeva la nazione e dal Pucci individuato come la sola autorità in grado di realizzare il sogno che egli portava dentro di sé sin dai tempi della Forma d’una republica catholica, ovvero la convocazione di un concilio universale che realizzasse finalmente una pacificazione dell’intera cristianità40. Quell’ultimo soggiorno parigino assunse per l’eretico fiorentino le sembianze di una resa dei conti finale. Il primo novembre 1591 egli diffuse negli ambienti universitari e tra gli studiosi di teologia due theses tratte dai suoi scritti più importanti, il De praedestinatione e il De regno Christi, rispettivamente sull’efficacia universale e immediata della redenzione e sul prossimo avvento di Cristo41. La sfida lanciata dall’esule fiorentino fu raccolta da entrambi i fronti, quello cattolico e quello protestante: in tutte e due i casi, però, l’esito fu per lui deludente. Dopo aver constatato l’inconciliabilità delle proprie posizioni con quelle del calvinista Honoré42, alla fine del febbraio 1592 il Pucci si trovò a sostenere, nel palazzo reale di Parigi, alla presenza del cardinale di Borbone43, una disputa teologica sul tema della redenzione universale con il giovane giurista Jean Duret e con il cardinal Jacques Davy Du Perron44, in cui fu «poco umanamente trattato», come ebbe a lamentarsi subito dopo con Clemente VIII45. Il volume che scrisse a ridosso di quelle dispute per spiegare a un pubblico più ampio le sue ragioni (il De Christi servatoris efficacitate, 1592) ebbe una diffusione notevole in tutta Europa ma fu duramente attaccato sia dal gesuita Serario che dal calvinista Du Jon e dal luterano Osiander46: la sua proposta dottrinale incentrata sull’esaltazione del beneficio universale di Cristo valido per tutti i credenti non poteva trovare ascolto in un’Europa ancora rigidamente divisa tra cattolici e protestanti. Al contempo, la sua proposta politica di un concilio universale venne di fatto respinta dal futuro Enrico IV e dai suoi collaboratori, i quali si affrettarono a liquidare le aspirazioni del Pucci come «cose del cielo», tacciandolo in altre parole di ingenuo utopismo47. A Enrico di Navarra l’esule fiorentino si era rivolto infatti pochi mesi prima, esprimendogli direttamente le aspirazioni e le aspettative che l’anno precedente aveva cercato di condividere con il pontefice Gregorio XIV e con il cardinal nipote Sfondrati48: «Non posso esprimere a parole, santissimo padre, – raccontò nel luglio del 1592 nella sua epistola dedicatoria a Clemente VIII premessa al De Christi servatoris efficacitate – di quanta letizia mi sentii pervaso di recente in Francia, una nazione turbata e afflitta più di quanto si possa immaginare, chiedendo a quel Re di suggerire, per puro impulso di carità, le cose che gli parevano utili per riconciliare e placare gli animi fra loro acremente dissidenti e combattenti per la religione e la politica»49. Non è dato sapere se Pucci avesse effettivamente avuto la possibilità di incontrare personalmente il futuro Enrico IV50: ad ogni modo, comunque, il suo appello cadde nel vuoto. La reazione del Navarra alle sue ispirate proposte fu distaccata e scettica. Egli stesso lasciò trapelare in maniera inequivocabile gli umori del futuro re di Francia: «quel principe – raccontò il fiorentino – mi rispondeva che gli mancava il tempo e l’opportunità, non certo la buona volontà, di dedicarsi alle cose del cielo in mezzo a un tale strepito d’armi e ai tumulti terreni»51. Con discrezione e tatto, certo, il Navarra aveva dunque messo le cose in chiaro. Le proposte e le speranze del fiorentino erano cose che attinevano al «cielo», egli non aveva tempo né modo di dedicarvisi: doveva occuparsi della «terra». Così, in una lettera di poco successiva rivolta a Louis Revol, segretario del Navarra, il Pucci fu costretto ad ammettere una volta per tutte l’incolmabile distanza che separava le sue preoccupazioni da quelle dei governanti francesi: «trovai gli animi della vostra nazione tanto occupati negli affari della terra, che mi fu quasi in tutto chiusa la bocca e vietato il parlare de’ propositi celesti, quantunque fussero atti a spegnere gran parte del fuoco onde cotesto regno arde»52. All’indomani di quella brusca presa di coscienza di un clima a lui ostile e lontano, il fiorentino decise di intraprendere l’ultimo viaggio della sua tortuosa esistenza, quello del ritorno verso Roma53. Questa volta, le sue utopistiche speranze gli sarebbero costate davvero care: catturato a Salisburgo, sulla via del ritorno, sarebbe stato processato e bruciato sul rogo nel 159754. Solo allora, quella visione che il Pucci aveva condiviso all’inizio degli anni novanta con altre autorevoli figure del suo tempo55, quell’irenica prefigurazione di un destino di rigenerazione che avrebbe dovuto accomunare, sotto l’egida di un concilio universale indetto dal papa e dal re di Francia, le sorti della cristianità (e del papato) e quelle della nazione francese, si rivelò in tutta la sua tragica illusorietà.
Notes de bas de page
1 Lettera di Francesco Pucci a Clemente VIII, Roma, 5 agosto 1592 in L. Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, in Memorie dell’Accademia delle scienze di Torino, serie 3°, t. 4, parte II, n. 3, p. 114-120. Il testo di questa lettera è stato recentemente oggetto di un’interessante rilettura da parte di P. Carta, Nunziature ed eresia nel Cinquecento. Nuovi documenti sul processo e la condanna di Francesco Pucci (1592-1597), Padova, 1999, p. 17 sgg.
2 Sull’Accademia dei Lucidi vedi S. Salvini, Fasti consolari dell’Accademia fiorentina, Firenze, 1717, p. 235; M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, vol. IV, 1929, p. 11; e del Lapini vedi almeno il suo Anassarco, overo trattato de’costumi e modi che si debbono tenere o schifare nel dare opera agli studi, Firenze, appresso B. Sermartelli, 1571.
3 Orazione di Francesco d’Antonio di Dino Pucci, recitata da lui nella Accademia de’Lucidi, dando il primo consolato a messer Filippo Nerli in nome di tutta l’Accademia, a dì 13 d’aprile 1561, in F. Pucci, Lettere, documenti e testimonianze, a cura di L. Firpo e R. Piattoli, Firenze, 1955 (d’ora in avanti citato come Lettere), vol. I, p. 167-172, cit. a p. 169.
4 Per questo testo vedi ora l’edizione critica in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, a cura di C. Asso, introduzione di A. Prosperi, Torino, 2005; ma vedi anche S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, 1987, p. 158 sgg.
5 Per il Beneficio di Cristo cfr. l’edizione a cura di Salvatore Caponetto: Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo con le versioni del secolo xvi. Documenti e testimonianze, Firenze-Chicago, 1972; per la cospicua bibliografia sul testo sia sufficiente qui rimandare alla voce bibliografica contenuta in J. Tedeschi, The Italian Reformation of the sixteenth century and the diffusion of Renaissance culture. A bibliography of the secondary literature (ca. 1750-1996), compiled by J. Tedeschi in association with James M. Lattis, Historical Introduction by M. Firpo, Ferrara, 2000, p. 923-931.
6 Lettere, vol. I, p. 154. In riferimento ai decreti tridentini avrebbe scritto che «quelle sentenze e ana[te]matismi non toccano [...] né me, né simili cattolici, che tengono tutta la natura umana essere per il benefizio di Cristo ribenedetta ed efficacemente netta di quella macchia» (Lettera a un amico, in Praga, Norimberga, a mezzo il novembre 1592, in L. Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, cit., p. 137-142, cit. a p. 142).
7 Per un inquadramento della presenza italiana a Lione in quegli anni oltre al classico E. Picot, Les Français italianisants au xvie siécle, 2 vol., Parigi, 19061907, cfr. J. Boucher, Du milieu du xv à la fin du xvi siècle, Lyon, 1994, in partic.
p. 94-97 e 153-167, J.-F. Dubost, La France italienne xvie-xviie siècle, Parigi, 1997, in partic. p. 53 sgg. e 164 sgg., e soprattutto H. Heller, Anti-Italianism in Sixteenth-Century France, Toronto, 2003, in partic. p. 28-50; nonché ora S. Dall’Aglio, Savonarola in Francia. Circolazione di un’eredità politico-religiosa nell’Europa del Cinquecento, Torino, 2006, p. 112 sgg.
8 Lettera a Clemente VIII cit., p. 115.
9 Difficile dire a chi e a quali circostanze si riferisse il Pucci quando parlava delle predizioni che furono fatte sul suo conto, quando egli era ancora in età piuttosto giovane («predizioni fatte sopra di me da persone spirituali, che hanno [...] antivisto che un giorno il Signore si serviria di me nella sua Chiesa a qualche segnalata impresa»). A Lione il Pucci continuò probabilmente ad arricchire il proprio bagaglio personale e culturale con letture di testi teologici: non sarà inutile ricordare a questo proposito che presso lo stampatore lionese Claude Senneton venne pubblicata nel 1563 la versione francese delle Cent et dix consydérations divines di Juan de Valdés, e nel ’65 quella del Dialogue des deux natures du Christ di Pietro Martire Vermigli. Nel 1566 sarebbero poi apparsi i Capricci del Gelli, già condannati nell’Indice veneziano del 1554, curati dall’ugonotto Jean Claude de Kerquefinen, con il titolo di Discours fantastiques de Iustin tonnellier (cfr. M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino, 1997, p. 189).
10 Su Lione oltre ai saggi di N. Zemon Davis raccolti ora in Ead., Le culture del popolo. Sapere, rituali resistenze nella Francia del Cinquecento, Torino 1980, in partic. cap. I-II, p. 3-90, vedi ora O. Christin, Un royaume en paix (1563-1567)? Tolérance, pacification et parité confessionnelle à Lyon, in Sociétés et Idéologies des Temps Modernes. Hommage à Arlette Jouanna, 2 t., Montpellier 1996, t. 1, p. 303322; Id., La paix de religion, Parigi, 1997, p. 96-97; nonché F. Kirchner, Entre deux guerres 1563-1567. Essai sur la tentative d’application à Lyon de la politique de «tolérance», D. E. S., Lyon, 1952. Per un inquadramento generale cfr. ancora il volume di A. Aeschimann, Les origines et le développement de la Réforme à Lyon, Lyon 1916. Su Viret e Possevino a Lione di qualche utilità sono ancora le vecchie biografie di J. Barnaud, Pierre Viret. Sa vie et son œuvre (1511-1571), Nieuwkoop, 1973 (reprint of the first edition, Saint-Amans, 1911), p. 581 sgg.; e P. Dorigny, Vie du P. Ant. Possevin, p. 101 sgg., ma vedi P. F. Geisendorf, Pierre Viret à Lyon, in Cahiers protestants, 45, 1964, p. 244-262, e M. Venard, L’apostolat de P. Antonio Possevino en France (1562-1570), in Les Jésuites parmi les hommes aux xvie et xviie siècles, ed. G. Demerson, Clermont-Ferrand, 1987, p. 245-256. Su Auger e la sua ‘missione francese’ il rimando è d’obbligo allo studio di A. Lynn Martin, Henry III and the jesuit politicians, Genève, 1973, che tuttavia non copre cronologicamente il soggiorno lionese della metà degli anni sessanta e più in generale alla voce Emond Auger, curato dallo stesso in A. Jouanna, J. Boucher, et al., eds., Histoire et dictionnaire des Guerres de Religion, Parigi, 1998, p. 683-686. Più specificamente sull’attività lionese di Auger e Possevino nella prima metà degli anni sessanta vedi G. de Groër, Réforme et Contre-Réforme en France. Le collège de la Trinité au xvie siècle à Lyon, Parigi, 1995, in part. p. 74-87.
11 «Essendo persuaso – così continuava il brano – che notabil differenza sia trovata dagli amatori di Dio e del vero in generale, quando essi paragonano le conclusioni particolari in giudizio contraddittorio, senza alcun pregiudizio, per ischivare il falso». Cfr. lettera a Clemente VIII cit., p. 143.
12 Ivi.
13 Ivi.
14 Oltre alle pagine di D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Torino, 1992 (I ed. 1939), p. 268-271, cfr. H. Meylan, Bèze et les Italiens de Lyon (1566), in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, Mélanges Augustin Renaudet, XIV, 1952, p. 235-249.
15 H. Meylan, Bèze et les Italiens de Lyon cit.
16 Di quella «risoluzione fatta da me per grazia di Dio, l’anno 27 della mia vi-ta [ovvero il 1570], in Lione» avrebbe scritto nella sua nota lettera a Clemente VIII, cit. n. 1, p. 143.
17 Il nesso tra la sua conversione e gli errori della notte di San Bartolomeo è formulato dallo stesso Pucci nell’importante passo autobiografico che qui citiamo per intero: «trovandomi alquanto mosso dalle oltramontane sétte contra la Chiesa di Roma. Onde, sopravenendo l’orribile uccisione dell’anno ’72, non mi potetti tenere ch’io non passassi, in piangere ad udire predicanti, dalla altra parte, e ivi continuare il mio cominciato studio» (Lettera a Clemente VIII cit. n. 1, p. 144).
18 Nello slancio autoassolutorio della lettera dell’agosto 1592 a Clemente VIII aveva poi aggiunto queste parole: «non avendo lo spirito di Dio lassatomi mai er-rare implicitamente ed esplicitamente contra la Chiesa catolica, né obligarmi alle sétte, né con soscrizioni, né per maritaggi, né per premi propostimi» (Ivi, p. 144).
19 Lettere, vol. II, p. 115.
20 A. Rotondò, Il primo soggiorno in Inghilterra e i primi scritti teologici di Francesco Pucci, in Id., Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento, Torino, 1974, p. 225-271. Vedi anche la breve sintesi di C. M. Dent, Protestant reformers in Elizabethan Oxford, Oxford, 1983, p. 107-110, che tuttavia non tiene conto del citato articolo di Rotondò.
21 Ivi, p. 243. Nella sua lettera al teologo basileese Johann Jacob Grynaeus, pubblicata da Antonio Rotondò in appendice al suo lavoro (Ivi, p. 514-527) Pucci accenna anche a «nonnullas disputationes» sulla profezia, avute privatamente con il ministro della Chiesa francese Pierre Loiseleur de Villiers «et nonnullis aliis» (cfr. anche Ivi, p. 242). Sul Loiseleur de Villiers vedi I. Backus, Pierre l’Oiseleur’s Connections with England in the Sixteenth Century, in Proceedings of the Huguenot Society of London, XXII, no 5, 1975, p. 441-448.
22 Nel dicembre 1576 il Pucci è nuovamente a Parigi (da dove scrive una lettera a Girolamo Gerini) e vi resta fino ai primi di maggio del 1577 (quando parte in direzione di Basilea). Le lettere successive scritte dal Pucci a Parigi sono del 18 gennaio, 14 febbraio e 8 aprile 1577; ma la prima lettera che disponiamo dopo queste missive parigine data primo gennaio 1578, da Francoforte (cfr. Lettere, vol. I, p. 17 sgg.).
23 Di seguito si riporta anche il brano che precede i passi citati nel testo: «Avendomi già conferito il Busini che il Girolami et il Corbinello fabricavano no so che scrittura, conforme alla loro scelerata mente, non volse che io ne scrivessi a Vostra Altezza allora, sperando intanto di poterne avere qualche lume particolare» (Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, filza 4608, c. 108r-v). La lettera è stata parzialmente edita in D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polo-nia, Transilvania (1558-1611), Firenze, 1999 (I ed. 1970), premessa alla seconda edizione, p. XIII. Su Bernardo Girolami, esule fiorentino legato a Pietro Strozzi sin dai tempi della battaglia di Montemurlo e alla corte francese di Caterina de’ Medici sin dagli anni sessanta, dal 1568 gentiluomo di camera del re prima sotto Carlo IX e poi con Enrico III, proscritto da Cosimo I come ribelle nel 1574, figura di riferimento per i fuoriusciti fiorentini negli anni più caldi della repressione medicea in terra francese e vittima egli stesso di un attentato mortale ad opera di un sicario del Picchena e del Saracini proprio nel novembre del 1578 cfr. S. Calonaci, Girolami, Bernardo, in DBI, vol. 56, Roma, 2001, p. 514-515. Sul Corbinelli cfr. infra n. 27.
24 Lorenzino de’ Medici, Apologia e Lettere, a cura di F. Erspamer, Roma, 1991. È da segnalare a questo proposito l’esplicito riferimento all’Apologia fatto dal Corbinelli in una lettera del 7 settembre 1578 al Pinelli: «Et mi è venuto alle mani d’un luogo unico una scrittura di Lorenzino de’ Medici, il tyranochtonos, scritta di sua mano, dove lui giustifica quel fatto puramente et con elegantia, ma perché V. S. è l’armario di tutte le cose belle, io non gliene ho voluto mandare se la non me lo chiede prima; è cosa degna di lei»; il Corbinelli gli inviava una copia manoscritta raccomandandosi di conservarla come un bene prezioso e di non farne altre copie (R. Calderini De Marchi, Jacopo Corbinelli et les érudits francais d’après la correspondance inédite Corbinelli-Pinelli (1566-1587), Milano, 1914, p. 216): l’ipotesi avanzata a suo tempo dalla Calderini a proposito dell’intenzione dell’esule fiorentino di pubblicare il manoscritto trova ora nuove conferme dalla lettera del Saracini riportata supra, documento addirittura precedente la missiva indirizzata al Pinelli.
25 Su questo disegno e più in generale sul problema del fuoruscitismo italiano nella Francia di quegli anni ha riportato recentemente l’attenzione P. Carta, I fuorusciti italiani e l’antimachiavellismo francese del ’500, in Il Pensiero Politico, XXXVI, 2003, p. 213-238, edito anche in lingua francese con il titolo Les exilés italiens et l’anti-machiavélisme français au xvie siècle, in Laboratoire italien. Politique et société, 3-2002, p. 93-117. Più in generale su questi temi, oltre a S. Mastellone, Venalità e machiavellismo in Francia: 1572-1610, Firenze, 1972, e ai fondamentali studi di Anna Maria Battista ora raccolti in Ead., Politica e morale nella Francia dell’età moderna, a cura di A. Lazzarino del Grosso, Genova, 1998, in partic. p. 75-107, vedi anche L. Sozzi, La polémique anti-italienne en France au xvie siècle, in Atti della Accademia delle Scienze di Torino, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, CLXXXIX, 1972, p. 90-190, e ora H. Heller, Anti-italianism in Sixteenth-Century France, cit., in partic. p. 160 sgg.
26 Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane. Documents recueillis par G. Canestrini et publiées par A. Desjardins, t. IV, Parigi, 1865; P. Simoncelli, Il cavaliere dimezzato Paolo del Rosso fiorentino e letterato, Milano, 1990, p. 181-198; M. Plaisance, Les Florentins en France sous le regard de l’autre: 1574-1578, in L’image de l’autre européen xve-xviie siècles, ed. J. Dufournet, A. C. Fiorato, A. Redondo, Parigi, 1992, p. 147-157.
27 Vedi a questo proposito le acute osservazioni di M. Plaisance sull’adesione del Corbinelli all’invettiva anti-machiavellica (e anti-fiorentina) del Gentillet (Les florentins en France cit., p. 153). Più in generale cfr. anche P. Carta, I fuorusciti italiani cit., p. 229-230. Sul Corbinelli oltre al citato sudio di R. Calderini De Marchi, Jacopo Corbinelli et les érudits francais d’après la correspondance inédite Cor-binelli-Pinelli (1566-1587), Milano, 1914, vedi P. Rajna, Jacopo Corbinelli e la strage di San Bartolomeo, in Archivio storico italiano, XXI, 1898, p. 54-103; G. Carda-scia, Un lecteur de Machiavel à la cour de France: Jacopo Corbinelli, in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, XL, 1938, p. 446-52; la voce di G. Benzoni, Corbinelli, Jacopo in Dizionario biografico degli Italiani, XXVIII, Roma, 1983, p. 750-760; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari, 1995, ad indicem, nonché dello stesso Plaisance, Jacopo Corbinelli: de l’exclusion à l’exil. La rupture avec Florence, in L’exil et l’exclusion dans la culture italienne, Actes du colloque franco-italien, Aix-en-Provence, 19-21 octobre 1989, ed. G. Ulysse, Aix-en-Provence, 1991, p. 67-76.
28 P. Carta, I fuorusciti italiani cit., p. 225.
29 Lettera a Clemente VIII cit., p. 115.
30 Le due opere in effetti non furono stampate. Il testo dell’Apologia di Lorenzino de’ Medici che i fuoriusciti fiorentini si proposero di pubblicare in Francia e a Basilea, destinato invece a rimanere manoscritto ancora per un secolo e mezzo (l’editio princeps è del 1723) è molto probabilmente da identificare con la copia cinquecentesca conservata a Parigi presso la Bibliothèque Nationale, Dupuy 589 (cfr. F. Erspamer, Nota ai testi in Lorenzino de’ Medici, Apologia cit., p. 111).
31 Le prime notizie riguardanti l’opera provenienti dall’Inghilterra già alla fine del 1579 consentono di anticipare di un anno la datazione che compare sul frontespizio dell’opera [Firenze (falso luogo di stampa), 1580] avvalorata a suo tempo da Luigi Firpo (Nuove ricerche su Francesco Pucci, in Rivista storica italiana, LXXIX, 1967, p. 1053-1074, ora anche in Id., Scritti sulla Riforma in Italia, Na-poli, 1996, p. 207-232, in partic. p. 230); cfr. infatti la lettera del nunzio apostolico a Parigi Dandino al cardinal di Como (Tolomeo Galli), Parigi, 23 dicembre 1579: «È stato nuovamente stampato in Inghilterra sotto falso nome che sia stato in Fiorenza un libretto che mando a V. S. Ill.ma, perché credo sia assai cattivo, et intendo da chi me l’ha dato che l’auttore è per seminarlo in molte parti, et spetialmente in Italia. Et spero ancora di sapere in quali luoghi in particolare è per mandargli, et gliene darò aviso» (Correspondance du nonce en France Anselmo Dandino (1578-1581), ed. Ivan Cloulas, Roma-Parigi, 1970, p. 567).
32 Correspondance du nonce Anselmo Dandino, cit., p. 609; la lettera è menzionata in G. Benzoni, Corbinelli cit., p. 755-56. Testimonianza di una o più lette-re di risposta del Corbinelli al Pucci, ad oggi non rinvenute, è in un’altra lettera del Dandino di cui il Cloulas fornisce un dettagliato resoconto: «Le nonce a adjoint à sa lettre un chiffre et la copie d’une lettre écrite de Paris par Bodley à Pucci en Angleterre et d’une partie de lettre envoyée au même par Corbinelli. Les deux messages ont été interceptés par un ami du nonce qui s’emploie à dévoiler les activités des Anglais en Espagne et à Venise, ou un certain capitaine huguenot Masino, dont il est parlé dans une des lettres, adresse souvent des paquets de Londres» (Lettera di Dandino al card. di Como, Parigi, 16 marzo 1580, p. 621); nonché Ivi, p. 651 (Lettera di Dandino a Como, Parigi, 25 aprile 1580). Altre copie dell’Informazione furono inviate dal Pucci presso l’Ateneo patavino come sappiamo da una lettera del cardinal Tolomeo Galli, il quale il 2 aprile 1580 trasmetteva la notizia al vescovo di Padova Federico Cornaro mettendolo sull’avviso (cfr. L. Firpo, Nuove ricerche su Francesco Pucci, cit., in partic. p. 230-31). Una copia dovette inviarla anche a Fausto Sozzini, come si deduce da una lettera di quest’ultimo a Dudith Sbardellati del 3 dicembre 1580 (Ivi, p. 230). Più in generale per una definizione dell’Informazione come compendio del suo «cristianesimo razionalizzante e ottimista» cfr. Ivi, p. 228.
33 Lettera di Dandino al card. di Como, Parigi 29 febbraio 1580, in Ivi, p. 611. Testimonianze riguardanti Ferrara e ancora Padova sono in un memoriale scritto da un «amico» del Dandino e da questi trasmesso al cardinal Galli: «Quel Francesco Pucci, Fiorentino, che ultimamente fece stampare quei libri in Inghilterra, sono advertito che ne ha fatto una balletta di circa 500 perché vadino a Padova, a chi per ancora non so bene; lo saperò con il primo; la qual balletta l’ha di già consegnata ad uno Nicolo de Gozz, mercante ragugeo residente in Londra, perché la mandi con le sue gran balle di panine per mare a Amborgho, dove li sonno aperte queste gran balle che si fanno per la commodità de le navi; et di li’ poi per terra con la condotta vanno per il paese de Svizzeri in Italia. Li condottieri mi dicono esser Milanese, et deve capitar a Ferrara; la qual balletta è bene ammagliata di corde con una coperta di canevaccio marchiata da l’uno de’ canti de l’avanti segno, et sarà carica di questo altro mese, che va la conserva de l’Inglese» (Lettera di Dandino al card. Como, Parigi, 31 gennaio 1580, Ivi, p. 592 e nota 6).
34 L’opera pubblicata anonima è stata attribuita al Pucci da Delio Cantimori prima e da Luigi Firpo, poi.
35 D. Cantimori, Per la storia degli eretici italiani del secolo XVI in Europa, testi raccolti da D. Cantimori e E. Feist, Roma, 1937, p. 188.
36 Così continuava: «Perché il concorso de’ mercati darà molte comodità a’ nostri deputati d’andare et venire et di fare i fatti loro, senza sospetto o impedimento alcuno. Vadino in habito di mercanti o di simili persone non sospette, et sarà bene che i deputati stessi sieno mercanti che habbino o prendino di fare qualcosa in quei luoghi, pur che lo interesse privato non gli facci scordare l’util publico» (Ivi, p. 198).
37 L. Firpo, Nuove ricerche, cit., p. 232. Il Pucci si immedesimò a tal punto in quella dimensione nicodemitica da mettere in scena la propria scomparsa dal mondo (nel giugno-luglio del 1582), architettando una simulazione di decesso, al fine di riprendere sotto nuove spoglie e in una nuova terra il suo ingenuo e infaticabile apostolato, come a dire che le cose di questo mondo davvero non lo riguardavano più (Ivi).
38 Per questi aspetti vedi cfr. M. Eliav-Feldon, Secret societies, utopias, and peace plans: the case of Francesco Pucci, in Journal of medieval and renaissance studies, 14, 1984, p. 139-158; e E. Barnavi-Ead., Le périple de Francesco Pucci. Utopie, hérésie et verité religieuse dans la Renaissance tardive, Parigi, 1988, ad indicem.
39 Sull’abiura del Pucci nelle mani del nunzio apostolico a Praga Filippo Sega cfr. R. Reichenberger (a cura di), Nuntiaturberichte aus Deutschland 1585 (1584)-1590, II Abt., I Hafte, Padeborn, 1905, p. 349 nota 1.
40 L’«accordo e unione comune» prospettato pochi anni prima nella sua Forma d’una republica catolica doveva infatti servire a preparare «una comoda residenza al futuro concilio», ad un «libero e santo concilio» (D. Cantimori, Per la storia degli eretici cit., p. 172). Per un primo approccio al tema del conciliarismo francese, oltre al classico lavoro di C. Vivanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino, 1974 (I. ed. 1963), vedi almeno T. Wanegffelen, Ni Rome, ni Genève. Des fidèles entre deux chaires en France au xvie siècle, Parigi, 1997, nonché le recenti osservazioni di A. Tallon, La fin d’un instrument de paix: le concile général, in Paix des armes, Paix des âmes, Actes du colloque international, 8-11 octobre 1998, ed. P. Mironneau et I. Pébay-Clottes, Parigi, 2000, p. 19-28.
41 Per la prima delle due opere vedi la recente edizione critica a cura di Mario Biagioni: F. Pucci, De praedestinatione, Firenze, 2000. Il De regno Christi, ampio trattato latino in ventuno capitoli scritto a Praga tra il 1589 e il 1590 è tuttora inedito (cfr. L. Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, cit., p. 232-234).
42 Sulla disputa con l’Honoré cfr. L. Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci cit., p. 40-41.
43 Si tratta di Carlo II di Borbone (1562-1594), designato con l’appellativo di cardinale di Vendôme per distinguerlo dall’omonimo prozio, cardinale ed effimero re di Francia col nome di Carlo X; quando quest’ultimo morì nel maggio del 1590 ne ereditò il titolo di cardinal di Borbone, oltre che l’arcivescovato di Ruen e le ambizioni regie.
44 Notizie di questa disputa in G. B. De Gasparis, Commentarius de vita, fatis, operibus et opinionibus Francisci Pucci Filidini, in Nuova raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, vol. XXX, Venezia, 1776, p. 1-50, in partic. p. 22-24. Ma vedi anche i frequenti riferimenti dello stesso Pucci: F. Pucci, Epistola prefatoria ai lettori, in Id., L’efficacia salvifica del Cristo, a cura di G. Isozio, Pisa, 1990, p. 7, 9 e 59, nonché nella citata lettera a Clemente VIII (Lettere, vol. I, p. 149) e in una lettera allo stesso cardinale Charles de Bourbon (L’Aia [?], agosto 1592, in L. Firpo, Gli scritti, p. 127-129, cit. a p. 128). La lettera «ad tribunal omnipotentis» cui alluse il Pucci scrivendo a Clemente VIII, scritta da Dieppe all’indomani della disputa, è conservata a Parigi, Bibliothèque de la Société d’histoire du protestantisme français, ms. 10, vol. I, cc. 233-34; cfr. C. Vivanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento cit., p. 214. Su questa disputa e più in generale su quest’ultimo soggiorno parigino del Pucci, cui qui si accenna solo brevemente, mi prometto di tornare in altra sede.
45 Lettere, vol. I, p. 149.
46 Il riferimento è alle opere di N. Serarius, Contra novos novi pelagiani et chiliastae, Francisci Pucci Filidini errores, quos sese in Anglia, Gallia, Hollandia, Helvetia et alibi multis probasse gloriatur; quosque per Germaniam peregrinando, colloquendo, suosque de Christi servatoris efficacitate libellos dissipando spargere incipit, libri duo, Wirceburgi, 1593; L. Osiander, Refutatio Scripti Satanici a Francisco Puccio Filidino in lucem editi et Goudae impressi, anno salutis 1592, Tubinga, 1593; F. Junius, Catholicae doctrinae de Natura hominis jacentis in peccato et gratia Dei ex peccato evocantis omnes communiter, et suos excitantis singulariter, Collatio cum doctrina nova libelli [...] De Christi servatoris efficacitate, Leydae 1593. Sulla diffusione del messaggio pucciano in Europa si è soffermato M. Biagioni, Incontri italo-svizzeri nell’Europa del tardo Cinquecento. Francesco Pucci e Samuel Huber, Rivista storica italiana, CXI, 1999, p. 363-422.
47 Per le numerose personalità francesi con cui il Pucci entrò in contatto in questi mesi cfr. le lettere pucciane edite in L. Firpo, Gli scritti cit., p. 122 sgg.
48 Sulle lettere inviate nel 1591 a Gregorio XIV e al cardinal Sfondrati mi permetto di rimandare a G. Caravale, Inediti di Francesco Pucci presso l’Archivio del Sant’Uffizio, in Il Pensiero Politico, XXXII, 1999, p. 69-82; su questi documenti vedi anche A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano, 2000, p. 369-373; il testo integrale è stato pubblicato da A. E. Baldini, Tre inediti di Francesco Pucci al cardinal nepote e a Gregorio XIV alla vigilia del suo ‘rientro’ a Roma, in Rinascimento, XXXIX, 2000, p. 157-223.
49 F. Pucci, L’efficacia salvifica cit., p. 1. Appena poche settimane dopo la pubblicazione del suo libretto De Christi servatoris efficacitate, il Pucci si sarebbe affrettato ad inviarne copia al re di Navarra, ribadendo il suo caldo invito a «quel santo concilio, che ella chiama già sono molti anni ed è atto a raffrenare e rompere i consigli e consistori de’ suoi nemici» (L. Firpo, Gli scritti p. 124-125, cit. a p. 125).
50 È l’ipotesi avanzata da Luigi Firpo, Gli scritti, cit., p. 125 nota 2, il quale scriveva che Pucci potrebbe aver ricevuto udienza da Enrico IV tra la metà di marzo e i primi d’aprile del 1592, sotto le mura di Rouen assediata dal Navarra, in una sosta del cammino da Parigi a Dieppe, oppure nella stessa Dieppe.
51 F. Pucci, L’efficacia salvifica cit., p. 1.
52 Lettera, da l’Aia [?], agosto 1592, in Gli scritti, cit., p. 125-126 (319-320). D’altra parte, a testimonianza di posizioni davvero inconciliabili, da un punto di vista specularmente opposto il Pucci stesso arrivava a liquidare le preoccupazioni terre-ne e le difficoltà politiche come «assurdità e difficoltà che ritardano molto il corso della nostra religione e il sentimento di quella sodisfazione e consolazione in cui consiste la somma della sua celestiale proprietà» (Lettera a Jean de Vivonne, marchese di Pisany, L’Aja [?], agosto 1592, in L. Firpo, Gli scritti, cit., p. 126-127).
53 «Presi partito, di consenso di Sua Maestà, di provare se in Italia io potessi con questo pontefice Clemente fare alcuno buono uffizio a benefizio publico» (Ivi).
54 Sulla cattura del Pucci vedi ora la nuova documentazione fornita da P. Carta, Nunziature ed eresia nel Cinquecento, cit. Quanto rimane della documentazione processuale riguardante Francesco Pucci è stato a suo tempo pubblicato da L. Firpo, Processo e morte di Francesco Pucci, in Rivista di Filosofia, LX, 1949, p. 371-405, ora in Id., Scritti sulla Riforma in Italia, cit., p. 17-51.
55 Vedi per esempio le ancora vivide pagine di F. Yates su Giordano Bruno: nuovi documenti in Id., Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Roma-Bari, 2001 (I. ed. it. 1988), p. 117-137, in partic. p. 134-135.
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