I reticolati del dissenso e la loro organizzazione in Italia
p. 87-103
Texte intégral
Osservazioni preliminari
1Innanzitutto, qualche precisazione terminologica. Con espressioni come «dissenso religioso» o «dissidenza religiosa» in Italia intendo designare, tra i movimenti eterodossi sorti nella penisola nel secolo xvi, solo quelli ispirati, con maggiore o minore coerenza, alla Riforma d’oltralpe e caratterizzati dal disconoscimento della chie-sa di Roma e dal rigetto dell’autorità del pontefice; di questi si occupa la mia relazione e non di altri, non per esempio dei gruppi, assai più elusivi sotto il profilo dottrinale, di matrice valdesiana. Con il termine «filoprotestanti» indico, in generale, i seguaci della Riforma ortodossa (quelli cioè che nell’Italia cattolica cinquecentesca venivano raggruppati sotto l’etichetta comune di «luterani»); parlando di «filoriformati» mi riferisco invece a coloro che apparivano più nettamente orientati verso un protestantesimo di matrice zwinglianocalvinista, quello appunto che è consuetudine chiamare «riformato». L’«Italia» che prendo in esame coincide in sostanza con il territorio compreso entro i confini attuali dello Stato italiano, fatta eccezione per la Valtellina dove il culto riformato, che vi conviveva con quello cattolico, solo in parte si poteva considerare espressione di dissenso: sebbene, infatti, sotto l’aspetto ecclesiastico la regione fosse soggetta all’autorità, peraltro debole, del vescovo di Como, politicamente essa dipendeva dai Signori delle Tre Leghe, di confessione riformata.
2Ricostruire il fenomeno del dissenso nella sua entità e nei suoi precisi contorni è compito tutt’altro che facile, data l’eterogeneità politica e culturale della realtà italiana del ’500 e la frammentarietà e la natura stessa delle fonti: soprattutto carte inquisitoriali, che, come è noto, non solo offrono «una testimonianza indiretta e di parte» del dissenso religioso1, ma «ne fissano [...] l’immagine al momento in cui le autorità ne vennero a conoscenza», lasciandone nell’ombra storia ed evoluzione2. Un dato sicuro è che, in gran parte della penisola – quanto meno in Italia settentrionale, in Toscana, nel Napoletano e in molte città della Sicilia – la dissidenza religiosa si configura come fenomeno collettivo; si esprime, cioè, attraverso l’attività di conventicole più o meno ampie, dotate di qualche forma di organizzazione e di reciproco collegamento. In altre aree d’Italia es-sa è documentata invece soltanto come scelta isolata di singoli: figure queste, tuttavia, spesso notevoli e tali da lasciare un segno, con le loro idee e con la loro azione, sulle vicende della Riforma italiana ed europea.
3Anche la durata del dissenso religioso organizzato, attestato in Italia dagli anni venti-trenta del ’500, varia secondo le situazioni locali e la maggiore o minore rapidità ed efficacia della repressione3; verso la fine degli anni ottanta del secolo si può considerarlo estinto pressoché dovunque. Impossibile naturalmente sapere quante cellule eterodosse siano sopravvissute, e per quanto tempo, celandosi sot-to il manto del nicodemismo.
Fisionomia dei gruppi del dissenso
4All’interno della dissidenza religiosa italiana possiamo distinguere due tipologie fondamentali:
Si parla di «popolo-chiesa»4 quando l’intera popolazione di un determinato territorio si riconosce nella professione di fede protestante, che diviene pertanto parte integrante del suo patrimonio culturale ed elemento costitutivo della sua identità collettiva. Questa tipologia si riscontra soltanto in ambito valdese: cioè nelle Valli valdesi del Piemonte – che nel 1532 aderiscono alla Riforma ginevrina e nel 1561 ottengono libertà di culto, sebbene entro ben determinati confini – e presso i valdesi di Puglia e soprattutto di Calabria, discendenti da famiglie occitane di fede valdese immigrate in Italia meridionale nei secoli xiii-xiv5.
Si usa il termine di conventicole per designare gruppi piccoli o meno piccoli che si formano nelle varie località per aggregazione fra i seguaci delle nuove dottrine. È questa la tipologia più frequentemente attestata nella penisola, ed è di questa, pertanto, che mi occuperò nella mia relazione. Tra le conventicole si possono comprendere anche alcuni raggruppamenti di tipo particolare: i cenacoli «di corte», quelli cioè che si creavano più o meno segretamente nell’entourage di qualche personalità d’alto rango – come accadeva nella Ferrara del 1528-1556 presso Renata di Francia, nella Torino del secondo ’500 presso Margherita di Savoia o, a un livello più basso, presso esponenti di varie casate nobiliari, come i Gonzaga o i Colonna6 –; e i circoli intellettuali, in particolare le accademie, che potevano divenire focolai di eterodossia allorché agli studi umanistici affiancavano la lettura di testi biblici e la discussione di temi dottrinali.
5Difficile stabilire, anche solo approssimativamente, la consistenza numerica di questi gruppi. La storiografia appare abbastanza concorde nel ritenere che la percentuale degli aderenti alle cellule del dissenso religioso sia stata, in Italia, complessivamente bassa: è stato calcolato che in due delle città dove le dottrine della Riforma ebbero maggior successo, Venezia e Lucca, l’eterodossia non abbia conquistato nemmeno il 2% della popolazione. Già nel 1972, tuttavia, Luigi De Biasio scriveva che in Friuli «la rilevanza numerica di coloro che, sia pur in modi differenti, aderirono all’eresia fu molto notevole», e dieci anni più tardi Andrea Del Col, ancora riferendosi al Friuli, affermava che «le nuove idee interessarono [...] un numero di persone notevolmente superiore a quello dei processati»7; molto più recentemente, Adriano Prosperi ha osservato che «né i processi né le statistiche parrocchiali sulla frequenza ai sacramenti ci potranno mai dare la cifra oscura del dissenso» italiano. Vari indizi suggeriscono, in effetti, che le dottrine d’oltralpe potrebbero avere incontrato un consenso assai più ampio di quello che si può valutare sulla scorta della documentazione a noi nota. Nei primi anni ’40, per esempio, si diceva vi fosse a Bologna – dove le persone coinvolte nella repressione sono state calcolate in circa 150 su una popolazione di 50-60000 abitanti – una comunità di 4000 membri: asserzione certamente esagerata, ma tuttavia significativa. Giorgio Siculo, nella sua Epistola ai cittadini di Riva di Trento (1550), parla di «gran numero» di laici e religiosi di entrambi i sessi «i quali sono dell’openione de’ protestanti»; Prosperi ritiene attendibile questa indicazione, notando come essa sia in qualche modo suffragata dalla denuncia di Pietro Manelfi (1551) e concludendo quindi che «l’Italia intera [...] celava nei suoi paesi e nelle sue regioni un numero imponente di seguaci delle dottrine della Riforma»8.
6In Italia, il dissenso religioso è fenomeno prevalentemente urbano, che trova terreno favorevole nelle città culturalmente più vivaci e aperte alle grandi correnti del traffico internazionale come, al nord, Cremona, Bergamo, Brescia, Mantova, Vicenza, Venezia9, Trento – che in particolare dopo il 1530 ebbe un «ruolo di città refuge»10 –, Udine, Rovigo, Ferrara, Modena, Bologna; in Toscana, Lucca in primo luogo, poi Siena e Firenze; al sud, Napoli e Salerno, Palermo e Messina. Non si tratta necessariamente di grandi città: soprattutto nel settentrione, parteciparono di queste esperienze anche piccoli centri quali (per limitarci al territorio veneto) Gardone, Asolo, Cittadella – tutte e tre sede di vivaci comunità «luterane» all’interno delle quali reclutò numerosi adepti il proselitismo anabattista –, Gemona, Cividale11. Prevalentemente urbano non significa, però, esclusivamente urbano. Sebbene ciò non si verificasse di frequente, la propaganda protestante potè infatti raggiungere e conquistare anche settori del mondo contadino: sappiamo, per esempio, dell’esistenza di gruppi filoprotestanti nelle campagne bolognesi e di simpatie per la Riforma tra i contadini toscani della Valle del Serchio, e sappiamo pure che intorno al 1550 i contadini costituivano, accanto agli artigiani, la parte più consistente della comunità di Capua. In Calabria, poi, la penetrazione della Riforma privilegiò non tanto le aree urbane quanto le terre feudali e i casali, dove già, grazie alla protezione dei baroni, aveva messo radici l’immigrazione valdese.
7Come erano composti questi gruppi? Anche a questa domanda è impossibile dare una risposta valida per l’intera penisola. Alcuni erano socialmente omogenei: un’estrazione «tipicamente borghese»12 accomunava la dozzina di persone che intorno alla metà degli anni ’40 diedero vita a una conventicola a Grosseto; di «fisionomia schiettamente proletaria»13, sebbene forse protetto da persone altolocate, era invece il nucleo che per un decennio (1563-1573) fu attivo nella cittadina di Mandanici, in territorio di Messina, distinguendosi per fervido proselitismo e per tenacia e coraggio dinanzi alla persecuzione. Ma, per lo più, le cellule filoprotestanti avevano un carattere abbastanza eterogeneo, sia per condizione sociale, sia per età degli adepti. Dal punto di vista sociale, potremmo dire – con inevitabile approssimazione – che vi prevaleva il ceto medio: medio-alto o medio-basso, secondo i casi. Quasi sempre le categorie più rappresentate erano: professionisti (medici, avvocati, notai), insegnanti e persone a vario titolo legate al mondo della cultura, musicisti, mercanti, artigiani specializzati (da Venezia a Messina, particolarmente sensibili alle nuove idee religiose appaiono orafi e gioiellieri)14. All’attività mercantile dovettero la loro nascita alcune comunità eterodosse, come quelle di Vicenza e di Lucca.
8Frequente era la presenza di membri del clero, tanto secolare quanto regolare; in varie città italiane, come Milano, Modena, Bologna, fu per impulso della predicazione di religiosi – particolarmente attivi in questo senso agostiniani e francescani – che sorsero le comunità filoprotestanti. Ma anche in questi casi, nel periodo successivo la direzione del movimento passò ai laici, sebbene la predicazione restasse pur sempre un veicolo privilegiato per la trasmissione delle nuove idee. Privilegiato, ma costretto per lo più al criptico ed allusivo annuncio di un «Christo mascarato in gergo», secondo la celebre espressione di Bernardino Ochino; veicolo, pertanto, efficace solo presso ascoltatori già in qualche modo iniziati, come nota Silvana Seidel Menchi secondo la quale «ambiguity was both the strength and the weakness of philo-Protestant preaching in Italy»15.
9I cenacoli filoprotestanti italiani si presentavano molto compositi anche quanto a nazionalità degli adepti: soprattutto nei centri maggiori, non pochi erano i forestieri, di passaggio o residenti, specialmente mercanti e artigiani. Era però raro che l’elemento indigeno fosse totalmente assente, come accadeva nella conventicola scoperta nel 1569 a Palermo, priva di siciliani e composta soprattutto di francesi, fiamminghi e tedeschi; di solito, infatti, nemmeno i gruppi protestanti stranieri a base «nazionale» esistenti nelle città italiane evitavano del tutto i contatti con la dissidenza religiosa locale. A Venezia veniva tacitamente tollerato che molti dei mercanti germanici operanti, e talvolta residenti, nel Fondaco dei Tedeschi (l’edificio destinato dalla Repubblica alle loro attività commerciali e situato nel cuore economico e finanziario della città, Rialto) fossero eretici e celebrassero i loro culti nel Fondaco stesso. In cambio, ci si aspettava che gli «alemanni» si comportassero con la massima riservatezza e soprattutto si astenessero da qualsiasi forma di proselitismo nei confronti dei veneziani; eppure sappiamo che negli anni sessanta del ’500 i «luterani» tedeschi intrattenevano rapporti con i filoprotestanti di Venezia, quanto meno mettendo a disposizione per i loro incontri i locali del Fondaco.
10L’entità della partecipazione diretta di nobili ai gruppi del dissenso variava sensibilmente, a seconda delle situazioni locali. Pochi, per esempio, e non tra i più prestigiosi, i patrizi attivi nelle cellule filoprotestanti veneziane16; a Vicenza, al contrario, la dissidenza religiosa faceva capo, oltre che a intellettuali come Fulvio Pellegrino Morato o a mercanti come i Pellizzari, a esponenti di importanti famiglie aristocratiche, a loro volta non estranei né al mondo delle lettere né a quello della mercatura. Il coinvolgimento della nobiltà ebbe una certa consistenza anche in Friuli e, fuori del territorio veneto, in Piemonte, a Mantova e a Modena, e fu molto rilevante a Lucca e a Napoli, mentre non è attestato nella comunità capuana.
11Non sono rari i casi in cui in una stessa area territoriale, o addirittura in una stessa città, le conventicole eterodosse appaiono essere state più di una, e ciascuna con una fisionomia propria. Per esempio a Casalmaggiore, in Lombardia, negli anni ’40 sono documentati due gruppi, uno disomogeneo, l’altro omogeneo socialmente. A Bologna, tra il 1565 e il 1566, vennero alla luce un gruppo composto di artigiani e un altro nel quale prevalevano nobili e professionisti. Analoga situazione è riscontrabile in quegli stessi anni a Venezia, dove, come a Bologna, è tuttavia intuibile l’esistenza di collegamenti tra le cellule di composizione borghese-aristocratica e quelle di composizione artigiana. Anche nel Messinese sembra che il dissenso si articolasse in tre nuclei, i rapporti tra i quali non sono del tutto chiari.
12L’elemento femminile, ben presente tra gli eterodossi italiani, poteva essere rappresentato da religiose (come avveniva a Siena negli anni ’40-’60, a Napoli all’inizio degli anni ’70) o, più frequentemente, da laiche. Tra i personaggi altolocati che ospitavano, proteggevano, finanziavano e in vario modo aiutavano eterodossi, offrendo loro luoghi di incontro e opportunità di proselitismo, molte erano le donne: da Margherita di Savoia e Renata di Francia, le cui corti costituirono un polo di attrazione per varie gentildonne (si pensi all’ispano-napoletana Isabella Bresegna, che finì i suoi giorni a Chiavenna nel 1567: era in corrispondenza con Renata e nel 1553, a Ferrara, partecipò con lei alla Cena riformata)17, alle rappresentanti di illustri casati aristocratici italiani, come i Gonzaga, a varie nobili lucchesi e napoletane. Gruppi di gentildonne tra Mantova, Padova e Venezia si tennero in contatto reciproco tra gli anni ’40 e ’60; a Mantova, in particolare, sembra attestata l’esistenza di una conventicola esclusivamente femminile.
13Donne italiane di ogni ceto furono avvicinate alle idee della Ri-forma dal marito o da altri congiunti, la famiglia essendo una delle sedi privilegiate per svolgere attività di evangelizzazione (benché non mancassero i «luterani» che, forse per proteggerle, preferivano tenere le donne di casa all’oscuro delle loro scelte di fede); conosciamo casi di famiglie intere coinvolte nell’esperienza del dissenso, e anche casi di comunità filoprotestanti formate da un nucleo familiare, nel quale il capofamiglia ricopriva il ruolo di guida e maestro. Le popolane, una volta conquistate alle nuove dottrine, potevano esserne attivissime propagatrici, come dimostrano certi casi verificatisi a Venezia: dove, per contro, scarso favore incontrarono tali dottrine all’interno del patriziato femminile.
Contenuti dottrinali e pratiche collettive
14Il dissenso religioso italiano è caratterizzato da un eclettismo così vistoso da avere indotto in passato vari studiosi a ritenere vano ogni tentativo di definirne con precisione le posizioni teologiche. Nella grande maggioranza delle conventicole, spunti dottrinali quanto mai eterogenei potevano in effetti coesistere, in modo più o meno confuso, in uno stesso gruppo o addirittura nella stessa persona; del messaggio protestante si tendeva inoltre a fare un uso selettivo, appropriandosi di ciò che meglio sembrava rispondere ad esigenze o idiosincrasie individuali. Facevano in genere eccezione le comunità chiaramente connotate in senso anabattista, sebbene Silvano Cavazza veda gli anabattisti friulani accomunati agli altri eterodossi locali da una «consapevolezza teologica» limitata e approssimativa18. L’anabattismo antitrinitario, con possibili esiti in senso razionalistico o mistico, in Italia trovò terreno favorevole specie tra gli artigiani e là dove la diffusione del messaggio della Riforma aveva già provocato negli animi un distacco dalla fede cattolica. Particolarmente ricettivi si dimostrarono i territori trentino-tirolese, dove l’anabattismo dilagò tra i contadini dopo il tragico fallimento delle rivolte del biennio 1525-26, e veneto, dove questo credo raccolse adesioni anche presso il ceto medio-alto, come avvenne a Rovigo19; in Friuli si verificarono casi abbastanza singolari come quello della comunità anabattista contadina di Cinto presso Portogruaro, sopravvissuta fino alla fine degli anni ’80, o quello delle clarisse di Udine, suore di estrazione aristocratica che perseverarono nella fede anabattista dalla metà del ’500 fino al secondo decennio del ’600. Aldo Stella sottolinea la particolare «originalità dottrinale» dell’anabattismo veneto, dovuta all’intesa raggiunta all’interno del movimento, nel sinodo veneziano dell’autunno 1550, con la formulazione della dottrina antitrinitaria associata al «postulato lungimirante della libertà religiosa»20.
15Ad alimentare le tendenze eclettiche dei dissidenti italiani contribuivano vari fattori, tra i quali possiamo indicare:
la posizione geografica di alcune città o di alcuni stati: è questo, per esempio, il caso della Repubblica di Venezia, «porta orientale d’Italia» aperta alle più disparate influenze;
il carattere cosmopolita di alcune città, come la stessa Venezia, o Padova, che ospitava una università frequentata da studenti provenienti da ogni parte d’Italia e in particolare dal Mezzogiorno; questo facilitava molteplici scambi tra valdesianesimo, Riforma ortodossa e Riforma radicale nelle sue varie espressioni;
il confluire in gruppi filoprotestanti di seguaci della Riforma radicale, in particolare di anabattisti rimasti senza punti di riferimento dopo che, intorno alla metà del secolo, le loro comunità erano state disgregate dalla repressione seguita alla delazione di Pietro Manelfi;
il pullulare, nella penisola, di conventicole di carattere profetico-millenaristico, guidate da figure carismatiche che, pur non ponendosi in aperto dissenso con la chiesa cattolica, si fondavano su rivelazioni private o su personali interpretazioni della Scrittura per vagheggiare l’ideale di una cristianità rinnovata e unificata (le dottrine di questi gruppi potevano occasionalmente presentare punti di contatto con alcune di quelle professate dai filoprotestanti, ai quali li accomunava la consuetudine al contatto diretto con la Bibbia21);
la presenza, in alcuni gruppi filoprotestanti, di tendenze di stampo materialistico, le quali avrebbero avuto grande diffusione (insieme alla pratica dell’occultismo e della magia) negli ultimi decenni del secolo, con il progressivo spegnersi delle speranze in una possibile affermazione della Riforma in Italia.
16Ciò nonostante, la parte più consistente del dissenso italiano fece propri i presupposti della Riforma ortodossa. I gruppi del dissenso rifiutavano dunque la chiesa come istituzione gerarchica negando, in particolare, l’autorità del pontefice; ripudiavano tutte le pratiche e le devozioni cattoliche; non ammettevano l’esistenza del purgatorio e la validità dei voti monastici. Sostenevano la giustificazione per sola grazia mediante la fede – rifiutando di conseguenza alle opere ogni valore meritorio – e il principio della sola Scriptura. Sulla scorta appunto della Scrittura, riducevano i sacramenti al battesimo e alla Cena.
17L’interpretazione della Cena fu oggetto, in Italia, di vivaci dibattiti, come attesta la corrispondenza tra Butzer prima, successivamente tra Lutero, e alcuni gruppi filoprotestanti italiani nei primi anni ’40 del secolo; le conventicole appaiono comunque prevalentemente orientate verso un’interpretazione di tipo riformato, con un netto rifiuto della presenza reale eucaristica e un ripudio della mes-sa in quanto rito idolatrico. Sembra però di poter affermare che nella maggior parte d’Italia le comunità filoprotestanti avessero fatto propria, almeno dagli anni ’50, non soltanto una dottrina eucaristica, ma una teologia e (almeno tendenzialmente) una ecclesiologia di matrice riformata22; è significativo il successo che, fin dal suo primo apparire, riscosse tra gli eterodossi della penisola il Catechismo di Calvino, del quale tra il 1545 e il 1566 apparvero tre traduzioni italiane.
18Nell’intera penisola il dissenso organizzato guardò a Ginevra, e da Ginevra trasse ispirazione. Senza considerare i territori valdesi e il Piemonte, sul quale ritorneremo tra breve, a Cremona si era costituita una ecclesia definita da Federico Chabod «di tipo nettamente calvinista»23. A Vicenza, Alessandro Trissino diede al movimento eterodosso un’impronta calvinista, e anche a Venezia impiegarono le proprie energie in questo senso, pur incontrando qualche resistenza, vari leader della dissidenza religiosa lagunare; in Friuli prevaleva «nelle linee dottrinali una tendenza riformata, piuttosto che luterana»24; «aderirono, chi più profondamente, chi meno, al calvinismo» gli eterodossi rodigini gravitanti intorno alla locale Accademia degli Addormentati25. A giudizio di Guido Dall’Olio, «l’orientamento dottrinale degli eretici bolognesi fu analogo a quello della grande maggioranza del dissenso religioso italiano», caratterizzato cioè, nella sua fase conclusiva, «dall’accoglimento della Riforma svizzera, prima zwingliana, poi calvinista»26, mentre alcuni almeno degli eterodossi faentini processati tra il 1567 e il 1569 fecero «una inequivocabile professione di fede calvinista»27. Il calvinismo si propagò «in tutta la Toscana»28: in questa regione operarono una scelta particolarmente decisa in tal senso il gruppo di Grosseto («noi tenevamo», avrebbe dichiarato dinanzi ai giudici uno dei membri della conventicola, «tutto quello che si conteneva nel [...] libro di Giovanni Calvino»)29 e, almeno dal 1555, quello di Lucca, dove «il calvinismo fu la scelta di quanti, dopo l’ascesa al pontificato di Paolo IV, si riconoscevano ancora come membri dell’‘Ecclesia’»30. Da Ginevra, piuttosto che dai cenacoli valdesiani di Napoli, traevano la loro dottrina tanto l’agguerrita comunità capuana quanto gli eterodossi di Salerno. Anche nella complessa e multiforme realtà della Riforma siciliana, specialmente dagli anni ’60 «si accentua», constata Caponetto, «l’adesione al calvinismo»31. Fin dal 1951, Giorgio Spini intuì d’altronde l’esistenza nel secolo xvi di «un vero e proprio ‘calvinismo del Mediterraneo’»; un calvinismo di porti e di coste, che inviò a Ginevra contingenti di profughi ben più consistenti di quelli provenienti dalle città italiane dell’interno32.
19Ma numerose furono in Italia le città, grandi e piccole – Lucca e Cremona, ma anche Capua, e molte località siciliane, e perfino una Novara che poco dopo il 1560 risultava «piena di valdesi»33 – che contribuirono ad alimentare la diaspora ginevrina. Indizio di una religiosità orientata verso la Riforma elvetica piuttosto che verso quel-la luterana appare anche l’iconoclastia che caratterizza, un po’ dovunque in Italia, il dissenso religioso. Per contro, il netto prevalere di tendenze luterane è documentato assai raramente, in città quali Gemona o Gorizia, dove la dissidenza si richiamava, come nelle contigue Carinzia e Carniola, alla Confessio Augustana. Diffusa era comunque la tendenza a non enfatizzare troppo le divergenze dottrinali, onde poter costituire un più solido fronte comune contro la chie-sa romana: così, per esempio, i membri della conventicola interdenominazionale di Palermo si riconoscevano reciprocamente come «cristiani», senza ulteriori specificazioni.
20Prassi comune a tutte le cellule filoprotestanti italiane erano le riunioni presso abitazioni private, botteghe artigiane, monasteri; talvolta anche all’aperto, purché in luogo protetto e relativamente sicuro (come gli orti dell’isola della Giudecca, dove talvolta si incontravano i dissidenti veneziani). Per sviare i sospetti e per reclutare più facilmente proseliti, tali riunioni potevano essere mascherate come semplici ritrovi tra amici e conoscenti accomunati da interessi del tutto estranei a problematiche religiose, come dibattere questioni giuridiche o fare musica. In questi momenti di incontro, l’attività principale sembra consistesse nella lettura. La spiegazione dei testi competeva ai capi o «maestri» delle varie comunità, ma era aperto a tutti i partecipanti il dibattito, che facilmente si poteva estendere alle novità politiche, specie quelle provenienti di Francia al tempo delle guerre di religione. I libri più frequentemente letti e commentati erano la Bibbia (soprattutto il Nuovo Testamento) in volgare; i libri eterodossi più popolari e amati nella Penisola, come il Beneficio di Cristo (condannato a Trento nel 1546), il Sommario della Sacra Scrittura, gli scritti di Ochino, Curione, Negri, Vergerio, Alfonso de Val-dés, Erasmo, alcune traduzioni italiane di Lutero e l’Institutio calviniana; e, occasionalmente, lettere di esortazione, di incoraggiamento e di ammaestramento provenienti da esuli italiani o da altri autorevoli fratelli di fede residenti oltralpe34.
21Talvolta queste riunioni assumevano un carattere più marcatamente liturgico, con la lettura e spiegazione dei testi seguita dalla re-cita di preghiere e dal canto dei salmi. Almeno presso alcuni gruppi è documentata, come si è detto, anche la celebrazione della Cena, non sappiamo se a scadenze definite. Le comunità svolgevano anche una attività diaconale che in alcune città appare ben organizzata: essa consisteva nell’aiutare economicamente i fratelli di fede bisognosi o anche, a scopo di proselitismo, persone esterne alla comunità stessa.
I gruppi italiani del dissenso: conventicole o chiese?
22C’è ragione di ritenere che i filoprotestanti italiani – i «fratelli», come tra loro erano soliti chiamarsi – sentissero di condividere l’appartenenza a un’unica comunità spirituale fondata sul puro Evangelo, comunità che veniva talvolta apertamente definita «chiesa» o ecclesia. «Chiexia» si consideravano per esempio quegli «esponenti del dissenso religioso italiano dal Veneto al Piemonte, dalla Romagna alla Toscana, dalla Lombardia alla Dalmazia»35 istruiti, animati e mantenuti in reciproco collegamento dall’instancabile zelo proselitistico dell’eremitano Giulio della Rovere (Giulio da Milano), in seguito esule dall’Italia e pastore calvinista nei Grigioni, tra la seconda metà degli anni ’30 e i primi anni ’40 del secolo. Ma in che misura può essere accettabile, per le comunità del dissenso religioso italiano, la qualifica di «chiese»? Soprattutto (ma non solo) per la prima fase del movimento eterodosso italiano, che si può racchiudere nell’arco cronologico 1518-1542, è assai arduo accertare se e in che misura i gruppi nei quali il movimento stesso si articolava si potessero configurare come vere e proprie comunità ecclesiali dal punto di vista della consapevolezza dottrinale, dell’assetto istituzionale e della coesione interna.
23Negli anni 1531-1532 una ecclesia veneziana era in corrispondenza con il francescano e futuro martire Bartolomeo Fonzio, che da Augusta, dove allora risiedeva, informava gli amici italiani sugli sviluppi della Riforma. Può darsi che questo gruppo dai contorni sfuggenti fosse composto di persone già nettamente orientate verso il protestantesimo, animate da qualcosa di ben più profondo di un mero interesse culturale per le novità religiose; come pure può darsi che ad esso si possa invece applicare ciò che Salvatore Caponetto scrive a proposito di quei fratres Italiae destinatari nel 1526 di una lettera di Martin Butzer, che aveva personalmente conosciuto alcuni di loro a Strasburgo: non tanto «una comunità di luterani», quanto piuttosto «un gruppo di persone colte, desiderose di rendersi conto del significato della riforma protestante e dei conseguenti mutamenti dottrinali e liturgici»36. Ma una precisa scelta confessionale in favore della Riforma è intuibile da parte di quelle ecclesiae venetoemiliane che una decina d’anni più tardi sarebbero state in corrispondenza con lo stesso Butzer – il quale tra l’agosto e il dicembre 1541 indirizzò tre lettere alle Sancti Domini ecclesiae esistenti a Venezia, Ferrara, Modena e Bologna – e con Lutero, al quale nel novembre 1542 l’aquilano Baldassarre Altieri, all’epoca a Venezia come segretario del residente inglese, scrisse per conto delle ecclesiae di Venezia, Vicenza e Treviso.
24Nulla sappiamo di come fossero strutturate tali comunità; queste lettere ci danno solo un’idea dei problemi teologici che più stavano a cuore ai loro membri e sui quali, di conseguenza, esse chiedevano di essere illuminate, cioè la predestinazione e l’eucaristia. È significativa l’urgenza di raggiungere un consenso sul problema dell’interpretazione della Cena, sacramento che i filoprotestanti italiani vedevano e praticavano «come segno distintivo dell’esistenza di una comunione ecclesiale»37. Una comunione, all’epoca, verosimilmente più auspicata che realizzata di fatto, a giudicare da quanto amaramente constatava lo stesso Altieri: «Non abbiamo pubbliche chiese; ciascuno è chiesa a se stesso, secondo l’arbitrio e il capriccio di ciascuno»38.
25Nel corso del tempo l’obiettivo di una certa coesione dottrinale sarebbe stato raggiunto, come vedremo tra breve, da numerose comunità italiane. Sarebbe stato così realizzato, almeno parzialmente, uno dei postulati dell’esule lucchese Niccolò Balbani, pastore a Ginevra, il quale nel 1566 esortava i «fedeli della Italia» a dar vita a congregazioni caratterizzate da unità dottrinale. Il secondo postula-to del Balbani era una precisa distinzione dei ministeri: e in ciò, a quanto è dato intuire dalle fonti, i gruppi della dissidenza italiana furono sempre carenti. Esempi di comunità fedelmente e rigorosamente strutturate sul modello ginevrino – dotate cioè di un ordinamento ecclesiastico di tipo riformato con la presenza di pastori, dottori, anziani, diaconi – si possono infatti riscontrare, nell’Italia cinquecentesca, solo nelle aree valdesi e nel Piemonte degli anni ’40-’50: qui, grazie al fervido proselitismo che si irradiava dalle Valli e al favore o quanto meno alla tolleranza di alcune autorità francesi (dal 1536 al 1559 il territorio fu, infatti, in gran parte sotto controllo francese), si costituirono numerose chiese riformate, in parte guida-te da pastori provenienti da Ginevra. Nel resto della penisola, solo occasionalmente le fonti lasciano presupporre, in questa o in quella comunità, l’esistenza a livello embrionale di una qualche suddivisione di ruoli, quanto meno tra «maestri» e preposti alla diaconia.
26Ma se per «chiesa» intendiamo una comunità che, avendo fatto proprio il messaggio della Riforma, guarda a se stessa come a una autonoma congregazione di veri credenti e, consapevolmente, si propone come autentica realtà ecclesiale – come l’unica autentica, anzi, in quanto, a differenza di quella romana, fedele all’Evangelo –, allora abbiamo motivo di ritenere che siano effettivamente esistite «chiese» almeno nelle seguenti città:
a Cremona, dove nella seconda metà del secolo si crea, con l’Ecclesia Cremonensis, quello che Chabod definisce il «primo esempio conosciuto di una chiesa riformata nello stato di Milano»39;
a Modena, dove «almeno tra la fine degli anni cinquanta ed il 1566, quando la repressione inquisitoriale iniziò a farsi più estesa e capillare», è riconoscibile «una matura volontà di formare una chie-sa distinta ed alternativa a quella cattolica»40, articolata in un insieme di gruppi strettamente collegati fra loro e guidati da vari capi che ricoprivano un ruolo non meramente organizzativo e propagandistico, ma altresì pastorale;
a Faenza, dove nel 1566 una delle due conventicole locali ricalcava «il modello delle chiese ginevrine», era dotata di un pastore, il quale costituiva un «tramite diretto con Ginevra»41, e di due diaconi;
a Lucca, dove nei primi anni ’40 una Ecclesia Lucensis (dal 1555 decisamente connotata, come si è detto, in senso calvinista) si raccoglie intorno a Pietro Martire Vermigli, per proseguire poi la propria vita presso dimore private;
a Capua, dove si forma una «chiesa» (dispersa tra il 1552 e il 1563) paragonabile alla Cremonensis, sebbene come questa mancante di «una chiara strutturazione dell’ordinamento ecclesiastico [...] in senso calvinista»42.
27Verosimilmente non erano, queste, le uniche comunità italiane dotate di una struttura relativamente ben definita e, soprattutto, di una chiara autocoscienza ecclesiale. Ma per altre situazioni locali non disponiamo di dati sufficienti o sufficientemente persuasivi, sebbene, per esempio, a Grosseto sia possibile «sospettare la presenza di una comunità di laici che si considerava ‘chiesa’»43 e a Messina e nel suo territorio il dissenso fosse ben organizzato. La realtà veneziana presenta numerose e importanti affinità con quella coeva modenese: rispetto a questa, essa sembra tuttavia presentarsi più frammentata sia quanto a organizzazione, sia quanto a condivisione del consenso sulle dottrine di fede.
I reticolati del dissenso
28Come già emerso da quanto detto fin qui, nell’Italia cinquecentesca fervevano, tra i vari nuclei del dissenso religioso, continui e vivaci scambi – di lettere, di libri, di persone – che alimentavano fittissime reti di collegamento. Tali reti potevano essere operanti 1) a livello locale, 2) nell’intera penisola, 3) tra Italia e oltralpe.
291) In varie città (quali Venezia, Modena, Bologna), erano attive più cellule eterodosse, ciascuna delle quali svolgeva attività autonoma e si distingueva in qualche modo dalle altre; in questi casi, i collegamenti reciproci erano garantiti da intermediari che fungevano da anelli di congiunzione tra l’una e l’altra.
302) Sebbene manchino elementi per ipotizzare l’esistenza di un’unica rete clandestina che collegasse i centri del dissenso da un capo all’altro d’Italia, è comunque accertata l’esistenza di reti di estensione più limitata, ma in grado ciò nonostante di ricoprire aree piuttosto vaste. La corrispondenza tra Butzer e i «fratelli» italiani mostra come un reticolo di collegamento tra «luterani» – sia per scambiarsi informazioni, lettere, libri, sia a scopo di mutuo soccorso – fosse operativo fin dagli ultimi anni ’30 tra territori veneti ed emiliani; in particolare, tra Modena, Bologna e Venezia agì negli anni ’40 un’organizzazione (nella quale ebbero parte importante nobili e prelati) di aiuto ai filoprotestanti italiani, sia che volessero restare in Italia, sia che volessero emigrare oltralpe. Si potrà, anzi, concordare con Domenico Maselli, che ritiene inevitabile «considerare in modo unitario l’intero sviluppo dei movimenti evangelici nell’alta Italia», dove il filoprotestantesimo si presenta come «un unico vasto incendio», con «propaggini a Milano come a Cremona, a Venezia come a Mantova, a Ferrara come a Bologna»44. Ma di organizzazioni reticolari di questo genere – sebbene, probabilmente, più modeste nella struttura e nelle dimensioni – si intuisce la presenza anche altrove: in Tosca-na, per esempio, o in Sicilia, dove si ha anche testimonianza di una rete clandestina sorta per venire in soccorso ai profughi valdesi di Calabria rifugiatisi nell’isola dopo essere scampati al massacro del 1561. Corti e cenacoli aristocratici avevano un ruolo di primo piano non solo nel costituire uno stabile punto di riferimento per il dissenso religioso locale, ma anche, e forse soprattutto, nell’offrire un temporaneo asilo e un centro di collegamento e di supporto economico a dissidenti quanto mai eterogenei per provenienze geografiche e orientamenti confessionali. Il dissenso femminile in Italia fu spesso emanazione di cerchie aristocratiche; già lo si è ricordato, come pure si è già accennato al fatto che gangli importanti dei reticolati del dissenso italiano furono anche i centri culturali. Non mancavano infatti gli eterodossi tra gli intellettuali di varia provenienza che le accademie o le scuole (come quella tenuta a Vicenza dal filocalvinista Fulvio Pellegrino Morato) attiravano e mettevano in contatto reciproco. Indirettamente, un’importante funzione di collegamento tra eterodossi di varie aree geografiche fu svolta anche dalle università, in primo luogo dallo Studio di Padova.
31Collegamenti vi furono altresì – sebbene la documentazione in proposito sia scarsa – tra conventicole e «popoli-chiesa». Sappiamo che, anche dopo la repressione esercitata da Emanuele Filiberto contro i riformati fuori delle Valli valdesi, queste continuarono a venire segretamente frequentate da dissidenti religiosi di orientamento calvinista, non solo piemontesi: nel 1576 l’ambasciatore veneziano Francesco Molin riferiva che ai sinodi annuali partecipavano lombardi, veneti e sudditi pontifici. Nell’Italia meridionale, i calabro-valdesi influirono sul movimento filoprotestante messinese, che a sua volta alimentò la diaspora siciliana a Ginevra. E nonostante la repressione, culminata nel massacro dei valdesi di Calabria del giugno 1561 e continuata poi fino all’inizio del ’600, tracce di sopravvivenza della fede riformata e di rapporti con le Valli sono documentate in Calabria ancora a ’700 inoltrato.
323) È nota l’esistenza di relazioni tra gruppi di dissidenti italiani, prevalentemente ma non esclusivamente dell’Italia settentrionale, e grandi centrali protestanti d’oltralpe, in primo luogo Ginevra. Appunto a questa fitta rete di relazioni dovettero la loro sopravvivenza in certi casi (come in quello di Lucca) le «chiese» italiane45.
33A questo livello i contatti potevano avvenire per via epistolare, o tramite viaggiatori: da un lato italiani che si recavano in paesi protestanti (ancora una volta si rivelano funzionali a questo fine le iniziative professionali di una società mercantile, come i viaggi dei mercanti vicentini o fiorentini a Lione); dall’altro evangelizzatori che dalle centrali della Riforma, da Ginevra soprattutto, passavano in Italia per svolgere attività di proselitismo. Particolarmente intensi i rapporti tra eterodossi italiani rimasti nella penisola e le «colonie» italiane oltralpe, o i singoli connazionali espatriati. Esemplare in questo senso la sollecitudine di Pier Paolo Vergerio: negli anni 1552-1554 l’ex vescovo di Capodistria, non pago dell’appassionata attività evangelizzatrice che andava svolgendo tra le terre retiche e quelle germaniche, inviò il pronipote Aurelio in ripetute missioni in Italia non solo per curare interessi familiari, ma per mantenere i contatti con simpatizzanti della Riforma e rifornirli di libri. I viaggi di Aurelio Vergerio – da Piacenza dove risiedeva Isabella Bresegna a Consandolo dove aveva la sua corte Renata di Francia, da Bergamo a Modena, da Venezia a Udine a Capodistria – delineano la trama di un reticolo fittissimo, coincidente con la mappa del dissenso religioso in una delle aree italiane nelle quali più violentemente il «vasto incendio» si era propagato, quella lombardo-veneto-istriana ed emiliana46. Su una scala più vasta, era in continuo movimento lungo le vie di comunicazione, gli itinerari, gli incroci studiati da Fernand Braudel – da Lione a Genova, a Messina, a Venezia – quel calvinismo mediterraneo del quale Giorgio Spini descrisse le dinamiche e individuò i percorsi.
Notes de bas de page
1 A. Del Col, La storia religiosa del Friuli nel Cinquecento. Orientamenti e fonti. Parte prima, in Metodi e ricerche, n.s., 1, 1982, n. 1, p. 69-87, v. p. 76. Qualora non si tratti, come in questo caso, di citazioni testuali, limito i riferimenti bibliografici a lavori non inclusi nella bibliografia riportata da M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, 1993, e da S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, 19972.
2 G. Dall’Olio, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Bologna, 1999, p. 111.
3 Su questo tema rimando alla relazione di Andrea Del Col.
4 Riprendo l’espressione da G. Tourn, I valdesi. La singolare vicenda di un popolo-chiesa (1170-1976), Torino, 1977.
5 P. Scaramella, L’Inquisizione romana e i Valdesi di Calabria (1554-1703), Napoli, 1999.
6 F. Gui, La Riforma nei circoli aristocratici italiani, in S. Peyronel (a cura di), Cinquant’anni di storiografia italiana sulla Riforma e i movimenti ereticali in Italia, 1950-2000. XL Convegno di studi sulla Riforma e sui movimenti religiosi in Italia (Torre Pellice, 2-3 settembre 2000), Torino, 2002, p. 69-124.
7 L. De Biasio, L’eresia protestante in Friuli nel secolo xvi, in Memorie storiche forogiuliesi, 52, 1972, p. 71-154, v. p. 139; A. Del Col, La storia religiosa... cit., p. 74.
8 A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano, 2000, p. 147-149.
9 J. Martin, Venice’s Hidden Enemies. Italian Heretics in a Renaissance City, Berkeley, 1993.
10 A. Olivieri, Trento e l’Alto Adige: la circolazione della Riforma e delle eresie, in G. Dal Ferro (a cura di), Presenze ebraico-cristiane nelle Venezie, Vicenza, 1993, p. 173-182, v. p. 181-182.
11 Per il dissenso e la sua repressione in diocesi di Aquileia v. S. Cavazza, La Riforma nel Patriarcato d’Aquileia: gruppi eterodossi e comunità luterane, in A. De Cillia e G. Fornasir (a cura di), Il Patriarcato di Aquileia tra Riforma e Controriforma. Atti del Convegno di studio, Udine, Palazzo Mantica, 9 dicembre 1995, Udine, 1996, p. 9-59, e A. Del Col, L’Inquisizione nel patriarcato e diocesi di Aquileia, 1557-1559, Trieste, 1998.
12 V. Marchetti, Gruppi ereticali senesi del Cinquecento, Firenze, 1975, p. 73.
13 S. Caponetto, Bartolomeo Spadafora e la Riforma protestante in Sicilia nel sec. XVI, in Id., Studi sulla Riforma in Italia, Firenze, 1987, p. 15-139, v. p. 64.
14 M. Firpo, Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari, 2001.
15 S. Seidel Menchi, Italy, in B. Scribner, R. Porter, M. Teich (a cura di), The Reformation in National Context, Cambridge, 1994, p. 189.
16 F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del ’500, Milano, 1999.
17 S. Trentin, Tra affetti familiari e idee eterodosse: profilo biografico di Isabella Bresegna (1510?-1567), tesi di laurea, rel. G. Ciappelli, Università degli Studi di Trento, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2000-2001.
18 Tanto che presso di loro «la stessa concezione antitrinitaria appare a malapena orecchiata» (S. Cavazza, La Riforma... cit., p. 31).
19 S. Malavasi, La diffusione delle teorie ereticali nel Veneto durante il ’500: anabattisti rodigini e polesani, in Id., Tra diavolo e acquasanta. Eretici, maghi e streghe nel Veneto del Cinque-Seicento, Rovigo, 2005, p. 42-68.
20 A. Stella, Dall’anabattismo veneto al «Sozialevangelismus» dei Fratelli Hutteriti e all’illuminismo religioso sociniano, Roma, 1996, p. 98.
21 «Il secolo della Riforma» nota A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande... cit., p. 32 «fu caratterizzato da fiammate visionarie e profetiche». Vedi anche, soprattutto per l’ambiente veneziano, J. Martin, Venice’s Hidden Enemies... cit., p. 97-122, e M. Leathers Kuntz, The Anointment of Dionisio. Prophecy and Politics in Renaissance Italy, University Park, 2001.
22 Cfr. la relazione di Susanna Peyronel.
23 F. Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano. Note e documenti, in Id., Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, 1971, p. 227465, v. p. 360 e p. 371.
24 A. Del Col, La storia religiosa... cit., p. 75, cfr. p. 79.
25 S. Malavasi, Giovanni Domenico Roncalli e l’Accademia degli Addormentati di Rovigo, in Id., Tra il diavolo e l’acqua santa... cit., p. 30.
26 G. Dall’Olio, Eretici e inquisitori... cit., p. 421.
27 S. Caponetto, La Riforma protestante... cit., p. 295.
28 S. Caponetto, Aonio Paleario (1503-1570) e la Riforma protestante in Tosca-na, Torino, 1979, p. 85.
29 V. Marchetti, Gruppi ereticali senesi... cit., p. 78.
30 S. Adorni-Braccesi, «Una città infetta». La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze, 1994, p. 301.
31 S. Caponetto, Bartolomeo Spadafora... cit., p. 56. Avverte tuttavia Prosperi che «quel che sappiamo delle discussioni teologiche del Cinquecento siciliano mostra caratteri di radicalismo estremo» (A. Prosperi, L’eresia... cit., p. 33).
32 Genova e Messina risultano più rappresentate di quanto lo siano, rispettivamente, le città padane e lo Stato mediceo con Siena. G. Spini, Di Nicola Gallo e di alcune infiltrazioni in Sardegna della Riforma protestante, in Rinascimento, 2, 1951, p. 145-178, v. p. 173-175.
33 F. Chabod, Per la storia religiosa... cit., p. 371.
34 Anche per le letture predilette dai filoprotestanti italiani rinvio alla relazione di Susanna Peyronel.
35 M. Firpo, Riforma protestante... cit., p. 75.
36 S. Caponetto, La Riforma protestante... cit., p. 69. Ma P. Simoncelli, Inquisizione romana e Riforma in Italia, in Rivista storica italiana, 100, 1988, p. 5-125, v. p. 36, nota come dalla lettera di Butzer risulti che gli italiani «raggiungevano Strasburgo per [...] apprender la nuova dottrina».
37 V. Marchetti, Gruppi ereticali senesi... cit., p. 81-82.
38 S. Caponetto, La Riforma protestante... cit., p. 67 e p. 131. Sull’Altieri v. D. Cantimori, Altieri, Baldassarre, in Dizionario Biografico degli Italiani, 2, Roma, 1960, p. 559.
39 F. Chabod, Per la storia religiosa... cit., p. 359.
40 C. Bianco, La comunità di «fratelli» nel movimento ereticale modenese del ’500, in Rivista storica italiana, 92, 1980, p. 621-679, v. p. 631.
41 S. Caponetto, La Riforma protestante... cit., p. 295.
42 P. Scaramella, «Con la croce al core». Inquisizione ed eresia in Terra di Lavoro (1551-1564), Napoli, 1995, p. 35.
43 V. Marchetti, Gruppi ereticali senesi... cit., p. 82.
44 D. Maselli, Saggi di storia ereticale lombarda al tempo di S. Carlo, Napoli, 1979, p. 29 e p. 46.
45 Su questo argomento si veda la relazione di Simonetta Adorni-Braccesi.
46 A. Del Col, I contatti di Pier Paolo Vergerio con i parenti e gli amici italiani dopo l’esilio, in U. Rozzo (a cura di), Pier Paolo Vergerio il Giovane, un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento. Convegno internazionale di studi, Cividale del Friuli, 15-16 ottobre 1998, Udine, 2000, p. 53-82. R. Pierce, Pier Paolo Vergerio the propagandist, Roma, 2003.
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