Operare come archivista in un archivio della nobiltà romana nel Seicento
p. 69-84
Résumés
«Non perdere la memoria, chiama un archivista!». Questa freddura archivistica, facilmente applicabile anche ad archivisti di antico regime, contribuisce a mettere a fuoco, a suo modo, l’importanza di questa figura professionale, il cui ruolo nel processo di trasmissione della memoria è stato (ed è) troppo spesso misconosciuto. Il presente saggio – frutto di una ricerca svolta negli archivi della nobiltà romana del XVII secolo (famiglie Lante della Rovere, Orsini, Barberini, Colonna, Ruspoli, Marescotti, Caetani ecc.) – intende offrire un contributo alla ricostruzione prosopografica del personale degli archivi in età moderna, e più generale alla storia sociale dell’archivistica.
«Don’t lose your memory, call an archivist!». This witticism, easily applicable even to archivists of the Old Regime, serves to bring into focus the importance of the figure of the professional archivist. The role of the archivist in the process of transmission of memory has been —and is—too often misunderstood. This essay is the result of research conducted in the archives of seventeenth-century Roman families, including the Lante della Rovere, Orsini, Barberini, Colonna, Ruspoli, Marescotti, Caetani etc. It intends to make a contribution to the prosopographical reconstruction of early modern archivists, and in more general terms, to the social history of archive keeping.
Entrées d’index
Keywords : archivists, family archives, Rome, Seventeenth century, Roman nobility
Parole chiave : archivisti, archivi di famiglia, Roma, Seicento, nobiltà romana
Note de l’auteur
Come nel titolo, così più avanti nel corso di questo contributo viene utilizzato per comodità il termine “archivista” nella consapevolezza della problematicità con cui esso può essere applicato agli individui fatti oggetto della presente ricerca. Ritengo infatti non del tutto appropriato trattare queste figure (spesso eclettiche, come vedremo, e il più delle volte non equiparabili tra loro per preparazione e spessore culturale) come facenti parte di un corpo professionale ben definito e riconosciuto come tale anche dai contemporanei. Se infatti uno dei caratteri distintivi di una professione è la specializzazione, ci si deve necessariamente chiedere se siano esistiti o meno in passato (e, se sì, a partire da quale epoca) degli “specialisti degli archivi” che tali considerassero sé stessi e, soprattutto, tali fossero riconosciuti dalla società in cui operarono. Ebbene, a questa domanda credo non si possa rispondere positivamente fino a tempi molto recenti (e anche oggi con non poche eccezioni).
Texte intégral
Introduzione
1Oggetto di questo contributo sono gli individui che prestarono servizio negli archivi della open élite romana durante il XVII secolo1. Facendo luce sugli operatori d’archivio e sul loro lavoro, mi auguro di contribuire – seppur in minima parte – a facilitare una più ampia comprensione delle fonti che è solito compulsare chi consulta un fondo familiare. Ritengo infatti che comprendere più a fondo il modo in cui questi documenti sono stati prodotti, organizzati e conservati – quindi più in generale entrare nella “fabbrica” degli archivi di famiglia – contribuisca a dischiuderne maggiormente non solo il senso, ma anche la funzione. Il lavoro di un archivista – ieri come oggi – non è semplicemente quello di descrivere gli atti in un inventario: questo rappresenta solo la fase finale del suo lavoro. Prima di arrivare alla redazione di uno strumento di corredo come un inventario, egli deve infatti affrontare altre sfide non meno ardue. Egli deve, ad esempio, compiere una selezione tra i documenti che si conservano in un fondo di famiglia, stabilendo quali conservare e quali scartare, e questo può condizionare in maniera anche significativa il modo in cui la memoria di quella famiglia verrà in seguito ricostruita.
2Alla luce di queste considerazioni, appare almeno in parte chiarita la centralità del ruolo dell’archivista, sia di quello contemporaneo che di quello attivo nel XVII secolo la cui identità – come si vedrà a breve – è tutt’altro che chiara, come quella, più in generale, degli addetti agli archivi di antico regime. Infatti, non sono stati fin qui numerosi gli studi in tal senso2. E anche nelle poche occasioni in cui gli studiosi hanno spostato il focus delle loro ricerche dalle vicissitudini dei complessi documentari agli uomini che a questi si applicarono, molto spesso si sono limitati a discorrere dei soli notai: figure professionali ben note e certo non estranee al mondo degli archivi, ma alle quali sarebbe scorretto ridurre il variegato universo di coloro che lavorarono negli archivi di antico regime3. Anzi, come ho avuto modo di verificare limitatamente all’area e all’epoca fatte oggetto della mia attenzione, pare si possa affermare che l’apporto dei notai alla gestione degli archivi di famiglia non sia stato poi così significativo4.
3Presento, dunque, qui di seguito i dati che è stato possibile rinvenire nel corso di questa ricerca5 – non numerossissimi rispetto alla mole di documenti consultati – ma che credo possano già contribuire a definire meglio i tratti salienti degli addetti agli archivi di famiglia romani limitatamente all’area e all’arco cronologico di nostro interesse.
Gli archivisti di famiglia: un’identità ancora da delineare
4Va detto, in via del tutto preliminare, che per l’intero corso del XVII secolo si ignora al momento persino il nome di molti tra coloro che prestarono il proprio servizio presso gli archivi delle famiglie patrizie romane. A testimonianza dei loro interventi sulle carte restano infatti soltanto gli inventari da essi compilati, che gli archivi di famiglia conservano perlopiù in forma anonima. È il caso, per esempio, del Repertorio delle scritture dell’Archivio della famiglia Orsini, compilato dopo la morte del duca Virginio (1615)6; e dell’Inventario di scritture del cardinal Ludovisi (vale a dire, Ludovico Ludovisi) che fu redatto certamente dopo il 23 luglio 1623, data dell’ultimo documento registratovi7.
5In molti casi, pur persistendo il carattere adespota di tali inventari, è possibile formulare ipotesi più o meno fondate su chi ne sia stato l’autore: è il caso, per esempio, dell’inventario della famiglia Altieri, compilato molto probabilmente da Carlo Cartari, avvocato concistoriale, vice-prefetto, poi prefetto dell’Archivio di Castel Sant’Angelo, verso la fine del secolo (e comunque dopo il 1671)8. Stessa cosa si può dire di Antonio Corte, di cui poco si sa, se non che fu un sacerdote originario di Vercelli, il quale prestò servizio nell’archivio di famiglia per Ippolito Lante della Rovere, perlomeno tra il 1678 e il 1679.9 Come si desume da una fede che Corte rilasciò nel 1696 a Simone de Comitibus, notaio capitolino10, è stato infatti possibile attribuire a lui un inventario adespota di scritture articolato in due parti: il “Repertorio maggiore de’ contratti e cose perpetue nell’archivio dell’illustrissimo et eccellentissimo signor duca Ippolito Lanti della Rovere” e il “Repertorio minore” collegato al precedente11. Come ultimo caso si propone quello del Libro, ossia inventario, delle scritture della famiglia Caetani conservate a Sermoneta, compilato nel 164512. In quell’anno il duca Francesco IV poteva contare sull’aiuto di due persone per la gestione del suo archivio: Dionisio Gallo, originario di Ferentillo (attualmente in Umbria), castellano, notaio e fiscalista, che sembra si occupasse in prevalenza dell’archivio corrente13; e don Giovanni Cola Alicorni, abate di Sant’Angelo, con il quale il duca scambiò alcune lettere – su una delle quali si tornerà in seguito – relative alle modalità da seguire nell’ordinamento dell’archivio14.
6Per fortuna altri inventari riportano in modo esplicito il nome del loro autore, come quello redatto da Ludovico Marinelli, auditore generale e consigliere in materia di giustizia e di affari legali, che operò nel 1647 nell’archivio di Paolo Giordano II Orsini15.
7Tra gli stipendiati di Casa Orsini ai quali fu affidata la gestione corrente dell’archivio si conoscono i nomi di Alessandro Samminiati, figlio del fiorentino Francesco, depositario generale del duca Virginio Orsini (1572-1615) e camerlengo dello Stato di Bracciano, al quale fu assegnata già dalla fine del Cinquecento la custodia dell’archivio ivi esistente, tra le cui carte egli svolgeva ricerche su richiesta16; e quello di Giovanni Battista Grigioni, arciprete di Bracciano, segretario del cardinal Virginio Orsini già nel 167017, e in seguito archivista del fratello Flavio, ruolo in cui nel 1696 sovraintese al trasferimento dell’archivio suddetto a Roma18.
8Come si è visto, in tre casi, Alicorni, Corte e Grigioni, si tratta di religiosi; in altri tre, Gallo, Marinelli e Samminiati si è in presenza di laici che avevano conquistato la fiducia del capofamiglia durante lo svolgimento di altre mansioni e che perciò, più che archivisti tout court, si potrebbero definire professionisti prestati agli archivi. D’altra parte, che il processo di reclutamento di questo personale, più che sul possesso di precise competenze professionali, si basasse sul rapporto fiduciario che univa il prescelto al signore di turno, non deve sorprendere. Si tratta infatti di un fenomeno che rispecchia nell’ambito familiare quanto accadeva comunemente negli stessi anni a livello pubblico, nelle signorie come nello Stato Pontificio19.
9Mentre sugli archivisti citati fin qui si posseggono informazioni piuttosto limitate, di altri si sa per fortuna molto di più. È questo il caso di Scipione Amati, a cui Filippo Colonna assegnò nel 1634-35 l’incarico di redigere un inventario dell’archivio di famiglia. Originario di Trivigliano, località compresa nel principato di Paliano, dominio colonnese, nel 1609 l’Amati aveva conseguito un dottorato in utroque iure, come si desume dal frontespizio della sua Paraentesis, opera pubblicata a Roma proprio in quell’anno20. Nel 1614 viveva a Madrid, al seguito di Vittoria Colonna, quando il re Filippo III gli propose di fungere da interprete di lingua spagnola e italiana per gli ambasciatori giapponesi che erano giunti in Spagna, diretti a Roma per rendere omaggio a Paolo V (la relazione di questo viaggio fu data alle stampe nel 1615 col titolo di Historia del regno di Voxu del Giapone, dell’antichità, nobiltà e valore del suo re Idate Masamune)21. Nel 1634 l’Amati era protonotario apostolico, come si desume dalla Censura al Maestro di Camera di Francesco Sestini, pubblicata a Liegi in quell’anno22. È in questo periodo che, coadiuvato dal nipote Cosmo Bontempi, egli iniziò a lavorare per Filippo Colonna alla compilazione del citato inventario delle scritture di famiglia, che concluse l’anno successivo23. Redasse poi, senza probabilmente pubblicarle, le Memorie degli Archivi di Paliano, che purtroppo non è possibile al momento datare con maggior precisione, ma a cui egli stesso fece esplicito riferimento nel Laconismo Politico del 1648 come ad un’impresa attestante la propria devozione nei confronti di Filippo24.
10Presentati in tal modo i pochi dati faticosamente raccolti sull’identità di alcuni tra coloro che operarono negli archivi nobiliari romani, si passa ora al cuore della presente trattazione nella quale si cercherà di rispondere alle seguenti domande. Quale era la formazione di un archivista dell’epoca? Si trattava esclusivamente di una formazione teorica, o questa veniva completata da un’esperienza pratica di affiancamento ad altri colleghi che già operavano sul campo? In che misura un archivista contribuiva al processo di costruzione della memoria della famiglia nobiliare promosso dagli esponenti dell’aristocrazia romana nel corso del Seicento? I committenti di un inventario e la comunità professionale di appartenenza di un archivista esercitavano un’influenza sul suo lavoro? Se sì, quale?
La formazione degli archivisti di famiglia: la teoria
11Si parte dunque dal primo punto: quali competenze avrebbe dovuto possedere un aspirante archivista chiamato a svolgere il proprio lavoro nell’archivio di una famiglia nobile romana del Seicento25? Baldassarre Bonifacio in un celebre trattato, uno dei primi ad essere dedicato interamente agli archivi e sul quale si tornerà a breve, nel capitolo VIII intitolato De archivorum ministris auspicava che gli archivi, come le biblioteche, fossero affidati a periti accuratique viri, i soli che con cura atque diligentia avrebbero avuto agio di contrastare la minaccia che il tempo inesorabilmente portava alle testimonianze scritte del passato26. In cosa consisteva dunque questa perizia, ovvero quali erano le competenze che sarebbe stato auspicabile reperire in un archivista del tempo?
12Anzitutto, la conoscenza della lingua latina, perlomeno del latinum grossum, cioè del latino dell’uso documentario (il più delle volte vicino al volgare e per la scelta dei vocaboli e per la struttura della frase)27, andava di fatto considerata indispensabile per chiunque si accingesse ad operare in archivio. A questo si sarebbe dovuta unire una generale cultura storica, che, stante l’assenza a quel tempo di regolari corsi di studio in tale ambito, va considerata (nei soggetti che tale cultura mostrano di possedere) il frutto di una personale propensione del singolo archivista, oltre che del suo quotidiano contatto con i documenti del passato28. Il possesso, poi, di qualche nozione di diritto privato era necessario per potersi districare nella congerie delle fattispecie negoziali presenti nelle serie degli istrumenta – ossia dei documenti notarili – immancabili in ogni archivio, anche gentilizio29. Competenze di diritto canonico non sarebbero poi state sconvenienti per affrontare nel migliore dei modi la schedatura della documentazione di natura ecclesiastica, sempre presente e cospicua negli archivi nobiliari romani, sia a causa dei rapporti che queste famiglie intrattenevano con le gerarchie della Chiesa a vari livelli (dal Papa al rettore della cappella di famiglia); sia perché molto spesso esse stesse annoveravano fra i propri membri alti esponenti di quelle gerarchie30. Quando, infine, ci si fosse trovati in presenza di documentazione d’ambito economico, sarebbe risultato di una certa utilità il possesso di nozioni di contabilità più articolate rispetto a quelle elementari impartite dalle scuole d’abaco o da quelle dei padri scolopi (presso le quali, come si sa, si dispensavano rudimenti di aritmetica ai fanciulli)31.
13Alla luce delle considerazioni sopra riportate, dei lavori eseguiti dagli archivisti (come inventari, repertori, storie documentarie ecc.) e delle poche informazioni realmente in nostro possesso circa la loro formazione, si può ipotizzare che almeno alcuni di essi fossero in possesso di un buon livello d’istruzione, quando non addirittura di una formazione di grado universitario (forse non a caso, sarà proprio in tale ambito che in Italia, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, troverà spazio l’insegnamento di discipline “di settore” come l’archivistica e la paleografia32). Di due di questi archivisti si sa infatti che si addottorarono in diritto civile e canonico: Scipione Amati, come detto attivo per i Colonna, era doctor utriusque iuris33; Carlo Cartari, molto probabilmente a servizio degli Altieri, ottenne il medesimo titolo nel 163334. Lo stesso si può dire di altri loro colleghi, attivi in quegli stessi anni negli archivi “pubblici” romani35. È il caso, per esempio, di Michele Lonigo, primo archivista del nuovo Archivio Vaticano36, che conseguì i gradi accademici in teologia e in utroque iure37; e di Felice Contelori, prefetto dello stesso Archivio dal 1630 al 1644, che ottenne lo stesso titolo prima del 161638.
14A questo punto occorre chiedersi dove, nella Roma del tempo, era possibile conseguire le competenze funzionali allo svolgimento del lavoro d’archivio? Numerose erano di fatto le istituzioni destinate ad impartire ai giovani una qualche preparazione nei diversi ambiti dello scibile del tempo. Innanzi tutto, va ricordato lo Studium Urbis, sebbene questo stesse vivendo all’epoca un periodo di forte declino, dovuto in buona parte alla concorrenza delle scuole di matrice religiosa39. Tra queste si può annoverare il Collegio Clementino, che tuttavia non dovrebbe aver avuto alcun ruolo nella formazione degli individui qui presi in esame, in quanto destinato in prevalenza agli studenti di estrazione nobiliare e che imponeva rette molto onerose40; così come trascurabile dovette essere anche l’apporto alla formazione degli archivisti dei diversi Collegi “nazionali” (come il Collegio Greco41, il Germanico-Ungarico, l’Inglese, l’Irlandese ecc.), dato che per loro natura essi erano destinati ad accogliere studenti stranieri. Gli archivisti che intrapresero la carriera religiosa potrebbero aver seguito le lezioni del Seminario Romano o quelle del Collegio Pontificio (potrebbe essere il caso dei già citati Grigioni, Alicorni e Corte, senonché quest’ultimo, essendo originario di Vercelli, potrebbe non essersi formato nell’Urbe). Per tutti gli altri rimanevano aperte le porte del Collegio Romano42, dove certamente studiarono almeno due archivisti del tempo: Felice Contelori all’inizio del secondo decennio del Seicento43 e Giovanni Battista Confalonieri44.
15Infine, tra gli strumenti di formazione teorica più specifici non si può tralasciare il fatto che già nel Seicento gli archivisti potevano contare su una trattatistica di settore già piuttosto sviluppata45. In questo secolo, infatti, furono date alle stampe alcune importanti opere dedicate in modo specifico alla tenuta e alla gestione degli archivi. Tra quelle pubblicate in Italia – è probabile che gli archivisti attivi sulla piazza romana abbiano avuto più facile accesso a queste, anziché alle trattazioni, invero di per sé più numerose, comparse negli stessi anni in lingua tedesca46 – ci si limiterà a ricordare il già citato De archivis liber singularis di Baldassarre Bonifacio, pubblicato a Venezia nel 163247, e la Methodus archivorum, seu modus eadem texendi ac disponendi di Nicolò Giussani, libro edito a Milano nel 166448.
La formazione degli archivisti di famiglia: la pratica
16A completare la formazione teorica dell’operatore d’archivio contribuiva indubbiamente il suo apprendistato.
17Cartari, dopo essere stato investito della vice-prefettura dell’Archivum Arcis nel 1638 (all’epoca guidata dal prefetto Confalonieri), fu avviato alle convenzioni archivistiche da numerosi suoi colleghi, in particolare da Felice Contelori49, al quale mostrava i “sommari” del nuovo indice dell’Archivio man mano che veniva compilandoli50. Che l’apprendimento delle pratiche d’archivio avvenisse spesso successivamente all’assegnazione degli incarichi, trova riscontro anche in ambito ecclesiastico. Sembra essere questo, per esempio, il caso di Giacomo Grimaldi, mansionario in San Pietro che, conoscendo il latino ed essendo in possesso di una buona grafia, a partire dall’ultimo decennio del XVI secolo fu posto in archivio dai canonici della basilica. Qui, come riporta un diarista suo contemporaneo, egli
ebbe occasione di farsi tanto più, sì nel sapere legere littere scabrose e antiche, e anco nell’esercitarsi nelle storie, e con questo mise assai ordine in tutte le scritture dell’archivio che per prima stavano molto confuse, e questo lo fece con fare libri grandi per ordine di alfabeto e di ripertorii in maniera tale, che in un tratto si può trovare qual si voglia minima scrittura51.
18Dunque già nella Roma del XVII secolo, la pratica archivistica s’imparava “sul campo”, trasmessa direttamente da archivista ad archivista attraverso un processo di trasmissione di saperi tecnico-pratici che non si interrompeva con la fine del tirocinio, ma proseguiva per tutta la carriera. Tale fenomeno è ben noto per altri ambiti. Ciò, infatti, è quanto accadeva tra i notai romani, per i quali non era previsto un formal training, una formazione standardizzata. Questi dovevano tuttavia dimostrare di conoscere l’ars notariae e le sezioni degli statuti della città rilevanti per la loro professione, competenze che gli venivano trasmesse o da un membro della propria famiglia, o da altri notai più esperti52. Lo stesso si può dire per i computisti attivi per le famiglie nobili, altre figure centrali nella formazione e nella conservazione degli archivi gentilizi, che si formavano all’interno della computisteria del signore nella quale di frequente entravano come aiuto-computista o come secondo computista53.
19La trasmissione delle competenze professionali e spesso anche il lavoro in collaborazione è attestato a Roma almeno in altri tre casi, di cui uno pertinente al XVII secolo, e gli altri due al secolo successivo. In tutte le evenienze si tratta non solo di un rapporto tra colleghi, ma addirittura parentale. Scipione Amati, infatti, fu affiancato nel suo lavoro a servizio dei Colonna dal nipote Cosmo Bontempi; il sopracitato Cesare Giuseppe Bianchi, succedette al cognato Carlo Bordone nel 1728, anno della morte di quest’ultimo, portando a termine la compilazione dell’inventario e del catasto del monastero di Santa Cecilia in Trastevere54; la gestione dell’archivio della Camera Capitolina fu trasmessa da Francesco Maria Magni al figlio Filippo nel 1760, e da costui al nipote Francesco nel 179755.
Archivisti, genealogisti, scrittori di storia
20Nel processo di costruzione e ri-costruzione della memoria gli archivisti dell’epoca venivano sovente affiancati da altre figure, come quelle dei genealogisti e degli scrittori di historiae56.
21Ai genealogisti ricorrevano infatti le famiglie aristocratiche romane in diverse occasioni: per esempio, quando dovevano provare i loro gradi di nobiltà in vista di un’ascesa nella scala sociale; oppure, quando un loro esponente desiderava entrare a far parte di qualche ordine cavalleresco57. Alcuni di costoro furono autori di quelle che Roberto Bizzocchi ha efficacemente definito come «genealogie incredibili», per la cui elaborazione i documenti d’archivio erano di fatto null’altro che un espediente per dare una patina di verosimiglianza a ricostruzioni di pura fantasia (di frequente vi si riportavano le origini della famiglia all’epoca romana, quando non addirittura a quella omerica o veterotestamentaria)58.
22La tangenza tra il lavoro dell’archivista e quello dello scrittore di historiae è a tutti nota: esistettero storici “prestati” all’archivistica, come Alessandro Canobbio (1530 c. – 1608 c.), attivo in numerosi archivi pubblici e privati di Verona59; certi inventari vennero compilati alcuni anni prima o dopo genealogie o ricostruzioni storiche. Non è a caso che Francesco Leonini, procuratore fiscale della Fabbrica di San Pietro a Camerino, abbia curato tra il 1650 e il 1651 l’ordinamento dell’archivio petrino e che, due anni più tardi, venne pubblicata una storia del Tribunale di questa istituzione per opera di Andrea Ghetti, avvocato ed economo-archivista della stessa Fabbrica60. Il già citato inventario del 1645 dell’archivio Caetani segue di pochi anni la compilazione Dell’origine dell’antichissima e nobilissima Casa Caetani, con li suoi Stati che possiede che risale al 164261.
23Vi furono, infine, figure poliedriche che, oltre al ruolo di archivisti, svolsero contemporaneamente quello di genealogisti e di storici: così capitò al già citato Antonio Corte che, come si è già ricordato, tra il 1678 e il 1679 riordinò per Ippolito Lante della Rovere l’archivio di famiglia. A quel lavoro affiancò infatti la stesura di «un’opera archiviale concernente la genealogia della nobilissima famiglia Lante della Rovere et il stato de’ suoi beni e tutto ciò risguardava cose notabili e di splendore»62. Il lavoro di ri-costruzione della memoria della famiglia Lante della Rovere non dovette apparire concluso al figlio di Ippolito, il principe Antonio, che proseguì in quella direzione. Nel 1687 Antonio – divenuto principe di Belmonte da due anni63 – ampliò l’ambito delle ricerche sulla propria famiglia agli archivi pisani, incaricando di questo l’abate Alfonso Lante64, che rinvenne alcuni documenti relativi alle dignità acquisite a Pisa da Ceo e Bacciomeo Lante65, all’investitura del marchesato di Massa, ceduto a Pietro Lante il 14 ottobre 1399 da parte del re Venceslao, e allo stemma di Pietro Lante66.
Le aspettative nei confronti degli archivisti
24Si passa ora a ricostruire le aspettative che gravavano sul lavoro degli archivisti. Per quelli attivi presso istituzioni pubbliche si dispone di fonti sufficientemente eloquenti, come ad esempio il “regolamento interno” della Biblioteca e dell’Archivio Vaticani – all’epoca ancora congiunti – elaborato nel 1616 dall’allora cardinale bibliotecario Scipione Borghese, in cui si legge:
Li Prefetti dell’Archivio disponghino le scritture con ordine conveniente, faccino gli indici; et non ammettino nessuno a veder dette scritture senza mandato preciso, diretto al primo Custode67.
25In queste parole sono espresse in nuce le principali funzioni affidate ad un archivista di un’istituzione ancora oggi: la conservazione, il mantenimento dell’ordine, la valorizzazione, la compilazione di inventari, e l’accessibilità. Ma l’archivista a servizio di una famiglia gentilizia svolgeva tutte queste funzioni?
26Di certo uno dei compiti imprescindibili di un archivista, allora come oggi, era quello di compilare gli strumenti indispensabili al reperimento dei documenti. Ma come procedeva? Godeva di autonomia nell’impostare il proprio lavoro? Oppure doveva attenersi alle indicazioni, più o meno stringenti, che in proposito gli venivano dal committente? Una lettera inviata il 9 luglio 1644 dal duca Francesco IV Caetani al sopracitato don Giovanni Cola Alicorni, per quanto possa costituire un caso isolato, offre qualche spunto di riflessione. Ebbene, rispondendo ad una precedente missiva inviatagli dall’archivista, Francesco respingeva i criteri di inventariazione che questi gli aveva proposto, adducendo a ragione di ciò che si trattava di un procedimento «troppo lungo». Lo invitava, dunque, in una prima fase a raggruppare le scritture («fare li mucchi delle scritture») per luoghi (Sermoneta, Cisterna, San Felice, Bassiano ecc.). Solo dopo aver ultimato questo lavoro, Alicorni avrebbe avuto agio di rivedere i documenti e procedere nell’attribuire ai documenti una numerazione da riportarsi nell’inventario, con specifica della data cronica e del regesto, «così – chiosava il duca – caminarete più presto, e più chiaro»68.
27Fino a tal punto, dunque, si potevano spingere i condizionamenti esercitati dai committenti sugli archivisti in materia di ordinamento, ai quali questi ultimi difficilmente si sarebbero potuti sottrarre. In altri casi, tuttavia, all’archivista era lasciata una certa autonomia decisionale, cosa che rendeva possibile, almeno per i più intraprendenti, rompere gli schemi e introdurre un’innovazione che, col tempo e l’adozione da parte dei colleghi, avrebbe acquistato seguito, fino a divenire a sua volta norma. Per illustrare questa evenienza si addurrà un esempio che si colloca molto al di là del nostro arco cronologico (risale, infatti, al tardo XVIII secolo), ma che, trattandosi di una rottura netta con pratiche molto antiche e comunemente condivise, merita la nostra attenzione. Esso concerne un cambiamento nelle modalità di redazione delle rubricelle degli inventari (una sorta di indice) ed ebbe fra i suoi precursori il già citato Filippo Magni. Questi, come già accennato, lavorò non solo per l’Archivio della Camera Capitolina, ma anche a servizio del marchese Francesco Patrizi, per il quale realizzò un inventario terminato nel 1794. L’innovazione introdotta dal Magni riguarda il modo in cui i nomi di persona venivano registrati fino ad allora nelle rubricelle. Era pratica comune tra gli archivisti, infatti, quella di rubricare le persone in ordine alfabetico per nome di battesimo (se si cercava, per esempio, il principe Vincenzo Giustiniani, non lo si sarebbe mai reperito sotto la lettera G, ma sotto la V). Magni, invece, nell’introduzione all’inventario dei Patrizi osservò come gli era sembrato opportuno, dato che con il trascorrere del tempo i nomi di battesimo venivano facilmente dimenticati, «nel seguente indice per ordine alfabetico camminare con li cognomi e denominazione delle persone che sono occorse notarsi in esso»69.
28Per concludere, si porteranno tre esempi di come gli archivisti potessero disattendere le aspettative della comunità e dei committenti. Francesco Prignani, archivista e maestro di casa della famiglia Maccarani, nel 1754 effettuò il primo intervento sulle carte di famiglia: invece di ordinare le carte per materie e poi procedere alla redazione di un inventario – secondo la pratica corrente – mantenne il disordine originario e redasse un semplice elenco delle carte70. L’incapacità di mantenere aggiornato e in ordine un archivio trova riscontro anche nell’operato di alcuni archivisti a servizio di istituzioni pubbliche: Giovanni Battista Confalonieri, prefetto dell’archivio di Castel Sant’Angelo, e Giuseppe Balduini, sotto-archivista del Capitolo di San Pietro. Nel primo caso il tradimento delle aspettative è stigmatizzato dal suo collega Carlo Cartari, che riporta come il prefetto dell’Archivio Segreto, Felice Contelori, gli avesse confidato che «il signor Confalonieri ha confuse le scritture, non mettendole nelle casse, e tra le materie proporzionate»71. Nel secondo caso il disordine portò addirittura al licenziamento del responsabile: il Balduini, infatti, fu esonerato dal suo incarico dai canonici di San Pietro nel 1703 perché non aveva mantenuto l’ordine semper servari solitum nell’archivio nel disporre e registrare le scritture72.
Conclusioni
29Nelle pagine che precedono si è tentato di delineare la figura degli operatori d’archivio a servizio delle famiglie nobiliari romane nel Seicento. Nonostante le evidenti difficoltà create dalla carenza di adeguati studi prosopografici sul personale degli archivi in età moderna, auspico che il testo che qui si presenta possa aver contribuito a mostrare le potenzialità che questo tipo di ricerche presenta per la storia sociale dell’archivistica. Mi auguro che ulteriori ricerche possano contribuire in futuro a precisare meglio i molti aspetti di questa storia che permangono tuttora ignoti. Ritengo, infatti, che una più esatta cognizione delle aspettative di quanti si trovarono a governare gli archivi prima di noi, e delle capacità, incapacità, condizionamenti e aspirazioni di coloro che tali aspettative furono chiamati a realizzare, possa aiutarci a trasmettere in modo più consapevole ed efficace questa preziosa eredità alle generazioni future.
Notes de bas de page
1 La definizione pregnante della nobiltà romana come una open élite a sottolineare il suo «carattere largamente aperto […] sia nella componente urbana che feudale» si deve a M. A. Visceglia (cf. Visceglia 2001, p. XIII).
2 Tra questi, vanno segnalati i contributi di De Vivo – Guidi – Silvestri 2015 e la raccolta di studi in De Vivo – Guidi – Silvestri 2016.
3 Cf. per esempio il lavoro, per altri versi pregevole e innovativo, di Massimo Scandola (Scandola 2016).
4 Si noterà, infatti, che tra gli archivisti censiti in questo lavoro solo due, Dionisio Gallo e Scipione Amati, risultano essere in possesso di tale qualifica (notaio il primo, e protonotaio il secondo).
5 Durante il 2009 – nell’ambito del progetto di inventariazione del fondo Giustiniani di Roma, conservato presso l’Archivio di Stato di Roma – partecipai assieme a Piero Scatizzi e a Francesca Conticello al rinvenimento del contratto di Cesare Giuseppe Bianchi, al servizio del principe Vincenzo Giustiniani perlomeno tra il 1717 e il 1729 (Scatizzi 2011, p. V, n. 19). Durante le successive esperienze negli archivi di diverse famiglie romane – tra le quali i Lante della Rovere, gli Orsini, i Barberini, i Colonna, i Ruspoli e i Marescotti – e anche grazie alla collaborazione con Anne-Madeleine Goulet che affianco dal 2011 nelle sue ricerche sulla storia del teatro, della danza e della musica, e dal 2016 ad oggi come archivista del progetto PerformArt, ho avuto modo di rinvenire documenti che mi hanno permesso di elaborare un ampio repertorio prosopografico degli archivisti attivi per le famiglie nobiliari romane tra XVII e XVIII secolo, che solo in parte è confluito in questo lavoro. Tra i risultati più incoraggianti c’è stata l’individuazione, nella corrispondenza di Flavio Orsini, delle lettere che il duca si scambiava con il suo archivista Giovanni Battista Grigioni.
6 Mori 2016, p. 181-182.
7 Venditti 2008, vol. 2, p. 336, b. 320.
8 Piccialuti 1994, p. 346. Su Carlo Cartari si veda, più in generale, Petrucci 1977. Nella b. 275 conservata in I-Ras nel fondo Cartari-Febei, serie V si conserva la prima parte del catalogo e delle lettere relativi alla biblioteca dei principi Altieri.
9 I-Ras, LdR, b. 916 (pagamenti del 29 settembre 1678 e del 23 aprile 1679; schede PerformArt D-009-752-244 e D-009-642-246).
10 I-Ras, LdR, b. 457, fasc. relativo al 22 marzo 1696 (scheda PerformArt D-007-562-275).
11 I-Ras, LdR, b. 696. Questo inventario, e più in generale l’archivio della famiglia Lante della Rovere, costituiscono l’oggetto del dottorato di Letizia Leli: Le donne della famiglia Lante della Rovere. Il contributo femminile alla formazione degli archivi familiari, cf. Leli 2020.
12 I-Rcaetani, Misc. 135/480 dove alla c. 1r si legge: “1645. Nel presente libro si notaranno le scritture che sono nel archivio di Sermoneta spettanti all’eccellentissima casa Caetana”.
13 Caetani 1925, p. XIV e Fiorani 2010, p. XX, n. 4. Sulla figura di Gallo è in corso da parte di chi scrive una ricerca sistematica nella corrispondenza di Francesco IV Caetani.
15 Mori 2016, p. 182. L’inventario è segnalato in un repertorio di epoca successiva e non è stato ritrovato. Di Giovanni Battista Roffeni, attivo per i Colonna nel corso del XVII secolo, si sa solamente che fu autore di un ordinamento dell’archivio, cf. Attanasio 1994, p. 370.
16 Mori 2016, p. 178, 180.
17 I-Rasc, Archivio Orsini, III serie, b. 524.
18 Mori 2016, p. 183.
19 De Vivo – Guidi – Silvestri 2016, p. 292 e Visceglia 2018, p. 928 (in relazione al passaggio di Felice Contelori dalla famiglia pontificia alla prefettura della Biblioteca Vaticana).
20 Amati 1609.
21 [Boncompagni Ludovisi] 1904, p. 461.
22 Amati 1634.
23 I-SUss A. C., sez. 0, serie 6, b. 2.
http://www.sa-lazio.beniculturali.it/MW/mediaArchive/Pdf/01INVENTARIOGENERALE.pdf, p. 16, n. 3.
24 Bibliografia Romana 1880, p. 10. Il riferimento alle Memorie è in Amati 1648, c. 5v.
25 Duchein – il quale, mettendo in contrasto la figura del bibliotecario e quella dell’archivista, pone l’accento sulle competenze amministrative, piuttosto che culturali, ovvero umanistiche del secondo – descrive in questi termini la formazione degli archivisti europei delle origini: «They received some practical training in reading old scripts and understanding old documents, but they were not historians» (Duchein 1992, p. 20). Questa affermazione, certamente troppo netta, va senz’altro ridimensionata nella sua portata generalizzante.
26 Sandri 1950, p. 110.
27 L’uso di un latinum grossum, pro laicis amicum era prescritto, già verso la metà del XV secolo, ai consiglieri del parlamento di Parigi per la redazione dei documenti loro affidati (cf. Verger 1999, p. 22-23). Quanto si sa circa la padronanza del latino tra gli archivisti attivi presso istituzioni pubbliche conferma l’idea che, almeno su questo punto, una buona preparazione fosse la regola: Contelori conosceva perlomeno il latino e il greco (Visceglia 2018, p. 926 parla in generale di «lingue classiche»); Confalonieri, oltre alla conoscenza di queste due lingue, aggiungeva certamente anche quella dell’ebraico (Foa 1982, p. 778).
28 È il caso, per esempio, di Giacomo Grimaldi di cui si parlerà in seguito.
29 Per una panoramica generale delle tipologie di documenti conservati in un archivio di famiglia cf. Casanova 1928, p. 232 – 233.
30 Gualdo 1981, p. 150 e Pagano 1993, p. 196.
31 Pelliccia 1985, p. 329-334. Quello sopra delineato è il profilo “ideale” della formazione di un archivista: si è tuttavia ben coscienti della distanza che, di frequente, venne a crearsi nella pratica tra le istanze astratte della scienza e la realtà della pratica quotidiana.
32 Cencetti 1955, p. 79, dove si fa cenno alla prima cattedra universitaria istituita presso l’Università di Bologna nel 1765.
33 A questo riguardo cf. anche Scatizzi 2000, p. 42.
34 Petrucci 1977, p. 783 e Filippini 2010, p. 9.
35 L’espressione “archivio pubblico” viene qui impiegata al solo scopo di distinguere i complessi documentari di pertinenza familiare da quelli sottoposti al controllo di una pubblica autorità, pur consapevoli della discrepanza esistente, tanto nella teoria quanto nella pratica, tra le odierne nozioni di “pubblico” e di “privato” e quelle vigenti in antico regime. E. Lodolini, per attestare la fluidità che tali nozioni ebbero nel periodo che qui ci interessa, cita una sentenza della Sacra Rota romana del 1682, la quale lo porta ad affermare che: «un archivio può essere pubblico e conferire pubblica fede ai documenti che ne fanno parte nei confronti di alcuni soggetti e privato nei confronti di altri. Questa situazione si verificava abbastanza di frequente nel Medio evo e nell’Età moderna: la qualifica “pubblica” dell’archivio era di solito limitata ai “sudditi” dell’archivio stesso, cioè a coloro i quali risiedevano nella circoscrizione territoriale dell’autorità che aveva costituito l’archivio» (Lodolini 1997, p. 26-27).
36 Bignami Odier 1973, p. 104.
37 Maiorino 2005, p. 727.
38 Petrucci 1983, p. 336 e Visceglia 2018, p. 924-925, n. 7.
39 Di Simone 1980, p. 19. È in corso presso l’Archivio di Stato di Roma la schedatura degli studenti stranieri che studiarono presso lo Studium Urbis, per la quale cf. Adorni – Onori – Venzo 2018.
40 Montalto 1939.
41 Tsirpanlis 1983.
42 Sulla presenza di stranieri anche presso il Collegio Romano cf. Broggio 2002.
43 Visceglia 2018, p. 926.
44 Foa 1982, p. 778 e Visceglia 2018, p. 926.
45 Per un inquadramento generale sulla trattatistica dell’epoca cf. Sandri 1961.
46 Brenneke 1968, p. 69-77.
47 Sandri 1950.
48 Sandri 1956-1957.
49 Filippini 2010, p. 95-116 (capitolo dedicato all’Apprendistato).
50 Filippini 2007, p. 778, n. 45 e p. 779, n. 46.
51 Citato in Rezza – Stocchi 2008, p. 19.
52 Nussdorfer 2018, p. 37.
53 Su questo argomento cf. The computista & the archivista: two key figures in the management of Roman family archives in the seventeenth & eighteenth centuries con il quale contribuirò alla pubblicazione finale del programma PerformArt, dedicata alla magnificenza (Goulet – Berti, in corso di pubblicazione).
54 Marino 1985, p. 10 e 20, n. 17.
55 Scano 1988, p. 387.
56 Per una panoramica sui cronisti che accedevano agli archivi pubblici cf. Casanova 1928, p. 354-357 (Cronisti e studiosi).
57 Polverini Fosi 1994.
58 Bizzocchi 1995. Parzialmente diverso è il caso di quei genealogisti toscani che elaborarono genealogie “artefatte”, rese verosimili come al solito in virtù della loro base documentaria, che però veniva in seguito manipolata mediante interpolazioni, o anche tramite il danneggiamento puro e semplice dei documenti (macchie d’inchiostro, strappi, raschiature), cf. Arrighi – Insabato 2000, p. 1105 e sq.
59 Sancassini 1956.
60 Di Sante 2015, p. 21-47, in particolare p. 27.
61 Armando 2004, p. 143
62 I-Ras, LdR, b. 457, fasc. relativo al 22 marzo 1696 (scheda PerformArt D-007-562-275).
63 I-Ras, LdR, b. 310, copia del breve del 19 dicembre 1685 con cui Innocenzo XI eresse a principato Rocca Sinibalda.
64 Goulet 2012a, p. 82, n. 38.
65 I-Ras, LdR, b. 601, lettera del 16 giugno 1687 inviata da Pisa dal cavalier Guglielmo Rau ad Antonio Lante della Rovere.
66 I-Ras, LdR, b. 601, lettera del 4 agosto 1687 inviata da Pisa dall’abate Alfonso Lante ad Antonio Lante della Rovere. Sulla concessione dell’imperatore cf. Ragone 2004, p. 641.
67 Casanova 1928, p. 364, n. 1.
68 Fiorani 2010, p. XIX.
69 V-CVaav, Indice 725. Magni aveva in realtà già adottato questa innovazione nella indicizzazione dei nomi nel 1782, quando il cardinale vicario Marcantonio Colonna gli aveva assegnato la compilazione del rubricellone degli atti della segreteria del Tribunale del Vicariato, oggi conservato presso I-Rvic.
70 Mori 1996, p. 64.
71 Filippini 2010, p. 99.
72 Rezza – Stocchi 2008, p. 20.
Auteur
Programma PerformArt, École française de Rome – orsetta.baroncelli@gmail.com
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