Capitolo III. Fenomeni religiosi all’origine della pittura rupestre
p. 181-208
Texte intégral
1– L’eremitismo
1Il portico della basilica di Sant’Angelo in Formis conserva un breve ciclo pittorico del xii secolo che narra la vita dell’eremita Paolo di Tebe, nato all’inizio del iii secolo (tav. 51 a)1. Nelle quattro lunette ai lati della porta d’ingresso è raccontato l’incontro che, all’età di centotredici anni, secondo quanto tramandato da san Girolamo, il venerando Paolo avrebbe avuto con il monaco novantenne Antonio venuto in visita presso la sua dimora, una grotta nel deserto della Tebaide2. Gli esecutori delle pitture non hanno trascurato gli elementi che caratterizzano l’ambientazione dell’episodio agiografico. In linea con la narrazione geronimiana, infatti, nelle prime tre scene troviamo la grande spelunca, la palma che vi cresce all’interno e fuoriesce da un’apertura sulla sommità, la riviera d’acqua che scorre accanto3. Stando al racconto, Paolo di Tebe aveva scelto il deserto per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Decio4 e scovata una grotta nascosta su una montagna, constatato che era sufficientemente spaziosa, ricca d’acqua e di datteri succosi, aveva vissuto in quel luogo non più per necessità ma per atto volontario, necessitatem in voluntatem vertit5. Da quel momento in poi un corvo inviato dal Signore sarebbe venuto ogni giorno con una razione di cibo necessario alla sua sussistenza6.
Dalla Tebaide all’Occidente
2Paolo di Tebe e il monaco Antonio sono ricordati come i primi eremiti dell’era cristiana. Pur avendo scelto il deserto come luogo per vivere in solitudine la propria esperienza contemplativa, il loro habitat è costituito da un antro roccioso e una sorgente d’acqua. Sono elementi, questi, che troveremo costantemente nel paesaggio eremitico dell’agiografia medievale, anche se il campo d’azione si sposterà ben presto dal deserto dell’Asia Minore e del nord Africa alle verdi alture dell’Occidente7. Il trasferimento geografico del paesaggio eremitico non provoca un cambiamento sul piano simbolico tant’é che nell’immaginario cristiano medievale la foresta viene a coincidere con il deserto. Come ha scritto, appunto, Jacques Le Goff, a proposito dell’eremitismo occidentale : «In questo mondo temperato senza grandi distese aride, il deserto – cioè a dire la solitudine – assumerà un aspetto del tutto diverso, il contrario, quasi, del deserto sotto il profilo della geografia fisica : sarà la foresta»8.
3Seguendo la storia dell’eremitismo dai primi secoli del Cristianesimo all’alto Medioevo il paesaggio fisico, dunque, muta radical-mente e tuttavia la grotta continua ad essere scelta spesso come dimora ideale per praticare la vita ascetica. Se l’iconografia e l’agiografia non mancano di esempi eloquenti, ottenere un riscontro effettivo di questo fenomeno non è altrettanto facile. Mentre nel versante orientale sono stati individuati svariati casi di insediamenti anacoretici ricavati nella roccia9, per quanto riguarda l’Occidente, e in particolare il territorio oggetto della nostra ricerca, il dubbio se siano esistite o meno forme di eremitismo rupestre sembra legittimo data la difficoltà di rintracciare un fondamento storico nelle fonti di cui si dispone e la scarsità delle evidenze archeologiche10.
4Cosicché, per esempio, a ragione è stata respinta la tesi di Émile Bertaux, salutata con favore fino a tempi recenti, che consisteva nel credere che le due grotte di Calvi e quella di San Biagio a Castellammare di Stabia, fossero in origine insediamenti monastici sulla scorta del fatto che al loro interno vi si trovano pitture della cosiddetta «scuola benedettina», espressione tanto generica quanto impropria11. Paradossalmente, tuttavia, a distanza di un secolo dalle pionieristiche ricerche dello studioso francese, proprio grazie all’analisi della pittura rupestre, oggi ancor più deteriorata dal trascorrere del tempo e il perpetuarsi dello stato d’abbandono, sembra possibile gettare un po’ di luce su questo argomento.
L’ipogeo del monte Acuziano e la Grotta del Salvatore a Vallerano
5Assai rara, ovviamente, è l’eventualità che l’intervento pittorico possa rappresentare una testimonianza diretta e sicura della permanenza di un eremita o di una piccola comunità monastica in un sito rupestre. Il fenomeno, fra Lazio e Campania settentrionale, s’è riscontrato soltanto in due contesti : l’ipogeo sotto l’eremo di San Martino del Monte Acuziano e la Grotta del Salvatore presso Vallerano. Nel primo caso, proprio dallo studio delle pitture della struttura ad archi ciechi che all’origine doveva foderare verosimilmente l’intero ambiente rupestre (tav. 18 a), è stato possibile dare un valore storico alla tradizione e alle notizie fornite dal cronachista farfense Gregorio di Catino (1062-1134), circa la presenza nell’antro roccioso di un eremita di nome Lorenzo giunto nel vi secolo dalla Siria con al seguito alcuni suoi discepoli12. Fugando i dubbi avanzati anche di recente nei riguardi della testimonianza di Gregorio, che per altro trova riscontro nel precedente privilegio di Giovanni VII (705-707)13, l’analisi dei dipinti ha permesso di rintracciare sorprendenti legami con la pittura greco-orientale del vi secolo, non solo per quanto riguarda i singoli soggetti, ma anche circa l’orchestrazione d’insieme, di forte predominanza aniconica e quindi estranea al linguaggio figurativo occidentale. La convergenza tra i dati documentari e quelli desunti dallo studio delle pitture permette, inoltre, di far luce sulla «preistoria» di un insediamento monastico di eccezionale importanza, quale è l’abbazia di Farfa.
6Ad un piccolo cenobio benedettino del x secolo vanno assegnate, invece, le pitture della Grotta del Salvatore presso Vallerano (tav. 12 a)14. In questo caso il distacco di un costone di roccia della falesia sul finire dell’800 ha, se non altro, restituito uno spaccato dell’intera articolazione degli ambienti : al piano superiore una serie di piccole celle intercomunicanti, in quello inferiore due ambienti opportunamente decorati, una cappellina con altare e prothesis e ac-canto uno spazio destinato alla vita in comune. Nella prima sono ancora distinguibili, fra i soggetti superstiti, le immagini di Benedetto con i suoi discepoli Mauro e Placido e l’iscrizione del committente Andreas humilis abbas, a riprova dell’appartenenza dell’unità cenobitica all’ordine benedettino (tav. 13 d).
7Più frequenti sono gli ambienti rupestri che la tradizione orale e le fonti agiografiche, o anche semplicemente un antico toponimo, associano a un santo dedito alla vita solitaria e che, tuttavia, ospitano all’interno pitture posteriori alla sua ipotetica presenza. Per quanto concerne questi casi, la testimonianza pittorica costituisce il segno del fiorire del culto nei confronti di un eremita che si ritiene abbia abitato il luogo in passato sì da renderlo sacro attraverso l’esercizio della vita ascetica.
L’eremo del monte Massico
8Estremamente significativo, a tal riguardo, è l’eremo di san Martino sul monte Massico, in provincia di Caserta (tav. 42 a). Il santo titolare non è il celebre vescovo di Tours, ma un Martino seguace di Benedetto. Numerose sono le fonti che parlano di questo personaggio, a cominciare da Gregorio Magno, che nei Dialogi ri-porta la testimonianza trasmessagli direttamente dal suo predecessore Pelagio II (579-590) e altri religiosissimi viri, i quali sarebbero venuti a sapere della lunga permanenza di un loro contemporaneo in una grotta del monte Massico e della sua mirabile condotta15. A quanto pare Martino giungeva da Montecassino dove aveva vissuto con Benedetto e i suoi compagni e proprio il fondatore dell’ordine monastico avrebbe spedito nell’eremo campano un suo discepolo per convincerlo a liberarsi dalle catene mediante le quali voleva fuggire alle tentazioni : si servus es Dei, non te teneat catena ferri, sed catena Christi16.
9Al di là della sequenza di prodigi che ravvivano la narrazione gregoriana, tipici della tradizione agiografica, come l’apparizione del demonio sotto forma di serpente, l’allontanamento della donna tentatrice e il salvataggio del fanciullo caduto da una rupe17, colpiscono alcuni elementi relativi all’ambientazione del racconto che trovano una corrispondenza nella reale fisionomia del sito : la grotta stretta di origine naturale costituita da un ambiente unico, la presenza al suo interno di acqua che trasuda dalla roccia, incorniciata dagli archi della struttura muraria, il precipizio di fronte all’ingresso e l’esistenza di una cisterna nelle immediate vicinanze18.
10Sappiamo inoltre, sempre da Gregorio Magno, che dopo un certo tempo trascorso in completa solitudine, l’eremita fu raggiunto da alcuni discepoli, i quali abitarono però all’esterno della grotta19. Il dato fa pensare all’esistenza di un insediamento cenobitico sul Massico già all’epoca di Martino. Sul pianoro soprastante la grotta, per l’appunto, si conservano lunghi tratti di muro in opus incertum riferibili con ogni probabilità ad un insediamento monastico. La scarsità delle informazioni in proposito non consente di attribuire con certezza le strutture esistenti alla prima fase di vita cenobitica20. È sicuro, comunque, che già al principio dell’viii secolo il monastero aveva raggiunto una notevole importanza, visto che è attestata l’annessione ad esso di alcuni terreni del Massico, su concessione di Romualdo II duca di Benevento (703-729)21. Un secolo dopo il monasterium sancti Martini rientra fra i beni che Pasquale I conferma essere di appartenenza dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno22.
11Le fonti ci informano su altri eventi, come l’attacco al monastero da parte dei saraceni, tra l’883 e il 915, e diversi tentativi di appropriazione delle reliquie dell’eremita fino alla definitiva traslazione delle spoglie del santo nella cattedrale di Carinola agli inizi del xvii secolo23.
12Queste le evidenze archeologiche, geomorfologiche e i riscontri documentari ma in favore dell’esistenza e della fortuna dell’eremita in questo luogo, ai dati esposti vanno aggiunti i risultati desunti dal-l’osservazione delle pitture all’interno della grotta24. L’imbotte in muratura che fodera lo stretto antro naturale venne decorato una prima volta, probabilmente in occasione della sua stessa edificazione, con uno strato di intonaco del quale rimangono tracce sufficienti per ipotizzare che vi fosse dipinto un programma aniconico con uccelli, motivi fitomorfici e geometrici su fondo bianco (tav. 76 a-c). Elemento chiave della decorazione era una grande croce gemmata dipinta sulla volta in corrispondenza della zona di fondo della grotta (tav. 76 a, figg. 10-11, p. 158-159). Il soggetto raffigurato e il piccolo vano rettangolare, che si nota proprio al di sotto, autorizzano a credere che l’intervento murario e la relativa decorazione siano stati realizzati per accogliere degnamente le spoglie del beato Martino. Quanto all’epoca d’esecuzione di questa campagna pittorica, per ragioni di carattere stilistico, paleografico e tecnico-esecutivo, che verranno esposte nel prossimo capitolo, la datazione più probabile si colloca tra la fine del vi e la prima metà del vii secolo25.
13Già nella prima decorazione, e nell’innalzamento della struttura che la ospita, possiamo quindi cogliere la prima tappa di un cambiamento della funzione dell’ambiente, da eremo a sepolcro monumentale. Il passo successivo consisterà in un’ulteriore trasformazione, da sepolcro a santuario, luogo di culto e meta di pellegrinaggio, alla stregua di quanto avviene nelle tombe martiriali dei cimiteri ipogei26. A tale proposito è assai eloquente il racconto, riportato da fonti risalenti all’xi e al xii secolo, della lunga processione compiuta dal principe longobardo Arechi II (758-787) e sua moglie, a piedi scalzi, cinere capita aspersi, fin sul luogo della grotta, per prelevare le reliquie di Martino e custodirle all’interno delle mura beneventane27. Al di là della storicità dell’avvenimento, la narrazione è indice del fatto che la fama della santità aveva raggiunto anche i vertici della società civile del tempo.
14Un secondo strato pittorico, che va a coprire il precedente, viene eseguito fra ix e x secolo (tavv. 42 c, 43, 76 d, 77 a, fig. 12, p. 160). Esso ci offre due dati significativi : un cambiamento nell’ordine spaziale dell’ambiente e un riferimento diretto nei confronti del titolare della grotta. L’intonaco, in questo caso, non riveste tutta l’area dell’imbotte ma più o meno i tre quarti di essa a partire dall’arco d’ingresso. La stesura parziale della pittura sulla volta sta ad indicare che all’epoca dell’intervento, o già in un tempo precedente, la zona di fondo ospitante le spoglie dell’eremita era stata chiusa da una struttura, forse lignea, che serviva a isolare l’area del sepolcro dal resto della grotta.
15La nuova decorazione pittorica, che segue un programma fedele al linguaggio iconografico della produzione artistica di area beneventano-cassinese, con l’immagine dominante del grande busto clipeato di Cristo sorretto da quattro angeli cariatidi, era contrassegnata da una lunga iscrizione, sempre a mezz’altezza della parete sinistra, come quella dello strato precedente. Ancora oggi vi si legge il tratto [VIR]GINIS ET BEATI MARTINI CON[FESSORIS], a riprova del fatto che l’intervento era volto a onorare il luogo che custodiva il corpo dell’eremita. Il perpetuarsi del culto martiniano è attestato, poi, da un pannello trecentesco con una Crocifissione che si conserva sulla parete di fondo dell’imbotte, dal muro di epoca posteriore con la fenestella confessionis che vi viene costruito davanti, a proteggere la tomba, e infine dall’altare, con una nuova Crocifissione dipinta al di sopra, eseguita durante il xvii secolo probabilmente in occasione della traslazione delle reliquie nella vicina cattedrale di Carinola.
16Sul monte Massico assistiamo, quindi, a un lungo processo di sacralizzazione che vede la grotta eremitica di origine naturale trasformarsi in sepolcro, essere inglobata nel soprastante insediamento monastico, in seguito divenire meta di pellegrinaggio, oggetto di forte contesa per le reliquie che si custodiscono all’interno, e infine, in epoca moderna, piccola cappella con l’altare dedicato al beato Martino.
Il Sacro Speco di Subiaco
17I Dialogi di Gregorio costituiscono una fonte preziosa per far luce sulle origini rupestri di un altro insediamento monastico, che avrà un futuro ben più noto e grandioso di quello del Massico perché ad abitarvi fu Benedetto da Norcia. Nel celebre lezionario cassinese della Biblioteca Apostolica Vaticana, di committenza dell’abate Desiderio (1066-1071), tra le numerose miniature che riproducono il ciclo agiografico benedettino, ce ne sono due nelle quali il rappresentante dell’ordine è raffigurato all’interno dell’antro roccioso, la prima volta nell’atto di ricevere dal monaco Romano il pane calatogli con un cesto annodato a una corda (Vat. lat. 1202, f. 17 B; tav. 51 b)28, la seconda mentre è intento a consumare il pranzo pasquale offertogli da un sacerdote spinto a compiere l’atto di carità a seguito di un’apparizione divina in sogno (Vat. lat. 1202, f. 18 A; tav. 51 c)29. In entrambi i casi l’immagine della grotta evoca l’esperienza eremitica del fondatore dell’ordine e la presenza dei due visitatori non offusca, anzi esalta, il suo fulgido esempio di vita contemplativa.
18L’immagine della grotta è presente anche in un’altra scena miniata del codice, questa volta però senza la figura di Benedetto (Vat. lat. 1202, f. 80 A; tav. 51 d). Anche in questo caso si tratta di un episodio agiografico raccontato da Gregorio Magno : vi si vede l’antro roccioso con all’interno una figura femminile che leva le mani al cielo nel gesto dell’orante. La donna è un’insana di mente che rinsavisce miracolosamente dopo aver trascorso una notte all’interno della grotta30. L’episodio mette in luce l’avvenuto passaggio dall’eremo al santuario : terminata l’esistenza dell’eremita la cavità rupestre rima-ne spazio del sacro dove si custodisce la memoria di un’esperienza mirabile di santità.
19Alle notizie offerte dalle fonti e alle miniature del codice corrispondono le evidenze architettoniche : arroccato sul monte Taleo, il monastero del Sacro Speco di Subiaco, dal nome chiaramente evocativo, conserva le tracce della primitiva vita eremitica in un alveo roccioso della montagna. Dentro al complesso monastico, la monumentale «Scala Santa» collega le due cavità naturali, e cioè il Sacro Speco, che la tradizione identifica nel luogo dove Benedetto avrebbe vissuto, e la Grotta dei Pastori, dove il santo era solito incontrare gli abitanti del luogo31. All’interno di quest’ultima sopravvive un pannello con una Vergine fra sante nella rara versione della Nicopoios, con il Bambino circondato da un nimbo sorretto con entrambe le mani (tav. 65 b)32. Accanto si scorgono i lacerti di un’immagine di san Silvestro, titolare del monastero insieme al fondatore dell’ordine e sua sorella Scolastica33. Venendo a mancare agganci sicuri per la datazione dei due dipinti, che sembrano essere stati realizzati in occasione del medesimo intervento, si è proposto di assegnare le pitture alla metà circa dell’xi secolo, dato che nell’anno 1052 le fonti cronachistiche riportano la notizia dell’intervento di edificazione di una chie-sa inglobante le due grotte e proprio in quel periodo ha la sua massima diffusione l’iconografia della Nicopoios34. Lasciando aperta la questione cronologica, le pitture della Grotta dei Pastori rappresentano senza dubbio l’unica manifestazione artistica in situ appartenente al periodo che precedette la costruzione del monastero, la quale avverrà solo a partire dal xii secolo.
20È facile pensare, comunque, che nei secoli trascorsi fra l’esperienza contemplativa di Benedetto e l’edificazione del monastero la memoria della santità del luogo non venne mai meno. Gregorio Magno riferisce che lo Speco, subito dopo la morte di Benedetto, divenne luogo di devozione da parte della popolazione locale35. Un’altra notizia significativa è quella dell’allestimento di due altari nelle grotte sublacensi da parte di Leone IV (847-855), l’uno dedicato al fondatore dell’ordine e alla sorella Scolastica, l’altro a papa Silvestro36. Sappiamo anche che il secondo eremita ad occupare stabilmente lo Speco fu il monaco Palombo, vissuto nell’xi secolo37. Dopo la permanenza del religioso assistiamo all’insediamento di una comunità monastica per la quale verranno costruite, a più riprese, le strutture in muratura.
21Il destino delle grotte del monte Taleo è quindi diverso da quello dell’antro del monte Massico. Il grande e articolato edificio in muratura è un vero prodigio dell’architettura medievale. L’ardita costruzione, che si sviluppa a più livelli ancorandosi ai ripidi costoni della montagna, nella quale è stata vista la ricezione di un modello proveniente dalla Terrasanta importato tramite le crociate38, rappresenta la ferma volontà di esaltare quanto più possibile la superficie della roccia (tav. 65 a). Quest’ultima emerge ostentatamente e intenzionalmente all’interno dell’edificio perché in essa è riconosciuta la componente naturale del luogo, imprescindibile fonte di santità.
San Leonardo e la valle Suppentonia
22Fra i loca sancta evocati da Gregorio Magno, anche la valle Suppentonia39, che si estende lungo il versante meridionale dell’abitato di Castel Sant’Elia, conserva una testimonianza di pittura rupestre medievale (tav. 4 c)40. Il suggestivo paesaggio di questa forra, rispondente a una tipologia assai diffusa nel territorio della Tuscia, si è preservato incontaminato fino a noi. Lo scorrimento di un fiume ha provocato, in tempi geologici, l’erosione del banco di tufo e il costituirsi di due alte pareti rocciose che si fronteggiano l’un l’altra seguendo un percorso parallelo. Qua e là lungo le falesie si aprono ambienti rupestri frutto di escavazioni artificiali riferibili ad epoca etrusca, romana e medievale.
23Se è vero che in questo caso manca in Gregorio qualsiasi riferimento diretto alla vita eremitica in grotta è parimenti evidente che l’emergere della roccia nel verde della vegetazione assume un valore centrale nella descrizione del paesaggio che fa da cornice all’episodio agiografico del suo racconto. Il testo gregoriano ci parla dell’esperienza cenobitica condotta pochi anni prima dal venerabile Anastasio venuto ad abitare nel monastero ubicato al centro della valle, nel luogo ove si conserva oggi la basilica romanica a lui dedicata41.
24Dell’esistenza di quest’insediamento monastico in epoca anteriore alla metà del vi secolo dà prova un papiro conservato nell’archivio arcivescovile di Ravenna, nel quale, fra i beni rivendicati dal goto Gundila, compare un monastero Sancti Aeliae che è stato identificato con quello della valle Suppentonia42. Anche se risulta assai probabile, non abbiamo dati documentari che attestino in un’epoca così alta l’utilizzo di spazi scavati nel tufo da parte dei monaci di questo cenobio.
25Le testimonianze pittoriche che abbiamo avuto modo di analizzare, a tutt’oggi inedite, si conservano all’interno della cosiddetta Grotta di San Leonardo scavata nel banco di tufo proprio al di sotto dell’abitato di Castel Sant’Elia e risalgono in massima parte all’xi secolo, epoca durante la quale è attestato un rinnovato interesse nei confronti dell’eremitismo43. È sicuro, tuttavia che l’adibizione dell’ambiente a luogo di culto risalga ad una fase anteriore, visto che in prossimità dell’angolo sud-ovest del vano principale emerge uno strato più antico, la cui cronologia è imprecisabile ma ragionevolmente non troppo a ridosso dell’intervento di xi secolo, dal momento che l’intonaco di quest’ultimo lo ricopre interamente lasciandone trasparire soltanto un lacerto in corrispondenza di una lacuna. Un dato ulteriore offre il brano pittorico successivo alla seconda fase, databile al xiv secolo, che conserva le tracce di un personaggio identificabile certamente con Leonardo da Nobiliacum, titolare del luogo (tav. 5 b). Secondo una biografia del santo, riferibile al 1030, Leonardo sarebbe vissuto nella regione di Limoges intorno alla prima metà del vi secolo44. Discepolo di san Remigio, avrebbe condotto vita eremitica, operato molti miracoli e fondato un monastero45. Tra l’xi e il xii secolo il suo culto incontra grande diffusione in tutta Europa e in Italia centrale non sono pochi gli eremi a lui dedicati46. È probabile, perciò, che il santuario di Castel Sant’Elia sia stato dedicato a Leonardo per via della sua fama di asceta. La scoperta del trecentesco ritratto del santo all’interno dell’ambiente rupestre, pur nella sua irrimediabile lacunosità, acquista un valore che va al di là del dato materico poiché estende all’intero arco del medioevo l’eco dell’eremitismo nella valle Suppentonia.
2 – IL CULTO MICAELICO
26Tra i fenomeni all’origine della pittura rupestre, un peso determinante dev’essere attribuito al culto micaelico, almeno per quanto riguarda il territorio preso in esame. La devozione per l’arcangelo Michele, ovviamente, va ben al di là dell’universo delle grotte, basti pensare all’altissima percentuale di chiese sub divo edificate in suo onore47. Già nei primi secoli dell’altomedioevo, tuttavia, le componenti naturali dell’antro vengono a legarsi in modo indissolubile all’arcistratega celeste. Le superfici irregolari e accidentate della roccia, l’acqua sorgiva che trasuda dalle pareti, la bellezza del paesaggio circostante e l’alta quota sono tutti elementi che concorrono a fare di ciascuna cavità rupestre in cima a una montagna un possibile santuario dedicato a san Michele.
Da Chonae al Gargano
27Uno dei più antichi luoghi di culto micaelico, certamente fra i più celebri in tutta l’Asia Minore, si trova in Frigia, presso l’antica città di Colosse, poi divenuta Chonae48. Ad esso è collegata una leggenda, nota forse già a partire dal v secolo, relativa a una sorgente che gli apostoli Giovanni e Filippo avrebbero fatto sgorgare nei pressi di Colosse, passando di là durante la loro missione evangelizzatrice. Successivamente, a causa delle proprietà miracolose dell’acqua, attribuite alla presenza di san Michele, fu edificata accanto alla fonte una cappella, divenuta in breve tempo meta di un flusso di pellegrini sempre crescente. La fama del luogo di culto finì per suscitare l’invidia dei pagani della vicina Laodicea, i quali eressero una diga in un fiume a monte del santuario pensando così di poterlo spazzar via con un’inondazione. Provvidenzialmente, alla minaccia di distruzione pose fine l’intervento dell’arcangelo, che consentì il deflusso delle acque fluviali aprendo un’enorme voragine nel terreno49. Il racconto agiografico rivela un mito eziologico che trova effettivo riscontro nella presenza di numerose sorgenti presso il sito di Chonae alle quali la fede popolare ha da sempre attribuito proprietà miracolose50.
28È probabile che, già nel v secolo, il culto micaelico, associato alle virtù curative dell’acqua sorgiva, abbia trovato il suo primo polo di irradiamento occidentale in una grotta sul monte Sant’Angelo del Gargano. Fra vi e vii secolo la fama del santuario pugliese acquistò dimensioni tali da trasformare la cavità rocciosa in una delle mete di pellegrinaggio più frequentate dell’Europa medievale51. L’Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano, leggenda redatta in lingua latina nell’viii secolo ma derivante da una versione greca più antica52, evoca l’origine mitica del luogo rupestre indicando proprio nell’acqua che affiora dalla roccia il fulcro della sacralità :
ex ipso autem saxo, quo sacra contegitur aedis, ad aquilonem altaris dulcis et nimium lucida guttatim aqua delabitur, quam incolae stillam vocant53.
29Le stille venivano raccolte in vasi di vetro sostenuti da catene d’argento ancorate al calcare della volta in modo da permettere ai fedeli di abbeverarsi o di bagnare alcune parti del corpo traendo così sollievo da afflizioni e malattie, secondo una prassi che s’è perpetuata fino ai giorni nostri54. La descrizione della grotta garganica occupa uno spazio considerevole nel testo dell’Apparitio :
Erat autem ipsa domus angulosa, non in morem operis humani parietibus erectis, sed instar speluncae preruptis et sepius eminentibus asperata scopulis, culmine quoque petroso diversae altitudinis, quod hic vertice tangi, alibi manu vix adtingi; credo docente archangelo Do-mini, non ornatus lapidum, sed cordis quarere et dirigere puritatem55.
30Il santuario del Gargano non è, dunque, opera dell’uomo ma antro di origine naturale eletto a luogo di culto per la compresenza di elementi che definiscono lo spazio sacro56. Nel racconto dell’Apparitio, secondo un topos che ricorre di frequente nelle fonti agiografiche in riferimento all’istituzione del luogo di culto, l’arcangelo acquista sembianze animali per indicare ai fedeli l’esistenza del santuario micaelico in cima al Gargano57. Nel caso specifico si tratta di un toro, carico di un valore simbolico aggiunto, dal momento che in esso è stata vista un’allusione alla persistenza dei culti pagani58. Il bovino che prende possesso della grotta in cima alla montagna incarnerebbe l’antagonista del toro idolo del dio Mitra, se è vero che dietro alla leggenda garganica si nasconde l’intervento evangelizzatore della Chiesa teso a distogliere l’attenzione dei fedeli dal mitraismo per indirizzarla alla creatura angelica venuta dal cielo59. Il transfert cultuale trova una corrispondenza a Sutri, nell’alto Lazio, dove la chiesa rupestre di Santa Maria del Parto, assai prima di divenire luogo di culto micaelico, attestato dall’immagine dell’arcangelo che incombe sulla volta e da un pannello con la leggenda garganica dipinto all’entrata, era stata adibita a santuario mitraico, come dimostra la sicura provenienza dalla parete di fondo di un rilievo con la tauromachia conservato nelle vicinanze60.
Transfert di sacralità
31Ad imitazione del centro garganico, qualsiasi spazio rupestre di origine naturale diviene potenziale luogo di culto tributato all’arcangelo61. Si sviluppano in tal modo, nel corso del Medioevo, i santuari del monte Tancia, del monte Monaco di Gioia, di Avella, Asprano, Arpino, Montoro e Ninfa per non citare che i casi incontrati nel territorio oggetto del nostro studio. La consapevolezza della funzione di prototipo che la grotta del Gargano esercita nei confronti delle cavità rocciose disseminate sulle alture si riscontra nel Chronicon Casinense, redatto tra l’viii e il ix secolo :
Inter Capuam, Teanum, nec non Aliphem auditur esse mons quidam, in quo dicitur adesse angelica virtus, ad instar beati Michaelis arcangeli in monte Gargano, ita stillari aquam, et iugiter effondi criptam, et potere basilicam, atque ibidem divina crebro fieri prodigia62.
32Talvolta il processo di imitazione si trasforma in ostile rivalità, come nel caso del vescovo della diocesi salernitana intenzionato a valorizzare il culto micaelico all’interno del santuario di Olevano sul Tusciano per contrapporlo a quello del Gargano in modo da deviare verso Salerno il flusso dei pellegrini diretti in Puglia63. In alcuni casi la grotta viene addirittura creata artificialmente nell’intenzione di stabilire un «transfert di sacralità» con il santuario del monte Gargano64. È ciò che accade all’oratorio fatto costruire a Roma da papa Bonifacio V (619-625) sulla sommità della mole adriana non ancora divenuta Castel Sant’Angelo :
Sed non multo post, Romae, venerabilis etiam Bonifacius pontifex ecclesiam, Sancti Michaelis nomine constructam dedicavit, in summitate Circi, criptatim miro opere altissime porrectam. Unde et isdem locus in summitate sui continens ecclesiam, inter nubes situs vocatur65.
33Con il termine criptatim non c’è dubbio che si è voluto alludere all’emulazione della grotta garganica66. Un esempio analogo si ricava dalla Revelatio ecclesiae sancti Michaelis archangeli in Monte Tumba (ix secolo), a proposito del celebre santuario francese di MontSaint-Michel67. Stando a quanto riportato dalla fonte, agli inizi dell’viii secolo il vescovo Oberto fece costruire sul promontorio della Normandia una cripta in monte Gargano volens exaequare formam68. Del resto è attestato che lo stesso vescovo riportò dal Gargano un frammento della roccia della grotta, segno che il calcare del santuario pugliese aveva assunto il valore di sacra reliquia69.
L’arcangelo e l’eremita
34Non di rado in un santuario rupestre il culto micaelico convive con la devozione nei confronti di un eremita70. Quest’ultimo di solito subentra in un secondo momento, quando già da tempo la cavità rocciosa è intitolata all’arcangelo, e tuttavia non entra in conflitto con la creatura celeste anzi la invoca a protezione dalle insidie del demonio. L’aura sacrale che avvolge una grotta dedicata all’arcangelo è di per sé diversa da quella che caratterizza una cavità rocciosa frequentata da un monaco dedito alla vita solitaria. Nelle grotte micaeliche la santità del luogo è imperniata sulla forza ctonia dell’arcangelo guardiano del monte. Animato dallo spirito divino, san Michele ha la facoltà di scatenare tempeste manifestandosi nei temporali, nel soffio del vento, nello sgorgare di una sorge.nte d’acqua71. All’interno dell’eremo, invece, la dimensione del sacro è raggiunta tramite la penitenza e la pratica della solitudine di un essere umano che lo abita a causa della sua inospitalità, pur riconoscendo il più delle volte l’amenità del luogo72. Il caso di san Nilo di Rossano dimostra la possibilità di convivenza dei due aspetti del sacro all’interno stessa grotta. Stando al racconto del bios l’anacoreta si rifugia in una cavità rocciosa presso un piccolo santuario di San Michele diventando «un angelo corporale»73.
35Nel raggio territoriale della nostra indagine casi simili non mancano, come ad esempio il santuario di San Michele sul monte Monaco di Gioia74. All’interno della cappella costruita e decorata sul finire dell’xi secolo o agli inizi del successivo in un recesso dell’antro, il piccolo personaggio dipinto ai piedi dell’immagine della Vergine in trono, con aureola e scapolare, fa pensare, più che al committente, a un santo benedettino, forse lo stesso Benedetto (tav. 81 d). La sua effigie, insieme all’esistenza di una serie di ambienti ricavati al livello inferiore della grotta, portano a credere che all’epoca dell’intervento pittorico il santuario fosse abitato da uno o più monaci rivolti alla vita ascetica. Il fatto che il luogo fosse da tempo dedicato all’arcangelo Michele non sembra aver ostacolato l’insediamento di un cenobio, anzi, appare evidente che da parte dei monaci la coabitazione sia stata intenzionale.
36Un altro caso esplicativo dell’intimo legame che può instaurarsi tra un monaco e l’arcangelo all’interno di un paesaggio rupestre è evocato da Gregorio Magno nei suoi Dialoghi. A conclusione del racconto di esempi di vita ascetica nella valle Suppentonia, Gregorio racconta che una notte, dalla rupe più alta, laddove oggi troviamo una cappella medievale dedicata a san Michele75, una voce annunziò al venerando monaco Anastasio che di lì a poco sarebbe passato a miglior vita76. Poco dopo, la medesima voce chiamò pure i suoi otto confratelli, pronunciando i loro nomi. Qualche giorno più tardi Anastasio morì e così uno dopo l’altro, nell’ordine in cui erano stati chia-mati dall’alto della falesia, salirono al cielo anche gli altri membri del cenobio.
37L’episodio trova posto nel ciclo di pitture eseguite, agli inizi del xii secolo, all’interno del transetto della basilica romanica di Sant’Anastasio che si erge nel fondovalle a breve distanza77 : accanto a un grazioso individuo che suona le campane a lutto, incorniciati dal profilo arcuato di un antro naturale, giacciono i monaci della piccola comunità mentre, poco più in là, una figura alata benedicente, che incarna la voce divina del racconto gregoriano, sembra potersi identificare con san Michele nelle vesti dell’angelo psicopompo.
San Michele e la schiera angelica
38L’ubiquità di san Michele, la sua presenza aleggiante in ogni recondito anfratto roccioso, si riflette nel rivelarsi spesso come creatura indistinta che può confondersi con una moltitudine di presenze angeliche, anziché apparire nelle sue specifiche sembianze. Nei pannelli bronzei della porta bizantina del santuario garganico, all’esaltazione dell’arcistratega celeste concorrono le immagini di altri esponenti delle schiere alate, come il suo parigrado Gabriele e molti indistinti «angeli del Signore»78. Nella Chronica monasterii sancti Michaelis Clusini, fonte dell’xi secolo, è ricordata la battaglia che l’arcangelo compie cum suis angelis contro il dragone dell’Apocalisse di Giovanni (12, 7)79. Nella coeva leggenda dell’Apparitio Sancti Michaelis in monte Tancia, la grotta viene sì dedicata all’arcangelo Michele, ma per il possesso dell’antro si scatena la lotta inter angelos et bestiam80. Anche nel caso dell’ipogeo di Arpino, le ripetute immagini di angeli, arcangeli e serafini dipinte sulle pareti rocciose fanno pensare al culto collettivo delle potenze angeliche, probabilmente in connessione con una fonte d’acqua, più che alla devozione nei confronti del solo Michele, titolare del sacro luogo81.
Un’immagine assente
39Immanente alle componenti naturali che costituiscono il paesaggio rupestre, l’arcangelo non ha un ruolo di primo piano fra le pitture che si trovano all’interno dei santuari micaelici. Accade perfino che san Michele sia del tutto assente dai temi iconografici prescelti e ciò non può essere attribuito soltanto all’eventuale scomparsa di una parte dell’originaria superficie pittorica a causa del trascorrere dei secoli e delle devastazioni82.
40Nel santuario del monte Tancia (tav. 59 c), uno fra i più frequentati dai pellegrini devoti a san Michele, la decorazione si concentra esclusivamente su un altare-ciborio addossato alla parete, che segue un repertorio figurativo di antica tradizione e trascura completamente la rappresentazione dell’arcangelo. Che sia quest’ultimo il titolare della grotta, fin dall’origine, è però fuori dubbio, dal momento che il Chronicon farfense, in una donazione dell’anno 774, menziona una grotta Sancti Angeli in un gualdum qui cognominatur Tancia83. Similmente, nella grotta del monte Monaco di Gioia, s’è conservato nella sua integrità il programma pittorico originario che ha escluso dal folto numero di soggetti l’immagine di Michele84. Anche nel caso della chiesa rupestre di Sant’Angelo in Asprano la figura dell’arcangelo è del tutto assente : lo strato di xii secolo si limita alla decorazione dell’abside dove è rappresentata un’Ascensione secondo un modello assai diffuso fra Lazio e Campania (tav. 68 a)85; non solo, abbiamo ragione di credere che pure la pittura dello strato inferiore, verosimilmente di x secolo, escludesse l’immagine dell’arcangelo, visto che in corrispondenza del personaggio centrale si scorge un piede con sandalo che fa pensare all’originaria presenza di una raffigurazione di Cristo, non certo al san Michele, nelle versioni monumentali tradizionalmente rappresentato con le vesti imperiali che impongono i calzari86.
41Il fatto che le pitture all’interno di un santuario rupestre intitolato a san Michele possano escludere l’immagine dell’arcangelo trova una spiegazione nella sfera cultuale. Quest’ultima, come abbiamo visto, trae nutrimento dalle componenti naturali del luogo che concorrono a rivestire la cavità rocciosa di un’aura di sacralità, tanto che gli elementi aggiunti dalla mano dell’uomo, al confronto, hanno scarso valore. Nell’Apparitio garganica, come pure nella Revelatio in monte Tumba, che della leggenda del santuario pugliese riprende numerosi riferimenti testuali87, è spiegato come la chiesa non si distingua per il rifulgere dei metalli, ma per il privilegio dei miracoli88. È altresì ricordato che l’arcangelo costruì il santuario del Gargano propria manu89, secondo un concetto che affonda le radici nella spiritualità bizantina, come ci ricorda la chiesa cipriota della Panaghia Angheloktistos, appunto «fondata dagli angeli»90. A san Michele, d’altronde, non si deve soltanto la fondazione del santuario garganico ma anche la successiva consacrazione91. Lo stesso pensiero è ribadito nella Cronica monasterii Clusini dove non si tralascia di precisare che l’altare all’interno della chiesa, scavato nella roccia stessa del monte dall’eremita Giovanni secondo le indicazioni fornitegli dall’arcangelo92, è da considerarsi senza dubbio opera prodotta manibus angelicis93. A purificarlo con olii e balsamo per poi consacrarlo, prima che il vescovo celebri la messa, sono sempre le creature angeliche presenti all’officio della divina liturgia94, come è dato vedere nell’iconografia della Comunione degli apostoli a partire dall’xi secolo95 e secondo quanto riferito in un passo di Isaia (6, 1-3)96. All’opera forgiata dalla mano dell’uomo, insomma, è preferito lo splendore di quella divina, e la presenza dell’arcangelo, insita in ogni elemento della natura, non necessita di essere rappresentata in pittura.
Iconografia micaelica
42Ciò non vuol dire, ovviamente, che l’iconografia dell’arcangelo non abbia incontrato una sua ampia diffusione, com’è noto, nell’ambito della produzione artistica medievale, a prescindere dall’habitat rupestre. La raffigurazione dell’arcangelo si ramifica precocemente in tre tipologie : la versione più comune, che attraversa immutata l’intero arco del Medioevo, è quella che lo vede vestito degli abiti di corte, con loros gemmato, labaro e globo, nella foggia che corrisponde alla veste dell’imperatore di Bisanzio, come appare nelle grotte di Calvi o nell’insediamento di Fasani (tav. 73 c)97. Attestata soprattutto in epoca longobarda, ma assente nei casi pittorici esaminati, risulta pure la versione del santo guerriero, rappresentato nell’atto di trafiggere con la lancia il drago simbolo della potenza demoniaca98.
43Di antica tradizione e lunga durata è, infine, l’immagine dell’arcangelo psicopompo che pesa le opere buone e malvagie dei defunti nel ruolo di arbitro del destino umano99. La si incontra nel casertano, a Rongolise e nella Grotta dei Santi a Calvi, oltre che nel Lazio meridionale, all’interno della grotta di Ninfa (tav. 78 a)100.
44Esiste poi un vero e proprio ciclo agiografico micaelico estrapolato dall’Apparitio garganica. Se si eccettua il perduto brano con la figura di un toro che si conservava all’interno del santuario del monte Sant’Angelo, assegnabile a un’epoca piuttosto alta, fra il ix e il x secolo, in passato riferito con certezza alla leggenda del Gargano101, le versioni pittoriche medievali di questo tema iconografico sono assai rare, tant’è che la presenza di tre testimonianze all’interno del territorio della Tuscia, due delle quali in contesti rupestri, non può che destare vivo interesse102. Casi altolaziali stanno ad indicare l’importanza del santuario del Gargano in un’area geografica assai distante ma al tempo stesso indissolubilmente legata al luogo di culto pugliese grazie alla via Francigena percorsa da un flusso incessante di pellegrini provenienti da diverse parti d’Europa103.
45Nel santuario di San Vivenzio a Norchia, entro il primo quarto del xii secolo, vengono eseguiti tre riquadri corrispondenti alla successione delle apparizioni dell’arcangelo sulla montagna, in sogno al vescovo di Siponto e nella grotta del Gargano al momento della consacrazione dell’altare (tav. 55 c)104. Il ciclo di Norchia, scoperto fortuitamente poco più di un decennio fa, rappresenta una delle versioni più antiche di questo tema iconografico giunte fino a noi. A pochi chilometri di distanza, all’inizio del xiv secolo la chiesa rupestre sutrina di Santa Maria del Parto ospiterà lo stesso racconto, sulla pare-te d’ingresso, stipato però in un unico riquadro.
3 – I LOCA SANCTA NELLE CATACOMBE
Il cimitero di Ponziano
46Nella Notitia ecclesiarum urbis Romae, guida ai loca sancta delle catacombe del suburbio romano composta da un anonimo del vii secolo, quando si passa a descrivere il cimitero di Ponziano, presso la via Portuense, viene annotato che omnis illa spelunca inpleta est ossibus martyrum105. Per il visitatore dell’epoca, quindi, il complesso ipogeo, scavato a più piani nel terreno argilloso della collina di Monteverde, altro non è che una spelunca, una grotta che si insinua nelle profondità del terreno. Del resto, la funzione cimiteriale del complesso di Ponziano, come per quasi tutte le catacombe del suburbio romano, si era già esaurita almeno da un secolo. Le cause dell’irreversibile abbandono dei cimiteri ipogei, fra v e vi secolo, sono state individuate nelle violente incursioni dei goti, nei cedimenti strutturali delle gallerie scavate nel tufo spesso troppo friabile, nella traslazione intra muros delle spoglie dei martiri ivi sepolti106.
47La persistenza della fortuna del cimitero di Ponziano in età altomedievale risiede nella presenza in questo luogo dei sepolcri di numerosi martiri, alcuni dei quali, come Abdon, Sennen, Pollion, Pumenio, vengono ritratti, più o meno al tempo della Notitia ecclesiarum, su pannelli votivi all’interno di una delle gallerie sotterranee (tav. 26 a)107. Quest’ultime erano state in parte sbarrate con cortine murarie al fine di creare un percorso obbligato che i fedeli dovevano seguire per non smarrire la strada all’interno del labirinto ipogeo108.
48Ai pellegrini dell’altomedioevo, insomma, i loca sancta in corripondenza dei cimiteri sotterranei del suburbio romano dovevano apparire assai simili a un qualsiasi santuario rupestre e quindi non ci sorprende riscontrare che molti secoli dopo, Francesco Petrarca, tracciando l’itinerario di una visita nell’urbe per l’anno giubilare 1350, nella lettera ad un amico, segnali il cimitero ipogeo di Callisto presso le catacombe di san Sebastiano come Calixti specus109.
49Visto che nella Notitia ecclesiarum il termine spelunca viene impiegato per molte altre catacombe del suburbio romano110, c’è da domandarsi se in epoca medievale l’aspetto «rupestre» possa aver contribuito ad accrescere la sacralità dei sepolcri sotterranei. Il loro apparire come antri naturali, infatti, li avvicinava ai loca sancta della Palestina, come la grotta della Natività, del Getsèmani, del Golgotha e dell’Ascensione, luoghi ove erano proprio le cavità o le asperità della roccia naturale a conservare la memoria tangibile dei sacri eventi111.
Albano, Bolsena e Prata
50Tornando al versante latino, la nostra indagine su scala regionale ci ha permesso di rilevare come il fenomeno dei santuari originatisi all’interno dei complessi catacombali abbia interessato altre aree oltre l’anello suburbano della città di Roma. Nella cosiddetta «cripta venerata» delle catacombe di Senatore ad Albano, che la tradizione identifica con il luogo ove furono deposte le spoglie del santo eponimo, una serie di interventi pittorici databili fra vii e xiii secolo attesta la trasformazione dell’ambiente in santuario martiriale durante il Medioevo (tavv. 21, 61 a)112. Analogamente, a Bolsena, le pitture rinvenute di recente nell’ambiente antistante le catacombe di santa Cristina, riferibili agli ultimi decenni dell’xi secolo, costituiscono la prova della devozione mai sopita nei confronti della martire cristiana, ivi sepolta, si pensa, nel iv secolo (tavv. 2, 54 a). In età medievale, infatti, il santuario altolaziale era divenuto una tappa fondamentale dell’itinerario della via Francigena percorso dai pellegrini diretti a Roma dal nord Europa113. Nel xvi secolo Alessandro Donzellini fornisce una descrizione delle catacombe e del sepolcro di Cristina al suo interno con ripetuti accenni alla natura rupestre degli ambienti :
[...] in speluncam protenditur, circumque varis prae cingitur cuniculis, ubi adhuc mirae magnitudinis cernuntur ossa mortuorum, situm est in cavo Montis Tufacei [...]114.
51Anche il caso della basilica dell’Annunziata di Prata desta interesse a questo riguardo. La piccola abside scavata nel tufo, inglobata dalla muratura del triphorion presbiteriale in età longobarda, rappresenta, assai verosimilmente, ciò che rimane di una basilichetta scavata all’interno di un grande cimitero ipogeo d’epoca paleocristiana115. Lo si desume, oltre che dalle evidenze archeologiche, dall’analisi del palinsesto di intonaci dipinti che la piccola superficie con-cava tutt’ora conserva (tav. 83 a).
52Il primo strato, emergente soltanto in corrispondenza della zona inferiore, presenta figurazioni di animali fantastici che rimandano al repertorio iconografico e formale appartenente al tardo-antico. Il secondo, di vi-vii secolo, lascia scorgere la sagoma di un trono ubicato nella zona centrale riferibile, verosimilmente, all’immagine della Vergine. Del terzo strato, risalente all’viii-ix secolo, resta parte di un personaggio laterale, una santa martire che affiancava il soggetto centrale, ancora una volta, presumiamo, identificabile con la Theotokos. Il quarto, infine, frutto di una decorazione pittorica databile sullo scorcio del xii secolo conservatasi quasi nella sua interezza, raffigura la Vergine con le braccia sollevate affiancata da due sante anch’esse ritratte nel gesto dell’orante. Il mantenimento dell’abside primitiva all’interno del complesso basilicale medievale si deve probabilmente alla volontà di conservare un’unità spaziale che era stata il fulcro cultuale del nucleo cimiteriale originario.
La dimensione rupestre e l’universo ipogeo
53Se prendiamo in considerazione le catacombe cristiane in rapporto al loro uso primitivo, esse risultano senza dubbio appartenere a una tipologia di insediamento con caratteri suoi propri. La funzione funeraria, la caratteristica articolazione e distribuzione degli spazi, l’originalità del linguaggio figurativo elaborato nei programmi pittorici, sono tutti elementi che contribuiscono a conferire all’universo catacombale uno statuto di autonomia. Se però volgiamo lo sguardo a quel numero ristretto ma significativo di complessi cimiteriali che in età medievale risulta ancora aperto al pubblico dei fedeli, come attestano le pitture di quest’epoca in essi conservate, ci rendiamo conto di come le analogie con i contemporanei luoghi di culto in grotta vadano al di là della suggestione di un viaggiatore del vii secolo.
54Eppure, fino ad oggi, la storiografia relativa alle catacombe cristiane non sembra aver colto punti di contatto fra i cimiteri ipogei e i luoghi di culto rupestri, sebbene siano riconducibili entrambi al fenomeno dello sfruttamento della roccia naturale per uso religioso116. Il discrimine tra le due forme d’insediamento consisterebbe, essenzialmente, nel fatto che le catacombe si sviluppano nel sotterraneo, mentre gli ambienti rupestri all’interno di rilievi rocciosi. Nel caso delle catacombe di San Valentino sulla Flaminia, tuttavia, per citare un esempio fra quelli presi in esame, le gallerie sono scavate a più piani nel banco tufaceo della collina e quindi la distinzione diviene assai labile117.
55Alle similitudini riguardanti il contesto geomorfologico si sommano, inoltre, specifiche assonanze di altro genere. Per quanto riguarda la distribuzione dei due fenomeni insediativi sul territorio, incide ovviamente il fattore comune del condizionamento ambientale. Come abbiamo visto per gli insediamenti rupestri, anche le catacombe insistono su quelle aree geografiche nelle quali è possibile l’escavazione118. La loro diffusione è piuttosto limitata : all’anello del suburbio romano, vanno aggiunti i cimiteri ipogei che s’incontrano sporadicamente nel Lazio e in alcune zone della Campania119. Al di fuori dell’area oggetto della nostra ricerca, catacombe di rilevante estensione si trovano in Sicilia, a Malta e in altre zone circoscritte del Mediterraneo120.
Elementi di identità
56Altri aspetti che accomunano i santuari rupestri a quelli ricavati in contesti catacombali in epoca medievale sono individuabili nell’ambito stesso della produzione pittorica121. Oltre alle similitudini riguardanti la tecnica d’esecuzione dei dipinti, che il più delle volte viene a coincidere, dal momento che il supporto parietale è costituito in entrambi i casi dalla roccia naturale, non va tralasciato il carattere iconico dei soggetti raffigurati : pannelli isolati con santi in posa frontale, correlati da iscrizioni votive costituiscono la norma in ambedue i casi.
57Un altro fattore che riduce la distanza fra i due fenomeni va ricercato nella sfera cultuale. Nel caso del cimitero di Ponziano, come abbiamo visto la presenza delle tombe dei martiri si è rivelata un elemento destinato a contrastare il generale e inesorabile processo di abbandono122. L’adibizione dell’ambiente sepolcrale ad oratorio o piccola cappella ipogea, con la sua conseguente trasformazione in luogo di culto e meta di pellegrinaggio, avvicina infatti questi ambienti alla tipologia degli spazi rupestri intitolati all’arcangelo Michele o a un santo eremita123. Anche nei santuari micaelici e negli eremi, del resto, può accadere che le spoglie dei santi custoditi all’interno della grotta possano diventare l’elemento trainante del culto locale nonché uno strategico strumento di controllo sociale per le autorità civili o religiose. Si pensi al principe Arechi II che nell’viii secolo tentò di sottrarre all’eremo del monte Massico le reliquie del beato Martino124, oppure all’abate Berardo e al vescovo Giovanni che intorno al 1050, contendendosi il santuario di san Michele sul monte Tancia, concentrarono sul piccolo altare addossato alla roccia e sulle reliquie in esso contenute il valore simbolico del dominio del luogo125.
58Il trasferimento delle reliquie dalle catacombe alle basiliche intra moenia tuttavia, non ha necessariamente determinato il completo abbandono dei complessi cimiteriali126 : quando viene dipinto il busto di Cristo sulla volta soprastante la rampa d’accesso al cimitero di Ponziano, e cioè, verosimilmente, durante l’xi secolo, le reliquie dei santi orientali erano state già da molto tempo trasferite nell’area monumentale del sopraterra127. Un esempio analogo è quello del Cristo e del sant’Urbano nella cripta di santa Cecilia all’interno delle catacombe di San Callisto (tav. 64 a)128. Anche in questo caso le pitture sono databili all’xi secolo mentre la traslazione delle spoglie della martire Cecilia dal piccolo ambiente ipogeo all’omonima basilica di Trastevere è attestata nel primo quarto del ix secolo129.
59Per assistere al definitivo esaurimento del processo di produzione pittorica all’interno delle catacombe, manifestatasi in casi sporadici ma assai significativi durante l’intero arco dell’età medievale, si dovrà quindi attendere l’alba dell’età moderna.
Notes de bas de page
1 Sulla figura di Paolo di Tebe, cfr. G. Calió e A. Cardinali, Paolo di Tebe, in Bibl.SS, X, Roma, 1968, coll. 269-280. Sul ciclo agiografico del portico di Sant’Angelo in Formis : P. Anker, K. Berg, The Narthex of Sant’Angelo in Formis, in Acta archeologica, XXIX, 1958, p. 95-110.
2 Vita Sancti Pauli primi eremitae, in PL, vol. 23, 1845, coll. 17-28. Sul luogo ove si crede abbia vissuto san Paolo eremita, nell’entroterra desertico del Mar Rosso, sorge un monastero tuttora in funzione, sviluppatosi in età medievale su un nucleo insediativo scavato nella roccia : P. Van Moorsel, Le monastère de Saint-Paul près de la mer Rouge, Cairo, 2002, p. 3-15.
3 «[...] tamdem reperit saxeum montem, ad cujus radices haud grandis spelunca, lapide claudebatur. Quo remoto [...], avidius explorans, animadvertit intus grande vestibulum, quod aperto desuper coelo, patulis diffusa ramis vetus palma contexerat, fontem lucidissimum ostendens [...]» Vita Sancti Pauli cit., col. 21.
4 G. Calió, A. Cardinali, Paolo di Tebe cit., col. 272.
5 Vita Sancti Pauli cit., coll. 20-21.
6 Ibid., col. 25.
7 Sui loca sanctorum associati all’eremitismo medievale in Occidente : G. P. Bognetti, I «Loca Sanctorum» cit., p. 110; S. Boesch Gajano, Agiografia cit., p. 217-220; Eadem, Paesaggio cit., p. 9-22. Sul Meridione d’Italia come «nuova Tebaide», cfr. : J.-M. Martin, L’érémitisme grec cit., p. 180-181.
8 J. Le Goff, Il deserto-foresta nell’occidente medievale, in Id., Il meraviglioso e il quotidiano nell’occidente medievale, traduzione di G. Arnaldi, Roma, Bari, 1983, p. 27-44 (p. 27). Sul recupero dell’altura da parte di monaci ed eremiti, nell’occidente medievale : L. Pani Ermini, Il recupero dell’altura nell’altomedioevo, in Ideologie e pratiche del reimpiego nell’alto medioevo, 2 voll., Spoleto, 1999 (Sett.CISAM, XLVI), II, p. 613-664, spec. 642-648.
9 Riguardo ai monasteri rupestri della Cappadocia : S. Kostof, Caves of God. The Monastic Environment of Byzantine Cappadocia, Cambridge (Massachusetts), 1972, spec. p. 41-64; in riferimento al versante medioerientale : J. Patrich, Sabas Leader of Palestinian Monasticism. A Comparative Study in Eastern Monasticism, Fourth to Seventh Centuries, Washington D. C., 1995, p. 60-164; P. Van Moorsel, Le monastère de Saint-Paul cit., p. 3-15; per le aree dell’Italia meridionale di influenza greca : P. Dalena, I monasteri benedettini in rupe : un problema storicoarcheologico, in C. D. Fonseca, a cura di, L’esperienza monastica benedettina e la Puglia. Atti del Convegno di Studio organizzato in occasione del XV centenario della morte di san Benedetto, Bari e altrove, 16-10 ottobre 1980, 2 voll, Galatina, 19831984, II, p. 313-332, spec. p. 313-319, 324, 326.
10 Un sostanziale scetticismo nei confronti dell’esistenza di insediamenti benedettini in grotta, in Italia meridionale e soprattutto in Puglia, è stato espresso da Pietro Dalena : Ibid., p. 319-332; Id., Organizzazione e funzione culturale del monachesimo nella Puglia rupestre medioevale (sec. x-xiii), in G. Andenna, H. Houben, B. Vetere, Tra nord e sud cit., p. 123-153 (p. 149).
11 P. Dalena, I monasteri cit., p. 321-322. Per quanto riguarda la grotta dei Santi a Calvi, prendendo le dovute distanze dalla genericità del giudizio di Émile Bertaux (É. Bertaux, L’art dans l’Italie cit., p. 243-250), l’ipotesi di un’occupazione del sito da parte di monaci benedettini si può a nostro avviso sostenere, ma soltanto se ci si riferisce al periodo coincidente con la prima fase della produzione pittorica (x secolo), che risulta priva dei caratteri di laicità che caratterizzano gli interventi pittorici successivi e si colloca in un contesto geografico-culturale dove è attestato, a partire dalla fine del ix secolo, l’arrivo dei monaci di Montecassino scampati alle insurrezioni dei saraceni, cfr. S. Piazza, Le pitture cit. Sul mito storiografico di un’arte benedettina, v. infra, p. 220.
12 Nel Chornicon farfense Gregorio di Catino cita espressamente la provenienza di Lorenzo dalla Siria (Gregorio di Catino, Chronicon farfense, a cura di U. Balzani, 2 voll., Roma, 1903, I, p. 128), mentre dal suo Regesto, apprendiamo che lo stesso giunse in Sabina temporibus gothorum, quindi nella prima metà del vi secolo (493-526), in compagnia della sorella Susanna e dei discepoli Isacco e Giovanni (Id., Il regesto di Farfa, a cura di I. Giorgi e U. Balzani, 4 voll., Roma, 1879, II, p. 4). Sulle notizie relative a Lorenzo Siro riportate da Gregorio di Cati-no, cfr. U. Longo, Agiografia e identità monastica a Farfa tra xi e xii secolo, in Cristianesimo nella storia, 21, 2000, 2, p. 311-341, spec. p. 321 e n. 28.
13 Nel privilegio concesso nel 705 da Giovanni VII all’abate di Farfa, Tommaso di Morienna, in riferimento alle origini dell’abbazia, viene detto che il vescovo Lorenzo de peregrinis veniens in feudo, qui dicitur Acutianus (Gregorio di Catino, Regesto di Farfa cit., II, p. 23). Il manoscritto di Cerchiara, attribuito all’xi secolo ma noto soltanto da una trascrizione settecentesca e quindi considerato di non certa autenticità, precisa l’anno nel quale il monaco orientale sarebbe stato eletto vescovo della Sabina, e cioè il 554 (cfr. T. Leggio, L’abbazia di Farfa tra «Longobardia» e «Romania ». Alcune congetture sulle origini, in Rapporti tra le comunità monastiche benedettine italiane tra alto e pieno Medioevo, Atti del III convegno del «Centro di Studi Farfensi», Santa Vittoria in Matenano, 11-13 settembre 1992, Verona, 1994, p. 157-178, spec. p. 168-169).
14 Supra, p. 65-68.
15 Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 326-336.
16 Ibid., II, p. 334.
17 S. Boesch Gajano, Agiografia cit., p. 209-220.
18 U. Zannini, San Martino cit., p. 18-21.
19 Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 334.
20 U. Zannini, San Martino cit., p. 38-43.
21 Chronicon vulturnense cit., III, p. 127.
22 Bulla Paschalis I. Romani Pontificis, in RIS1, I, 2, p. 384-386 (p. 384).
23 Chronicon vulturnense cit., I, p. 302, 374-375; G. Guadagno, Bernardo cit., p. 97-98.
24 Infra, p. 215-217.
25 Infra, p. 216.
26 Infra, p. 203-208.
27 Chronicon vulturnense cit., I, p. 302-303; U. Zannini, San Martino cit., p. 23.
28 Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 132.
29 Ibid., p. 134. Per le miniature del Vat. Lat. 1202, cfr. B. Brenk, Das Lektionar des Desiderius von Montecassino Cod. Vat. Lat. 1202. Ein Meisterwerk Italienischer Buchmalerei des 11. Jahrhunderts, Zurigo, 1987, p. 44-45; L. Speciale, Il ciclo benedettino del Lezionario Vat. Lat. 1202 e i suoi modelli, in C. A. Quintavalle, a cura di, Medioevo : i modelli, Atti del convegno internazionale di studi, Parma 27 settembre-1° ottobre 1999, Milano, 2002, p. 673-681.
30 Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 246; B. Brenk, Das Lektionar cit., p. 57.
31 Sulla genesi dell’architettura del Sacro Speco : M. Righetti Tosti-Croce, Il Sacro Speco cit., p. 129-135; Eadem, L’architettura del Sacro Speco cit., p. 75-94.
32 Supra, p. 119.
33 Supra, p. 120.
34 Supra, p. 122.
35 «Qui et in eo specu, in quo prius Sublacu habitavit, si potentium fides exigat, miraculis coruscat», Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 246.
36 Supra, p. 120.
37 B. Cignitti, Palombo, eremita a Subiaco, santo, in Bibl.SS, X, 1968, coll. 68 69.
38 M. Righetti Tosti-Croce, Il Sacro Speco cit., p. 129-135.
39 Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 70. Sulla valle Suppentonia, luogo del monachesimo medievale, cfr. : M. P. Penteriani Iacoangeli, U. Penteriani, Nepi e il suo territorio nell’Alto Medioevo. Il Monachesimo nella Valle Suppentonia (4761131), Roma, 1999.
40 Supra, p. 47-51.
41 Ibid., p. 15-19. Sulla basilica di Sant’Anastasio a Castel Sant’Elia, v. supra, p. 47. La tradizione orale associa a Anastasio anche una grotta presso il settecentesco santuario di Santa Maria ad Rupes : V. Girolami, Stimoli cit., p. 42-43.
42 L. Cimarra, «Splendori di Bisanzio» : testimonianze della presenza bizantina nel territorio della Tuscia Romana, in Biblioteca e Società, XI, giugno 1992, p. 21-26.
43 É. Delaruelle, Les ermites et la spiritualité populaire, in L’eremitismo in Occidente nei secoli xi e xii, Atti della seconda settimana internazionale di studio, Mendola, 30 agosto-6 settembre 1962, Milano, 1965, p. 212-247 (rist. in : Id., La piété populaire au Moyen Âge, Torino, 1975, 125-154); G. Lobrichon, Erémitisme et solitude, in Monteluco e i monti sacri : atti dell’incontro di Studio, Spoleto, 30 settembre-2 ottobre 1993, Spoleto, 1994, p. 125-148, spec. p. 131-136.
44 B. Cignitti, C. Colafranceschi, San Leonardo di Nobiliacum, in Bibl.SS, VII, Roma, 1966, coll. 1198-1208.
45 Ibid., coll. 1199-1200.
46 P.-E. Robinne, L’iconographie cit., p. 17-28.
47 Al computo dei luoghi di culto micaelico in Italia aveva rinunciato Armando Petrucci, che contava «centoventi comuni o frazioni intitolati all’angelo, all’arcangelo, a san Michele; e nel conto mancano, ovviamente, i toponimi minori. Da un tale rapido conteggio risulta un panorama imponente, che, unito alla statistica delle chiese, dei monasteri, dei santuari, delle cappelle, degli oratori dedicati ovunque al celeste archistratego, potrebbe essere assunto come primo, sommario bilancio della diffusione del culto di san Michele in Italia», cfr. A. Petrucci, Origine e diffusione del culto di San Michele nell’Italia medievale, in Millénaire monastique du Mont-Saint-Michel, 5 voll., Parigi, 1966-1983, III (a cura di M. Baudot), 1971, p. 339-354. Sull’inapplicabilità di un censimento dei santuari micaelici per via dell’onnipresenza dei luoghi di culto dedicati all’arcangelo, di recente : G. Sangermano, Poteri vescovili e signorie politiche nella Campania medievale, Martina Franca, 2000, p. 96.
48 K. Belke, N. Mersich, a cura di, Phrygien und Pysidien, Vienna, 1990 (Tabula Imperii Byzantini, 7), p. 125 e p. 222-225 (s.v. Chōnai); V. Saxer, Jalons pour servir à l’histoire du culte de l’archange Saint Michel en Orient jusqu’à l’iconoclasme, in I. Vázquez Janeiro OFM, a cura di, Noscere sancta. Miscellanea in onore di Agostino Amore OFM († 1982), Roma 1985, p. 367-426, spec. 382-402. L’antichità del culto degli angeli a Colosse è attestata da una lettera di san Paolo (Col., 2, 18) : Ibid., p. 382.
49 Narratio de miraculo a Michaele arcangelo Chonis patrato, a cura di M. Bonnet, in Analecta Bollandiana, VIII, 1889, p. 287-328.
50 V. Saxer, Jalons cit., p. 387-390; G. Otranto, La montagna garganica e il culto micaelico : un modello esportato nell’Europa altomedievale, in Monteluco e i monti sacri : atti dell’incontro di studio, Spoleto, 30 settembre-2 ottobre 1993, Spoleto 1994, p. 85-124, spec. p. 87-90; G. Peers, Subtle Bodies. Representing Angels in Byzantium, Londra, 2001, p. 157-193. Sulla fortuna iconografica del miracolo di Chonae : S. Gabielic´, The iconography of the Miracle at Chonae. An inusual example from Cyprus, in Zograf, 20, 1989, p. 95-103.
51 G. Otranto, La montagna cit., p. 85-86. Per uno sguardo sui molti contributi rivolti al santuario del Gargano si rimanda a C. Carletti e G. Otranto, Il santuario di S. Michele arcangelo sul Gargano dalle origini al x secolo, Bari 1990; G. Otranto, Quindici secoli di storia per il santuario garganico : bilancio e prospettive degli studi, in C. Carletti, G. Otranto, a cura di, Culto e insediamenti cit., p. 3 12. Più di recente : Id., Genesi, caratteri e diffusione del culto micaelico del Gargano, in P. Bouet G. Otranto, A. Vauchez, Culte et pèlerinage cit., p. 43-64 (p. 51); M. Trotta, I Longobardi di Benevento e il santuario di S. Michele al Gargano : edilizia sacra e nuovi spazi cultuali tra vii e viii secolo, in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento. Atti del XVI Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Spoleto, Benevento 20-27 ottobre 2002, Spoleto 2003, 2 voll., II, p. 1649-1668; Id., Il Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano : l’individuazione dei luoghi e dei resti monumentali del v e del vi secolo, in 1983-1993 : dieci anni di archeologia cristiana in Italia. Atti del VII Congresso nazionale di archeologia cristiana, Cassino 20-24 settembre 1993, a cura di E. Russo, 3 voll., Piedimonte Matese, 2003, II, p. 761-770.
52 Per la versione latina della leggenda si rinvia all’ultima edizione : Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 1-4. Sull’Apparitio e i suoi stadi redazionali in lingua greca e latina si vedano i contributi di Giorgio Otranto : G. Otranto, Il «Liber de apparitione» cit., p. 423-442; Id., La montagna cit., p. 85-86; Id., Genesi cit., p. 43-44; e inoltre : M. Trotta, I luoghi del «Liber de Apparitione». Il santuario di S. Michele dal v all’viii secolo, in C. Carletti, G. Otranto, Culto e insediamenti cit., p. 125-165.
53 Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 4.
54 Ibid. Sul ruolo dell’arcangelo taumaturgo che guarisce mediante l’acqua : A. Dupront, Antropologia del sacro e culti popolari : il pellegrinaggio, in C. Russo, a cura di, Società, Chiesa e vita religiosa nell’Ancien Régime, Napoli, 1976, p. 156157; G. Otranto, La montagna cit., p. 90; G. Otranto, Genesi cit., p. 46, 49-50.
55 Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 3-4.
56 G. Otranto, La montagna cit., p. 90-93; I. Aulisa, La Chronica monasterii sancti Michaelis Clusini a confronto con altre tradizioni micaeliche, in Vetera Christianorum, 33, 1996, p. 29-56 (p. 39-40); G. Otranto, Genesi cit., p. 49-56. In particolare, sul culto micaelico in corrispondenza dei luoghi elevati, cfr. : M. Baylé, L’architecture liée au culte de l’Archange, in P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, Culte et pèlerinage cit., p. 449-465, spec. p. 449-451. Sulla scelta dell’ubicazione del santuario da parte dello stesso arcangelo Michele : I. Aulisa, La Chronica cit., p. 43-48.
57 Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 5. Cfr. I. Aulisa, La Chronica cit., p. 43; G. Otranto, Genesi cit., p. 48-49.
58 D. Lassandro, Culti precristiani nella regione garganica, in M. Sordi, a cura di, Santuari e politica nel mondo antico, Milano, 1983 (Contributi dell’Istituto di storia antica, IX), p. 199-209; G. Otranto, Genesi cit., p. 44-45; 48-49.
59 P. P. Fischetti, Mercurio, Mithra, Michael : magia, mito e misteri nella grotta dell’arcangelo. Prima pubblicazione di iscrizioni e affreschi paleocristiani e longobardi, Monte Sant’Angelo, 1973, p. 43-149.
60 Supra, p. 63-65.
61 Come ha scritto Giorgio Otranto «la grotta naturale, che si addentra per ventiquattro metri nelle viscere della terra; il percorso in roccia che inizialmente i pellegrini dovevano fare per raggiungere il punto più interno della cripta; l’insediamento in altura; lo scenario aspro e selvaggio della montagna garganica, ricca di dirupi, anfratti e caverne, sono i motivi che, insieme alla sorgente di acqua miracolosa, caratterizzarono da subito il culto micaelico sul Gargano e si tipizzarono fissandosi in diversi contesti storico-ambientali per tutto il medioevo» : G. Otranto, La montagna cit., p. 90-91; Id., Genesi cit., p. 53. Cfr. anche M. Sensi, I grandi santuari micaelici d’Occidente, in M. Bussagli e M. D’Onofrio, a cura di, Le ali di Dio cit., p. 126-133, spec. p. 131-132; Id., Alle radici della committenza cit., p. 219-230.
62 Chronicon Casinense, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, 3, 1839, p. 222-230 (p. 229). Cfr. G. Otranto, Il santuario tra Oriente e Occidente, in C. Carletti, G. Otranto, Il santuario cit., p. 3-76 (p. 61); Sensi, I grandi santuari cit., p. 131.
63 G. Sangermano, Poteri vescovili cit., p. 105.
64 M. Sensi, Alle radici della committenza cit., p. 219-230.
65 Martyrologium Adonis, III Kl. Oct., a cura di J. Dubois, G. Renaud, Parigi, 1984, p. 332-336 (p. 336); G. Otranto, La montagna cit., p. 101; M. Sensi, Santuari micaelici e primordi del francescanesimo, in Collectanea Franciscana, 72, 2002, p. 5-104 (p. 16-17).
66 G. Otranto, La montagna cit., p. 85-124 (p. 101).
67 Revelatio ecclesiae Sancti Michaelis, in P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, a cura di, Culte et pèlerinage cit., p. 10-15; P. Bouet, La Revelatio et les origines du culte à saint Michel sur le Mont Tombe, ivi, p. 65-90.
68 Revelatio ecclesiae cit., p. 14; G. Otranto, Genesi cit., p. 55; M. Trotta, A. Renzulli, La grotta garganica : rapporti con Mont-Saint-Michel e interventi longobardi, in P. Bouet G. Otranto, A. Vauchez, Culte et pèlerinage cit., p. 426-448.
69 M. Rouche, Le combat des saints anges et des démons : la victoire de Saint Michel, in Santi e demoni nell’alto medioevo occidentale, 2 voll., Spoleto, 1989 (Sett.CISAM, XXXVI), II, p. 533-571 (p. 546); I. Aulisa, Pellegrini al Monte Garga no. Le testimonianze letterarie, in M. Bussagli e M. D’Onofrio, a cura di, Le ali di Dio cit., p. 42-49, spec. p. 44; di recente anche G. Peers, Subtle Bodies cit., p. 170 171. Interessante è il caso della circolazione dei frammenti di roccia della Terra Santa, come la «polvere di pietra calcarea ritenuta galattifera dalla grotta ‘del latte’ presso la basilica della Natività a Betlemme» : F. Cardini, Jerusalem traslata cit., p. 289; e i frammenti nel reliquiario palestinese del Sancta Sanctorum : supra, p. 14.
70 M. Sensi, I Grandi santuari cit., p. 132-133.
71 Sull’associazione vento-arcangelo Michele, cfr. : Bussagli M., Dal vento all’angelo, in M. Bussagli, M. D’Onofrio, a cura di, Le ali di Dio cit., p. 33-35.
72 I santuari eremitici alimentano la loro fama grazie alle virtù umane del santo al quale il luogo è intitolato, «véritables forces émanées de ses reliques ou de sa personne, qui produisent les miracles», mentre quelli micaelici dalle virtù divine che sono «immanentes au monde», M. Rouche, Le combat cit., p. 533.
73 J.-M. Martin, L’érémitisme grec cit., p. 180. La grotta di san Nilo venne identificata da Orazio Campagna con una cavità rocciosa nei pressi dell’abitato lucano di Grisolia : O. Campagna, La grotta di S. Michele alla Serra di Grisolia, in Bollettino della badia greca di Grottaferrata, XL, 1986, p. 57-65.
74 Supra, p. 164-167.
75 L. Miglio, Castel Sant’Elia cit., p. 15. Sulla valle Suppentonia : supra, p. 190-192.
76 Gregorio Magno, Dialogi cit., II, p. 70, 72.
77 E. Parlato, S. Romano, Roma e il Lazio cit., p. 167-178, fig. 148.
78 G. Bertelli, La porta di bronzo, in L’Angelo, la montagna, il pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, Monte Sant’Angelo, 25 settembre-5 novembre; Roma, 16 novembre-15 dicembre, 1999, catalogo della mostra, Foggia-Roma, 1999, p. 70-74 e tavv. fuori testo.
79 Chronica monasterii sancti Michaelis Clusini, in P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, a cura di, Culte et pèlerinage cit., p. 26-41, spec. p. 27; I. Aulisa, La Chronica, cit., p. 37. Sulla lotta fra le creature angeliche e quelle demoniache all’interno delle grotte : C. D. Fonseca, La vita in grotta cit., p. 36-39.
80 Apparitio Sancti Michaelis in monte Tancia, in : A. Poncelet, S. Michele cit., p. 545-547 (p. 546). Per una nuova lettura della fonte e un’ipotesi di datazione all’xi secolo : I. Aulisa, Le fonti cit., p. 328-331. Vedi anche supra, p. 23-24.
81 Supra, p. 131-135.
82 Recentemente Cosimo Damiano Fonseca ha preso in esame la pittura su roccia dell’Italia meridionale «per verificare fino a che punto nelle grotte di maggiore dignità architettonica e pittorica – le chiese rupestri appunto – Angeli e Demoni entrino a pieno titolo nei corredi iconografici, tenuto conto dell’incomparabile valore pedagogico e didattico che essi assumono nei confronti dei fedeli» (C. D. Fonseca, La vita in grotta cit., p. 37), e tuttavia, a nostro avviso, dalla rassegna delle testimonianze pittoriche raccolte dallo studioso non si evince che negli spazi rupestri l’iconografia micaelica, e più in generale le figure angeliche, trovino un terreno fertile : i pannelli votivi con le immagini dei santi, di Cristo e della Vergine riscuotono un successo pari se non superiore.
83 Gregorio di Catino, Chronicon farfense cit., p. 158.
84 Supra, p. 164-167.
85 Supra, p. 135-139. Per la scelta dell’Ascensione come tema absidale : infra, p. 226.
86 Supra, p. 137-138.
87 I. Aulisa, La Chronica cit., p. 32.
88 «Quae non metallorum fulgore, sed privilegio commendata signorum, vili facta scemate sed celesti predita virtute [...]», Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 1. «[...] non tam metallorum fulgore et humano opificio rutila seu polita quam crebra signorum experienti evidentia cospicua», Chronica monasterii sancti Michaelis Clusini cit., p. 28. Cfr. I. Aulisa, La Chronica cit., p. 41.
89 Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 1.
90 S. Ćurčić, Byzantine Architecture on Cyprus : an Introduction to the Problem of the Genesis of a Regional Style, in N. Patterson Ševčenko, Ch. Moss, a cura di, Medieval Cyprus. Studies in Art, Architecture, and History in Memory of Doula Mouriki, Princeton (NJ), 1999, p. 71-80 (p. 75).
91 «[...] Michael [...] per visione apparens : Non est vobis, inquit, opus hanc quam ego edificavi dedicare basylicam. Ipse enim qui condidi etiam dedicavi», Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano cit., p. 3.
92 «Altare quoque de eadem rupe nativa in honore angelorum principis Michaelis miro opere, sed humanae artis industria non satis polito incidit», Chronica monasterii sancti Michaelis Clusini cit., 9, p. 30.
93 Ibid., 11, p. 31.
94 Ibid., 11, p. 31; I. Aulisa, La Chronica cit., p. 37, 48-53.
95 Ch. Walter, Art and Ritual cit., p. 215, 232; S. Piazza, Une communion cit., p. 141-146.
96 I. Aulisa, La Chronica, cit., p. 37.
97 C. Jolivet Lévy, Culte et iconographie de l’archange Michel dans l’Orient by zantin : le témoignage de quelques monuments de Cappadoce, in Les Cahiers de Saint Michel de Cuxa, 28, 1997, p. 187-198; Eadem, Note sur la représentation des archanges en costume impérial dans l’iconographie byzantine, in Cahiers Archéologiques, 46, 1998, p. 121-128.
98 Il san Michele guerriero è rappresentato su due lastre di viii-ix secolo del santuario del Monte Sant’Angelo sul Gargano : M. (Mario) Rotili, Corpus cit., p. 101-103 (schede nn. 103-104). Sull’alterna fortuna dell’immagine micaelica, con gli abiti di corte e nella foggia di soldato, in epoca altomedievale, cfr. A. Petrucci, Origine e diffusione cit., p. 345-352.
99 Sull’iconografia della Psicostasia è ancora utile il contributo di M. P. Perry, On the Psychostasis cit., 1912, p. 94-105,1913, p. 208-219.
100 Supra, p. 141, 147, 163.
101 I resti della decorazione pittorica con tracce di un toro e un angelo, prove nienti dalla cripta B del santuario garganico, sono documentati da un’unica vecchia fotografia in bianco e nero : P. Belli D’Elia, Il Toro cit., p. 577-578. L’attribuzione del brano all’episodio della leggenda del Gargano è stata considerata niente affatto sicura (Ibid., p. 578); Eadem, L’iconographie de saint Michel au Mont Gargan, in P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, Culte et pèlerinage cit., p. 523-530, spec. p. 526-527. Sul frammento di pittura, di recente anche S. Bettocchi e I. Aulisia, Il Santuario fra ix e xi secolo. Restauri e affreschi, in L’Angelo, la montagna, il pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano (Monte Sant’Angelo, 25 settembre-5 novembre; Roma 16 novembre-15 dicembre, 1999), catalogo della mostra, Foggia-Roma, 1999, p. 50-51.
102 Alle due versioni del santuario di San Vivenzio e di Santa Maria del Parto si deve aggiungere un affresco trecentesco attestato in una chiesa di Viterbo e oggi perduto : F. Gandolfo, Alla ricerca cit., p. 54-55 e bibliografia in nota. Per vari esempi in tutta Europa, su antependi, affreschi e tavole dipinte, per lo più del ’400, cfr. P. Belli D’Elia, Il Toro cit., p. 580-602. Va segnalato, inoltre, dato che rientra fra i casi monumentali più antichi, l’esempio romanico della chiesa di San Michele di Barluenga : W. W. Cook Spencer, J. Gudiol Ricart, Pintura e imaginería románicas, in Ars Hispaniae, t. VI, 1950, p. 117, fig. 86.
103 Cfr. G. Otranto, Riflessi del culto cit., p. 33-35; S. Gatta, Gargano, Galgano, Galvano ed altri, Roma, 1997 (Storie di una città. Sutri, 6).
104 Supra, p. 59-60.
105 Notitia ecclesiarum urbis Romae, in R. Valentini e G. Zucchetti, a cura di, Codice Topografico della Città di Roma, 4 voll., Roma, 1940-1953, II, p. 67-99 (p. 92). Nella Notitia il termine spelunca è riportato nove volte (Ibid., p. 75-78, 8283, 85, 90, 92), mentre in tre casi viene impiegato il sinonimo antrum (Ibid., p. 83, 88, 93). Cfr. G. B. De Rossi, La Roma sotterranea cit., I, p. 148.
106 Sull’abbandono della funzione cimiteriale delle catacombe del suburbio romano, fra v e vi secolo : J. Osborne The Roman Catacombs cit., 279-284; Ph. Pergola, Le catacombe cit., p. 103-105; V. Fiocchi Nicolai, Origine e sviluppo delle catacombe romane cit., in V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, a cura di, Le catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica, Ratisbona, 1998, p. 59-69.
107 Supra, p. 103-105.
108 Sugli itinera sotterranei delle catacombe romane : V. Fiocchi Nicolai, Itinera ad sanctos cit., p. 769-775.
109 M. Ghilardi, Le catacombe di Roma dal medioevo alla Roma sotterranea di Antonio Bosio, in Studi Romani, 49, 2001, p. 27-56 (p. 28, n. 6).
110 Supra, nota 105.
111 Nel vi secolo i santuari martiriali di Roma raggiungono per importanza i loca sancta della Palestina : J. Osborne, The Roman Catacombs cit., p. 284. Sui santuari cristiani della Palestina e l’importanza della roccia sulla quale furono edificati, cfr. supra, p. 15-17. Sull’attenzione che ebbero i costruttori del santuario costantiniano dell’Ascensione nel «respecter les irrégularités naturelles de la grotte tout en l’ornant avec élégance», cfr. P. Maraval, Lieux saints cit., p. 195 e bibl. in nota. Sull’emulazione in Occidente dei santuari della Palestina nei primi secoli dell’alto Medioevo : F. Cardini, Jerusalem traslata cit., p. 281-296.
112 Supra, p. 86-90.
113 S. Piazza, Peintures rupestres cit.
114 A. Donzellini, Ad Historiam Institutionis festi Corporis Christi Appendix, in Id., Historia et origine della solennità et festa del Corpus Domini, Roma, 1585, p. 69.
115 Supra, 177-180.
116 V. Pace, La pittura rupestre cit., p. 404.
117 Supra, p. 114-119.
118 A tale proposito si rivela ancora utile lo studio di G. De Angelis D’Ossat, La geologia delle catacombe romane, Città del Vaticano, 1938.
119 Per uno sguardo d’insieme sulle catacombe romane : Fiocchi Nicolai, Origine e sviluppo cit., p. 9-69. Sul fenomeno nel Lazio : V. Fiocchi Nicolai, I cimiteri paleocristiani cit.; e in Campania : U. Fasola, Le catacombe cit.
120 Un quadro generale sulla diffusione del fenomeno delle catacombe si ricava dalla recente analisi di V. Fiocchi Nicolai, E. Enß, H. von Hesberg, S. Ristow, Katakombe (Hypogaeum), in Reallexikon für Antike und Christentum, XX, Stoccarda, 2004, p. 342-422. Per la Sicilia, un quadro d’insieme è offerto dallo studio tuttora significativo di : J. Führer e V. Schultze, Die altchristlichen Grabstätten Siziliens, Berlino, 1907.
121 Un utile contributo all’analisi della tecnica pittorica nelle catacombe del suburbio romano, con una schedatura delle pitture stese direttamente sulla roccia naturale, è fornita da C. Bordignon, Caratteri e dinamica della tecnica pittorica nelle catacombe di Roma, Roma, 2000, part. p. 89-90, 337. Per quanto riguarda la pittura medievale nelle catacombe romane, al primo contributo monografico di Raffaella Farioli (R. Farioli, Pittura cit.) hanno fatto seguito i fondamentali saggi di John Osborne : J. Osborne, Early medieval wall-painting in the roman catacombs : patronage and function, in RACAR, 12, 2, 1985, p. 197-200, e soprattutto : Id., The Roman Catacombs cit., p. 298-328.
122 Ibid., p. 279-286; V. Fiocchi Nicolai, Origine e sviluppo cit., p. 59.
123 Per un confronto tra il pellegrinaggio rivolto ai santuari relativi ai martiri, agli eremiti e a san Michele arcangelo, cfr. M. Simon, Les pèlerinages dans l’antiquité chrétienne, in Les pèlerinages de l’antiquité biblique et classique à l’occident médiéval, Parigi, 1973, p. 95-115.
124 Supra, p. 187.
125 Supra, p. 83.
126 J. Osborne, The Roman Catacombs cit., p. 295-296.
127 Supra, p. 105.
128 Supra, p. 112.
129 J. Osborne, The Roman Catacombs cit., p. 310.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Le Thermalisme en Toscane à la fin du Moyen Âge
Les bains siennois de la fin du XIIIe siècle au début du XVIe siècle
Didier Boisseuil
2002
Rome et la Révolution française
La théologie politique et la politique du Saint-Siège devant la Révolution française (1789-1799)
Gérard Pelletier
2004
Sainte-Marie-Majeure
Une basilique de Rome dans l’histoire de la ville et de son église (Ve-XIIIe siècle)
Victor Saxer
2001
Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle)
Charges, hommes, destins
Armand Jamme et Olivier Poncet (dir.)
2005
La politique au naturel
Comportement des hommes politiques et représentations publiques en France et en Italie du XIXe au XXIe siècle
Fabrice D’Almeida
2007
La Réforme en France et en Italie
Contacts, comparaisons et contrastes
Philip Benedict, Silvana Seidel Menchi et Alain Tallon (dir.)
2007
Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Âge
Jacques Chiffoleau, Claude Gauvard et Andrea Zorzi (dir.)
2007
Souverain et pontife
Recherches prosopographiques sur la Curie Romaine à l’âge de la Restauration (1814-1846)
Philippe Bountry
2002