Scambi e contrasti fra gli apparati amministrativi della Curia e del comune di Roma: Alcune osservazioni intorno ai decreti comunali dal 1515 al 1526
p. 501-561
Note de l’auteur
Questo contributo elabora e amplia la conferenza tenuta al convegno del 2001 e ne aggiunge un’appendice. Ringrazio mia moglie, Laura Bassotti, per il paziente aiuto nella traduzione in italiano, nonché Michele Franceschini e Julia Zunckel per le loro preziose considerazioni sul testo.
Texte intégral
1Il singolare rapporto fra il papato e il comune ha sempre caratterizzato l’ambiente politico di Roma con forti ripercussioni sugli apparati municipali romani anche nel periodo rinascimentale. Questa particolare condizione deriva dalla predominanza della monarchia papale, non ereditaria ma elettiva, che per la sua posizione storica e religiosa non trova facilmente un equivalente e si distacca da simili contesti urbani dotati della presenza di una corte signorile o regia. Ma per quanto è stato scritto sulla situazione romana1, l’ottica nella storiografia generale di solito è orientata piuttosto verso la Curia romana e la corte papale2, mentre il mondo dei romani – molto meno appariscente ed affascinante – rimane spesso nell’ombra o nell’anedottico. E specialmente le opere più antiche difettano per connotazioni moralistiche (von Pastor)3, per un atteggiamento ironico (Rodocanachi)4 o per troppa compassione sul misero stato del comune di Roma (Gregorovius)5. Eppure manca una descrizione aggiornata e completa della situazione romana a cavallo fra il Quattro e Cinquecento che metta insieme – come si è intrapreso con successo in studi per altre zone e realtà politiche italiane6 – i variegati aspetti istituzionali-giuridici, politici, sociali ed economici che la caratterizzavano. Questa carenza è anche fra le cause della scarsa considerazione per l’amministrazione comunale romana nel primo Cinquecento nei recenti studi comparatistici sulla storia istituzionale degli stati italiani intorno al 1500 che si concentrano piuttosto su città-stati d’impronta principesca o repubblicano-oligarchica, come Milano, Ferrara, Mantova, Firenze e Venezia7. Certo, la tanto deplorata mancanza di fonti comunali8 che potrebbero raccontare il punto di vista e le strategie dei responsabili del governo cittadino, a prima vista, non aiuta la ricostruzione degli assetti istituzionali del comune romano. In più pesa l’anno memorabile del Sacco di Roma, che – senza voler qui togliergli l’indiscussa importanza – viene usato spesso come comoda demarcazione epocale (specialmente quando presa come punto di partenza), che interrompe la vista d’insieme sulle continuità e sulle origini di futuri sviluppi9. Gli anni prima del Sacco del 1527, pur festeggiati dagli storici dell’arte come apogeo del Rinascimento10, non godono invece dell’attenzione degli storici delle istituzioni, forse troppo fissati sugli schemi periodici dell’età moderna e medievale. Come matrice ci si basa di solito sui testi normativi, come gli statuti cittadini che, per quanto importanti siano – e rimasti intatti e formalmente rispettati anche dai papi da Martino V in poi11 – non rispecchiano sempre tutta la realtà istituzionale («Verfassungswirklichkeit») visto che, come si sa, le norme statutarie spesso vennero vuotate e modificate secondo la volontà del signore o del principe12. Anche il testo degli statuti romani fu riformato fra il 1519 e il 1523 senza arrivare però del tutto ad una maggiore trasparenza, visto che esso dava ancora un quadro istituzionale quasi inalterato e ambiguo che non considera neanche tutti gli uffici esistenti e le competenze dei diversi apparati giuridici, operanti nella capitale, presenti quasi solo nelle bolle papali aggiunte ma non integrate al testo statutario13. Perciò sono sempre punti di riferimento e parago ne gli statuti romani degli anni 1363, 1469 nonché, in particolare, quelli del 1580 più innovativi14. Che la situazione istituzionale fosse ancora in fermento si vede anche quando alla morte del papa i romani si rivolgevano tradizionalmente al collegio cardinalizio per l’approvazione dei capitula da far rispettare al nuovo eletto. Anche se essi di solito venivano accettati (per non provocare inasprimenti incalcolabili), come accadde pure nel 1522, questi capitula non venivano ritenuti vincolanti, e i membri dei consigli comunali non potevano fare altro che protestare ed insistere per la loro applicazione15. Per verificare il reale gioco di potere e le diverse strategie ad esso connesse, che caratterizzavano la situazione politica romana nell’età medicea, vorrei utilizzare – pur non essendo il primo – una fonte che fin’oggi è stata presa sorprendentemente poco in considerazione e che ci permetterà di collegare l’analisi delle strutture istituzionali di Roma con lo studio dei legami, dei networks e degli interessi personali dei protagonisti della vita politica comunale16.
UNA FONTE POCO USATA: IL LIBER DECRETORUM DI PIETRO RUTILI
2Questa fonte è il Liber decretorum redatto dallo scriba senatus Pietro Rutili (morto dopo il 1534) che costituisce il più antico volume conservato dei decreti comunali di Roma17. Esso elenca le decisioni del consiglio municipale dal 1515 al 1526. L’importanza di questa fonte si evidenzia subito visto che a Roma – diversamente da altre città italiane più fortunate – mancano per tutto il periodo medievale ed oltre, intere categorie documentarie che permettano la ricostruzione della vita pubblica di un comune come appunto i verbali dei consigli, ossia – come vengono detti in alcune città – le Riformanze18. Rutili stesso fa capire che a Roma i senatus consulta del consilium dei patres (conscripti) – la terminologia classicheggiante non è casuale19! – non furono registrati per parecchio tempo prima del 151520. E infatti dopo più di un secolo di trascuratezza fu solo la salita al trono di San Pietro, il 9 marzo 1513, di Leone X Medici, seguita da particolari favori per i romani ai quali torneremo21, ad accendere le speranze dei consiglieri e ad indurli, all’inizio dell’anno 1515, a far registrare i decreti dei consigli, rivalutati come strumento politico22. Però anche i verbali del Rutili, per quanto fonte unica e preziosa, sono da utilizzare con alcune riserve che derivano dalle sue caratteristiche.
3Cominciamo con l’aspetto quantitativo che presenta il Liber decretorum. In esso, sotto 237 date, sono documentate 473 registrazioni. Tolti 17 instrumenta non legati a determinate sedute23, si hanno 220 riunioni di consiglio che fa, su un totale di undici anni, la media di 20 sedute all’anno. Questa percentuale va però confrontata con il fatto che il picco massimo, raggiunto nell’anno 1522, è di 36 sedute registrate, mentre quello minimo, nel 1519, è invece di solo 13 sedute24. Ipoteticamente si potrebbe pensare che questa oscillazione si spieghi con la circostanza che il nostro scriba senatus abbia avuto – come suggeriscono anche gli statuti cittadini25 – un collega con il compito di completare i verbali in caso di sua assenza, su un altro libro che non ci è pervenuto. Nuove evidenze sulla persona e sul ruolo del Rutili26 però inducono a pensare che tale collega, il cui nome finora non è stato rintracciato, non si occupò di queste registrazioni. Rutili stesso parla della sua opera come liber omnium decretorum Romani populi27 e ricevette nel 1520, formalmente come unus ex duobus scribis senatus, un compenso di 20 ducati pro suis laboribus pro decretis Populi Romani per ipsum factis, collectis et colligendis et in archivio dicti populi romani repositis eius vita durante28. Le lacune nelle registrazioni furono dovute a più cause. Alcune sedute di consiglio potevano essere state ignorate in quanto eventualmente non conclusesi con una decisione, dato che Rutili non ebbe l’intenzione di scrivere verbali nel senso stretto, ma invece raccogliere solo i decreta. Sappiamo da altre fonti che sono stati trattati e decisi parecchi argomenti che sarebbero dovuti essere considerati nel liber dello scriba senatus29. Stupisce per esempio il fatto che la riforma degli statuti comunali, negli anni fra il 1519 e il 1523, abbia avuto così poco riscontro nelle decisioni dei consigli30.
4Comunque va sottolineato che i consigli si radunarono con una notevole frequenza, che appare ancora più notevole se confrontata con la situazione dei decenni consecutivi, quando cioè il consiglio venne convocato sempre di meno31. Invece dai nostri numeri, pur incompleti, risulta che nei tempi prima del Sacco il consiglio svolgeva ancora un ruolo importante (radunandosi fino a sette volte al mese32), e perciò questi undici anni sono particolarmente interessanti per capire le dinamiche della fase di transizione nella quale era coinvolto tutto il sistema istituzionale romano dell’epoca medicea.
5Per quanto riguarda i suoi contenuti il Liber decretorum non è così uniforme come suggerisce il suo titolo. Le sue registrazioni non riproducono sempre le decisioni consigliari ma spesso anche degli allegati (che in alcuni casi potrebbero essere stati comunque oggetti di ratifiche da parte del consiglio). Così troviamo una varietà di atti come protestationes, arbitrati, contratti di vendita di uffici, dichiarazioni varie e persino reformationes et statuta contro il lusso delle doti, del vestiario femminile e dei funerali nonché capitula per la gestione della bussula portionum33. Grosso spazio nelle sedute occupano – come vedremo – questioni dell’amministrazione e delle finanze pubbliche. Ma si lottava anche per le prerogative romane sulle terre vassalle del Campidoglio. Il territorio che la capitale gestiva ancora in proprio, ormai, era ridotto ai pochi feuda del popolo romano: Barbarano, Vitorchiano, Magliano Sabina, Tivoli, Velletri e Cori34. Inoltre il comune era preso dai suoi piccoli problemi quotidiani: per esempio come far fronte alle immondizie, sul cui finanziamento si scendeva a discutere con la Camera Apostolica35.
6Va intanto ricordato che il raggiungimento di una decisione nel consiglio è un conto, ben altro invece la sua corrispondente realizza zione pratica: bisogna stare attenti a non prendere a priori i decreti come prove di determinati avvenimenti. Le questioni intorno alla gabella studii, che ritornavano ripetutamente all’ordine del giorno, non furono mai del tutto risolte, come è stato dimostrato recentemente proprio sulla base dei decreti comunali qui presentati36. Lo stesso discorso vale per la legislazione suntuaria, tradizionalmente destinata al fallimento37. Non mancano neanche ripensamenti sulle proprie decisioni in poco tempo38.
7Tenuto conto di queste due principali premesse – cioè la lacunosità e la disomogenità in alcuni suoi elementi – questo materiale permette comunque una visione ravvicinata particolare della situazione istituzionale del comune di Roma e delle sue realtà sociopolitiche. Sebbene tanti argomenti trattati nelle delibere comunali richiedano ulteriori studi sui retroscena nonché l’integrazione di fonti supplementari, come le serie dei Diversa Cameralia e delle lettere pontificie nonché dei brevi, conservate nell’Archivio Segreto Vaticano39, tuttavia i decreti possono offrire una base di confronto con gli statuti romani, riformati proprio negli anni dal 1519 al 1523. I nostri decreti contengono inoltre tanti riferimenti ai protagonisti della scena politica comunale romana del periodo prima del Sacco. E attraverso questi due aspetti – quello istituzionale-strutturale e quello prosopografico – analizzeremo in seguito i rapporti reciproci fra gli apparati curiali e quelli comunali, aprendo, ci si auspica, qualche nuova pista per futuri studi più completi.
I DECRETI COMUNALI COME FONTE PER LA REALTÀ ISTITUZIONALE DELLA ROMA MEDICEA
8Siamo ormai in un periodo di regime incontrastato del papato su Roma la cui vita pubblica appare – come si vede anche dai decreti comunali – pienamente legata ai ritmi curiali, come eventuali allontanamenti del papa, conclavi40, cerimonie41, ecc., nonché alla personalità dei singoli papi42. Queste ripercussioni sulla vita pubblica romana si spiegano anche per via della nota dipendenza del settore produttivo e mercantile della capitale dalla presenza della Curia in città43, e di conseguenza il nervosismo che regnava quando l’afflusso di capitali e merci nell’Urbe veniva a mancare dopo la morte o in assenza di un papa o a causa di una pestilenza. Queste ragioni provocavano subito richieste di riduzione di pagamento delle quote da parte dei locatori degli uffici e delle gabelle comunali44. Inoltre è noto quanto gli apparati curiali interferissero nel delicato campo delle finanze municipali e del sistema giuridico dalla fine del libero comune romano nel lontano 139845. Ciò ci porta alla necessità di presentare i principali organi municipali e a tratteggiare le linee di conflittualità che si crearono specialmente con l’apparato della Camera Apostolica (capeggiata dal cardinal camerlengo nonché dai suoi presidentes e clerici)46 ed altre istituzioni della Curia. La conseguenza di questo crescente squilibrio si nota anche sul piano documentario: mentre la Camera Apostolica sviluppò vasti strumenti e registri di contabilità47, della Camera Urbis, per il periodo esaminato, si hanno invece poche serie archivistiche48.
9Manca un’attuale descrizione completa degli apparati comunali nella prima metà del Cinquecento anche se di recente sono state pubblicate ricerche su singoli organi come quello dei conservatori, della Curia Capitolina e dei consigli49. Costituiscono il punto di partenza per la descrizione dell’assetto istituzionale prima del Sacco glistatuti della città e innanzitutto la bolla Dum singularem del 19 marzo 1513 di Leone X – rilasciata solo dieci giorni dopo la sua ascesa al trono – con la quale il papa confermò al popolo romano i suoi privilegi e restituì ad esso una serie di uffici che fino ad allora erano stati gestiti e occupati dalla Camera Apostolica. Questa costituzione è sicuramente il documento più citato di tutto il libro di decreti del Rutili50.
10Per prima cosa bisogna chiarire la posizione dei conservatori che allora molto più del senatore forestiero – ormai una figura più che altro legata all’apparato giurisdizionale e al cerimoniale51 – rappresentavano il vertice reale del comune di Roma. Essi formavano con il priore dei caporioni e i due cancellieri della Camera Urbis, nonché i caporioni stessi, la giunta comunale (ossia il magistratus delle fonti) con le più importanti competenze decisionali ed esecutive. I conservatori eleggevano gli impiegati pubblici dei ranghi bassi, sorvegliavano l’ordine pubblico, gestivano i servizi comunali (come gli acquedotti) e controllavano la qualità degli alimenti. Essi presiedevano i due consigli, sovrintendevano alla Camera Urbis, controllavano i giudici del proprio tribunale e, in particolare, la corte dei consules delle arti e mestieri. Al loro tribunale spettava anche la giurisdizione in materia criminale per i feudi del popolo romano52.
11Passiamo ai due consigli municipali che nei verbali di Rutili – purtroppo diversamente dai verbali dall’anno 1530 in poi, più precisi – vengono poco distinti tra di loro, anche se in realtà furono costituiti da due organi separati, cioè il consilium ordinarium (ossia consilium secretum, come venne nominato più tardi) e il consilium publicum o generale. Quest’ultimo serviva piuttosto per far approvare, con una partecipazione maggiore dei romani, le decisioni prese nel primo53. Ad un consilium generale partecipavano nella norma i conservatori, i cancellieri, il priore dei caporioni, i 13 caporioni, i consiliarii (3 da ciascuno dei 13 rioni) e gli officiales importanti (come i cancellieri, i marescialli e l’avvocato dei conservatori) nonché – e questo sembra che faccia la distinzione decisiva dal consilium ordinarium più ristretto – numerosi nobiles cives. Mentre più tardi si trovano liste precise dei partecipanti, questi nel liber del Rutili vengono indicati in generale solo sommariamente. Tuttavia abbiamo casi di 61, 97, ma anche di ben 154 consiglieri riuniti54. L’assenteismo nel periodo qui esaminato pare circoscritto55.
12Le competenze dei consigli furono lontane dall’essere chiare. Il lettore dei decreti non si deve far ingannare dalla descrizione, spesso troppo schematica, che Rutili offre dell’iter fra la richiesta presentata dal primo conservatore (proposte estemporanee da parte dei consiglieri formalmente non erano ammesse56), la votazione e l’accettazione della proposta di solito senza grosse modifiche. Ma anche l’attento, imparziale e – come pare – pacifico scriba senatus57 non sempre nasconde i disaccordi che, ogni tanto, accompagnavano queste procedure, riferendo il numero dei voti contrari o svelandoli in modo indiretto ed esprimendo cautamente – per esempio – come l’esposizione di un conservatore fosse stata aliquantulum in concilio discussa58.
13Le assemblee comunali stavano perdendo gradualmente la loro importanza, nonostante gli sforzi operati per frenare questa perdita di terreno. Assistiamo nell’opera di Rutili ad alcuni tentativi del Consiglio di alzare la propria voce e di sfidare i prepotenti conservatori59, come accadde nel 1522 con la proposta di vincolare l’uso delle entrate dei conservatori ad proprios usus60, o, nel 1524, con la minaccia di penalizzare severamente i conservatori che avevano consentito, sine consilio publico et ordinario, il passaggio da un romano ad uno straniero di un beneficio ecclesiastico a Roma61. Espressione della volontà dei consiglieri di controllare l’operato dei conservatori era anche l’istituzione degli assistentes al fianco dei conservatori, sui quali torneremo62. Quando necessario, venivano chiamati cittadini fidati a far parte delle commissioni o deputazioni, per le continue visite al papa o per compiti onorifici e di rappresentanza il cui valore simbolico non è da sottovalutare poiché contribuì alla formazione di uno spirito di corpo dei nobiles viri63. Non dimentichiamo che Roma in tante occasioni si trasformava in un enorme palcoscenico per le cerimonie pubbliche dove pure le comparse acquistavano una dignità e una funzione eminente64. Così sono ricordate nelle registrazioni del Rutili le insistenze dei conservatori e dei consiglieri, nel maggio 1525, davanti al magister cerimoniarum palatii apostolici affinché garantisse loro il solito posto all’accessus pontificis ad ecclesiam Lateranensem65. Il rapporto con la Curia appare ancora più stretto ed evidente quando gli officiales romani ottennero vestiti da lutto per la morte di un papa66.
14Del resto giovava anche al papato poter contare sul consiglio comunale di Roma per rilevare e canalizzare le tensioni e le opinioni del popolo, che gli venivano comunicate dal consiglio stesso, che funse così quasi da sismografo. I consiglieri seppero anche utilizzare questo ruolo di mediatore per far pressione sulle decisioni del papa e della Camera Apostolica strumentalizzando gli umori della popolazione romana notoriamente irrequieta67.
15Il vero conflitto, quindi, non era quello fra consiglieri e conservatori o fra i consiglieri medesimi – parleremo più in là di contrasti all’interno dei consigli molto pericolosi68! – ma quello fra il papa e il comune. Questo era ben visibile agli occhi dei contemporanei, come dimostrano i noti eventi del 1511, quando la malattia di Giulio II indusse parecchi romani a porgere, insieme ad alcuni baroni (Colonna e Savelli), richieste per la maggiore salvaguardia degli interessi dell’Urbe69. L’intesa fra gentiluomini e baroni romani70 allora, con promesse di aiuto reciproco e di rispetto dell’ordine pubblico, fu celebrata il 25 agosto con la famosa Pax romana. I protagonisti del 1511 – alla loro testa l’impenitente Marcantonio Altieri – diversamente dai partigiani di Stefano Porcari (nel 1453), non vennero puniti e anzi dominarono la scena politica municipale negli anni compresi nel liber di Rutili71. Questa circostanza dimostra che sotto i papi Medici il clima fra la città e il papato cominciava a migliorare.
LA DISTRIBUZIONE DEGLI UFFICI COMUNALI FRA PROMESSA E REALTÀ
16I romani, negli anni dopo la promulgazione della bolla Dum singularem, nel 1513, erano ben consapevoli del favore eccezionale di papa Leone X, ma anche della necessità di difendere ciò che si era appena conquistato dallo stesso papa Medici. L’applicazione della bolla in realtà fu molto difficile: tante volte i romani fecero ricorso al papa per far rispettare quella normativa che egli aveva voluto e che fu da lui stesso violata72.
17Perciò, se si analizza la scelta del personale amministrativo e giuridico della città, sono da distinguere le nomine avvenute secondo la procedura elettorale favorita dagli statuti, cioè attraverso la bussula, da altre forme di designazione, come la nomina da parte dei conservatori (a volte ratificata dai consigli) o del papa, nonché la vendita dell’ufficio. Purtroppo per il breve periodo qui esaminato mancano liste complete degli uffici che, del resto, per la loro grande quantità, possono essere presentati solo in parte73. Cominciamo con la bussula: per far partecipare un maggior numero di interessati fra i romani, furono conferiti i seggi nei consigli (dei consiliarii) e gli uffici municipali più importanti (come i conservatori, i caporioni, i podestà nelle terre dipendenti) tramite l’estrazione a sorte da un recipiente chiamato bussula (più tardi si passò, per maggiore praticità, a liste scritte)74. Spesso tali estrazioni avevano luogo durante le sedute di consiglio75. Similmente a quanto veniva praticato in altri comuni (cambiando eventualmente i termini tecnici), come in particolar modo a Firenze, che per Roma già in passato fu spesso modello76, i nomi inseriti nella bussula erano selezionati prima, rione per rione, dai cosiddetti imbussulatores con complicati metodi di scelta77. Esclusi da qualsiasi candidatura erano i debitori del comune, gli usurpatori di beni pubblici nonché i cittadini e i magistrati che non avevano rispettato gli statuti, ritenuti infames e da registrare in un apposito liber speculi78. Tranne qualche rara eccezione nel Quattrocento79, è andata perduta la vasta documentazione archivistica che – come provano gli archivi fiorentini e veneziani80 – doveva essere stata collegata a queste procedure. Ugualmente la durata degli uffici – limitata a tre mesi, dopodiché si procedeva ad una nuova estrazione – portò ad una loro maggiore rotazione. Intorno a queste liste si muoveva allora la vita politica comunale e per tanti fu una questione di prestigio riuscire ad ottenere un ufficio importante. Romani nativi erano anche i funzionari deputati (podestà) nelle terre vassalle del Campidoglio già elencati, fra cui quello di Tivoli era ornato tradizionalmente dal titolo altisonante di comes81. Rispetto ai vasti contadi degli altri principati-signorie e repubbliche82, il districtus di Roma offrì però poco sbocco ai romani ambiziosi.
18Ma in realtà, i candidati estratti dalla bussula, almeno per gli uffici più importanti (come i giudici e i conservatori), dovettero essere spesso confermati dal papa. Per questi retroscena purtroppo le delibere dei consigli non ci danno le informazioni complete, per le quali si devono consultare anche fonti complementari (per lo più nell’Archivio Segreto Vaticano) delle quali analizzeremo un esempio significativo più in là83. Il papa Medici e i suoi due successori ogni tanto rilasciarono – come erano abituati i papi del secolo precedente84 – ordinanze di nomina di funzionari comunali85. Pare che l’iniziativa di queste nomine non necessariamente partì sempre dal pontefice, visto che – come capitava anche nel mercato dei benefici ecclesiastici86 – egli difficilmente poteva controllare tutte le richieste a lui rivolte. Nelle delibere del consiglio si trovano casi in cui sorge il sospetto che i nominati con brevi papali si siano rivolti al papa per evitare l’esito incerto delle procedure della bussola preferendo la via più sicura87. Ma non sempre i candidati papali la passarono liscia; il consiglio vigile controllò questi mandati papali e li respinse quando non era convinto della loro legittimità88. Viceversa il consiglio e i conservatori stessi, a volte, ricorrevano all’autorità papale invocando il rilascio di brevi e motupropri per un vantaggio personale o per volgere un contenzioso in proprio favore89. Secondo un diffuso gioco di potere nei sistemi istituzionali assolutistici90, si cercò di eludere la Camera Apostolica con a capo il cardinal camerlengo91, l’onnipotente Francesco Armellini (1470-1528)92, nonché i suoi odiati mandati, rivolgendosi direttamente al papa: l’autorità suprema del pontefice non poteva così che uscirne rafforzata93. Ma torneremo su queste forme di governo basate sui rapporti personali.
19Passiamo intanto all’ordinamento giudiziario a Roma: fu proprio Leone X che nel 1514 rafforzò le competenze del Governatore di Roma, rivalutate già dal suo predecessore Giulio II in una costituzione solenne sulla distinctio tribunalium, rilasciato due anni prima94. A discapito della Curia Capitolii il tribunale del Governatore, sottoposto al cardinal camerlengo, divenne la corte più importante di Roma con competenza in criminalibus nella capitale e nel suo distretto (nel raggio di 40 miglia), per la prima volta anche sui cittadini romani e sui chierici (mentre i curiali e i mercatores Romanam Curiam sequentes rimasero giudicabili solo dall’Auditor Camerae)95. Le antiche competenze in civilibus e in criminalibus della Curia Capitolina, ossia del Tribunale del Senatore, sugli abitanti di Roma (tranne i curiali), ne uscirono compromesse, ma rimasero ancora notevoli96. Per quanto riguarda l’apparato giuridico municipale, non è necessario scendere nei dettagli, visto che, per lunga tradizione, i romani erano esclusi dal ruolo di giudice97. Questo consisteva comunque nel primus e nel secundus collateralis, nello iudex maleficiorum, nonché nel capitaneus appellationum. I conservatori presentavano al papa i nomi di tre candidati estratti dalla bussula, composta da appositi imbussulatores, e il pontefice sceglieva il rispettivo giudice98. In singoli casi si verificarono contrasti quando il papa non rispettò le procedure e il consiglio rifiutò un suo candidato99. Pure importante era la posizione dei pacerii le cui funzioni erano, in breve, quelle di un giudice di pace100: nel 1525 Clemente VII nominò Bartolomeo Della Valle e Raimondo Capodiferro pacerii, per stabilire la pace interna a Roma (ad componendum pacem pro tranquillo statu Urbis)101. Quanto si potessero mescolare le competenze nel settore giudiziario si evince anche dalla gestione delle carceri. Raimondo Capodiferro nel 1521 comprò dalla Camera Apostolica, per 3.000 ducati, l’ufficio del soldanus turris None Urbis con il quale dirigeva una delle carceri romane102. Il carcere capitolino invece fu dato in appalto dalla Camera Urbis tramite i conservatori103.
20Per quanto riguarda la designazione degli officiales principali della Camera Urbis, ossia Capitolina, sono da menzionare innanzitutto il camerarius, di nomina papale104, nonché il depositarius populi romani (ossia delle portiones come veniva chiamato dal 1519)105 e il depositarius della gabella del vino cioè dello Studio, i cui incarichi furono dati loro in appalto106. Anche le concessioni simili degli uffici dipendenti dalla Camera Urbis (gestiti dal depositarius populi romani) come quelli del notaio, scrittore ed executor della Camera Urbis, dello scrittore dei conservatori nonché dei porti di Ripa e Ripetta (nomino solo l’officium assignationis e quelli del camerarius, degli executores, dell’extimator; del mandatarius, del mareschallus, del notarius, del ponderator statere, nonché dell’extimator transtrorum) avvenivano spesso dopo un’asta pubblica (subastatio)107. Nei decreti si legge del metodo ad candelam (trattasi del conferimento dell’incarico a colui che veniva nominato allo spegnersi di una candela)108, e, più raramente, dell’assegnazione «a grido» (ad aures)109. Ma anche nel caso di uffici venali a volte ci si dovette accontentare delle raccomandazioni del papa, come succedeva nel 1525, quando Clemente VII fecit ipsis magnificis dominis conservatoribus verbum, quod concederetur domino Petro de Lallis officium prothonotariatus Curie Capitolii110. Tanti altri funzionari subordinati svolgevano compiti amministrativi e di controllo, come fecero gli odiati extraordinarii, nominati dai conservatori, che ricordano l’attuale guardia di finanza o sanitaria, che operarono specialmente nei mercati della città111, dove non mancarono scontri con gli adetti dell’annona, gestita dalla Camera Apostolica112.
21Se si paragonano le informazioni sugli uffici offerte dal liber di Rutili e dagli statuti del 1519-1523 con le liste conservate per il secolo precedente e quelle del periodo successivo113, si può notare che il numero dei posti aveva la tendenza a crescere, dando motivo di obiezioni nel consiglio. Così si dibatteva sull’opportunità dell’incarico nuovamente introdotto di defensor romani populi et eius Camere, le cui competenze, secondo alcuni consiglieri, coincidevano in parte con gli incarichi dell’advocatus e del procurator della Camera Urbis e che pare esser stato creato appositamente per il meritevole giurista Mario Salomoni114. Similmente superfluo fu l’incarico dei guardiani della statua di Leone X115. Però questo fenomeno non era ancora tanto diffuso quanto nel periodo barocco, quando anche gli uffici del «suonatore delle campane» o della tromba furono occupati da persone di alto rango interessati solo alle entrate e ai regali natalizi ad essi collegati116.
22Mentre il papa, in linea di principio, lasciò la scelta degli officiales al popolo romano, non però cedette su alcuni incarichi chiave. A questi appartenevano i magistri stratarum (et edificiorum Urbis) impegnati nella sorveglianza dello sviluppo urbanistico (dalla creazione di nuove strade e dalla loro pavimentazione fino al decoro generale della città), con competenze strategiche, visti i tanti progetti ambiziosi dei papi rinascimentali in questo settore117. Fra questi troviamo, in generale romani, come Raimondo Capodiferro e Bartolomeo Della Valle (dal 1517 al 1520), nonché Antonio Leoni e Mario Crescenzi (nel 1524)118 e solo in via d’eccezione architetti come Raffaello da Urbino e Antonio da Sangallo (nel 1513)119. Ma nelle delibere raccolte da Rutili emergono pure conflitti con i maestri delle strade quando si trattava della salvaguardia di monumenti antichi120. Merita una particolare attenzione la posizione del procuratore fiscale della Camera Urbis – uomo di fiducia del pontefice – strategicamente destinato al controllo delle finanze comunali121 –: questo ruolo fu svolto da Ippolito de Scarzis che non godette una buona fama fra i suoi contemporanei122. Ugualmente vicini alla Camera Apostolica erano l’advocatus palatii conservatorum et fisci Camere Urbis (o più semplicemente advocatus romani populi), cioè nel nostro periodo, prima Paolo Planca, e poi Girolamo Giustini (nominato da Adriano VI, circostanza quest’ultima che irritò il consiglio comunaleche però poi, dopo tre giorni di consultazioni, cedette, essendosi reso conto che tale ingerenza non avveniva affatto per la prima volta123). I due incarichi di advocatus e procurator della Camera Urbis appena presentati corrispondevano ad uffici simili della Camera Apostolica che furono rivestiti, nel periodo mediceo, dall’advocatus fisci Camere Apostolice, Giustino Carosi124, e dal procurator fisci apostolici, Mario Peruschi125, entrambi di nomina papale e non solo assidui frequentatori dei consigli comunali, ma anche destinati a rivestire l’incarico più importante, cioè quello di conservatore.
23L’intreccio degli uffici allora era fitto e mostra comunque l’attenzione che il papa – e anche la Camera Apostolica – pose alle faccende del comune romano non perdendolo mai d’occhio e controllandolo con un network di relazioni formali e non. Il detto Paolo Planca riuscì in più ad accumulare allo stesso tempo vari incarichi comunali e curiali essendo stato non solo conservatore e revisore degli statuti, ma anche advocatus pauperum (cioè difensore dei poveri coinvolti in processi con la Camera Apostolica126) ed avvocato concistoriale; di questi ultimi ne sono documentati ben nove nei verbali di Rutili come partecipanti alla vita pubblica romana in alti ranghi: Angelo Cesi Medices, Antonio Leoni, Battista Paolini, Giulio de Stefanuciis, Giustino Carosi, Mario Salomoni, Melchiorre Baldassini, Paolo Planca e Tarquinio Santacroce127. È ovvio che i papi per questi posti di grande responsabilità e prestigio preferivano dotti giuristi ed inoltre non sarà stato un caso che circa la metà dei sopraddetti personaggi siano stati esponenti di famiglie relativamente nuove.
24Per quanto concerne le entrate del comune nel periodo mediceo la Camera Apostolica – anch’essa in continua ricerca di finanziatori – aveva dato le tre dogane di Roma (Ripa, Merce e Grascia) in appalto al banchiere fiorentino Filippo Strozzi128. Mancarono ai romani anche i dazi e i pedaggi dell’hinterland laziale gestiti dalla Camera Apostolica; in più l’esenzione dell’immenso personale della corte (o meglio delle tante corti ecclesiastiche se pensiamo anche ai cardinali e le loro familiae) dalle gabelle (inclusa la gabella studii) toglieva tanta merce ai doganieri comunali che perdettero così una bella fetta delle loro potenziali entrate129. Le porte e i ponti della città continuarono ad essere oggetti di disposizioni della Camera Apostolica che considerava – nonstante il testo contrario della bolla Dum singularem e le proteste del consiglio municipale130 – sue le loro entrate, tanto da comparire nel bilancio finanziario steso nel 1526131. Perciò era comprensibile che i consiglieri si aspettassero che almeno i loro officiales fossero pagati in parte dalla Camera Apostolica132 e non esitarono ad attribuire la colpa per eventuali ritardi nei pagamenti alla Camera Apostolica stessa scusandosi che di questi inconvenienti non imputetur romanus populus133.
25Le fonti finanziarie principali che rimasero ai romani furono la gabella sul vino importato134 e – non senza difficoltà – le entrate degli uffici amministrativi e delle porte romane che Leone X aveva restituito ai romani con la tanto citata bolla del 1513135. Nonostante le sovvenzioni da parte della Camera Apostolica, le entrate municipali non bastavano comunque a coprire il fabbisogno del comune di Roma (che pesava in particolar modo sul settore universitario) e non rimase altra via d’uscita che indebitarsi. Così il comune cadeva sempre più nella rete delle compagnie bancarie forestiere, e, nel nostro periodo, particolarmente in quella degli Strozzi che collaboravano con Bartolomeo Della Valle, di illustre famiglia romana, per assicurarsi, dal 1523, direttamente la gabella studii la cui gestione prima era passata da un consorzio bancario all’altro136. Per la stessa necessità di fondi le entrate degli uffici comunali più lucrativi (collegati principalmente alla gabella studii e ai porti di Roma nonché alle attività del protonotaio della Curia Capitolii) furono date in pegno prima al detto Della Valle e poi, dal gennaio 1517, a Marcantonio Altieri137, evitando così che cadessero in mani forestiere.
26Quando il comune, dopo due anni e mezzo, cioè a metà del 1519, volle riscattarsi dal contratto di pegno con l’Altieri, attivò il sistema delle cosiddette portiones o sortes (cioè partecipazioni) alle entrate degli uffici pubblici138, previsto già sei anni prima nella bolla Dum singularem. Già allora si sarebbero dovute dividere tutte le entrate degli uffici pubblici (intese come sopravanzo d’esercizio) – da quelli del senatore e dei conservatori in testa fino agli incarichi notarili legati all’attività del Campidoglio nonché quelle delle porte e dei ponti – in portiones da distribuire inter cives estratti a sorte dall’apposita bussula portionum139. Questo procedimento, al di fuori del libro di Rutili, è documentato assai male e non ha trovato l’interesse degli studiosi140. Ci aiutano, in parte, i capitula, elaborati nel 1519 e nel 1525141, che regolavano le procedure della bussula portionum. In teoria erano ammessi alla partecipazione tutti i capofamiglia e i cosiddetti pia loca (cioè gli enti ecclesiastici al cui posto però nel 1525 subentrò come unico beneficiario il convento dei francescani di Santa Maria in Aracoeli tradizionalmente molto legato alla vita comunale romana). Ma si prevedeva anche l’inserimento degli officiales comunali con incarichi a vita, non ancora considerati nel 1513. La gestione delle entrate venne data in appalto, dietro anticipi, a Gregorio Serlupi come depositarius portionum populi romani142. E qui è finalmente chiaro che lo scopo del ricorso alle portiones, del valore nominale di 10 ducati de carlenis, era quello di procurarsi dai portionarii dei liquidi per pagare i debiti della Camera Urbis verso Marcantonio Altieri e passati così al depositarius Serlupi (nel 1523 si legge di un gravamine medietatis unius carlini pro quolibet ducato)143. Vista comunque la grande richiesta delle portiones, gli imbussulatores (del resto tutti nobili144) furono costretti a creare per i portionarii più liste d’attesa (tracte); di queste alla fine ne esistevano quattordici145. Per accontentare i cives non ancora considerati si pensò ad una nuova edizione della bussula146.
27Per via della mancanza di fonti contabili, non si possono ricostruire tutte le sfaccettatture di questo sistema. Ci si può però immaginare che, a conti fatti, dopo le spese ordinarie del comune, poco rimaneva da dividere fra i portionarii, poiché, nonostante le proteste del consiglio, i governanti (il papa in testa) preferivano investire questi soldi in opere pubbliche (come nel restauro del tetto del Pantheon, come si pensava nel 1524) e in spese straordinarie come quelle per la statua di Leone X, per la peste e per le imprese militari papali147. In più le entrate degli uffici comunque fluttuavano e una parte di esse, come abbiamo visto nel caso delle porte e dei ponti, erano persino passate alla Camera Apostolica. A causa di questi problemi gli esborsi delle portiones tardavano ad arrivare e furono inevitabili modifiche e tagli che suscitarono lamentele e delusioni148. Nel 1521 a causa del contributo per la guerra di Milano si decise addirittura la sospensione dei pagamenti delle portiones per i quattro anni seguenti149. Pare quindi che queste «obbligazioni» sui sopravanzi municipali, un’idea assai innovativa per Roma, alla fine non funzionassero così bene. Intanto, l’amministrazione delle portiones creò nuovi uffici, cioè quelli dei defensores delle portiones romani populi, del loro custos e del loro computista150. La necessità di dover disporre di entrate regolari favorì ulteriormente la vendita degli uffici dati in appalto a romani facoltosi e a stranieri. Le fonti dopo il Sacco di Roma fanno capire che le modalità di questo sistema (inclusa l’estrazione della bussula) sopravissero, ma che non ci furono più mezzi sufficienti per distribuire largamente queste portiones riservandole, per la maggior parte, ai progetti edilizi del Campidoglio e agli officiales del Comune in tempi di vacanza del soglio pontificio151. Una lista rara delle Extractiones facte per magnificos dominos capita regionum cum interventu deputatorum cuiuslibet regionis pro divisione portionum sedis vacantis prime preterite, compilata agli inizi del 1560 (cioè dopo la morte di Paolo IV), mostra che fra i ca. 70 estratti furono comunque più popolari che nobili ad approffittarne152. Malgrado il modesto esito per i cittadini è tuttavia degna d’interesse la circostanza che i romani fossero in grado, tramite gli imbussulatores e i caporioni153, di far registrare gli abitanti di Roma; uno sforzo però non così eccezionale che evidenzia le notevoli possibilità amministrative del comune romano154. Il fatto che questo modello non trovasse menzione negli statuti comunali degli anni 1519-1523, mostra ancora una volta i limiti di questa fonte155.
28L’autonomia finanziaria del comune romano si presentava assai vulnerabile nei casi di necessità di stato che mettevano subito fine alle concessioni papali e provocavano interventi massicci dei pontefici. Tali eventi accaddero già nel 1521 per via della guerra di Milano, quando i romani dovettero sospendere le portiones e sostenere LeoneX con un donum, sicuramente forzato, di ben 10 000 ducati, da accollare alla gabella studii156. Fra le pressioni sul comune perché contribuisse alle spese dello Stato della Chiesa vanno ricordati anche i tentativi di introdurre una tassa sulla farina come accadeva nel 1517 per la guerra di Urbino157, e nel 1524 in occasione della rinnovata guerra nel ducato di Milano158. Queste minacce di imposizioni fiscali provocarono atti di aperta disapprovazione nel consiglio, come si verificò il 2 maggio 1523, quando i consiglieri, con 132 voti contro 22 (con la solita rispettosa retorica ma decisi nei fatti!), rifiutarono la volontà del papa fiammingo Adriano VI, non molto amato dai romani159, di introdurre un subsidium di 5 julii sul nucleo famigliare – cioè per la prima volta una tassa diretta – per far fronte al pericolo turco160. Fu quindi nel periodo mediceo che venne intensificato il processo dell’apporto sempre più crescente delle finanze comunali romane al bilancio della Camera Apostolica161. Ma per quanto fosse pesante l’ingerenza della Camera sulle finanze comunali, c’è da dire comunque che, se i romani fossero stati sinceri – e negli ambienti curiali ne erano tutti assai consapevoli162 –, avrebbero dovuto ammettere che la loro città – specialmente per quanto riguardava le imposte dirette, fin’allora quasi sconosciute – rispetto alle comunità dello Stato della Chiesa era relativamente poco tassata e si poteva considerare – almeno fino al Sacco quando la situazione cambiò radicalmente163 – un posto ancora privilegiato164. Ma ciò vale solo per gli abbienti (e fra essi i consiglieri) visto che l’assenza delle entrate tributarie di tipo diretto costrinse il Campidoglio alla vendita degli uffici e ad agire «sulla leva delle imposte indirette sui consumi e ciò comportava che le classi sociali colpite in misura preponderante fossero quelle economicamente più deboli»165.
29Dopo aver presentato i principali uffici comunali e la loro distribuzione passiamo nei prossimi due paragrafi all’analisi dei moventi, delle aspettative e delle strategie dei romani, vecchi e nuovi e di diverso ceto, alla caccia di opportunità di carriera fra gli apparati comunali e curiali.
I VECCHI E NUOVI ROMANI DAVANTI AGLI UFFICI COMUNALI
30Chi erano i protagonisti alla guida del comune romano sempre meno libero? Anche per il periodo del Rutili vale quello che ha sottolineato Laurie Nussdorfer per la Roma dei Barberini e cioè che nella retorica dei consiglieri il totus populus166 non significa affatto tutti i cittadini di Roma (non parliamo degli abitanti!) ma piuttosto i cives nobiles cioè quei relativamente pochi romani che ebbero il diritto di sedere nei consigli167. Le delibere dei consigli comunali ci forniscono un vasto materiale prosopografico di coloro che ricoprivano incarichi comunali, sedevano nei consigli, erano testimoni delle sedute e così via, che vale la pena di approfondire168. Da una tale analisi si può concludere che una equazione dei consiglieri= nobiles viri= nobiltà municipale romana sarebbe troppo semplificante dato che fra i consiglieri, ancora nel Cinquecento, si trovano anche esponenti di famiglie popolari (dei ceti medi) altrimenti non o poco conosciuti come – per farne qualche nome – Marcello Pisciasancti169, Antonio Occiuzari (probabilmente da leggere Occhiazzuri) e Antimo de Sinebarbis170, che nessuno sul serio vorrebbe annoverare fra l’aristocrazia. Nel primo Cinquecento, quindi, l’elemento popolare ebbe ancora una, pur piccola chance171. Non dimentichiamo l’esperienza con le portiones romani populi172 e il fatto che ufficialmente solo gli statuti del 1580 escluderanno gli artigiani dagli uffici pubblici173. Originale per Roma sembra l’introduzione di una seduta riservata alle lamentele dei cittadini (consilium querelarum)174. Quando si trattava di tasse i consiglieri tiravano in ballo addirittura concetti quasi democratici; così nel 1524 in occasione delle ingerenze papali per ottenere un contributo per la guerra nel ducato di Milano, i caporioni insistettero per sentire, prima di decidere, l’opinione degli homines et cives dei loro rioni, affinché, cum omnes tangat, et omnes vel maior pars quod agendum consulant175. Analogamente già l’anno precedente, quando si doveva decidere su una tassa per finanziare la guerra contro i Turchi, decretum extitit, cum agatur de universali interesse, quod vocetur totus populus super premissis ad consilium176. Concetti del genere ci riportano ad una radicata trattastica giuridico-politologica alla quale contribuì, non da ultimo, Mario Salomoni che nel suo De principatu vede nel «popolo» l’origine per ogni potere che viene delegato – e non affatto alienato! – al principe177. Ma queste idee per i cives nobiles furono piuttosto uno strumento di pressione verso il papato; loro stessi, in realtà, erano lungi dal voler dividere la propria posizione privilegiata con tutti gli abitanti rifacendosi piuttosto ai tempi antichi anzichè ai più vicini secoli xiv e xv e ai loro eroi Cola di Rienzo e Stefano Porcari, ormai avvolti nel silenzio sebbene non dimenticati178.
31Dobbiamo quindi sempre tenere presente i grandi divari sociali ed economici che nella prima metà del Cinquecento esistevano fra i singoli membri dei consigli. Assistiamo ad una notevole gerarchizazzione all’interno del gruppo dirigente romano la cui prova è la di versa intensità nelle occupazioni di uffici eccellenti ai vertici del comune dove si distinsero alcune famiglie più in vista e più ricche di altre179. Per esse erano indispensabili le amicizie, le relazioni sociali e politiche, ma anche determinate strategie economiche (concentrate sull’acquisto di casali) e le alleanze matrimoniali fra le famiglie dello stesso rango180. Nel corso del Cinquecento queste famiglie si aprirono di più a forze nuove (degli ambienti della Curia e degli immigrati eccellenti fra i banchieri Romanam Curiam sequentes181 ecc.) anche attraverso alleanze matrimoniali assicurandosi ricche doti182 Ed è questa cerchia più esclusiva, i cui confini erano comunque fluidi, che preferirei chiamare «nobiltà», mentre uso invece, per l’insieme delle famiglie rappresentate nei consigli, in mancanza di meglio, l’espressione delle fonti cives nobiles nonché i termini «gruppo dirigente» o «élites comunali»183.
32Come affrontava l’aristocrazia municipale le esigenze e le minacce dei nuovi tempi? Per una risposta vale la pena completare con i dati del liber decretorum le tappe della carriera eccellente di un suo rappresentante più in vista, cioè del noto Marcantonio Altieri († 1532). Il contesto sociale dell’Altieri rappresenta alla perfezione il caso, non raro, di una famiglia romana di relativa recente ascesa sociale che il suo duraturo insediamento, nei più alti ranghi della società romana, dovette proprio al papa o meglio agli incarichi all’interno del governo di Roma ed allo stato ecclesiastico concessi a lui e ai suoi antenati184. Pur avendo una posizione solida e comoda (il censimento del 1527 a proposito della sua casa conta 96 «bocche», cifra alta, anche rispetto alle familiae dei cardinali, a volte persino più piccole185) il nostro Altieri non perdonò al potere ecclesiastico di aver privato Roma della sua autonomia e di aver disonorato la propria immagine186. Questo suo rammarico è condiviso da altri suoi concittadini, in parte pure imparentati o in rapporti d’amicizia con lui, fra cui Mario Salomoni e Giacomo Frangipane. Lo stesso Altieri, come altri, comunque coltivò contatti personali con la Curia avendo rivestito un incarico venale cioè quello dello scriptor papale187. Egli ebbe un ruolo decisivo nella faccenda del 1511 e dovette in seguito far fronte a possibili sospetti su di lui. Ciononostante continuava a giocare – insieme con i suoi vecchi compagni d’idee – un ruolo importante a Roma, offrendosi, per esempio nel 1516, di riscattare gli uffici comunali dati in pegno188. Viste le analoghe idee espresse nel suo famoso scritto Li Nuptiali, l’Altieri fu nel 1520, quasi sicuramente, uno degli iniziatori di una legislazione contro le attribuzioni di doti troppo alte che minacciavano il ceto dei gentiluomini romani189; ulteriore conferma, per quanto poco realistiche (e contraddittorie), furono certe posizioni dell’élite cittadina in difesa dei loro fondamenti sociali.
33Ma le due facce della personalità e dell’azione politica dell’Altieri – da un lato di difensore delle libertà comunali e dall’altro di fedele servitore del papa – si mostrano anche in un altro episodio meno noto della sua carriera che è emblematico per gli antagonismi e le contraddizioni che regnavano all’interno della nobiltà municipale. Questo episodio è conosciuto solo tramite un documento eccezionale che – pur essendo stato stampato già due volte, nel 1762 e nel 1804190 – non ha trovato la giusta considerazione191. Questa fonte, databile nei primi mesi del pontificato di Leone X192, consiste in una lettera, o meglio un memoriale, che mandava al papa Medici la cana nobilitas Urbis, ossia la «vecchia (o bianca) nobiltà romana». Le componenti principali di questo gruppo si possono ricostruire dai nomi presenti sulla lista aggiunta, elencati rione per rione, e fra cui eccellono non solo Marcantonio Altieri, ma anche una lunga serie di suoi amici e compagni politici come Paolo Planca, Mario Salomoni e Giacomo Frangipane. Ma non si trattava semplicemente della protesta delle vecchie famiglie patrizie contro le manipolazioni delle elezioni attuate dai presunti popolari193 ma piuttosto di un contrasto all’interno del gruppo dirigente della città visto che la cana nobilitas Urbis – che assume le connotazioni di un nome di partito – si opponeva ad esponenti di famiglie come i Pierleoni, i Maddaleni Capodiferro e i Mattei che erano non meno nobili. I principali avversari sono – senza essere citati per nome – i conservatori del tempo (moderni conservatores) purtroppo non specificati (ma piuttosto quelli del secondo anziché primo trimestre) nonché gli imbussolatores le cui funzioni abbiamo già chiarito.
34Le delibere raccolte dal Rutili fanno supporre che la lotta fra le due correnti nel consiglio e le manipolazioni nella elezione degli officiales comunali continuassero negli anni seguenti, visto che nove anni dopo nel febbraio 1522, vediamo in azione esponenti della precedente cana nobilitas Urbis ricorrere allo strumento di far eleggere dai propri ranghi altri quattro assistentes consiliarii – un organo paraistituzionale non considerato negli statuti comunali194 – per affiancare i conservatori (fra i quali c’era il fratello di Marcantonio, cioè Mariano Altieri)195. Assistiamo ad un vero e proprio braccio di ferro tra due «correnti» dove non mancarono dei colpi di scena, come succedeva nella seduta del 27 febbraio quando gli assistentes fecero mettere a verbale la protesta sulla loro mancata convocazione al consiglio, invocato per decidere proprio sulla bussula officialium romanorum196. Il 14 marzo 1522 gli assistentes fecero approvare dal consiglio la loro proposta di aspettare l’arrivo del neoeletto pontefice, ancora in viaggio, prima di procedere all’estrazione dei nuovi officiales. Come richiesto anche nel memoriale del 1513, questa delibera voleva rispettare il diritto di controllo papale sulle nomine comunali197. Ma pare che alla fine la decisione, presa in assenza dei conservatori, non avesse avuto seguito; fatto sta che agli inizi dell’aprile erano in funzione i tre nuovi conservatori Bernardino Sanguigni, Raimondo Capodiferro e Giulio Mattei (tra i quali due provenienti da famiglie contestate dall’Altieri già nel 1513).
35Il memoriale del 1513 ci aiuta anche a valutare meglio il sistema elettorale che portava alla nomina dei conservatori. Già gli statuti del 1363 avevano previsto l’applicazione della bussula; due dei tre conservatori, sempre romani, venivano scelti tra esponenti popolari e solo uno tra i nobili (detti cavallerocti)198. Nella loro lettera del 1513, invece, i nobili invitavano apertamente il papa ad eleggere i tre conservatori – tra cui unum iuris doctorem – fra i 72 candidati rejecti a conservatoratu et primoribus magistratibus conspiratione facta contra optimos, elencati nel memoriale199, rilevando così la vecchia consuetudine di limitare la selezione fra gli uomini graditi al papa200 che aveva quindi l’ultima parola sulla scelta della giunta comunale. E questa prassi traspare anche nei nomi dei conservatori registrati nei verbali del Rutili visto che non era certo un caso che uno di essi fosse di solito un curiale, un medico papale o un insigne giurista, che già per via dei suoi incarichi godeva della fiducia del sovrano201. L’elemento popolare ai vertici era ormai fortemente ridotto, se non quasi inesistente. In linea di massima il timore comune delle componenti dominanti era che altri nuovi arrivati (intesi socialmente ma anche geograficamente) potessero minacciare il loro predominio esclusivo. Queste famiglie erano concordi nel non dare troppo seguito alle richieste politiche del popolo202.
36Ma nella politica quotidiana l’aristocrazia municipale era tutt’altro che compatta e ciclicamente ritornava il vecchio fenomeno delle fazioni e correnti fra i partecipanti alla vita pubblica203. Sembra che, nel 1513, i contrasti all’interno di questo gruppo si fossero accesi proprio sulla questione del come integrare gli interessi e le pretese dei ceti emergenti. I conservatori cercarono, come denuncia il memoriale, di strumentalizzare gli elementi popolari negli organi istituzionali per garantirsi un benevolo giudizio sul loro cattivo operato. A questo scopo i detti conservatori avrebbero manipolato la distribuzione degli uffici pubblici per sorteggio facendo inserire da certi plebei inbussolatores i nomi di giovani inesperti e gente di umili origini (iuvenes inexpertos et multos etiam vilissime conditionis) come per esempio un servitore del duca di Sermoneta (allora Guglielmo Caetani) che non era neanche un cittadino romano ma un forensis di Città di Castello204; un precedente che ci ricorda come i tentativi di lanciare dei personaggi di propria fiducia da parte del baronato romano e di influenzare così la composizione del consiglio non erano affatto finiti205. Nella bussola dei conservatori sarebbero stati messi i nomi dei conservatori stessi e quelli dei loro parenti stretti nonché due nomi di membri di alcune famiglie che si volevano favorire, mentre non furono considerati i nobiles, con scandalo per il papa e per il populus romanus. Nel caso della bussola dei reformatores studii, cioè dell’organo di controllo dell’Università di Roma, si denunciava che fra gli imbussulati dominassero i viles anziché i primores Urbis206. Inoltre sarebbe stata aggirata la regola sulla candidatura per un solo incarico, mettendo gli stessi nomi nelle bussole per diversi uffici, ed inoltre candidando dei forestieri per di più indegni come un vaccinarius (conciatore) della Corsica anziché esclusivamente i romani oriundi e benemeriti con i quali si identificava – con chiara nota propagandista – ovviamente la cana nobilitas. Pare che alla fine l’Altieri riportò la vittoria, dato che ottenne dal consiglio la facoltà di designare i candidati per alcuni posti dell’amministrazione comunale prendendoli soprattutto dalle file della cana nobilitas207.
37Nel 1522, invece, le acque si placarono quando – forse su comando del pontefice – le due parti si accordarono per l’elezione dei nuovi imbussulatores: probabilmente per evitare il rischio di offendere le due correnti si affidò ai caporioni la scelta, per ciascun rione, di due candidati tra i quali figurarono i probabili capi degli schieramenti opposti poi confermati anche nell’elezione, cioè Giacomo Frangipane e Mario Salomoni da un lato e Giuliano Maddaleni e Gianangelo Pierleoni dall’altro208. Rispetto a Leone X filo-Altieri, Adriano VI, ancora in viaggio, osservò una certa neutralità. Fatto è che i nomi dei tre conservatori e del nuovo priore dei caporioni che formavano il vertice della giunta comunale, nel terzo trimestre 1522, appaiono non casuali ma l’espressione della parità delle due correnti, visto che Francesco Caffarelli e Giordano Serlupi erano amici di Altieri (e come tali già presenti nel memoriale del 1513!) mentre il primo conservatore, il medico Antonio Petrucci e il priore Giacomo Cenci sono forse da attribuire alla corrente opposta. I tre conservatori rimasero in carica fino alla fine dell’anno ricoprendo due anziché un solo trimestre come era prescritto, segno anche questo che le turbolenze erano passate209.
38Gli eventi del 1513 e del 1522 hanno evidenziato più punti. I metodi del gioco politico e le manipolazioni della bussula – che in realtà erano più complesse di quanto qui descritte – fanno capire i fragili equilibri istituzionali a Roma e quanto potere avessero ormai gli imbussulatores, provenienti, anche successivamente, dalle principali famiglie della città, che controllavano così la via principale di accesso alla vita politica comunale210. Troppo grandi però erano fra questi lignaggi le differenze di interessi e – come vedremo – anche i profili economici, sociali e culturali nonché i legami politici differenti per poter formare un gruppo omogeneo. Perciò non si può parlare a Roma di una vera e propria oligarchia, per quanto grande fosse anche la tentazione211 per le famiglie più in vista, che invece formavano in realtà «an open elite»212.
39Il memoriale tanto citato ha inoltre dimostrato che i romani guardarono con attenzione all’immigrazione in grande stile che caratterizzava la situazione demografica romana dopo il ritorno definitivo della Curia nella capitale alla fine del Grande Scisma (1420)213. Per la posizione dei curiali stranieri a Roma fu decisivo che i papi li incoraggiassero ad investire i propri guadagni nella città aprendo loro la possibilità di lasciare i beni agli eredi anzichè farli prendere al fisco papale per via dello ius spolii (cioè il diritto della Camera Apostolica di incamerare i beni di un curiale chierico morto)214. I romani non si opposero affatto a queste iniziative anzi se ne fecero portavoci avendo capito bene che l’afflusso di capitali esterni investiti nel settore edile e finanziario poteva solo favorire l’economia romana215. Le gerarchie curiali premevano per far conferire la cittadinanza romana a parenti del papa nonché a dignatari e ad addetti alla corte pontificia. Ma l’iniziativa poteva partire anche dall’interno dei vertici del comune romano come provano le note solennità e feste pubbliche che accompagnarono il conferimento della cittadinanza al fratello di papa Leone X, il duca di Nemours, Giuliano de’ Medici, nel 1513216, ed ad altri esponenti del suo parentado217. Questi atti costituivano, non per ultimo, anche segni politici, ben visibili, che avevano lo scopo di sottolineare l’aspetto clientelare che legava i sudditi romani al loro sovrano. E i romani stessi non esitavano ad appellarsi all’aiuto ed alla intercessione di questi nuovi cittadini quando lo ritenevano opportuno. Così in un episodio del 1519 essi sperarono di trovare la comprensione del cardinale Giulio de’ Medici, il futuro papa Clemente VII, visto che egli, come sottolinea il decreto del consiglio, era stato fatto pure civis romanus218.
40Le numerose concessioni di cittadinanza a più o meno illustri stranieri, dimostrano comunque che i romani (spesso loro stessi forestieri d’origine e naturalizzati per via di una nuova o ereditata cittadinanza) non furono sempre avversi219 ma anzi, contro le apparenze, assai aperti ad accogliere nuovi cittadini220. Questi spesso riuscivano ad inserirsi nel tessuto sociale della città anche se occoreva di solito un po’ di tempo ed un posizionamento in ruoli strategici come il notariato, il commercio, la giurisprudenza o la medicina che permettevano l’avanzata sociale221. Veloce fu l’ambientamento del nuovo cittadino romano (dal 1523) Bernardino di Urbino (Bernardino Urbinas), probabilmente un giurista, che nell’anno dopo già era uno degli imbussulatores dei giudici capitolini222. Ancora più successo ebbe l’avvocato concistoriale Melchiorre Baldassini di Napoli223. Nomi come i Del Drago (di Viterbo), Trinci (di Foligno), d’Acquasparta e de Cesis (dell’Umbria), Spannocchi (di Siena), Lancellotti (della Sicilia) e Aragona (de Aragonia; dalla Spagna?) fra i consiglieri e a volte persino fra i vertici capitolini dimostrano la loro ben riuscita integrazione nonostante la immigrazione di qualche generazione prima224. Questi processi di naturalizzazione sono comunque da considerare quando si valuta la presenza degli stranieri a Roma, del resto non così drammatica come si poteva immaginare225, che i romani stessi (con Marcantonio Altieri, in realtà molto ambiguo, in testa226) tendevano ad esagerare per motivi evidenti.
41Per la domanda di quanto fosse giustificata la paura dei romani di essere ostacolati nel loro campo specifico, ossia il Campidoglio, si devono analizzare anche i motivi, spesso poco considerati, che spingevano invece i forestieri a voler acquistare la cittadinanza romana. Volevano essi davvero sempre colpire i romani nativi nel loro orgoglio cittadino e subito entrare nella politica locale? La risposta deve essere molto cauta visto che i moventi dei nuovi cittadini erano i più diversi. Per qualcuno contava principalmente il prestigio, come accadde più tardi con Montaigne227, per altri il fatto di aver ormai acquistato degli immobili (in particolare una casa e una vigna) come del resto era prescritto dagli statuti228. In ogni caso, pur non volendo negare un certo fascino suscitato dalla cittadinanza romana, non si devono però dimenticare i reali motivi materiali dietro a una tale richiesta. E di incentivi ce ne erano parecchi senza che si debba pensare per primo ad una carriera in Campidoglio.
42C’era chi aspirava ad avere i privilegi collegati a questo nuovo status come l’esenzione dalla gabella studii (per quanto riguarda il vino prodotto in castris et locis territorii Urbis et districtu illius229). Un altro poteva essere attratto dalla relativa apertura della nobiltà romana (non esisteva un momento di chiusura sociale come accadeva a Venezia con la serrata del 1297 né un Libro d’Oro) che permetteva ad un non-romano l’ascesa sociale per i molteplici contatti offertigli230. Altri aspiranti romani ambivano da qualche ufficio nell’aministrazione doganale o volevano approfittare dell’esclusiva che gli autoctoni ebbero sui benefici delle chiese romane. Questi due motivi provocarono la doppia preoccupazione dei romani che traspare nella proposta del priore dei caporioni di limitare la portata della nomina a cittadino, concessa il 20 marzo 1526 all’affinis del papa Niccolò de’ Medici, affinché non ottenesse officia et beneficia231. E proprio il settore dei benefici, tanto cruciale per il controllo della vita religiosa a Roma, era un campo dove collidevano gli interessi dei papi con quelli dei romani232. Da Innocenzo VIII in poi, i papi ai quali spettava la disposizione sui benefici della città, avevano promesso formalmente di riservarli ai romani233, ma in realtà non si fecero tanto condizionare purché i candidati diventassero cittadini romani. Con ciò si spiega la grande richiesta della cittadinanza da parte di ecclesiastici che, con questa nuova qualifica, si potevano avventurare alla caccia di benefici a Roma. Questo retroscena sembra evidente in particolar modo nel caso dei non pochi chierici fiamminghi e tedeschi, che, in seguito all’ascesa del loro connazionale Adriano VI, ricevettero la cittadinanza romana. La circostanza che oggi questi chierici stranieri sono solo raramente documentabili sul «mercato» dei benefici ecclesiastici si spiega con la breve durata del pontificato del papa nordico. Sappiamo almeno che il romano naturalizzato e datario Guglielmo van Enckenvoirt, noto cacciatore di prebende, divenne parroco di Santo Stefano in Trullo234 e il suo maggiordomo Georg Dontelberg ottenne una pensione su una capellania nella basilica di Santa Maria Maggiore235. La stessa combinazione fra incarichi curiali e benefici in chiese romane era l’aspirazione anche di tanti umanisti, letterati ed eruditi fra i «nuovi» cittadini, come si può documentare meglio nei casi di Pietro Corsi e Jacopo Sadoleto236. Padri di famosi figli cercarono di spianare la strada alla loro progenie assumendo la cittadinanza romana. Così facendo Bernardino Pimpinella aprì, nel 1521, la carriera ecclesiastica a Roma ai suoi figli Vincenzo e Guglielmo237. Però va sottolineato che i benefici romani sicuramente non erano i più ambiti ma comunque sufficientemente appettibili anche per la comodità e la possibilità di sostituirli poi con altri più lucrativi fuori Roma238. È evidente che nè ai chierici romani nè agli stranieri importasse tanto delle conseguenze negative dei loro traffici sulla vita religiosa della Città Eterna.
43Per capire in fondo tutte le motivazioni dei nuovi romani ci vorrebbe uno studio prosopografico completo dei conferimenti della cittadinanza239. Sui dati che emergono dal libro di Rutili si può però già fare una osservazione che è stata confermata recentemente anche sul piano statistico240. Se prescindiamo dai casi, tutto sommato rari, già citati di consiglieri e magistrati provenienti da famiglie arrivate da qualche generazione, troviamo che i vecchi lignaggi continuarono a dominare la scena politica romana. Pare che nell’era Medicea fra i curiali e gli stranieri più qualificati quasi nessuno riuscì (se ne avesse davvero avuto l’ambizione) ad entrare nei consigli e negli uffici comunali più ambiti241. Questo fu dovuto a più ragioni: innanzitutto vediamo che i papi rispettarono, grosso modo, la norma statutaria che garantiva ai soli romani nativi l’accesso agli uffici della città242. Per quanto riguarda i curiali chierici, essi non erano una minaccia per il Campidoglio (almeno per quanto riguardava i suoi apparati giuridici) poiché già gli statuti del 1363 avevano stabilito che nullus clericus possit in curia Capitolii officium obtinere243. È da dubitare però su quanto i nuovi arrivati avessero l’ambizione di lanciarsi subito nella politica comunale ed entrare nel consiglio. Se non ci inganna la circostanza, sempre da tener presente, che, per via del sistema della bussula, l’ingresso nella vita pubblica romana era legata ad un momento di fortuna incalcolabile (che poteva colpire gli stessi romani comunque favoriti, se appartenenti a dei lignaggi ramificati!), in alcuni casi pare che un tale interesse non esistesse affatto o fosse stato ancora assai debole244. Altrimenti non si spiegerebbe perché famiglie come i Pamphilj di Gubbio e i Mazzatosta di Viterbo, pur essendo ormai da qualche decennio cives romani e ben integrati nella società romana e pur avendo concluso dei matrimoni con famiglie romane, non si fecero avanti245. Come non avrà probabilmente mai pensato a perdere tempo nel consiglio comunale romano un banchiere papale come Filippo Strozzi il giovane, cittadino romano dal 1524246. Sicuramente questi personaggi preferivano concentrare le loro forze sulle carriere curiali accanto alle quali l’impiego al Campidoglio e nei suoi uffici non era alla fine così attraente, vista la modesta retribuzione. In più va considerato che per quanto il comune si mostrasse in generale aperto ai nuovi cittadini, il processo di assimilazione totale richiedeva comunque almeno il tempo di qualche generazione.
44Da queste osservazioni, rafforzate dal memoriale del 1513 sopracitato, si può constatare che il conflitto non era tanto quello fra romani e curiali stranieri quanto fra romani e immigrati provenienti in particolar modo dai domini della Chiesa e dalle terre dei baroni romani. I romani non temettero, a quanto pare, gli artigiani forestieri impegnati in spazi settoriali come i tanti panettieri, calzolai e liutai tedeschi247. Più invidia suscitarono i grossi banchieri spesso fiorentini o genovesi nonché i mercanti e i finanziatori stranieri che si concentravano invece su incarichi legati al settore doganale e mercantile (pensiamo in particolare ai corsi e ai genovesi presenti fra i mercatores Ripe248) che venivano considerati concorrenti scomodi. I dati sulla composizione dei consigli e degli uffici comunali comunque dimostrano che la strategia selettiva dei nobiles cives romani nei confronti degli stranieri, trattati con cautela, alla fine ebbe buoni risultati e può essere considerata, nell’ottica del loro interesse, un successo.
L’INTRECCIO DI INTERESSI FRA LA CURIA E L’ÉLITE MUNICIPALE
45Il ritorno dei papi a Roma non aveva solo provocato l’afflusso degli stranieri ma aveva aperto anche agli stessi romani nuove possibilità di guadagno e di carriera. Alla lunga l’internazionalizzazione della curia, che caratterizzò fortemente i primi decenni del xv secolo, si era convertita ormai da tanto in un processo di crescente italianizzazione249, dalla quale anche i romani potevano trarre profitto. Non mancano esempi di carriere eccellenti alla corte romana, anzi, si può osservare che un romano poteva conquistare un maggiore successo personale ormai solo divenendo egli stesso membro della curia, iniziando come scriptor o abbreviatore e finendo, in rari casi, la sua carriera con il chiericato di Camera250 e addirittura con l’episcopato o il cardinalato. Grandi opportunità ebbero, fra l’altro, i Porcari251, i Planca degli Incoronati252, i Della Valle, gli Jacovacci e i Santacroce253. Le possibilità si aprivano poi non solo ad ecclesiastici e cortigiani ma anche ai laici. Fra loro il rango più ambito era quello dell’avvocato concistoriale254. Troviamo romani laici anche fra gli investitori nei collegi curiali venali255 come quelli degli abbreviatori de parco minori256 e dei portionarii Ripe257, dei collectores taxae plumbi258, ecc.
46In realtà tanti romani non svolsero personalmente servizi alla curia ma trovarono molti vantaggi nella loro partecipazione a questi uffici con un prestito sulle loro rendite. Di queste societates officiorum259 nell’Archivio di Stato si è conservato un registro degli strumenti di consenso per questi fondi d’investimento richiesti dal datario, risalente agli anni dal 1515 al 1518. Così troviamo un clericus romanus, Ascanio de Saldis, che investì denaro in un ufficio di scriptor in registro supplicationum; Antonio Pamphilj si mise in società con uno scriptor penitentierie; Giulio Pirroni investì in un officium cursoratus e il suo collega nel consiglio comunale, Evangelista Boccapaduli in un officium scriptorie archivii romane curie260. Si noti che si tratta qui di uffici «di medio livello», più economici di quelli, invece costosissimi, come chierico o auditore della Camera Apostolica261. Mentre queste persone come «soci taciti» non appaiono nelle liste ufficiali, altri agivano alla piena luce del giorno. Specialmente qualche imprenditore romano ebbe successo, come dimostra la fortuna di Giuliano Leni, coordinatore di importanti opere architettoniche di Leone X, come la fabbrica del nuovo San Pietro262.
47In più i papi ricorrevano anche ai romani per affidar loro posti nell’amministrazione temporale dello Stato della Chiesa. In mancanza di studi prosopografici sufficienti per il periodo mediceo263 non si possono apportare cifre definitive, ma i dati parziali disponibili confermano questa presenza dei romani assai notevole e tutt’altro che da sottovalutare. Per fare qualche esempio preso dalle minute dei brevi di Clemente VII prima del Sacco, si può menzionare Girolamo Gottifredi che nel 1524 divenne rector et gubernator della Campagna e Marittima264. Il conservatore in carica Giambattista de Teodericis poco dopo è anche commissarius papale per combattere gli scelera et homicidia dilaganti in terra nostra Core (nelle deliberazioni del consiglio comunale questo coinvolgimento del papa è discretamente taciuto, visto che al Campidoglio Cori veniva considerato proprio un feudo del popolo romano265). Nel 1525 il patricius romanus Giambattista de Cuccinis e il potente Giangiorgio Cesarini, confaloniere di Roma, divennero rispettivamente podestà di Orte e governatore papale di Spoleto266. Si nota che il servizio per il principe, qui il papa, anche a Roma diventava sempre più essenziale per il prestigio della classe dirigente267.
48Tutto sommato si può constatare che la posizione dei romani all’interno degli apparati curiali, alla fine, non si presentava così marginale come fanno credere alcune statistiche268 e soprattutto i giudizi (mirati!) dei romani stessi che con le loro continue lamentele cercarono di agganciarsi abilmente – ma non sempre meritatamente! – agli splendori passati. Ma vedremo più in là che queste lagnanze non furono del tutto infondate.
49Alla base di queste carriere di laici e chierici romani stava spesso un rapporto diretto fra il singolo individuo e la persona del sovrano papale che si può definire clientelare269. A volte un tale rapporto si esprime già nel nome di una persona, come accadde nel caso del cancelliere di Roma Angelo Cesi, che dal tardo 1520 assunse – sicuramente su privilegio papale – il nome Medices de Cesis270. Un documento significativo si è conservato fra le minute dei brevi di papa Clemente VII e consiste nell’abbozzo della nomina a familiaris papale in favore di Prospero de comitibus de Aquasparta. Questo passo fu motivato dal fatto che Prospero aveva servito fedelmente il papa e la sua famiglia già prima della sua ascesa al trono pontificio sia in affari di curia che in incarichi civili a Roma (tam in negotiis Romane Curie quam in civilibus Romanorum magistratibus diu et multa cum laude versatus es nobisque etiam in minoribus existentibus et domui nostre complura et fidelia obsequia prestiteris)271. Non era quindi necessario essere rivestito formalmente dello status di familiaris papalis per rendersi utile, anzi, pare che questo rango spesso fosse l’ultimo tasello di un reciproco rapporto di lunga durata. Questo vale anche per i legami basati sulla stima e sulla fiducia non formalizzati272, come avvenne nel caso dell’illustre giurista Mario Salomoni, che indirizzava lettere e opere a Leone X e a Clemente VII che «ci documentano i rapporti di stretta amicizia che intercorrevano fra il Salamoni ed i due Papi di casa Medici»273. Su ampia scala si può osservare – e i decreti comunali di Rutili lo confermano – che il papa gestiva i suoi rapporti con la città da patrono indiscusso cercando il contatto diretto con i suoi sudditi274. Stupisce a volte la facilità con la quale le diverse deputazioni dei romani furono accolte dal pontefice e viceversa la immediatezza di alcuni suoi interventi275. Il rapporto clientelare speciale fra il comune e il primo papa Medici (che si protrasse fino ai suoi successori) si rispecchiava anche nella concessione della cittadinanza ai suoi parenti276 e nel progetto di erigere in suo onore una statua. Nonostante i ritardi e le difficoltà nella sua realizzazione, quest’ultima iniziativa fa comunque vedere quanto il comune romano fosse consapevole dei meriti del papa Medici nei riguardi dell’autonomia municipale anche se ormai alquanto limitata277.
50Con i cardinali il consiglio comunale aveva a che fare sia per via dei rapporti individuali che per via dell’istituzione del collegio cardinalizio, il quale svolse un ruolo importante specialmente durante la vacanza del soglio pontificio. Così incontriamo singoli cardinali nel liber del Rutili, quando ottennero dal papa specifici compiti verso il comune di Roma, quando divennero appaltatori di uffici e di qualche porta romana o quando interferirono con gli interessi della città, per esempio tentando di sfregiare monumenti antichi per guadagnare materiale edilizio pregiato per i loro palazzi278. In più potevano chiedere la cittadinanza per qualche loro servitore e familiaris279. Per via degli enormi vantaggi collegati ad una tale posizione i romani avranno gradito che Leone X, dopo tanto tempo di scarsa considerazione, aveva concesso a tre di loro, cioè ad Alessandro Cesarini, Andrea Della Valle e Domenico Jacovacci, il capello cardinalizio280. Non dobbiamo dimenticare che fra i ben 43 cardinali, creati da Alessandro VI, non c’erano che due romani, Giuliano Cesarini e Alessandro Farnese, che ebbero la porpora principalmente per motivi di parentela con il papa; e Giulio II non ne nominò neanche uno281.
51La Curia per i romani non era comunque l’unico punto di riferimento. Come, del resto, anche tanti curiali forestieri legati ai loro signori e signorie in patria che li controllavano pure da lontano282, anche i romani, sebbene non più come nei secoli precedenti, sentivano ancora l’influsso del baronato283, come si denota pure nelle delibere del consiglio municipale. Qui le testimonianze per gli obbietivi comuni fra baroni e consiglieri (comunque attenti a non toccare l’argomento delicato delle fazioni filo-Orsini o filo-Colonna osservando una forma di cauta imparzialità284) superano i momenti di disaccordo che continuarono a disturbare i rapporti reciproci285. La continuità dei legami clientelari si mostra non da ultimo nelle nomine di nuovi cittadini, a volte concesse su esplicita raccomandazione dei baroni (e dei loro cardinali)286. Non abbiamo al momento sufficienti fonti autobiografiche per entrare nei dettagli, ma nei casi di personaggi importanti come quello di Bartolomeo Della Valle e di suo fratello, il cardinale Andrea, che ebbero ottimi rapporti sia con i papi che con la famiglia Colonna, si manifesta un intreccio, sicuramente non tanto raro a Roma, di legami a prima vista contraddittori e ambigui, che però non si neutralizzavano ma, al contrario, erano un valido trampolino di lancio per le loro carriere287.
52Il papi erano in allerta e non ci stupisce che affidassero a forestieri, spesso secondo la loro provenienza, i posti chiave alla curia più ambiti, come per esempio la posizione di tesoriere, datario o segretario papale288, per sentirsi più sicuri289. Le cause di questa relativa scarsa rappresentanza dei romani negli alti apparati curiali vanno però cercate non solo nel nepotismo papale, qui inteso come una forma legittima e comprensibile di gestione del potere anche tramite i rapporti personali (parenti, compaesani)290, ma in ragioni più complesse. Le alte somme richieste per i tanti incarichi curiali, ormai venali, superavano spesso le possibilità finanziarie di parecchi romani che – pur quando si trattava di nobili291 – ebbero mezzi piuttosto limitati rispetto ai loro concorrenti non-romani, di solito esponenti di ricche famiglie di banchieri e mercanti292.
53Un altro fattore da considerare per la questione della scarsa presenza dei romani negli apparati curiali sarebbe il profilo culturaleprofessionale dei potenziali candidati, data l’importanza crescente degli studi universitari ed umanistici per le carriere eccellenti293. Sebbene su questo punto si dovrebbe ancora fare uno studio più approfondito, non mancano indizi per sospettare che i romani, salvo poche eccezioni, fossero meno preparati degli altri aspiranti, appartenenti spesso all’élite intellettuale del loro tempo. Agli abitanti di Roma non giovavano certo la permanente crisi dell’università di Roma294, le limitate risorse economiche per finanziare un periodo di studio dei figli in un’altra città universitaria295 nonché l’indifferenza ancora diffusa nei confronti della brulicante vita culturale dell’era medicea, concentrata per lo più alla Curia296. E anche l’Altieri vide la necessità di inanimar la ioventù romana alle lettere297. Questi fattori non favorirono la creazione di un’élite intellettuale molto ampia come serbatoio per carrieristi, sebbene si debba riconoscere che la situazione culturale fosse sicuramente migliorata – e migliorò ancora di più! – rispetto ai secoli precedenti298. Non dimentichiamo che fra i romani più attivi nella politica comunale dei primi decenni del Cinquecento troviamo personaggi di alto rilievo culturale come Pietro Mellini, Paolo Planca, Antonio Zoccoli, Evangelista Maddaleni Capodiferro, Marcantonio Altieri e Mario Salomoni, in parte formati nell’Accademia di Pomponio Leto299. Perciò non va sottovalutato il ruolo dello Studium Urbis come centro di formazione dei gruppi dominanti romani, visto che qui partirono e si affermarono le carriere dei giuristi romani più in vista, cioè degli avvocati concistoriali300. Le delibere dei consigli dimostrano che fra i romani i laureati, specialmente nel diritto e nella medicina, ebbero sufficienti sbocchi per le loro ambizioni301; e naturalmente solo ai doctores spettò il primo posto nella gerarchia dei tre conservatori.
CONCLUSIONE
54L’intento della nostra analisi è stato quello di mostrare la difficile convivenza dei due differenti apparati di uffici in una città cortigiana sui generis come si presenta Roma. Da un lato dominava la Curia Romana, d’importanza universale e con leggi proprie, e dall’altro c’era l’apparato comunale302, per il quale, più delle ricchezze e dei meriti accademici (per quanto rilevanti), contava l’appartenenza ai differenti networks e alle correnti interne dell’élite municipale instaurati sulla base di legami personali con i papi e/o i baroni, nonché di interessi economici e culturali comuni: pensiamo solo alle feste e tradizioni cittadine e religiose, la scelta di determinate confraternite (come quella del S. Salvatore), allo Studium Urbis, alla committenza artistica e al collezionismo di antichità nonché ai ricordi e alle imprese collettive come la Pax romana del 1511 che in questa sede possono essere solo accennate303. I decreti comunali raccolti dallo scriba senatus Rutili intanto hanno offerto una prima panoramica sul come si svolse questa convivenza istituzionale particolare a Roma che è caratterizzata anche dalla scarsa chiarezza delle vie decisionali; infatti erano ancora poco definite e coordinate le varie competenze attive sul piano amministrativo comunale (il papa, la Camera Apostolica, i conservatori, i consigli), per non parlare del settore giuridico ancora più complesso. Siamo diventati testimoni delle continue acrobazie, alle quali i consiglieri erano costretti per salvare quel poco che era rimasto dell’antica libertà comunale. Nel loro ambiguo comportamento nei confronti del potere papale, traspare una certa rassegnazione dovuta al fatto, valido più che mai, che dal punto di vista economico la presenza del papato a Roma ebbe sulla città vantaggi tali da bilanciarne sempre gli svantaggi.
55Viceversa anche la Curia aveva bisogno di interlocutori per le vicende della città ed era interessata ad un modus vivendi con il comune e il suo ceto dirigente, dei quali furono formalmente rispettate le prerogative e ai quali fu lasciata la facoltà di disporre degli incarichi comunali (pur nei loro limiti descritti) nonché, ogni tanto, lo spazio per esperimenti istituzionali come quelli collegati agli assistentes e ai portionarii. Solo per gli uffici comunali particolarmente importanti (quelli dell’advocatus o procurator della Camera Urbis nonché dell’advocatus fisci Camere Apostolice) i papi favorirono esponenti di famiglie di recente ascesa, se non forestieri che da poco avevano ottenuto la cittadinanza romana304. Il sistema della bussula per la distribuzione degli uffici e dei seggi nei consigli comunali, del resto, non giovava solo agli interessi dei cives nobiles, ma piaceva anche alla Chiesa, se non si metteva in discussione il consenso necessario, sempre rispettato, dei pontefici ai candidati eletti. Ciò impedì alle singole famiglie di assicurarsi una posizione esclusiva pericolosa; un obbiettivo che corrispondeva anche alla politica tradizionale papale del divide et impera305.
56Fu proprio Leone X che, per quanto ancora cautamente, riaprì ai romani – più dei suoi predecessori Alessandro VI e Giulio II – le carriere alla Curia. Sotto i papi Medici i romani ricominciarono a contare alla Curia e nel collegio cardinalizio. Non solo i baroni ma anche gli esponenti della nobiltà municipale seppero cogliere queste occasioni, come illustrano le carriere dei cardinali Andrea Della Valle e Domenico Jacovacci provenienti proprio da quella cerchia di famiglie che contribuì maggiormente ai consigli e agli apparati comunali. Come succedeva in altre corti, il papato aveva quindi capito di dover consentire all’élite municipale un minimo di spazio per l’articolazione dei propri interessi. Non a caso la riforma degli statuti veniva affidata ad esponenti della stessa classe, cioè a Mario Salomoni ed a Paolo Planca306. I papi si mostrarono così abili strumentalizzatori della psicologia politica della loro capitale e dei suoi gruppi guida, che del resto a loro servivano, sebbene ancora in modo ridotto, come serbatoio per il reclutamento di ecclesiastici, cortigiani e funzionari da impegnare anche nell’amministrazione non solo a Roma, ma anche nello Stato della Chiesa.
57Il fatto che il bilancio della presenza dei romani alla Curia, se si prescinde dalle eccezioni appena citate, sotto il punto di vista quantitativo e qualitativo, rimase ancora relativamente modesto, ebbe più ragioni. Gli accessi a tante carriere curiali rimasero chiusi alla maggioranza dei cives nobiles, non tanto per la diffidenza dei papi verso i loro sudditi più vicini (comunque un fattore non trascurabile), quanto principalmente a causa delle loro minori risorse economiche così indispensabili in un periodo di crescente venalità degli uffici. Perciò erano inevitabili le frustazioni per il gruppo dirigente romano imbevuto di una ideologia che si ispirava a modelli antichi307. I cives nobiles dovettero accontentarsi soprattutto degli uffici comunali e dei loro privilegi. Questi invece erano minacciati, non tanto dall’avidità dei curiali e degli stranieri dell’orbita della corte papale, quanto dalle nuove forze sociali interne provenienti dal basso ceto e dalla immigrazione, in particolare quella laziale. La conseguenza furono le note frizioni e i malumori continui aggravati anche da un problema di comunicazione che derivava dalle specificità del governo papale su Roma. Il pontefice, sì, fungeva da suprema autorità e patrono, ma delegava il governo della capitale spesso al cardinal camerlengo ed ai funzionari della Camera Apostolica. Per quanto i contatti diretti reciproci, spesso anche di natura informale, fra il papa e i suoi sudditi romani fossero intensi, pare però che un vero dialogo sul fronte ideologico, poco conciliabile, non avvenisse e che tutti e due i lati, in fondo, non ebbero la giusta comprensione e considerazione delle specifiche posizioni dell’altro.
58Il consiglio cittadino temette il confronto aperto con il papato che naturalmente veniva sempre consultato prima di prendere decisioni importanti e che si cercò di accontentare, quanto più possibile, pure nelle nomine degli officiales comunali. Ma i consiglieri potevano anche rifiutarsi quando le ingerenze papali e curiali superavano certi limiti. In queste situazioni non mancarono le proteste, anche se queste, a volte, appaiono un po’ forzate, destinate ad essere senza esito concreto, e che non vanno interpretate come una questione di principio. Più pericolosi erano invece i tempi di vacanza che rivelavano i difetti strutturali del governo papale e durante i quali furono presentati i capitula al collegio cardinalizio. Mentre questi riuscirono a placare gli animi nel 1513 e nel 1522, sebbene non ebbero risultati duraturi308, il malumore generale ebbe momenti violenti dopo la morte di Clemente VII, nel 1533-1534. Ma anche questa volta le richieste dei romani al rispetto dei loro privilegi non furono accolte, se non parzialmente309. In particolar modo troviamo il divario fra l’altisonante ideologia comunale e la realtà politica, dal quale nacque un attegiamento politico spesso contraddittorio, in Marcantonio Altieri e Mario Salomoni, cioè due politici e scrittori provenienti dalla stessa compagine sociale, le cui carriere personali li mostrano di carattere molto più realistico e flessibile di quanto i loro scritti farebbero immaginare. È noto che ambedue seguirono una politica rigorosa nell’interesse del proprio ceto (che loro identificarono con quello della città) e non temettero il confronto con il papato. Nella sua opera De principatu, dedicata a Leone X, Mario, sì, evidenzia energicamente i vincoli di qualsiasi autorità principesca che deriva in fondo dalla volontà del popolo, non attaca però i fondamenti del potere pontificio ricollegato a Dio310. Per una opposizione intransigente, quindi, i tempi erano definitivamente passati.
59Gli anni prima del Sacco sono stati di primaria importanza per gli sviluppi istituzionali del comune di Roma. Il dilemma istituzionale e il distacco socio-culturale netto fra la Curia e gran parte degli abitanti della sua città ospite fanno riflettere, almeno per Roma (e non solo), sulla validità della nota tesi di Norbert Elias sul disciplinamento della nobiltà attraverso la vita di corte, ripreso da Paolo Prodi, ma messo già in dubbio dalla recente storiografia311. Sarebbe sbagliato voler considerare le élites cittadine di Roma nell’età medicea come una «nobiltà di corte», come poteva accadere nelle grandi e piccole città capitali dell’Italia settentrionale312, perché per un tale ruolo, ai romani mancavano i requisiti materiali necessari che si concentrarono invece nelle mani dei nipoti e parenti diretti del pontefice, dei banchieri Romanam Curiam sequentes, dei dignitari stranieri e, con grande distacco, delle poche famiglie baronali. La circostanza che gli organi istituzionali comunali venivano sempre più minati, portò però alla fine anche a Roma, seppur solo nel tardo Seicento, ad un assorbimento di essi da parte della Curia: come afferma Menniti Ippolito «gli organismi municipali facevano formalmente parte integrante della Curia romana»313. Per quanto lontani ancora da questa fase siamo nel primo Cinquecento, si può vedere che questo processo però iniziò con la svolta dei papi Medici, più generosi e aperti verso gli abitanti della capitale. Ma allo stesso momento iniziò anche la lenta decadenza dei consigli comunali che perdettero, alla fine, pure l’interesse da parte dei cives nobiles e così, dal 1620, cioè 100 anni dopo il nostro periodo, erano destinati a sparire quasi totalmente314. Ancora una volta le radici di questo sviluppo sono quindi da cercare proprio nell’era dei Medici, sebbene in particolare, il pontificato di Leone X, grazie alla restituzione degli uffici ai romani, decretata nel 1513, venne presto, più del dovuto, glorificato e mitizzato315.
Notes de bas de page
1 Il rapporto fra la città di Roma e il papato è stato oggetto di tanti studi (anche di storici dell’arte e urbanisti) fra i quali vorrei citare prima P. Partner, Renaissance Rome 1500-1559. A Portrait of a Society, Berkeley-Londra, 1976 (a p. 75-111 un capitolo è dedicato a The Roman People); A. Quondam, Un’assenza, un progetto. Per una ricerca sulla storia di Roma tra 1465 e 1527, in Studi Romani, 27/2, 1979, p. 166-175; C. W. Westfall, In this most perfect paradise. Alberti, Nicholas V, and the Invention of Conscious Urban Planning in Rome, 1447-55, Londra, 1974; trad. ital.: L’invenzione della città. La strategia urbana di Nicolò V. e Alberti nella Roma del ’400, Roma, 1984 (Studi La Nuova Italia Scientifica Arte, 2), qui in particolare p. 153 s.; M. Miglio, Città e corte. Pretesti per una conclusione, in Roma capitale (1447-1527), a cura di S. Gensini, Pisa, 1994 (Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo San Miniato. Collana di Studi e Ricerche, 5 e Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 29), p. 581-590 (ed altri contributi negli stessi atti del convegno); A. Menniti Ippolito, I due «senati» del sovrano-pontefice: il Collegio dei cardinali e il Municipio romano in età moderna, in Il Senato nella storia. II. Il Senato nel medioevo e nella prima età moderna, Roma, 1997, p. 453-490, qui p. 455 s. (questo paragrafo Il papa, la Curia, la città inizia con il 1527); L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII, Princeton (New Jersey), 1992, p. 11 s.
2 Per i nostri scopi non è necessario prolungarsi su possibili modelli di separazione fra i due componenti dei servizi concentrati intorno al papa – cioè la Curia Romana e la corte papale in senso di familia pontificia (vedi sotto nota 272) – che ebbero in realtà i confini assai fluidi visto che il cumulo degli uffici portava, non raramente, ad un mescolanza dei rispettivi compiti. Comunque intendiamo per Curia Romana il centro amministrativo con competenze sia di potere spirituale-religioso che di potere temporale i cui organi principali furono la Cancelleria, la Camera Apostolica e la Penitenzieria (per non parlare di altri organi non meno importanti come la Rota Romana e la Dataria). Citiamo da una vasta bibliografia (orientata sia su ricerche normative sia su quelle prosopografiche): W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden vom Schisma bis zur Reformation, 2 voll., Roma, 1914 (Bibliothek des Kgl. Preuss. Historischen Instituts in Rom, 12/13 [rist. anast. Torino, 1971]); N. Del Re, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, Roma, 41998 [= 4a ed.]; T. Frenz, Die Kanzlei der Päpste der Hochrenaissance (1471-1527), Tübingen, 1986 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 63); B. Schwarz, E. Gatz, Kurie, Römische, in Theologische Realenzyklopädie, 20, Berlin, 1990, p. 343-352. Per i retroscena e le conseguenze socio-politiche e culturali della Curia Romana si vedano P. Partner, The Pope’s Men: the Papal Civil Service in the Renaissance, Oxford, 1990; P. Hurtubise, Jalons pour une histoire de la cour de Rome aux xve et xvie siècles, in Roma nel Rinascimento, 1992, p. 123-134 nonché la rassegna utilissima di M. Pellegrini, Corte di Roma e aristocrazie italiane in Età moderna. Per una lettura storico-sociale della Curia romana, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 30, 1994, p. 543-602. Altri titoli vengono citati al loro posto.
3 Caratteristico per questo punto di vista è il giudizio sugli eventi intorno alla cosiddetta Pax romana del 1511 nel cui preludio Pompeo Colonna ha tenuto «discorsi da demagogo» al Campidoglio per indurre «il popolo facilmente eccitabile a scuotere il giogo della signoria dei preti e a ristabilire la libertà repubblicana» (L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medio evo. III. Storia dei Papi nel periodo del Rinascimento dall’elezione di Innocenzo VIII alla morte di Giulio II. Nuova versione italiana di A. Mercati, Roma, 1959, p. 792; cfr. IV/1, Roma, 1960, p. 367). Il Pastor naturalmente seguì una valutazione dei romani, non del tutto infondata, che era già radicata nei tanti osservatori contemporanei (forestieri!): cfr. tra l’altro P. Farenga, «I Romani sono periculoso populo...». Roma nei carteggi diplomatici, in Roma capitale (1447-1527)..., p. 289-315.
4 Cfr. tra l’altro E. Rodocanachi, Histoire de Rome. Le pontificat de Léon X. 1513-1521, Parigi, 1931, p. 161 s.
5 Cfr. A. E. Esch, Gregorovius als Geschichtsschreiber der Stadt Rom, in Ferdinand Gregorovius und Italien. Eine kritische Würdigung, a cura di Id. e J. Petersen, Tübingen, 1993 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, 78), p. 130-184.
6 Per il vasto campo dei rapporti fra Signoria e istituzioni cittadine semprepiù dipendenti cfr. i contributi in La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, a cura di G. Chittolini, Bologna, 1979 (Istituzioni e società nella storia d’Italia, 6) e singoli studi come T. Dean, Land and Power in Late Medieval Ferrara. The Rule of the Este, 1350-1450, Cambridge, 1988 (Cambridge Studies in Medieval Life and Thought. Fourth Series, 7), da integrare, per quanto riguarda il rispetto e la strumentalizzazione delle tradizioni comunali, con id., Commune and Despot. The Commune of Ferrara under Este Rule, 1300-1450, in City and Countryside in Late Medieval and Renaissance Italy. Essays presented to Philip Jones, ed. T. Dean e C. Wickham, Londra, 1990, p. 183-197.
7 Ne fa fede per ultimo la impostazione nel valido saggio di I. Lazzarini, La nomination des officiers dans les États italiens du bas Moyen Âge. Pour une histoire documentaire des institutions, in Bibliothèque de l’École des chartes, 159, 2001,p. 389-412 (con ulteriore bibliografia). La Roma municipale (diversamente dal papato in sé, dallo Stato della Chiesa ecc.) non trova molto spazio in lavori importanti come Principi e città alla fine del medioevo, a cura di S. Gensini, Pisa, 1990 e 1996 (Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo San Miniato. Collana di Studi e Ricerche, 6); F. Leverotti (a cura di), Cancelleria e amministrazione negli Stati italiani del Rinascimento, in Ricerche storiche, 24, 1994; Gli officiali negli Stati italiani del Quattrocento, Pisa, 1997 (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, ser. IV, quaderni 1). In questo ultimo volume è da ricordare il contributo di A. Gardi, Gli «officiali» nello stato pontificio del Quattrocento, ivi, p. 225-291 (cfr. la recensione di M. Miglio, in Roma nel Rinascimento, 1999, p. 154 s.).
8 A. Esch, Dal medioevo al rinascimento: uomini a Roma dal 1350 al 1450, in Archivio della Società romana di storia patria, 94, 1971, p. 1-10 e Id., Rom in der Renaissance. Seine Quellenlage als methodisches Problem, in Jahrbuch des Historischen Kollegs 1995, Monaco, 1996, p. 3-28.
9 Cfr. da una bibliografia immensa A. Chastel, Il sacco di Roma. 1527, Torino 1983. Unendo il periodo prima e dopo il Sacco comunque risulta molto sintetica la trattazione in S. Andreatta, Le istituzioni e l’esercizio del potere, in Roma del Rinascimento (1420-1600), a cura di A. Pinelli, Roma-Bari, 2001 (Storia di Roma dall’antichità a oggi, 3), p. 93-121.
10 Inutile qui dare troppi titoli. Per una prima visione si rinvia a B. Mitchell, Rome in the High Renaissance. The Age of Leo X, Oklahoma, 1973 (Centers of Civilization Series, 33); Hochrenaissance im Vatikan (1503-1534). Kunst und Kultur im Rom der Päpste I, Katalog zur Ausstellung in der Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland, Bonn, 1999. Per il rigoglioso clima intellettuale, cfr. I. D. Rowland, The Culture of the High Renaissance. Ancients and Moderns in Sixteenth-Century Rome, Cambridge ecc., 1998.
11 Per la storia degli statuti comunali di Roma che richiede da tempo uno studio moderno, cfr. ancora V. La Mantia, Storia della legislazione italiana. I. Roma e Stato Romano, Torino, 1884, cap. II: Riforme di ordini pubblici e di Statuti (1377-1580); C. Re, Statuti della città di Roma, Roma, 1883 (Biblioteca dell’Accademia storico-giuridica, 1) e adesso P. Pavan, I fondamenti del potere. La legislazione statutaria del Comune di Roma dal 15 secolo alla Restaurazione, in Roma moderna e contemporanea, 4, 1996, p. 317-336; ead., Il Comune di Roma al tempo di Alessandro VI, in Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, Atti del convegno (Città del Vaticano-Roma, 1-4 dicembre 1999), a cura di M. Chiabò, S. Maddalo, M. Miglio e A. M. Oliva, Roma, 2001 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 68), p. 332-330, qui p. 325, 327.
12 Ne danno già ampiamente prova le osservazioni apportate in O. Tommasini, Il Registro degli Officiali del Comune di Roma esemplato dallo scribasenato Marco Guidi, in Atti della R. Accademia dei Lincei, ser. 4, vol. 3, parte 1a, Roma, 1887, p. 169-222, qui p. 190. Cfr. in generale P. J. Jones, Comuni e Signorie: la città-stato nell’Italia del tardo Medioevo, in La crisi degli ordinamenti comunali..., p. 99-123, qui p. 115 s.; M. Bellomo, Società e istituzioni dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Roma, 71997, p. 268-270, 363 s.; M. Ascheri, Le fonti statutarie: problemi e prospettive da un’esperienza toscana, in Legislazione e società nell’Italia medievale. Per il VII centenario degli Statuti di Albenga (1288), Atti del convegno, Albenga, 18-21 ottobre 1988, Bordighera, 1990 (Collana storico-archeologica della Liguria occidentale, 25), p. 55-70, in particolare p. 66 s. (con il monito di «procedere sempre a controlli incrociati» per capire la effettività degli statuti). Cfr. inoltre per il gioco istituzionale complesso fra principe e città le osservazioni generali in M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo e Età moderna, Torino, 1999 (Biblioteca di cultura storica, 224), p. 39 s.
13 Per la genesi degli statuti comunali P. Pavan, I fondamenti del potere...,p. 328 s.; N. Del Re, La Curia Capitolina e tre altri antichi organi giudiziari romani, Roma, 1993 (Collana della Fondazione Marco Besso, 13), p. 47 s. Per la giurisdizione del Governatore di Roma poco considerata nel testo statutario cfr. p. 521.
14 Purtroppo per gli statuti di Roma non si dispone, se non parzialmente, di edizioni soddisfacenti: per gli statuti del 1363 ci si può basare sull’edizione di C. Re, Statuti della città di Roma, Roma, 1883 (Biblioteca dell’Accademia storicogiuridica, 1); per gli statuti del 1469 si rinvia a ASC, Camera Capitolina, cred. 4, t. 88; per quelli degli anni dal 1519 al 1523 (ivi, cred. 14, t.165), esiste una rara stampa: S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes Urbis Romæ eiusdemque varia privilegia a diversis romanis pontificibus emanata in sex libros divisa novissime compilata, Roma,1519-1523; per quelli del 1580: Statuta almae Urbis Romae auctoritate S. D. N. d. Gregorii papae XIII pont. max. a senatu, populoque rom. reformata et edita, Romae, 1580; per i loro problemi interpretativi, cfr. L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 64 s.
15 Cfr. O. Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato. Nuova edizione, Roma, 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 5), p. 176 (per la presentazione dei capitula nel 1484); P. Pavan, Il Comune di Roma al tempo di Alessandro VI..., p. 326 (per la loro presentazione nel 1492); M. M. Bullard, Grain Supply and Urban Unrest in Renaissance Rome: The Crisis of 1533-34, in Rome in the Renaissance. The City and the Myth. Papers of the Thirteenth Annual Conference of the Center for Medieval & Early Renaissance Studies, a cura di P. A. Ramsey, Binghamton/New York, 1982, p. 279-292, qui p. 284 s. (vedi, a proposito, la fonte indicata sotto a nota 307); L. Nussdorfer, The Vacant See. Ritual and Protest in Early Modern Rome, in Sixteenth Century Journal, 18, 1987, p. 173-189 (per la situazione nel 1644). Per quello che succedeva nel 1511, 1513, 1522 e nel 1534 si rinvia alle note 69, 192, 308, 315.
16 Seguiamo allora un metodo basato innanzitutto sull’analisi delle strutture e su aspetti prosopografici, cercando di integrare le considerazioni in G. Chittolini, Il «privato», il «pubblico», lo Stato, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, 1994 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderni, 38), p. 553-589. Per lo studio dei networks e del patronage mi orienterò sui noti studi di W. Reinhard sugli apparati e sulle carriere curiali dei quali, nel corso della trattazione, verranno citati diversi titoli. Per una panoramica sui metodi applicati nella recente storiografia sulla Roma rinascimentale e barocca cfr. M. A. Visceglia, Burocrazia, mobilità sociale e patronage alla corte di Roma tra Cinque e Seicento. Alcuni aspetti del recente dibattito storiografico e prospettive di ricerca, in Roma moderna e contemporanea, 3, 1995, p. 11-55. Sono consapevole del fatto che la presente trattazione può essere solo un primo passo in direzione di uno studio più approfondito dei meccanismi di potere nell’era Medicea che potrebbe prendere spunti anche dalla nuova analisi micropolitica che W. Reinhard ed i suoi allievi hanno condotto da qualche tempo: cfr. Amici, creature, parenti. La corte romana osservata da storici tedeschi, a cura di I. Fosi, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, 2, 2001, p. 53-206.
17 Si tratta dell’autografo ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.15, mentre i tomi 14 e 36 conservati ivi contengono delle copie. Per i particolari della tradizione manoscritta si rinvia alla trattazione più ampia in A. Rehberg, Die ältesten erhaltenen Stadtratsprotokolle Roms (1515-1526). Teil I. Einführung und Regesten aus dem Pontifikat Leos X. (1515-1521), in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 80, 2000, p. 266-359, qui p. 271 s. I regesti di questi cosiddetti decreti sono stati pubblicati in due parti (cioè ivi p. 293-359 e Teil II. Regesten aus den Pontifikaten Hadrians VI. und Klemens’ VII (1522-1526), ivi, 81, 2001, p. 278-350); per il commentario cfr. Teil III. Kommentar und Indizes, ivi, 82, 2002, p. 231-403 (è in preparazione una traduzione italiana dei regesti e del commento da parte della Fondazione Marco Besso a Roma). Nel commentario è, per quanto possible, registrato, numero per numero, chi in passato ha fatto uso di questa fonte. Risulta fra i più assidui consultatori Emmanuel Rodocanachi (1859-1934).
18 Per la tipologia delle Riformanze, vedi i riferimenti in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, p. 266 s. n. 2, ed inoltre, per qualche esempio aggiuntivo delle vicinanze di Roma, la serie dei registri di riformanze a Rieti che partono dal 1376 (S. Dionisi, Istituzioni cittadine a Rieti al tramonto del regimen comunale, in Rivista storica del Lazio, 9, 1998, p. 37-77, qui p. 38. Cfr. pure C. Ardito, Un fortunato ritrovamento: frammenti di riformanze di Magliano Sabina del 1422, ivi, p. 79-89.
19 A volte i consiglieri vengono chiamati patres (conscripti); cfr. A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 141, 227 e in generale, per il modello del senato romano antico nella storia dei comuni italiani, V. Crescenzi, Giuristi e umanisti: il mito del senato romano e la realtà dei consigli, in Il Senato nella storia..., II, p. 217-266.
20 Una presunta testimonianza per l’esistenza di due libri di decreti comunali, risalenti agli anni 1392-1403, l’uno e 1436-1447, l’altro, si è rilevato come un eclatante falso (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, p. 267). Rimane all’attuale punto della ricerca, la testimonianza più antica di un protocollo di una seduta di consiglio romana quella delibera con la quale, nel 1436, veniva decisa l’erezione di una statua in onore del cardinale Giovanni Vitelleschi vincitore sui Colonna (ivi, p. 267 s.). Questo dato va confrontato con la ricchezza e gli alti standard di registrazione delle Consulte di Firenze e delle Deliberazioni di Venezia, risalenti al xiii secolo, che dimostrano il ritardo nello sviluppo istituzionale caratteristico per la città di Roma nel medioevo; un ritardo dovuto alle note cause come la predominanza del papato e del baronato locale nonché la debolezza delle sue strutture economiche (da ultimo, ma non esauriente, J.-C. Maire Vigueur, Il Comune Romano, in Roma medievale (vii-xiv secolo), a cura di A. Vauchez, Roma-Bari, 2001 (Storia di Roma dall’antichità a oggi, vol. 2), p. 117-157 e S. Carocci, M. Vendittelli, Società ed economia (1050-1420), ivi, p. 71-116.
21 Cfr. nota 50.
22 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, p. 271 s.
23 Vedi p. 509.
24 Questo basso numero di sedute nel 1519 è tanto più sorprendente in quanto al contrario l’anno 1522, nel quale divampò la peste, raggiunse la cifra di ben 36 sedute (vedi la tabella, ivi, p. 287).
25 Che parlano di due scribe senatus (Statuti del 1469 in ASC, Camera Capitolina, cred. IV, t.88, fol. 133v-134r, cap. CXXXVI e Statuta almae Urbis Romae..., p. 137, 200). Troviamo i nomi di due scrittori del senato in carica in ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.27, fol. 288r (1579 nov. 5), 294r (1579 dic. 10). Che lo scriba senatus fosse di nomina papale risulta dallo iuramentum di Lorenzo di Marianus Leni, per breve deputatus, registrato in ASR, Cam. I, 1715, fol. 56r (1485 dic. 6). Per l’ufficio dello scriba senatus, cfr. O. Tommasini, Il Registro degli Officiali..., passim e A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, p. 283 s.
26 A quanto già detto sui dati biografici del Rutili in ivi, I, p. 272 s. va aggiunto che come scriba senatus – senza che gli venisse associato un collega – Pietro Rotolante è presente anche negli scritti di Marcantonio Altieri, Li Nuptiali e Li Baccanali (Li nuptiali di Marco Antonio Altieri, ed E. Narducci, int. di M. Miglio, ap. e ind. di A. Modigliani, Roma, 1995, Roma nel Rinascimento inedita. anastatica, 9, p. 122; Li Baccanali, a cura di L. Onofri, Roma, 2000, Fonti per la storia dell’Italia medievale. Antiquitates, 8, p. 186, 194). L’alta considerazione che Rutili godette pure alla Curia viene sottolineata dal fatto che il cardinal camerlengo Francesco Armellini, nel 1523, gli affidò, insieme all’avvocato concistoriale e iuris utriusque doctor, Lucido Vespasiano, Medices de Cesis, Cristoforo Capozucchi e al notaio Paolo de Alphonsis, l’esame dell’operato (sindicatus) del senatore di Roma, Gabriele Bonarelli d’Ancona e dei suoi collaboratori (ASV, Cam. Apost., Div. Cam. 74, fol. 35v (1523 set. 18). Da M. Monaco, Considerazioni sul pontificato di Clemente VII, in Archivi. Archivi d’Italia e rassegna internazionale degli archivi, ser. 2, 27, 1960, p. 184-223, qui p. 217 risulta che Pietro Rutilante nel 1532 era caporione di Pigna.
27 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 98 a (la messa in evidenza è mia).
28 ASC, Camera Capitolina, Cred. I, vol. 14, c. 1 (1520 set. 28). Questa concessione pecunaria fu fatta al Rutili con un consultum senatus del 23 luglio rogato dal notaio Pacifico Pacifici, ma non registrato dallo scriba senatus. Per l’abitudine del Rutili di far rogare da altri le deliberazioni del consiglio che lo interessavano direttamente vedi nota 57.
29 Sono tante le testimonianze di sedute dei consigli che non furono registrate da Rutili. Dopo l’esempio della precedente nota 28 mi limito a riferire che Pietro Fabi per generale consilium fu eletto a maiori ipsius consilii parte gabelliere maggiore il 22 dicembre 1520 (ASC, Camera Capitolina, Cred. VI, t.49, fol. 113v), un fatto che non viene ricordato nel Liber decretorum (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 107 a, 17 dic. 1520). Nella delibera si fa riferimento ad una facoltà per Marcantonio Altieri rilasciata tramite un decreto comunale non tramandato (cui est data facultas ex consulto concordari super negocio camerarii Ripe et Ripecte: ivi, n. 29, 1 dic. 1516). Allo stesso modo non tutte le nomine di nuovi cittadini romani sono state registrate dal Rutili (come si vede da un confronto con ASC, Camera Capitolina, Cred. VI, t.49, fol. 96r-v, 97v).
30 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 56 (16 gui. 1518), 110 + a (17 gen. 1521). Un esempio per un riferimento ai nuovi statuti dopo la loro pubblicazione è ivi, II, n. 208 (3 ott. 1524).
31 Vedi nota 314.
32 Per le date delle registrazioni, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 133-136, 148-154, 214-217.
33 Per questi instrumenta, cfr. ivi, I, p. 284 s. La grande varietà dei materiali registrati è caratteristica anche per i libri di deliberazioni altrove (P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, 1991, Studi superiori NIS. Storia, 109, p. 159 s.; C. Canonici, Le Riformanze di Corneto, in Storie a confronto: 1452-1453, in Le Riformanze nei comuni della Tuscia alla metà del Quattrocento, Roma, 1995, p. 68 s.).
34 C. Ferrantini, A. M. Montaro, I quattro feudi del Popolo Romano: la giurisdizione baronale dei Conservatori della Camera Capitolina, in Rivista storica del Lazio, 9, 1998, p. 91-122 e A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, ad indicem.
35 Ivi, II, n. 222 a (3 mag. 1525).
36 Per questa lotta, I. Polverini Fosi, I mercanti fiorentini, il Campidoglio e il papa: il gioco delle parti, in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento. Atti del convegno, Roma, 7-10 giugno 1989, Roma, 1989 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 22), p. 169-185, qui p. 177 s.
37 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 91 (24 apr. 1520). Per la vasta bibliografia su questo tema, ivi, III, commento a n. 91, nonché le preoccupazioni di Marcantonio Altieri espresse in Li nuptiali..., passim e A. Esposito, Matrimoni «in regola» nella Roma del tardo Quattrocento. Tra leggi suntuarie e pratica dotale, in Archivi e cultura, 25-26, 1992-93, p. 150-175; S. Feci, La formalizzazione dei contratti delle donne a Roma in età moderna, tesi di dottorato, Istituto Universitario Orientale di Napoli, 1996. In generale vedi La legislazione suntuaria. Secoli xiii-xvi. Emilia Romagna, a cura di M. G. Muzzarelli, Roma, 2002 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti, 41).
38 Così, nel 1520, si revocò una decisione presa a proposito delle modalità nella vendita degli uffici comunali dopo solo dieci giorni (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 94, 99).
39 Per questi fondi si rinvia a nota 85 e ai Sussidi per la consultazione dell’Archivio Vaticano. Nuova edizione riveduta e ampliata a cura di G. Gualdo, Città del Vaticano, 1989 (Collectanea Archivi Vaticani, 17). Si capisce che in questa sede, da questo materiale, possono essere presentate solo pochi esempi; cfr. il commento alle deliberazioni del consiglio in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III.
40 In particolare la lunga assenza di papa Adriano VI prima della sua entrata a Roma nell’agosto 1522 (vedi p. 537) e il lungo conclave dopo la sua morte nel 1523 (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 187 a, 188) crearono parecchi problemi istituzionali a Roma.
41 Vedi nota 65.
42 Noti sono l’entusiasmo dei romani per la natura assai generosa di Leone X e la loro delusione per il carattere rigido di Adriano VI (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commenti a n. 57 e 132). Per Clemente VII, cfr. ivi, III, commento a n. 189.
43 J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la deuxième moitié du xvie siècle, 2 vol., Parigi, 1957-1959; id., Vita economica e sociale di Roma nel Cinquecento, Firenze, 1979 (titolo originale: Rome au xvie siècle, Parigi, 1975); L. Palermo, L’economia, in Roma del Rinascimento (1420-1600)..., p. 49-91; F. Colzi, Il debito pubblico del Campidoglio. Finanza comunale e circolazione dei titoli a Roma fra Cinque e Seicento, Napoli, 1999 (Studi e strumenti per la storia di Roma, 1), p. 132 s. (con ulteriore bibliografia).
44 La peste scoppiò nel 1522. Per le richieste menzionate, cfr. A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 160, 162 a + b, 187, 191 a, 192, 194; M. M. Bullard, «Mercatores Florentini Romanam Curiam Sequentes» in the Early Sixteenth Century, in The Journal of Medieval and Renaissance Studies, 6, 1976, p. 51-71, qui p. 69 nota 73; ead., Grain Supply and Urban Unrest in Renaissance Rome: The Crisis of 1533-34, in Rome in the Renaissance. The City and the Myth. Papers of the Thirteenth Annual Conference of the Center for Medieval & Early Renaissance Studies, ed. P. A. Ramsey, Binghamton/New York, 1982, p. 279-292.
45 V. A. Esch, La fine del libero comune di Roma nel giudizio dei mercanti fiorentini. Lettere romane degli anni 1395-1398 nell’Archivio Datini, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e archivio muratoriano, 86, 1976-1977, p. 235-277.
46 Per la Camera Apostolica, cfr. C. Bauer, Studi per la storia delle finanze papali durante il pontificato di Sisto IV, in Archivio della Società romana di storia patria, 40, 1927, p. 319-400; M. Monaco, La situazione della Reverenda Camera apostolica nell’anno 1525. Ricerche d’archivio (Un contributo alla storia delle finanze pontificie), Roma, 1960, (Archivi d’Italia e rassegna internazionale degli archivi. Quaderno <doppio>, 6); A. Gardi, La fiscalità pontificia fra medioevo ed età moderna, in Società e storia, 33, 1986, p. 509-557; E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano, 1985; P. Partner, Papal financial policy in the Renaissance and Counter-Reformation, in Past and Present, 88, 1980, p. 17-62 (cfr. p. 19 con uno schema della struttura della Camera Apostolica); M. Caravale, Entrate e uscite dello Stato della Chiesa in un bilancio della metà del Quattrocento, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma, 1978, p. 167-190.
47 M. G. Pastura Ruggiero, La Reverenda Camera Apostolica e i suoi archivi (secc. xv-xviii), Roma, 1984; P. Cherubini, Mandati della Reverenda Camera Apostolica (1418-1802), Inventario, Roma, 1988; M. L. Bååth, L’inventaire de la Chambre Apostolique de 1440, in Miscellanea Archivistica Angelo Mercati, Città del Vaticano, 1952 (Studi e testi, 165), p. 135-157; E. Lo Sardo, Le gabelle e le dogane dei papi in età moderna. Inventario dela serie Dogana della Miscellanea camerale per materie, Roma, 1994 (Studi e strumenti, 6). Per l’importanza di questi aspetti documentario-archivistici anche in altre regioni italiane vedi la bibliografia indicata a nota 7.
48 Per lo sviluppo della Camera Urbis dal Duecento e il suo rapporto complesso con la Camera Apostolica, M.-L. Lombardo, La «Camera Urbis». Premesse per uno studio sulla organizzazione amministrativa della città di Roma durante il pontificato di Martino V, Roma, 1970 (Corpus Membranarum Italicarum. Studi e ricerche, 6); G. Scano, L’Archivio Capitolino. Parte I, in Archivio della Società romana di storia patria, 111, 1988, p. 381-446; L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 86 s.
49 Citatissimo e, in mancanza di meglio, ancora utile è E. Rodocanachi, Les institutions communales de Rome sous la papauté, Parigi, 1901. Nuovi studi speciali, già citati o ancora da citare, sono stati intrapresi da N. Del Re, P. Pavan e M. Franceschini. Per un primo approccio generico, G. Scano, Storia ed istituzioni capitoline dal medioevo all’età moderna, in Capitolium, 39, 1964, p. 183-190; ead., L’Archivio Capitolino..., p. 391 s.
50 La bolla con l’incipit Dum singularem fidei constantiam (ASV, Reg. Vat. 1198, fol. 27r-31r) faceva parte dei nuovi statuti (S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes Urbis..., VI, fol. 26v-29v Bulla [Leonis] gratiarum populo romano concessarum) e fu stampato ripetutamente; cfr. G. B. Fenzonius, Annotationes in Statuta sive ius municipale Romanae Urbis..., Roma, 1636, p. 678-680; ulteriori riferimenti in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, ad indicem («Restitutionsbulle»).
51 Il Senatore di Roma dal 1360 doveva essere forestiero; dal 1393 veniva nominato dal papa (P. Pavan, Del Senato romano. Dalla Renovatio Senatus all’unità d’Italia: il percorso di un’istituzione, in La facciata del Palazzo Senatorio in Campidoglio. Momenti di storia urbana di Roma, a cura di M. E. Tittoni, Pisa, 1994, p. 21-28; M. Franceschini, Il tribunale del Senatore, in La facciata del Palazzo Senatorio..., p. 29-37; M. Miglio, Il Senato in Roma medievale, in Il Senato nella storia..., II, p. 117-172; L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 69 s.).
52 Cfr. per le competenze dei conservatori in generale P. Pavan, Del Senato..., p. 27 s.; A. Menniti Ippolito, I due «senati»..., p. 478-481; L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 79 s. Per quanto concerne l’elezione dei conservatori, poco studiata, acquista particolare rilevanza un documento che pubblichiamo in appendice e che commentiamo a p. 537 s.
53 Per la terminologia usata da Rutili per i consigli, vedi A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, p. 282s; sul susseguirsi del consilium ordinarium e del consilium publicum/generale (quest’ultimo convocato dal primo), ivi, note 176 e 177 (fra queste due sedute passarono otto giorni (24 apr. – 2 mag. 1523). Cfr. anche note 2 a (2 mar. 1515) e 9 (20 ag. 1515). In generale, cfr. M. Franceschini, Dal consiglio pubblico e segreto alla congregazione economica: La crisi delle istituzioni comunali tra xvi e xvii secolo, in Roma moderna e contemporanea, 4, 1996, p. 337-362.
54 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 124; II, n. 140 (qui sono elencati 58 nomi), 141 a (qui sono 61 partecipanti), 177 b (qui 154), 206, 210 (qui 97).
55 Per le ammonizioni rivolte ai consiliarii, ivi, I, n. 105 (19 nov. 1520); II, n. 208 (3 ott. 1524). Per la decadenza dei consigli, vedi nota 314.
56 I consiliarii furono vincolati nella libertà di pronunciarsi già dal 1469 quando gli statuti ordinavano che nessun consigliere prendesse la parola senza licentia del senatore e dei conservatori (Statuti del 1469 in ASC, Camera Capitolina, cred. 4, v. 88, fol. 122r-v, cap. XCIX, ripreso in S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes Urbis..., III, fol. 1r, cap. II: Quod consiliarii non dicant nisi super eo quod preponitur generali in consilio).
57 Le registrazioni rispetto alla posizione personale di Rutili venivano affidate ad altri funzionari per garantire la massima obiettività, anche quando, come accadde in un solo caso che riguardava il suo stipendio, Rutili esprimeva il suo disaccordo (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n.4 c, 122 a; II, n.232 d).
58 Per esempio, ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.15, fol. 43v, 47r, 93v, 108v. Per i dettagli della decisione, vedi A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 70 b, 77; II, n. 151 b, 171.
59 Ivi, I, n. 3, 51, 105; II, n. 143 a, 208, 213 a, 236 b; M. Franceschini, Dal consiglio pubblico..., p. 351 s.
60 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 131/8 (7 gen. 1522).
61 La pena prevista era di 100 ducati da versare alla fabbrica del palazzo dei conservatori e la dichiarazione dei conservatori colpevoli come inhabiles per qualsiasi ufficio pubblico (ivi, II, n. 213 a; 18 dic. 1524). Per il settore nevralgico dei benefici ecclesiastici, vedi qui p. 544 s.
62 Vedi p. 537.
63 Ivi, I, n. 21, 34, 47 e così via. L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 82s ricorda «adhoc committees» e «annual deputations» che si dovevano, fra l’altro, occupare degli acquedotti e della distribuzione dei doni agli officiales.
64 M. A. Visceglia, Il cerimoniale come linguaggio politico. Su alcuni conflitti di precedenza alla corte di Roma tra Cinquecento e Seicento, in Cérémonial et rituel à Rome (xvie-xixe siècle), éd. M. A. Visceglia et C. Brice, Rome, 1997 (Collection de l’École française de Rome, 231), p. 117-176.
65 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 222.
66 Ivi, II, n. 139.
67 Evidente è la minaccia velata del rischio di una sollevazione popolare nella delibera registrata ivi, II, n. 210 (29 ott. 1524). Quanto fosse reale questo pericolo sarebbe ancora da verificare; per i canali di comunicazione fra il papa e i romani, cfr. anche L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 84 s.
68 Vedi p. 536 s.
69 C. Gennaro, La «Pax Romana» del 1511, in Archivio della Società romana di storia patria, 90, 1967, p. 17-60, qui p. 25. Che la ribellione fosse stata parecchio pericolosa è sottolineato in M. A. Altieri, Li Baccanali..., p. 351 n. 28. Non mancarono casi di esilio (transitorio): cfr. ivi, p. 352 n. 32 (Giulio Stefanucci Alberteschi), 382 (Pietro Margani rinunciando ad una riconciliazione).
70 Per le posizioni dei baroni assai ambigue, poiché dettate da interessi personali, vedi adesso A. Serio, Pompeo Colonna tra papato e «grandi monarchie», la pax romana del 1511 e i comportamenti politici dei baroni romani, in La nobiltà romana in età moderna. Profili istituzionali e pratiche sociali, a cura di M. A. Visceglia, Roma, 2001, p. 63-87
71 Sono tanti i nomi che appaiono sia nei giuramenti della Pax Romana il 28 agosto 1511 sia nel liber di Rutili (qui pure in posizioni di alto rango come quella dei conservatori) considerando anche il fatto che fra la stesura delle due fonti sono passati ben cinque anni nei quali potevano essersi verificati anche dei casi di decesso.
72 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 7, 24, 59, 60, 63.
73 Diverse liste quattrocentesche sono state edite da C. Guasti, O. Tommasini (vedi nota 12) e da M. L. Lombardo (vedi A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina fra xv e xvi secolo, in La nobiltà romana in età moderna..., p. 3 s.); rinvio qui solo a quella risalente agli anni 1457-1458 circa in M. Caravale, Entrate e uscite..., p. 183-185. Ancora inedita è una lista attribuibile al pontificato di Leone X (ASV, A. A., Arm. I-XVIII, 1472). Per gli uffici comunali (ma non degli incaricati), nel 1565, vedi F. Cerasoli, Commentario di Pietro Paolo Muziano relativo agli officiali del comune di Roma nel secolo xvi, in Studi e documenti di storia e diritto, 13, 1892, p. 101-131; cfr. la liste di impiegati pubblici di Roma del 1629 in id., Lista di uffici di Campidoglio, in Archivio della Società romana di storia patria, 12, 1889, p. 373-376 e, per il primo Seicento, L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 71 s.
74 Preziose considerazioni sull’elezione degli officiales con la bussola si trovano in O. Tommasini, Il Registro degli Officiali..., p. 176 s., 191-196 (con il testo di un capitolo a proposito degli statuti del 1363). Cfr. in generale R. Lefevre, Appunti sulle «bussolae officialium populi romani», in Archivio della Società romana di storia patria, 113, 1990, p. 235-259; A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 4 s.; L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 76.
75 Per esempio, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 143 b, 181. Di tali registrazioni (lasciate ovviamente all’arbitrio di Rutili) in realtà ce ne dovrebbero essere state molte di più, vista la frequenza di queste estrazioni per i singoli uffici.
76 I. Lazzarini, La nomination des officiers..., p. 403 s. Per i forti richiami alla costituzione fiorentina già negli statuti del 1363 e prima (in particolare nelle riforme del 1338) vedi, in mancanza di uno studio specifico aggiornato, il classico E. Duprè Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia (1252-1377), Bologna, 1952 (Storia di Roma, 11), p. 504 s., 662, 667, 670.
77 Sul ruolo decisivo degli imbussulatores torneremo a p. 539 s. Per dare una idea di quanto alte (o basse, se consideriamo tutta la popolazione) fossero le cifre di cittadini che partecipavano ad estrazioni simili, rinvio alle tratte per gli uffici comunali a metà del Quattrocento che nominano circa 400 famiglie, tra cui comunque anche tanti artigiani e piccoli commercianti di livello sociale medio (O. Tommasini, Il Registro degli Officiali..., p. 190). Secondo le stime del Nussdorfer che parte da liste di candidati per il consiglio pubblico, stipulate nel 1569, 1581 e 1584, furono solo 5 o 600 i romani che parteciparono alla vita pubblica (da mettere in relazione con una popolazione di 115 000 abitanti). Cinque imbussulatores gentiluomini decidevano in ogni rione per la scelta di questi candidati fra i romani che avevano superato i 20 anni (L. Nussdorfer, Il «popolo romano» e i papi: la vita politica della capitale religiosa, in Roma. La città del papa, a cura di L. Fiorani e A. Prosperi, Torino, 2000, Storia d’Italia. Annali, 16, p. 241-260, qui p. 245 s.).
78 Il capitolo De speculo fiendo appartenne agli Statuta et reformationes facte tempore legationis rev. mi domini cardinalis sancti Laurentii et Damasi patriarche Aquilegensis (cioè Ludovico Scarampi) super diversis negotiis et rebus (del 1446), inseriti negli statuti del 1469 (ASC, Camera Capitolina, cred. 4, t.88, fol. 145v, cap. XXI; ripreso in S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes Urbis..., III, fol. 51v; cfr. A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, 78 a, 83 b; II, 175, 213 a). Per l’uso ancora più complesso del «libro di specchio» a Firenze, da una bibliografia vastissima, A. Molho, Florentine Public Finances in the Early Renaissance, 1400-1433, Cambridge, 1971, p. 104 s.; N. Rubinstein, I primi anni del Consiglio Maggiore di Firenze (1494-99), in Archivio storico italiano, 112, 1954, p. 151-194, qui p. 154 s.
79 Vedi nota 73 e la lista degli officiales Alme Urbis per gli anni dal 1447 al 1455 secondo il manoscritto Roma, Biblioteca Angelica, C. 7. 9, ed. da O. Tommasini, Il Registro degli Officiali..., p. 169-222.
80 Vedi per la lunga tradizione dei sistemi elettorali nei comuni italiani da una vasta bibliografia H. Keller, «Kommune»: Städtische Selbstregierung und mittelalterliche «Volksherrschaft» im Spiegel italienischer Wahlverfahren des 12. -14. Jahrhunderts, in Person und Gemeinschaft im Mittelalter. Karl Schmid zum fünfundsechzigsten Geburtstag, ed. G. Althoff, D. Geuenich, O. G. Oexle e J. Wollasch, Sigmaringen, 1988, p. 573-616 e I. Lazzarini, La nomination des officiers...,, passim (con vasta bibliografia per la situazione a Firenze e a Venezia e per i fondi archivistici a disposizione).
81 Vedi p. 509. Per Tivoli, C. Ferrantini e A. M. Montaro, I quattro feudi..., p. 95 s.
82 Da una vasta bibliografia qui solo M. Berengo, L’Europa delle città..., p. 111 s.
83 Vedi p. 536 s. Si capisce che in questa sede dal materiale vaticano (vedi nota 85) possono essere presentati solo pochi esempi. Altre testimonianze offre il commento alle deliberazioni del consiglio in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III; cfr. A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 1-29, qui p. 5 s.
84 Le ingerenze dei papi nella scelta degli officiales di Roma aveva una lunga tradizione. Per la situazione sotto Martino V, M. Franceschini, «Populares, cavallarotti, milites vel doctores». Consorterie, fazioni e magistrature cittadine, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), a cura di M. Chiabò ed altri, Roma, 1992, p. 291-300, qui p. 298 s.
85 I papi per questi atti scelsero di solito la forma di breve o motuproprio (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., n. 63, 78 a, 92 a, 98, 180 a [cfr. III, commento], 182, 185, 206 b, 217). Va considerato che allo stato attuale delle fonti disponibili purtroppo non si può quantificare la vera portata di queste ingerenze papali essendo andata persa gran parte dei registri dei brevi; i superstiti sono da cercare nei fondi dell’ASV, Camera Apostolica, Diversa Cameralia, contenente anche parecchi mandati della Camera Apostolica, e nell’Armadio XL, una raccolta parziale di minute dei brevi. Raramente tali nomine rispetto ad uffici comunali romani sono registrate anche nella serie dei Registra Vaticana nelle quali, per il nostro periodo, mancano però gran parte dei libri Officiorum e Officialium dove ne sarebbero trovate di più, nonostante essi riguardano principalmente gli uffici curiali e dello Stato della Chiesa nonché i giuramenti degli incaricati nuovi.
86 Vedi nota 232.
87 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n.78 a, 92 a, 98.
88 Vedi un episodio collegato a nota 123. Nella delibera registrata in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 185 (2 set. 1523) si distingue accuratamente che Bartolomeo di Montefiascone, che fu nominato per bussulam nuovo primus collateralis curie Capitolii, poteva essere confermato con un breve papale; mentre un secondo aspirante, Angelo da Barbarano, che indebitamente aveva ottenuto un motuproprio dal papa per lo stesso ufficio rischiò la punizione perché non aveva rispettato le procedure. Angelo da Barbarano infatti rimase secundus collateralis come era già prima (ivi, n. 180 a [cfr. III, commento], 207).
89 Ivi, I, n. 53; II, n. 142 a, 165 a, 173, 174, 185.
90 Vedi per un primo approccio da una vasta bibliografia E. Hinrichs, Fürsten und Mächte. Zum Problem des europäischen Absolutismus, Göttingen, 2000, p. 66 s.
91 Le linee conflittuali si evidenziano in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 36, 41 a, 47, 48, 50, 59, 60 b, 66, 84, 103, 106, 123, 126, 127; II, n. 131, 139, 143, 164, 204, 204 a, 204 b, 205 a, 206 a, 221 a, 222 a, 228. La Camera Apostolica (cioè i suoi presidentes e clerici) e il cardinal camerlengo reclamarono in particolare la competenza sulla gabella studii, sulle porte e ponti, sulla nomina di uffici doganali come quelli del camerarius Ripe et Ripecte e dell’extraordinarius maior, sul controllo dei macellai e panettieri nonché sui monopoli.
92 L’ambizioso Francesco Armellini era stato nominato cardinale il 1° luglio 1517 e seguì subito nell’ufficio del camerlengo lo spodestato Raffaele Riario, sebbene quest’ultimo mantenne la carica formalmente fino alla sua morte nel 1521 (G. De Caro, Armellini Medici, Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma, 1962, p. 234-237).
93 Particolarmente evidente è questa strategia da parte dei romani in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 48, 59, 84, 106, 123; II, n. 164, 221 a. Ma viceversa il consiglio cittadino era consapevole che anche le località sotto il controllo romano cercavano volentieri di servirsi allo stesso modo del potere papale contro Roma: così sappiamo da una deliberazione (ivi, II, n. 205 b) che gli abitanti di Vitorchiano si erano fatti confermare proprio dal papa, cioè Clemente VII, i loro privilegi nei confronti del comune di Roma, innanzitutto il diritto di mandare dieci abitanti a servizio del Campidoglio come fideles (ivi, I, n. 107, 111).
94 Per i due testi cfr. Bullarium diplomatum et privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum taurensis editio. V. Ab Eugenio IV ad Leonem X, Augustae Taurinorum, 1860, p. 511-514 (28 mar. 1512) e p. 614-617 (28 giu. 1514).
95 Da una vasta bibliografia cito solo M. L. Barrovecchio San Martini, Il tribunale criminale del Governatore di Roma (1512-1809), Roma, 1981; A. Camerano, Senatore e Governatore. Due tribunali a confronto nella Roma del xvi secolo, in Roma moderna e contemporanea, 5, 1997, p. 41-66, p. 51 s.; M. Di Sivo, Per via di giustizia. Sul processo penale a Roma tra xvi e xix secolo, in Giustizia e criminalità nello stato pontificio, a cura di M. Calzolari, M. Di Sivo, E. Grantaliano, Roma, 2002 (= Rivista storica del Lazio, 9/4, 2001), p. 13-35. Per la presenza del governatore nelle delibere del comune romano A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, 23, 54, 130; II, 131, 133, 135, 138 a, 142, 174, 211 d.
96 Ivi, in particolare III, commento a n. 131. Gli statuti del 1519-1523 aggiungono ai libri I e II, più antichi, riservati alla giurisdizione del Campidoglio in civilibus e in criminalibus un Liber quintus: vedi S. P. Q. R. Statuta et novæ reformations..., V, fol. 3r Nova urbis Romae statuta super causis civilibus. Cfr. in generale N. Del Re, La Curia Capitolina...; M. Franceschini, Il tribunale del Senatore...; M. Di Sivo, Il Tribunale Criminale Capitolino nei secoli xvi-xvii. Note da un lavoro in corso, in Roma moderna e contemporanea, 3, 1995, p. 201-216.
97 Questa norma fu confermata in S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes..., I, fol. 7v, cap. XXVII Quod nullus Romanus possit habere officium in curia senatoris.
98 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, ad indicem («Curia Capitolii»). La procedura è stabilita negli statuti del 1513-1523: S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes..., V, fol. 9v-10v, cap. XXXVIII Quod imbussulentur et eligantur iudices.
99 Un tale caso è rappresentato dalla nomina papale di Angelo da Barbarano a primus collateralis che fu respinta con successo dal consiglio; vedi nota 88.
100 S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes..., IV, fol. 20v-21r, cap. XXXII; VI, fol. 12r-15v (le rispettive lettere dei papi Sisto IV e Innocenzo VIII).
101 ASV, Arm. XXXIX, 45, fol. 288v-289r (12 mag. 1525).
102 ASV, Cam. Apost., Div. Cam. 69, fol. 15r-v (18 mar. 1521), fol. 23r-24v (8 apr. 1521).
103 Per le diverse carceri di Roma vedi A. Martini, Dal tribunale al patibolo: il teatro della giustizia a Roma in antico regime, in I Cenci. Nobiltà di sangue, a cura di M. Di Sivo, Roma, 2002, p. 255-308, qui p. 268 s.
104 Che il camerarius della Camera Urbis fosse nominato dal papa si evidenzia dalla delibera in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 177 a (2 mag. 1523) quando il consiglio volle che questo camerlengo (cioè Girolamo Benzoni) fosse sostituito poiché non aveva ancora pagato agli officiales i loro emolumenta. Per il ruolo di camerlengo di Roma per i pagamenti dei doni di natale ai 400 e più impiegati municipali e curiali nonché per i giochi e le feste pubbliche (L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 91).
105 L’ufficio del depositarius romani populi viene chiamato in più modi; il termine, per esempio, di depositarius portionum romani populi (dal 1519) fa intendere che egli gestì le entrate di specifici uffici comunali dette le portiones (vedi p. 527 s.). Per il suo ruolo e i tre incaricati nel periodo mediceo, cioè Bartolomeo Della Valle, Marcantonio Altieri e Gregorio Serlupi (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 30 b e ad indicem). Per l’età barocca, L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 91.
106 Vedi per questa gabella nota 134.
107 Cfr. il capitolo De Forma in venditionibus reddituum Romani Populi servanda degli statuti del 1580 (Statuta almae Urbis Romae..., p. 156 s. e A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 5, 9, 13, 27, 31, 44, 74, 89; per i singoli uffici si veda anche ivi, III, ad indicem).
108 Ivi, I, n. 15 b, 77 a, 94, 99; II, n. 154 a, 156, 222 b.
109 Ivi, II, n. 202.
110 Citato ivi, II, n. 219 a (16 mar. 1525).
111 Questi «straordinari» (si distinguono più precisamente in straordinari maggiori e straordinari minori) cercarono e denunciarono irregolarità nell’uso dei pesi e nella qualità delle merci fra i mercanti e i piccoli artigiani le cui infrazioni venivano chiamate invenzioni (inventiones) e punite con pene che gli straordinari si divisero con la Camera Urbis dando non poco motivo di sospetti di arbitrarietà (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 66 a, 103, 104, 105; II, n. 170 a, 193 b; L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 121 s.). Per la storia dei mercati a Roma, A. Modigliani, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed età moderna, Roma, 1998 e L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 118 s.
112 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 66, 103; II, n. 233 a.
113 Vedi la bibliografia data a nota 73.
114 Ivi, II, n. 220 e (29 mar. 1525); documentato ivi, II, n. 203.
115 Ivi, II, n. 203. Per la statua vedi nota 277.
116 L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 92.
117 Basti citare qui, da una bibliografia immensa, solo M. Tafuri, «Roma instaurata». Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo Cinquecento, in Raffaello architetto, a cura di C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano, 1984, p. 59-106. Per l’ufficio in questione O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo 15: fonti e problemi, Roma, 1997 (Roma nel Rinascimento. inedita, 14) (con la bibliografia precedente).
118 ASV, Cam. Ap., Div. Cam. 67, fol. 31r-31v (1517 Okt. 12); 75, fol. 88v-91 (1524 Aug. 3). Cfr. per una lista degli incaricati (non del tutto completa) E. Re, Maestri di strada, in Archivio della Società romana di storia patria, 43, 1920, p. 5-102.
119 A. Mercati, Raffaello da Urbino e Antonio da Sangallo «maestri delle strade» di Roma sotto Leone X, in Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia, ser. III, Rendiconti, 1, 1923, p. 121-127. Per l’ufficio in questione, vedi O. Verdi, Maestri di edifici e di strade a Roma nel secolo xv. Fonti e problemi, Roma, 1997 (R. R. inedita, 14) (con la letteratura precedente).
120 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 131, 233 b, 237 b.
121 L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 85. Il procu ratore fiscale era di nomina papale e di solito un giurista. Egli controllava i conservatori e le loro entrate. Mentre i conservatori venivano cambiati normalmente ogni tre mesi il procuratore fiscale rimase di solito tanti anni, un fatto che rafforzò la sua posizione. Egli risiedette nel palazzo senatorio e partecipò alle sedute di consiglio che si svolgevano nel palazzo accanto. Ciò provano anche i decreti comunali dove il suo nome appare tante volte.
122 Per questo personaggio e il suo ruolo istituzionale, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 194 e 213 a (con i rispettivi commenti ivi, III).
123 Ivi, II, n. 182 (10 lug. 1523) e 183 (13 lug. 1523). Per la presenza e la funzione dell’advocatus fisci Camere Urbis nei decreti del consiglio, inoltre A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 194, 196, 211, 237 a (e in più III, ad indicem, sotto i nomi di persona).
124 Ivi, I, n. 63, 63 a, 90; II, n. 162 b, 182*, 189, 210
125 Ivi, I, n. 44*, 107, 115, 125, 126 a, 127, 128; II, n. 182, 193 b, 204, 210. Per la loro funzione, che consisteva principalmente nella difesa dei diritti della Camera Apostolica, vedi N. Del Re, La Curia Romana..., p. 292.
126 Come tale veniva retribuito, come il Carosi e il Peruschi, dalle gratificazioni in sale della Camera Apostolica (cfr. per esempio ASV, Cam. Apost., Div. Cam. 70, fol. 62r (23 nov. 1520). In seguito ebbero questo incarico i romani naturalizzati Melchiorre Baldassini († 1525) e Angelo di Pietro Cesi († 1528). Quest’ultimo fu padre di due cardinali (Paolo Emilio e Federico). Nel 1525 divenne advocatus pauperum dopo la morte del Baldassini.
127 Vedi le corrispondenti voci in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, ad indicem. Per la loro funzione, C. Cartari, Advocatorum sacri Consistorii syllabum, Roma, 1656; W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden..., ad indicem.
128 M. M. Bullard, Filippo Strozzi and the Medici. Favor and Finance in Sixteenth-Century Florence and Rome, Cambridge, 1980, p. 116 s.
129 Questa esenzione è un argomento ricorrente nei lavori preziosi di Arnold Esch sui registri doganali romani (A. Esch, Importe in das Rom der Frührenaissance. Ihr Volumen nach den römischen Zollregistern der Jahre 1452-62, in Studi in memoria di Federigo Melis, III, Napoli 1978, p. 381-452; id., Importe in das Rom der Renaissance. Die Zollregister der Jahre 1470-1480, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 74, 1994, p. 360-453). Gli stessi romani erano esenti solo per la propria produzione di vino per il consumo domestico (ma non quello nelle taverne!). Questa esenzione era spesso minacciata dall’avidità incontenibile dei gabellarii e della Camera Apostolica sempre pronta a perseguire gli imbrogli e gli escamotages dei tavernari e degli importatori del cosiddetto vinum romanum (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 2, 28, 106; II, n. 161 b).
130 Per queste ingerenze della Camera e del cardinal camerlengo cfr. solo ivi, I, n.59, 60b.
131 Si capisce da una nota alla fine dell’elenco degli appaltatori della Camera che i diritti comunali non furono del tutto dimenticati: Tutte le Porte di Roma, quando non le tenessero quelli che le tengano, l’harebbe il Popolo Romano per concessione di Papa Leone (M. Monaco, La situazione della Reverenda Camera Apostolica..., p. 110). La maggior parte degli appaltatori erano proprio dei romani altolocati come Mattei, Maddaleni, Crispi e Santacroce o enti ecclesiastici romani che collaboravano quindi senza scrupoli con la Camera Apostolica (anziché con la Camera Urbis). Cfr., per quanto riguarda i Santacroce, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 179 b.
132 Per questi versamenti di salaria vedi F. Cerasoli, Commentario di Pietro Paolo Muziano..., p. 105 s. Nel xvii secolo questi contributi della Camera Apostolica per gli stipendi furono pari a circa l’otto per cento del bilancio annuo municipale (L. Nussdorfer, Il «popolo romano»..., p. 252).
133 La citazione in ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.15, fol. 109v appartiene alla delibera in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 173 (qui il colpevole è Bartolomeo Della Valle come depositarius generalis officialium romanorum chegestiva le sovvenzioni papali). Ivi, n. 221 a, 228 viene sollecitato il cardinal camerlengo.
134 Come stabilito nella bolla Dum singularem di Leone X (vedi nota 50), la gabella del vino doveva servire sia per il finanziamento dei docenti dell’università (perciò veniva chiamata gabella studii) che, in minore parte, per il mantenimento delle mura (Ivi, II, n. 209 [26 ott. 1524] e III, commento a n. 2).
135 A queste fonti finanziarie più importanti si aggiungono le entrate minori che includono una tassa sull’immondizia (vedi nota 35 e L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 89 s.).
136 I. Polverini Fosi, I mercanti fiorentini..., p. 177 s. Alla fine anche il comune romano dovette ricorrere allo strumento dei «Monti» di cui il primo fu istituito nel 1552 (F. Colzi, Il debito pubblico del Campidoglio..., passim).
137 Cfr. tra l’altro A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 30, 30 b (3 dic. 1516). Questi uffici erano stati dati in pegno per poter finanziare i costi immensi delle festività in onore del nuovo cittadino romano Giuliano de’ Medici nel 1513 (vedi nota 216 e ivi, I, n. 44).
138 Ivi, I, n. 74 d, 75.
139 Bullarium diplomatum et privilegiorum..., V, p. 539-540 (la bolla chiama il contenitore tanto citato pixis, Rutili invece sempre bussula). Probabilmente si pensava già allora ad una soluzione per Roma secondo un modello offerto dai collegi curiali di uffici venali, come quello dei presidentes Annone alme Urbis et Ripe, fondato nel 1509 da Giulio II, o quello dei portionarii Ripe, fondato l’anno consecutivo, cioè nel 1514, da Leone X (W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte..., I, p. 160; II, p. 54, 56 n. 244, 159 s.; T. Frenz, Die Kanzlei..., p. 200).
140 Ne fa cenno solo (insufficientemente) E. Rodocanachi, Les institutions..., p. 247 s.; non viene menzionato neppure in F. Colzi, Il debito pubblico del Campi doglio...
141 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 76; II, n. 214 a.
142 Ivi, I, n. 96; II, n. 133 a, 135, 137, 152, 169, 180. Il comune faceva fatica a pagare i suoi debiti verso il Serlupi (cfr. nota 143 ed inoltre ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.36, p. 208-209 [20 lug. 1530] e p. 210 [4 ag. 1530]).
143 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 76 b; II, n. 154, 178 a (qui la citazione); cfr. 228 a.
144 Cfr. ivi, II, n. 230.
145 Ivi, II, n. 221 a.
146 Ivi, II, n. 224.
147 Ivi, I, n. 86, 116 s., 124; II, n. 152 a, 159, 178, 179 d, 204 c (qui a proposito del Pantheon), 225, 232 d.
148 Ivi, I, n. 114 a; II, n. 214 s., 220 c, 228 a.
149 Ivi, I, n. 124.
150 Ivi, II, n. 200, 230, 232 d.
151 Informazioni sulle portiones e sul loro ruolo nell’amministrazione finanziaria romana si trovano in ASC, Rubricellone generale di tutte le materie esistenti nell’Archivio Segreto dell’eccellentissima Camera di Campidoglio composto... da Francesco Maria Magni (1736), p. 2719-2736. Per riferimenti del 1565, vedi F. Cerasoli, Commentario di Pietro Paolo Muziano..., p. 111 s.
152 ASC, Camera Capitolina, Cred. VI, t.62, fol. 12r-14r.
153 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 211 a.
154 Naturalmente le finalità dei noti censimenti del 1517 e del 1526, assai differenti uno dall’altro, erano diverse dal lavoro che avrebbero dovuto affrontare i caporioni in preparazione della bussula portionum Cfr. per i detti censimenti M. Armellini, Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X, tratto da un codice inedito dell’Archivio Vaticano, Roma, 1882; A. Esposito, La parrocchia «agostiniana» di S. Trifone nella Roma di Leone X, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge/Temps modernes, 93, 1981, p. 495-523, ristampa in ead., Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma, 1995, p. 43-74; E. Lee, Descriptio Urbis. The roman census of 1527, Roma, 1985, Biblioteca del Cinquecento, 32.
155 Solo gli statuti del 1580 considerano il depositarius populi romani (Statuta almae Urbis Romae..., p. 144).
156 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 124; II, n. 142 a.
157 Ivi, I, n. 49 (28 sett. 1517).
158 Ivi, II, n. 209 (26 ott. 1524).
159 L. von Pastor, Storia dei papi..., IV/2: Adriano VI e Clemente VII, Roma, 1956, p. 20, 71.
160 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 177 b (2 mag. 1523), 184 (15 lug. 1523).
161 Nel periodo mediceo siamo solo all’inizio di una tendenza al rialzo: F. Colzi, Il debito pubblico del Campidoglio..., p. 129 s.; J. Delumeau, Vita economica e sociale..., p. 217 s.; L. Nussdorfer, Il «popolo romano»..., p. 251 (le entrate della Camera Capitolina alla metà del xvii secolo raggiungevano «un bilancio annuale di 150 000 scudi, pari a circa un decimo del bilancio papale»).
162 L. von Pastor, Storia dei papi..., IV/1, p. 366.
163 Dopo il Sacco il papato introdusse anche a Roma una serie di tasse nuove, tra l’altro anche dirette, che aumentarono il peso impositivo ai residenti di Roma rispetto a quello dei sudditi del resto dello Stato a tal punto che alla fine per esempio Bologna nel XVII risulta persino privilegiata rispetto alla capitale (F. Colzi, Il debito pubblico del Campidoglio..., p. 44).
164 J. Delumeau, Vita economica e sociale..., p. 217. Per il duro regime fiscale nello stato pontificio, oltre alla bibliografia data a nota 46, cfr. S. Carocci, Governo papale e città nello Stato della Chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e città alla fine del medioevo..., p. 151-224, qui p. 191 s. e, per un esempio locale, P. Jansen, Macerata aux xive et xve siècles. Démographie et société dans les Marches à la fin du Moyen Âge, Roma, 2001 (Collection de l’École Francaise de Rome, 279), p. 130 s., 305 s. Anche le altre città-stato italiane cercarono di favorire gli abitanti dei rispettivi capoluoghi (A. Molho, Lo Stato e la finanza pubblica. Un’ipotesi basata sulla storia tardomedievale di Firenze, in Origini dello Stato..., p. 225-280, qui p. 236 s.).
165 Come osserva giustamente F. Colzi, Il debito pubblico del Campidoglio..., p. 125.
166 Il termine (totus) populus romanus è onnipresente nelle delibere registrate dal Rutili. Cfr., come un esempio particolarmente interessante, ivi, II, n. 182 a.
167 Per un confronto con simili tendenze a Firenze si rinvia a N. Rubinstein, Florentina libertas, in Rinascimento, 26, 1986, p. 3-26, qui p. 21. Il concetto del cittadino romano rispetto al xiv secolo e prima si era trasformato. Stavano aumentando le barriere di distinzione fra quei cittadini aventi i pieni diritti civili e quelli che furono solo abitanti a Roma senza la possibilità di poter partecipare al la vita pubblica (L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 66 s.).
168 Per indicazioni biografiche preziose per i romani, importanti nel periodo preso in esame, cfr. inoltre l’utilissimo «Indice ragionato dei nomi di persona» in Li nuptiali di Marco Antonio Altieri..., p. 81* s.
169 Questo Marcello apparteneva ad una famiglia di proprietari terrier (M. Trifone, Lingua e società nella Roma rinascimentale, I: Testi e scriventi, Firenze, 1999, p. 328) ed era stato senz’altro discendente dal macellaio Pisciainsanti ricordato nella famosa cronaca trecentesca dell’Anonimo Romano per via dei castrati persi in una inondazione del Tevere (Cronica, ed. G. Porta, Milano, 1979, [Classici, 40], p. 139). Certo le origini dei Massimo e degli Altieri, discendenti da speziali, non erano tanto più illustri; vedi nota 301.
170 Per questi nomi, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 10; II, n. 140, 206.
171 Per qualche cifra si rinvia nota 54.
172 Vedi p. 527 s.
173 Statuta almae Urbis Romae..., p. 154; M. A. Visceglia, Introduzione, p. xviii. Altre città precedettero Roma nella esclusione degli artigiani e della borghesia mercantile che, per esempio, a Brescia furono espulsi già alla fine del Quattrocento (A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del ’400 e ’500, Bari, 1964, Biblioteca di cultura moderna, 613, ripub. Milano, 1993, p. 278 s.).
174 Si nota però che ad approfittarne maggiormente furono comunque i soliti esponenti della élite (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 208 a, 211 d, 222 c [qui il nobile Mario Salomoni innalza la sua lamentela addirittura tamquam unus de populo]).
175 La citazione da ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.15, fol. 130v appartiene alla delibera in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 209, 26 ott. 1524.
176 ASC, Camera Capitolina, Cred. I, t.15, fol. 115r che corrisponde a A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 182 a (10 lug. 1523). Per lo sviluppo storico dell’idea politica dietro queste citazioni si rinvia, da una vasta bibliografia, qui solo ad A. Marongiu, Il principio della democrazia e del consenso (Quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet) nel xiv secolo, in Studia Gratiana, 8, 1962, p. 553-599.
177 Per quanto concerne il trattato De principatu vedi l’edizione (purtroppo non molto precisa) in Marii Salamonii de Alberteschis... De principatu libros septem nec non Orationes ad priores florentinos, recognovit Marius D’Addio, Milano, 1955 (Pubblicazioni dell’Istituto di diritto pubblico e di dottrina dello stato della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma, 5), p. 111. Per il pensiero politico del Salomoni, cfr. M. D’Addio, L’idea del contratto sociale dai sofisti alla riforma e il «De Principatu» di Mario Salamonio, Milano, 1954 (da integrare con le osservazioni critiche di R. Abbondanza, in Annali di storia del diritto, 1, 1957, p. 560-571); E. Reibstein, Volkssouveränität und Freiheitsrechte, a cura di C. Schott, 2 vol., Monaco, 1972, qui p. 104 s.; Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought, 2 vol., Cambridge, 1980, I, p. 148-152; II, p. 131-134; M. Miglio, Il Senato in Roma medievale..., p. 169 s. per ulteriori dati biografici, cfr. A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 208*. Il suo pensiero politico si basa comunque su una lunga tradizione di riflessione giuridica (cfr. D. Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), Firenze, 1983 e Q. Skinner, The Foundations...).
178 Per la scarsa presenza del modello di Cola di Rienzo nel Quattrocento, M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia, II Città e Corte a Roma nel Quattrocento, Roma, 1993 (Patrimonium. Studi di storia e arte, 4), in particolare p. 40 s., 59-95, 159, 200, 228 e in generale, A. Camerano, La restaurazione cinquecentesca della romanitas: identità e giochi di potere fra Curia e Campidoglio, in Gruppi ed identità sociali nell’Italia moderna. Percorsi di ricerca, a cura di B. Salvemini, Bari, 1998, p. 29-79, qui p. 30 s., 44 s. Per ulteriori riferimenti bibliografici vedi nota 186.
179 Cfr. i nomi rilevati da A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 20.
180 Alla bibliografia generale già fornita si possono aggiungere anche gli studi monografici su singole famiglie della nobiltà municipale che ultimamente vengono condotti con grande cura, come dimostrano in modo esemplare, A. Modigliani, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma, 1994 (Roma nel Rinascimento inedita, saggi, 10) e I Cenci. Nobiltà di sangue...
181 Per questi banchieri, F. Guidi Bruscoli, Benvenuto Olivieri. I mercatores Fiorentini e la Camera Apostolica nella Roma di Paolo III Farnese (1534-1549), Città di Castello, 2000 (Fondazione Carlo Marchi. Quaderni, 6).
182 Numerose sono le alleanze matrimoniali fra i romani di nascita (inclusi i baroni molto corteggiati sotto questo punto di vista per il grande prestigio che apportava un tale atto) e i curiali o banchieri facoltosi forestieri in cerca di stabilità definitiva a Roma. Basti sfogliare repertori come T. Amayden, La storia delle famiglie romane. Con note ed aggiunte del Comm. C. A. Bertini, 2 vol., Roma, 1910-1914 (rist. anast. Roma 1987); C. Weber, Fünfzig genealogische Tafeln zur Geschichte der römischen Kurie in der frühen Neuzeit, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 73, 1993, p. 496-571; Genealogien zur Papstgeschichte, unter Mitwirkung von M. Becker, bearb. von C. Weber, 4 vol., Stuttgart, 1999-2001 (Päpste und Papsttum, 29/1-4). Istruttivi a proposito sono anche A. Esposito, «Li nobili huomini di Roma». Strategie familiari tra città, curia e municipio, in Roma capitale (1447-1527)..., p. 373-388, qui p. 380 s. e B. Borello, Strategie di insediamento in città: i Pamphilj a Roma nel primo Cinquecento, in La nobiltà romana in età moderna..., p. 31-61.
183 Per i problemi di definizione della nobiltà romana, cfr. E. Mori, «Tot reges in urbe Roma quot cives». Cittadinanza e nobiltà a Roma tra Cinque e Seicento, in Roma moderna e contemporanea, 4, 1996, p. 379-401; I. Fosi, La nobiltà a Roma nella prima metà del Cinquecento: problemi e prospettive di ricerca, in Roma nel Rinascimento, 1999, p. 61-77.
184 Per un profilo biografico si vedano le introduzioni alle sue opere citate a nota 26.
185 E. Lee, «Descriptio Urbis..., p. 107; per un paragone con l’ampiezza delle familiae dei cardinali vedi, ivi, p. 84, 77, 101 e J. F. D’Amico, Renaissance Humanism in Papal Rome, Baltimore-Londra, 1983, p. 47.
186 M. Miglio, Marco Antonio Altieri e la nostalgia della Roma municipale, in «Effetto Roma». Nostalgia e rimpianto, Roma, 1992, p. 9-23 (ristampa in id., Scritture, scrittori e Storia, II, p. 217-229); id., Roma dopo Avignone. Il recupero politico dell’antico, in La memoria dell’antico nell’arte italiana. L’uso dei classici, a cura di S. Settis, Torino, 1984, p. 73-111 (ristampa ivi, p. 177-206); M. Franceschini, Le magistrature capitoline tra Quattro e Cinquecento. Il tema della romanitas nell’ideologia e nella committenza municipale, in Bollettino dei Musei Comunali di Roma, n. s. 3, 1989, p. 65-74; A. Camerano, La restaurazione cinquecentesca della romanitas..., Vedi inoltre M. Miglio, Lorenzo Valla e l’ideologia municipale romana nel «De falso credita et ementita Constantini donatione», in Italia et Germania. Liber amicorum Arnold Esch, a cura di H. Keller, W. Paravicini e W. Schieder, Tübingen, 2001, p. 225-236.
187 T. Frenz, Die Kanzlei..., p. 210 s. (per l’incarico); P. Cherubini, Studenti universitari romani del secondo Quattrocento a Roma e altrove, in Roma e lo Studium Urbis..., p. 101-132, qui p. 111. Per la venalità degli uffici curiali, cfr. nota 255.
188 Cfr. nota 137.
189 Vedi per il problema delle doti e per la legislazione suntuaria nota 37.
190 M. U. Bicci, Notizia della famiglia Boccapaduli patrizia romana, Roma, 1762, p. 715-717 (nella nota); F. M. Renazzi, Storia dell’Università degli studi di Roma, 3 vol., Roma, 1803-1804 (rist. anast. Bologna, 1971), qui II, p. 239-242, doc. III. Il memoriale è ricordato in G. Marini, Lettera al chiarissimo Monsignore Giuseppe Muti Papazurri nella quale si illustra il ruolo dei Professori dell’Archiginnasio romano per l’anno 1514, Roma, 1797, tra l’altro, p. 24 nota 11; p. 28 nota 22; p. 37 nota 42.
191 Una breve notizia ne dà P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento, Bologna, 1948 (Storia di Roma, 13), p. 241.
192 Il memoriale allude alle rapine e alle violenze che aveva subito il monastero di San Paolo fuori le mura in proxima vacatione Sedis. Cfr. per queste incursioni, I. Schuster, La basilica e il monastero di S. Paolo fuori le mura. Note storiche, Torino, 1934, p. 215 s. Inoltre è chiaro il riferimento nell’appendice, riga 17, 21, ai capitula con il collegio cardinalizio concessi il 4 marzo 1513 e ricordati (ma purtroppo non riprodotti integralmente) in M. Sanuto, I Diari, ed. R. Fulin ecc., 58 vol., Venezia 1879-1903, qui vol. XVI, col. 29, 79 e in M. A. Altieri, Li Baccanali..., p. xxviii s., 114-117. L’appendice, riga 50, parla dei preparativi per la festa dell’Assunzione della Vergine (15 agosto). Che la sua organizzazione richiedeva parecchio tempo si capisce da F. Cerasoli, Commentario di Pietro Paolo Muziano..., p. 122.
193 Così la valuta P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento..., p. 241.
194 Per gli assistentes si rinvia a A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 39, 51, 141, 141 a; III, commento al n. 4 a. Purtroppo non sono conservati, per quanto pare, i capitula ricordati nelle delibere consiliari che dovevano regolare le loro competenze e le modalità elettorali.
195 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 141 (2 feb. 1522).
196 Ivi, II, n. 136. Pare che questi disordini istituzionali abbiano provocato le anomalie nelle registrazioni del Rutili che di solito segue l’ordine cronologico abbandonandolo però fra le deliberazioni registrate ivi, II, n. 136/137 e 140/141.
197 Ivi, II, n. 140. Fra gli emissari che dovevano comunicare questa decisione al collegio cardinalizio vi era Marcantonio Altieri. Per i nomi dei conservatori nuovi vedi ivi, II, n. 142*. Che furono contestati risulta anche da Sanuto, I Diari..., vol. 34, p. 149.
198 C. Re, Statuti della città di Roma..., p. 218-220 (questo capitolo non si trova più invece negli statuti del 1469 e del 1523); L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 79. Per i cavallerotti, J.-C. Maire Vigueur, Classe dominante et classes dirigeantes à Rome à la fin du Moyen Âge, in Storia della città, 1, 1976, p. 4-26; S. Carocci, Una nobiltà bipartita. Rappresentazioni sociali e lignaggi preminenti a Roma nel Duecento e nella prima metà del Trecento, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il medio evo e archivio muratoriano, 95, 1989, p. 71-122.
199 Per i loro nomi vedi le edizioni citate a nota 190.
200 Vedi appendice, riga 8 s.
201 La provenienza dall’alto ceto sociale dei conservatori risulta chiaramente dai loro nomi in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I e II, passim (evidenziati in grassetto nel testo). I libri delle delibere erano anche fonti per le prove di nobiltà e per i genealogisti dal tardo Cinquecento in poi (E. Mori, «Tot reges in urbe Roma quot cives»..., p. 397 s.).
202 Così il memoriale del 1513 riconosce che i papi fino ad allora non si erano mai fidati della plebs inesperta e avida di novità (istituzionali, come si intende); cfr. appendice, riga 11 s.
203 Per una rassegna su questo fenomeno nella Roma medievale, cfr. A. Rehberg, Cola di Rienzo e le clientele e fazioni nella Roma del suo tempo (di prossima pubblicazione).
204 Appendice, riga 26 s.
205 Vedi per questo aspetto p. 554.
206 Appendice, riga 35 s.
207 Ciò dimostra un confronto dei nomi riportati in un rapporto su queste nomine, scritto dall’Altieri il 28 maggio (M. A. Altieri, Li Baccanali..., p. 180-196), con la lista dei componenti della cana nobilitas in F. M. Renazzi, Storia dell’Università..., II, p. 240 s. A quanto pare, il prudente Altieri cercò di accontentare anche i suoi avversari facendosi affiancare nel suo incarico da Antonio Leoni e Ludovico Cancellieri, quest’ultimo esponente proprio di quelle famiglie nominate e contestate nel memoriale.
208 Cfr. la registrazione non datata di Rutili ivi, II, n. 144 (per la datazione si può pensare ai mesi di maggio e giugno).
209 Ivi, II, n. 156* e ad indicem.
210 A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 17. Per il ruolo degli imbussulatores (in Firenze venivano chiamati acciapatori) e le loro possibilità di manipolare le elezioni, cfr. per Firenze N. Rubinstein, The Government of Florence under the Medici (1434 to 1494), Oxford, 21997, passim.
211 Per queste tentazioni all’interno delle famiglie guida già nel periodo di Martino V vedi M. Franceschini, Populares, cavallarotti..., p. 299; A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 10 s.
212 L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 84 (Roma «was by no means an oligarchy»), 95 s. (capitolo «A civic nobility»); cfr.M. A. Visceglia, Introduzione. La nobiltà romana: dibattito storiografico e ricerche in corso, in La nobiltà romana in età moderna..., p. xiii-xli (con bibliografia essenziale). Lo stesso Mario Salomoni che faceva parte della cana nobilitas Urbis, nel suo trattato De Principatu, si rivolse contro il modello istituzionale oligarchico che vigeva a Venezia: Marii Salamonii de Alberteschis... De principatu..., p. 36. Per un confronto può servire A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta..., passim.
213 P. Hurtubise, La présence des «étrangers» à la cour de Rome dans la première moitié du xvie siècle, in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del seminario internazionale di studio, Bagno a Ripoli (Firenze), 4-8 giugno 1984,
Firenze, 1988 (Quaderni di storia urbana e rurale, 9), p. 57-80. Per la presenza degli stranieri vedi A. Esposito, «... La minor parte di questo popolo sono i romani». Considerazioni sulla presenza dei «forenses» nella Roma del Rinascimento, in Romababilonia, «Effetto Roma», 3, Roma, 1993, p. 41-60; ead., Un’altra Roma. Minoranze...,; ead., La popolazione romana dalla fine del secolo xiv al Sacco: caratteri e forme di un’evoluzione demografica, in Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a cura di E. Sonnino, Roma, 1998, p. 37-49; I. Ait, Mercato del lavoro e «forenses» a Roma nel xv secolo, ivi, p. 335-358. Per l’afflusso dei Fiorentini ormai più che secolare, cfr. I. Polverini Fosi, I mercanti fiorentini...; L. Palermo, Un aspetto della presenza dei fiorentini a Roma nel ’400: le tecniche economiche, in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del Seminario Internazionale di Studio, Bagno a Ripoli (Firenze), 4-8 giugno 1984, Firenze, 1988, p. 81-96; C. Conforti, La «natione fiorentina» a Roma nel Rinascimento, in La città italiana e i luoghi degli stranieri (xiv-xviii secolo), a cura di D. Calabi e P. Lanaro, Roma-Bari, 1998 (Biblioteca di Cultura Moderna, 1141), p. 171-191; cfr. inoltre G. Bonaccorso, I veneziani a Roma da Paolo II alla caduta della Serenissima: l’ambasciata, le fabbriche, il quartiere, in ivi, p. 192-205. Tralasciamo qui la presenza degli stranieri oltrealpe quali i francesi, spagnoli e tedeschi.
214 P. Partner, The Pope’s Men..., p. 166 s.; id., Finanze e urbanistica a Roma (1420-1623), in Cheiron, 1, 1983, p. 59-72. Per lo ius spolii e per le sue origini nel diritto canonico, cfr. D. Williman, The Right of Spoil of the Popes of Avignon 1316-1415, Philadelphia, 1988 (Transactions of the American Philosophical Society, 78/6).
215 Cfr. per Roma A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n.46b, 76 a; II, n. 185 a.
216 Cfr. A. Altieri, Li Baccanali..., p. 197-226; F. Cruciani, Il Teatro del Campidoglio e le feste romane del 1513. Con la ricostruzione architettonica del teatro di A. Bruschi, Milano, 1968 (Archivio del teatro italiano, 2).
217 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 8 (Maddalena de’ Medici, sorella di Leone X, e suo marito Francesco Cybo); per Niccolò de’ Medici, un lontano parente del papa, cfr. nota 231.
218 Ivi, I, n. 80. Si trattava di raggiungere una soluzione quando i romani temettero di avere degli svantaggi per le proprie figlie destinate a farsi monache in seguito al piano per l’occupazione da parte della Compagnia, ossia Sodalizio della Pietà (composto da fiorentini e toscani), di un convento abbandonato in via Giulia (ivi, I, n. 82 b, con commento, III).
219 Come sostiene forse con troppa enfasi A. Camerano, La restaurazione cinquecentesca della romanitas...; ead., Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 7 s. che riconosce però anche che la posizione del Campidoglio verso gli stranieri non era rettilinea e fece tante concessioni.
220 D’altro canto però, per quanto alte fossero le cifre di nuovi cittadini, esse appaiono comunque modeste se confrontate con la grande presenza degli stranieri nella corte papale (vedi la composizione del ruolo citato a nota 272) e nella città dei quali comunque solo una piccola parte riuscì ad acquistare la cittadinanza dato che per questa erano comunque necessari i requisiti indispensabili, elencati a nota 228, come il possesso di un immobile.
221 Cfr. per l’importanza delle professioni elencate B. G. Zenobi, Pratica del diritto e deroga dallo status nobiliare nelle città dei domini pontifici dal xv al xviii secolo, in Ricerche Storiche, 19, 1989, p. 485-515 (e in più in questo stesso numero i contributi di A. Zorzi, A. Gardi e R. Savelli); M. Berengo, L’Europa delle città..., p. 339 s.
222 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 173 b, 213 b, 225 b.
223 Ivi, III, commento a n. 167*.
224 Per i personaggi menzionati si rinvia ivi, ad indicem e a T. Amayden, La storia delle famiglie romane... Nell’età barocca l’integrazione dei nuovi cittadini si svolse ancora più velocemente a quanto pare da L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 98 s. e da A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina..., p. 13. Per le strategie dei Salviati e dei Borghese si può rinviare a P. Hurtubise, Une famille-témoin. Les Salviati, Città del Vaticano, 1985 (Studi e testi, 309) e W. Reinhard, Ämterlaufbahn und Familienstatus. Der Aufstieg des Hauses Borghese 1537-1621, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 54, 1974, p. 328-427.
225 La nuova valutazione delle proporzioni fra stranieri e romani si trova negli studi di Egmont Lee citati anche da A. Esposito, I «Forenses» a Roma nell’età del Rinascimento: Aspetti e problemi di una presenza «atipica», in Dentro la città. Stranieri e realtà urbane nell’Europa dei secoli xii-xvi, Napoli, 1993, p. 163-175, in particolare 165 s. (ristampa: ead., Un’altra Roma. Minoranze cit., p. 75-92, qui p. 77 s.).
226 È noto che la composizione dei Nuptiali (vedi nota 26) prese spunto dal matrimonio di Giangiorgio Cesarini, di elevato lignaggio rispetto agli altri nobiles viri, proprio con una non-romana, Maria Sforza di Santa Fiora nel 1504.
227 Nel Giornale del viaggio di Michel de Montaigne in Italia, prefazione di G. Piovene, introduzione critica di G. Natoli, 2 vol., Firenze, 1958, qui II, p. 38 si legge quanto Montaigne desiderò «d’ottenere il titolo di Cittadino Romano, non foss’altro che per l’antico onore e la sacra memoria della sua grandezza».
228 Per la cittadinanza a Roma e per le condizioni per ottenerla C. Re, Statuti della città di Roma..., p. 79 s., 157 s., 274; S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes..., III, fol. 45r-v, cap CCLX De forensibus habendis pro civibus. Cfr. Inoltre L. Nussdorfer, Il «popolo romano»..., p. 245 s.
229 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n.21a.
230 L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII...
231 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n.21a.
232 Per il cosiddetto «mercato dei benefici» a Roma e gli interessi diversi ad esso collegati, cfr. A. Rehberg, Die Kanoniker von S. Giovanni in Laterano und S. Maria Maggiore im 14. Jahrhundert. Eine Prosopographie, Tübingen, 1999 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts, 89). Anche i principi e le città-stato nel resto d’Italia cercarono di influenzare questo campo. Vedi L. Prosdocimi, Il conferimento dei benefici ecclesiastici nello Stato milanese, in La crisi degli ordinamenti comunali..., p. 197-214; A. Prosperi, «Dominus beneficiorum»: il conferimento dei benefici ecclesiastici tra prassi curiale e ragioni politiche negli stati italiani tra ’400 e ’500, in Strutture ecclesiastiche in Italia e Germania prima della Riforma, a cura di P. Prodi e P. Johanek, Bologna, 1984 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderni, 16), in particolare 66 s., 73 s., 79 s.
233 O. Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura..., p. 176 e A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 3.
234 ASV, Reg. Lat. 1411, fol. 120r-123v (4 ott. 1522). Per la persona di Guglielmo van Enckenvoirt vedi la bibliografia in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 165.
235 ASV, Reg. Lat. 1423, fol. 6r-8v (26 ott. 1522). L’acquisto della cittadinanza romana di questo Georg è registrato in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 171.
236 Vedi ivi, III, commento ai nn. 173 b e 178 b. Cfr. in generale V. De Caprio, Intellettuali e mercato di lavoro nella Roma medicea, in Studi romani, 29, 1981, p. 29-46 (che ricorda giustamente anche le corti dei cardinali come punti d’attrazione per i letterati); J. F. D’Amico, Renaissance Humanism in Papal Rome..., p. 61 s.; Roma Humanistica. Studia in honorem Rev.i adm. Dni. Josaei Ruysschaert, collegit et edidit Josephus Ijsewijn, in Umanistica Lovaniensia. Journal of Neo Latin Studies, 34 A, 1985; I. D. Rowland, The culture of the High Renaissance..., p. 86 s. («The Cultural Marketplace»); Pierio Valeriano on the Ill Fortune of Learned Men. A Renaissance Humanist and his World, transl. by J. H. Gaisser, Ann Arbor, 1999.
237 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 122.
238 Per le caratteristiche del mercato dei benefici romani, che era molto frazionato vista la molteplicità delle chiese e capelle di per sé non molto ricche, fra le quali eccellevono solo le tre basiliche San Pietro, San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, cfr. id., Die Kanoniker...
239 Su un tale lavoro si basa A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina... I dati però non sono controllabili finché non si pubblicherà la prosopografia stessa.
240 Ivi, p. 14 s. La Camerano confronta le liste di candidati per gli uffici comunali del xv secolo (dove si sono conservate in due o tre) con quelle della seconda metà del xvi secolo. Sono però da fare alcune riserve per quanto riguarda la precisa ricognizione dei profili economico-sociali delle persone e delle famiglie trattate.
241 I dati, per quanto frammentari, di cui disponiamo della composizione dei consigli comunali in età medicea (vedi nota 54) ci danno pochi esempi per la presenza di nuovi arrivati per i quali va comunque considerato l’eventualità che l’indicazione della provenienza faceva parte del nome di famiglia e non era inteso come un elemento di discriminazione visto che una tale famiglia poteva essere già romana a tutti gli effetti da qualche generazione (basti l’esempio degli Acquasparta: vedi nota 271).
242 Così gli statuti del 1519-1523 confermarono e rispettarono una tale norma più antica: S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes..., III, fol. 50v-52r, cap. CCLXXIX Servatio statutorum, in particolare fol. 51r.
243 Ma già allora venne lasciata via libera ai clerici simplices, cioè quelli che non erano beneficiati e non avevano ricevuto gli ordini sacri (C. Re, Statuti..., p. 212; S. P. Q. R. Statuta et novæ reformationes..., III, fol. 31r, cap. CLXXIX Quod clerici non admittantur ad officia secularia.
244 Gli studi di P. Partner e altri sui curiali ci mostrano per lo più carrieristi concentrati sul proprio ambiente e sui loro legami famigliari e politici con la patria – dove spesso tornarono prima o poi – senza un vero interesse per una integrazione nella società romana al di fuori della corte (P. Partner, Ufficio, famiglia, stato: contrasti nella curia romana, in Roma capitale (1447-1527)..., p. 39-50).
245 Così, per i Pamphilj, non risultano grossi sforzi in questa direzione nell’ottimo studio di B. Borello, Strategie di insediamento in città: i Pamphilj..., Per i Mazzatosta, cfr. A. Coliva, Lorenzo da Viterbo nella cappella Mazzatosta, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, I, Roma, 1984, p. 95-121. Tutte e due le famiglie ebbero dei conservatori dalla seconda metà del xvi secolo.
246 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 207 b. Un tale personaggio valutava la cittadinanza giusto per i suoi vantaggi economici e sociali e non avrebbe trovato problemi d’integrazione nell’alta società romana. Invece nel 1525 funse come uno dei tre conservatori di Roma Francesco de Spanocchiis, sicuramente esponente della famiglia di banchieri senesi degli Spannocchi che ormai era imparentato con i Cenci romani (ivi, II, n. 227*; cfr. C. De Dominicis, I Cenci del rione Regola. Genealogia 1527-1700, in I Cenci..., p. 143-216, qui p. 149. Per l’importanza della banca degli Spannocchi, però in fase di declino nel periodo qui esaminato, cfr. P. Partner, A Financial Informatione under Alexander VI, in Italia et Germania..., p. 237-255, qui p. 242 s.
247 Per quanto riguarda i tedeschi a Roma, cfr. K. Schulz, Deutsche Handwerkergruppen in Italien, besonders in Rom (14. -16. Jahrhundert), in Le migrazioni in Europa. Secc. xiii-xviii. Sez. II. Atti della XXV Settimana di Studi dell’Istituto di Storia Economica F. Datini, Prato 3-8 maggio 1993, a cura di S. Caveciocchi, Firenze, 1994, p. 567-591 e, per un notaio tedesco, adesso A. Esch, Un notaio tedesco e la sua clientela nella Roma del Rinascimento, in Archivio della Società romana di storia patria, 124, 2001, p. 175-209.
248 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 36; II, 145 c, 194 a; A. Esposito, Un’altra Roma. Minoranze..., p. 90 (con una citazione dalla fonte indicata a nota 307), 93 s. (per gli immigrati dalla Corsica che si insediavano naturalmente anche in altri settori).
249 Vedi la bibliografia indicata sopra nelle note 213 s.
250 Cfr. i romani elencati in P. Partner, The Pope’s Men..., p. 217 s.
251 A. Modigliani, I Porcari...; ead., La famiglia Porcari tra memorie repubbli cane e curialismo, in Un Pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484), Atti del convegno Roma, 3-7 dicembre 1984, a cura di M. Miglio, F. Niutta, D. Quaglioni, C. Ranieri, Roma, 1986 (Istituto storico italiano per il medio evo. Studi storici, fasc. 154-162= Littera Antiqua, 5), p. 317-353; I. Jones, Camillo Porcari e la famiglia, in Blosio Palladio di Collevecchio in Sabina nella Roma tra Giulio II e Giulio III, a cura di E. Bentivoglio, Collevecchio in Sabina, 1990 (Collana di studi storici e artistici della Sabina, 1), p. 105-140.
252 I Planca erano originari di Giovinazzo ed erano venuti a Roma solo all’inizio del secolo xv (P. Partner, Famiglie di curiali dall’Italia a Roma: una nota, in Alle origini della nuova Roma..., p. 347-351, qui p. 350).
253 Cfr. A. Esposito, Per una storia della famiglia Santacroce nel Quattrocento, in Archivio della Società romana di storia patria, 105, 1982, p. 203-216.
254 Vedi p. 525.
255 Per gli incarichi curiali venali sotto Leone X e in generale, vedi Varietà in Archivio della Società romana di storia patria, 4, 1881, p. 262-267; cfr. in generale F. Piola Caselli, Aspetti del debito pubblico nello Stato pontificio. Gli uffici vacabili, in Annali della Facoltà di scienze politiche. Anni accademici 1970-72, n. s., 11, p. 173 (ed. a parte Perugia, s. d.); B. Schwarz, Die Ämterkäuflichkeit an der Römischen Kurie: Voraussetzungen und Entwicklungen bis 1463, in Monumenta Iuris Canonici, Series C: Subsidia, VII, Città del Vaticano, 1985, p. 451-463; B. Schimmelpfennig, Der Ämterhandel an der römischen Kurie von Pius II. bis zum Sacco di Roma (1458-1527), in Ämterhandel im Spätmittelalter und im 16. Jahrhundert. Referate eines internationalen Colloquiums in Berlin vom 1. bis 3. Mai. 1980, a cura di I. Mieck, Berlin, 1984, p. 3-41; P. Partner, Il mondo della curia..., in Roma. La città del papa cit. n. 77, p. 212.
256 Cfr. alcuni nomi in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commenti ai n. 12 (Bartolomeo Della Valle), 50* (Francesco de Butiis), 56 a (Niccolò Jacovacci), 124 (Marco Teballi), 142* (Pietro Massimo), 210 (Orazio Lancellotti).
257 Da ASV, Reg. Vat. 1211, fol. 97r-105 (7 gen. 1514), qui fol. 103v s. risultano fra i membri del collegium presidentium Ripe et Ripette anche i romani Bernardino Planca, Girolamo Gottifredi (vedi nota 264), più parenti del cancelliere di Roma Angelo Cesi (vedi nota 126), Curzio Frangipane e Pierpaolo Veccia. I più quotati erano però alti curiali e banchieri fiorentini e genovesi.
258 Tali ricerche possono essere condotte con liste e registri di incarichi venduti come quella, per il periodo dal settembre 1522 al settembre 1523, pubblicata in E. Göller, Hadrian VI. und der Ämterkauf an der päpstlichen Kurie, in Abhandlungen aus dem Gebiete der mittleren und neueren Geschichte und ihrer Hilfswissenschaften. Eine Festgabe zum siebzigsten Geburtstag Geh. Rat Prof. Dr. Heinrich Finke gewidmet von Schülern und Verehrern des In- und Auslandes, Münster i. W., 1925, p. 375-407, qui p. 395-406 (dove risultano pochi nomi romani come Domenico Paloni, Luca Musciani e Pietro di Bartolomeo Della Valle).
259 Le normative a proposito sono raccolte in C. Cocquelines, Bullarium privilegiorum ac diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio, IV/1, Romae, 1745, p. 325-326 (7 ott. 1555; per la loro riforma nel 1560, cfr. ivi, IV/2, p. 39); B. Schimmelpfennig, Der Ämterhandel an der römischen Kurie..., p. 26 s.; M. Pellegrini, Corte di Roma e aristocrazie italiane..., p. 554.
260 ASR, Cam. I, 1718, fol. 4r (13 giu. 1515), 4v (10 e 13 giu. 1515), 10v (3 ag.1515).
261 Cfr. per gli uffici curiali in generale la bibliografia indicata a nota 2 e M. Pellegrini, Corte di Roma e aristocrazie italiane..., p. 564 (qui anche la citazione), 594 s. nonché, per i prezzi richiesti, M. Monaco, La situazione della Reverenda Camera Apostolica..., p. 118 s. e F. Piola Caselli, Aspetti del debito pubblico..., p.31s., 63s.
262 Cfr. I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai Casali alla Fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma, 2000 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 59 = Roma nel Rinascimento. Inedita. Saggi, 17). Giuliano Leni nei decreti comunali è presente come testimone e delegato in questioni finanziarie e per visite dal papa e dai cardinali (A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, 16; II, 136, 164, 165 b, 167, 182 a, 210, 216).
263 Offre dati di comparazione per il secolo precedente A. Gardi, Gli «officiali» nello stato pontificio del Quattrocento..., p. 257 s., 265 s., 268 s. che elenca i rettori provinciali di Bologna, i loro tesorieri nonché i podestà di Bologna nel xv secolo. I dati dimostrano, se prescindiamo dai tesorieri, un notevole successo dei romani che nel caso dei rettori era dovuto però in particolar modo ai baroni. Fra i podestà troviamo invece ben otto romani delle grandi famiglie municipali, superata solo da Firenze che ne poteva deputare undici. Per la rilevanza politica da attribuire all’incarico podestarile, che aveva una lunga tradizione, cfr. I podestà dell’Italia comunale. I Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine xii sec. – metà xiv sec.), a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma, 2000 (Collection de l’École française de Rome, 268= Nuovi studi storici, 51), p. 847-875. Cfr. per il periodo successivo all’età medicea lo studio prosopografico di C. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio (1550-1809), Roma 1994 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Sussidi, 7) e, per le carriere militari della nobiltà municipale nell’esercito papale (però molto modeste), G. Brunelli, «Prima maestro, che scolare». Nobiltà romana e carriere militari nel Cinque e Seicento, in La nobiltà romana in età moderna..., p. 89-132, qui p. 101 s.
264 ASV, Arm. XL, 8, fol. 166 (26 lug. 1524).
265 Ivi, fol. 173 (1 ag. 1524); A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 204 a (10 ag. 1524).
266 ASV, Arm. XL, 9, fol. 38 (28 gen. 1525) e ivi, 10, fol. 41 (8 feb. 1525).
267 È questo il tema principale in M. Pellegrini, Corte di Roma e aristocrazie italiane..., in particolare p. 563 le cui osservazioni per l’intera nobiltà italiana valgono anche per l’ambiente municipale romano. Per un altro interessante confronto si può rinviare a P. Contamine, Noblesse et service: l’idée et la réalité dans la France de la fin du Moyen Âge, in Nobilitas. Funktion und Repräsentation des Adels in Alteuropa, a cura di O. G. Oexle e W. Paravicini, Göttingen, 1997 (Veröffentlichungen des Max-Planck-Instituts für Geschichte, 133), p. 299-311.
268 P. Hurtubise, La présence des «étrangers»..., p. 73. Non ci interessano però qui gli uffici più bassi della corte papale, dati a stranieri, che contribuiscono a ridurre la quota dei romani.
269 Per il concetto del clientelismo (anche per il contesto europeo), cfr. nota 274.
270 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 77 b.
271 ASV, Arm. XL, 8, fol. 102 (29 apr. 1524). Per la presenza di questo Prospero d’Acquasparta nella vita pubblica romana, nonostante la sua appartenenza ad una famiglia di origine umbra, vedi T. Amayden, La storia delle famiglie romane..., p. 99) e A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, ad indicem.
272 La possibilità di legami clientelari informali al di fuori dei servizi e degliuffici della Curia e della Corte va comunque sempre presa in considerazione. Gli studi sulla corte pontificia non devono fermarsi ai cosiddetti ruoli che nel caso di Clemente VII non sono neanche tramandati e comunque concernono piuttosto il servizio personale del papa (anche quello basso dei cuochi e degli stallieri) che non era di grande interesse per i romani della classe che qui trattiamo. Cfr. A. Ferrajoli, Il Ruolo della Corte di Leone X, a cura di V. De Caprio, Roma, 1984 (con pochissimi romani) e P. Hurtubise, La présence des «étrangers», p. 61.
273 Almeno così la valutazione di M. D’Addio in Marii Salamonii de Alberteschis... De principatu libros septem..., p. 111.
274 Per le caratteristiche del governo papale su Roma e per il contesto europeo vedi, oltre alla bibliografia già citata, anche Klientelsysteme im Europa der Frühen Neuzeit, a cura di A. Maczak, Monaco, 1988 (Schriften des Historischen Kollegs. Kolloquien, 9) (tradotto in italiano: Padrini e clienti nell’Europa moderna (secoli xv-xix), a cura di A. Maczak e M. A. Romani [Cheiron, 3/5, 1986]); G. Chittolini, Il «privato», il «pubblico»..., e la sezione II (Cour et pouvoir: réseaux et clientèles) in Hofgesellschaft und Höflinge an europäischen Fürstenhöfen in der Frühen Neuzeit (15. -18. Jh.). Société de cour et courtisans dans l’Europe de l’époque moderne (xve-xviiie siècle), a cura di K. Malettke und C. Grell, Münster, 2001 (Forschungen zur Geschichte der Neuzeit, 1), dove però solo B. Emich tratta un argomento italiano, cioè il sistema clientelare alla corte di Paolo V Borghese. Per la Roma barocca, cfr. inoltre L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 178 s. e R. Ago, Carriere e clientele nella Roma barocca, Bari, 1990 (Quadrante, 35).
275 Gli ordini papali non richiedevano neanche la forma scritta come mostra, per esempio, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 87.
276 Vedi p. 541 nonché – programmaticamente – l’appendice, riga 52.
277 Per il progetto di una statua per Leone X, cfr. M. Butzek, Die kommuna len Repräsentationsstatuen der Päpste des 16. Jahrhunderts in Bologna, Perugia und Rom, Bad Honnef, 1978, p. 204 s. e l’ulteriore bibliografia in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III, commento a n. 57.
278 Cfr. ivi, ad indicem (vedi la voce «Kardinal» sia nell’indice onomastico che in quello delle cose). Per il ruolo del Collegio Cardinalizio nel nostro periodo cfr. da una vasta bibliografia B. M. Hallmann, Italian Cardinals, Reform, and the Church as Property, Berkeley ecc., 1985; G. Fragnito, Le corti cardinalizie nella Roma del Cinquecento, in Rivista Storica Italiana, 106, 1994, p. 5-41; A. Paravicini Bagliani, Il senato della Chiesa, in Il Senato nella storia..., p. 173-216. Un confronto originale fra la posizione del Sacro Collegio e quella del comune si trova in A. Menniti Ippolito, I due «senati»... Per i capitula che venivano sottoposti al collegio cardinalizio dopo la morte di un papa vedi nota 15.
279 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 232 a e sotto nota 286.
280 K. Eubel, G. van Gulik, Hierarchia catholica medii aevi sive summorum
pontificum, S. R. E. cardinalium, ecclesiarum antistitum series, III, Monasterii, 21923 (rist. anast. Padova, 1960), p. 15-16; cfr. P. Partner, The Pope’s Men..., p. 213.
281 Per i cardinali creati da Alessandro VI, cfr. K. Eubel, Hierarchia..., II, p. 21 s. Cfr. per quanto riguarda il papa Borgia e il suo rapporto con Roma, P. Pavan, Il Comune di Roma al tempo di Alessandro VI..., p. 328 s. e in generale P. Hurtubise, La présence des «étrangers», p. 69 s.
282 Cfr. Gli Sforza, la Chiesa lombarda, la corte di Roma. Strutture e pratiche beneficiarie nel ducato di Milano (1450-1535), a cura di G. Chittolini, Napoli, 1989 (Europa mediterranea. Quaderni, 4); M. Pellegrini, Corte di Roma e aristocrazie italiane..., p. 560.
283 Cfr. J. Hook, Clement VII, the Colonna and Charles V: A Study of the Political Instability of Italy in the Second and Third Decades of the Sixteenth Century, in European Studies Review, 2, 1972, p. 281-299; C. Shaw, The Political Role of the Orsini Family in the Papal States c. 1480-1534. Dissertazione dattilografica, Oxford, 1983; A. Rehberg, Alessandro VI e i Colonna. Motivazioni e strategie nel conflitto fra il papa Borgia e il baronato romano, in Roma di fronte all’Europa..., I, p. 345-386 (con ulteriori riferimenti). Si rinvia anche a quanto detto a proposito della Pax romana del 1511 sopra a p. 69.
284 A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., I, n. 35; II, n. 146, 147 d, 149, 188.
285 Ivi, I, n. 62, 70.
286 Ivi, I, n. 79, 122; II, n. 232 a.
287 Cfr. per i legami fra i Della Valle e i Colonna, ivi, I, n. 35; A. Rehberg, Alessandro VI e i Colonna..., p. 356 nota 48, p. 369 nota 115. Per la natura specifica e assai complessa dei rapporti clientelari che il baronato romano intratteneva con parte dei romani, cfr. A. Rehberg, Kirche und Macht im römischen Trecento. Die Colonna und ihre Klientel auf dem kurialen Pfründenmarkt (1278-1378), Tübingen, 1999 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts, 88, p. 227 s.).
288 Cfr. W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden..., ad indicem.
289 P. Partner, Il mondo della curia..., p. 208 s., 213. Vedi per ulteriori riferimenti bibliografici sopra le note 213 s.
290 Cfr. W. Reinhard, Nepotismus. Der Funktionswandel einer papstgeschichtlichen Konstanten, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 86, 1975, p. 145-185; P. Partner, Pope’s Men..., p. 163 s.
291 Cfr. da ultimo A. Esch, Un notaio tedesco..., p. 182 s. che nota però che la situazione economica della nobiltà municipale romana si migliorava dall’ultimo terzo del secolo xv rispetto agli inizi del secolo.
292 Cfr. un racconto dell’Altieri molto efficace della disperazione di Antonio Porcari per non esser stato in grado di pagare 20 000 fiorini per il cardinalato offertogli da Alessandro VI (M. A. Altieri, Li Nuptiali..., p. 187 s.; A. Modigliani, I Porcari..., p. 84-85; P. Partner, Il mondo della curia..., p. 219). L’ascesa sociale dei banchieri papali si rafforzò ancora dopo la seconda metà del secolo xvi in poi (P. Partner, Papal Financial Policy..., p. 61).
293 Cfr. in generale D. Diener, Die Mitglieder der päpstlichen Kanzlei des 15. Jahrhunderts und ihre Tätigkeit in den Wissenschaften und Künsten, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 69, 1989, p. 111-124 (trad. ital. in Cancelleria e cultura del Medio Evo, a cura di G. Gualdo, Città del Vaticano, 1990, p. 319-332). Così gli avvocati concistoriali dovevano avere il titolo di dottore (W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte..., II, p. 32).
294 Cfr. I. Polverini Fosi, I mercanti fiorentini..., passim; P. Pavan, Il Comune romano e lo «Studium Urbis» tra xv e xvi secolo, in Roma e lo Studium Urbis..., p. 88-100; C. Frova, L’Università di Roma in età medievale e umanistica. Con una nota sulle vicende istituzionali in età moderna, in L’Archivio di Stato di Roma, a cura di L. Lume, Firenze, 1992, p. 247-285.
295 Per i relativamente pochi romani che studiavano fuori Roma, cfr. P. Cherubini, Studenti universitari romani del secondo Quattrocento a Roma e altrove, in Roma e lo Studium Urbis..., p. 101-132, qui p. 114 s.
296 Per il clima culturale in generale, cfr. la nota 236 e in più le osservazioni caute in V. De Caprio, L’area umanistica romana (1513-1527), in Studi romani, 29, 1981, p. 321-335, qui p. 329; M. Trifone, Lingua...; A. Modigliani, Cittadini romani e libri a stampa, in Roma di fronte all’Europa..., p. 469-494. La grande maggioranza dei consiglieri non ebbe contatti con i circoli di letterati e umanisti che si raggruppavano principalmente intorno ad Angelo Colocci e Johann Goritz e che furono animati dalle polemiche scoppiate per la questione della cittadinanza romana da attribuire al francese Christophe de Longueil (ivi, II, n. 70 b, 74 c). Cfr. per questi circoli e vicende qui solo Coryciana, critice ed. I. Ijsewijn, Romae, 1997 (contiene l’edizione di De poetis urbanis di Francesco Arsilli); D. Gnoli, Un giudizio di lesa romanità sotto Leone X aggiuntevi le orazioni di Celso Mellini e di Cristoforo Longolio, Roma, 1891; F. Ubaldini, Vita di Mons. Angelo Colocci. Edizione del testo originale italiano (Barb. Lat. 4882), ed. V. Fanelli, Città del Vaticano, 1969 (Studi e testi, 256); J. Rice Henderson, Christophe de Longueil, in Contemporaries of Erasmus. A Biographical Register of the Renaissance and Reformation, 3 vol., a cura di P. G. Bietenholz e T. B. Deutscher, Toronto-Buffalo-Londra, 1985-1987, qui II, p. 342-345 (questo dizionario offre anche altri voci su romani e curiali in contatto con Erasmo); I. D. Rowland, The culture of the High Renaissance..., in particolare p. 250-254.
297 M. A. Altieri, Li Baccanali..., p. 195 (cfr. anche p. 137-139); P. Hurtubise, La présence des «étrangers»..., p. 69.
298 Da una ricca bibliografia per il Quattrocento, cfr. Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, Città del Vaticano, 1983 (Littera Antiqua, 3); M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia, II, passim; M. Trifone, Le carte di Battista Frangipane (1471-1500), nobile romano e «mercante di campagna», Heidelberg, 1998, p. 30 s. Per il Trecento (meno confortante), cfr. A. Rehberg, «Roma docta»? Osservazioni sulla cultura del clero dei grandi capitoli romani nel Trecento, in Archivio della Società romana di storia patria, 122, 1999, p. 135-167. Per i sviluppi dal secolo xvi in poi, cfr. Roma e lo Studium Urbis...
299 Cfr. per informazioni biobibliografiche essenziali sui nominati, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III (commento), ad indicem. In parte questi personaggi frequentavano i circoli di letterati menzionati a nota 296.
300 Vedi p. 525. L’università di Roma mantenne la sua importanza sociale anche in età barocca: L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 96 e Roma e lo Studium Urbis (contributi di M. Völkel, F. Petrucci Nardelli e di P. Rietbergen).
301 Cfr. A. Modigliani, «Li nobili huomini di Roma»: comportamenti economici e scelte professionali, in Roma capitale (1447-1527)..., p. 345-372, qui p. 366 s. In passato ebbero anche grandi opportunità d’ascesa sociale gli speziali (I. Ait, Tra scienza e mercato. Gli speziali a Roma nel tardo medioevo, Roma, 1996, Fonti e studi per la storia economica e sociale di Roma e dello Stato pontificio, 7)
302 L. Nussdorfer, Il «popolo romano»..., p. 242 s.
303 Con questi aspetti ancora da approfondire tocchiamo il vasto complesso della storia delle mentalità e della cultura politica a Roma che sfugge al semplice studio delle strutture che qui arriva ai suoi limiti. Per alcune delle prospettive elencate si trovano interessanti spunti nelle delibere di Rutili e in A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., III (commento). Essi manterranno o acresceranno persino la loro importanza nell’età barocca quando le vecchie élites della città (inclusi i baroni, pure loro minacciati) cercavano di equiparare la sempre più dominante posizioni e delle famiglie dei papi nepotistici (Die Kreise der Nepoten. Neue Forschungen zu alten und neuen Eliten Roms der frühen Neuzeit, interdisziplinäre Forschungstagung, 7. bis 10. März 1999, Istituto svizzero di Roma, a cura di D. Büchel e V. Reinhardt, Bern, 2001, Freiburger Studien zur Frühen Neuzeit, 5). Gli strumenti utilizzati dai romani per assicurarsi la loro posizione o per continuare l’ascesa sociale, comunque, non distano tanto dalle strategie applicate altrove in Italia e in Europa come dimostra il confronto con i contributi in Ständische Gesellschaft und soziale Mobilität, a cura di W. Schulze, Monaco, 1988 (Schriften des Historischen Kollegs. Kolloquien, 12) e in Cultura politica e società a Milano tra Cinque e Seicento, a cura di F. Buzzi e C. Continisio, Milano, 2000 (Studia borromaica, 14).
304 Questa tendenza a favorire famiglie nuove si trova anche in altre corti come quella di Ferrara (T. Dean, Land and power..., p. 134 s.).
305 Riprendo qui una osservazione in L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 93.
306 Nel campo degli statuti si giunse anche altrove a questa collaborazione fra i governi centrali e i patriziati locali come è stato dimostrato per le città venete da G. M. Varanini, Gli statuti e l’evoluzione politico-istituzionale nel Veneto tra governi cittadini e dominazione veneziana (secoli xiv-xv), in La libertà di decidere: realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del medioevo, Atti del convegno nazionale di studi, Cento 6/7 maggio 1993, a cura di R. Dondarini, Cento, 1995, p. 321-358, in particolare 332 s., 340 s.
307 Basti leggere il discorso tenuto il 6 ottobre 1534 da Flaminio Tomarozzi in ASC, Camera Capitolina, cred. 4, t.36, c. 274-279; cfr. M. M. Bullard, Grain Supply and Urban Unrest..., p. 284.
308 Vedi, per l’anno 1522, A. Rehberg, Stadtratsprotokolle..., II, n. 130; II, n. 131, 133, 138 a, 142, 147 a, 172 a, 174.
309 M. M. Bullard, Grain Supply and Urban Unrest..., p. 285 s.
310 Vedi nota 177.
311 N. Elias, Die höfische Gesellschaft, Neuwied, 21975 (trad. ital. La società dicorte, Bologna, 1980); P. Prodi, Il Sovrano Pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, 1982, p. 104 s.; e le opinioni discordanti in T. Dean, Le corti. Un problema storiografico, in Origini dello Stato..., p. 425-447; La corte e il «cortegiano». II Un modello europeo, a cura di A. Prosperi, Roma, 1980 (Biblioteca del Cinquecento, 9) e, per quanto riguarda il caso di Roma, vedi M. A. Visceglia, Introduzione..., p. xxi s.
312 A Milano, per esempio, i rapporti fra il Signore e il governo della capitale appaiono più stretti che a Roma (C. Santoro, Gli offici del comune di Milano e del dominio visconteo-sforzesco (1215-1515), Milano, 1968). Anche se in fondo poco paragonabile si può confrontare, per la sua contrarietà, la situazione nelle piccole corti dove, per ovvi motivi, l’osmosi fra la corte e l’amministrazione della sua città ospite era più intensa. Cfr., per un caso esemplare, solo Vespasiano Gonzaga e il ducato di Sabbioneta. Atti del convegno, Sabbioneta-Mantova, 12-13 ottobre 1991, a cura di U. Bazzotti, D. Ferrari, C. Mozzarelli, Mantova, 1993.
313 A Menniti Ippolito, I due «senati»..., p. 473.
314 L. Nussdorfer, Civic Politics in the Rome of Urban VIII..., p. 81s. (p.82: dopo 1669 i consigli si riunirono solo ad hoc); A. Menniti Ippolito, I due «senati»..., p. 481 s.
315 Cfr. I. Polverini Fosi, I mercanti fiorentini..., p. 184: «l’età leonina, con la sua politica di apparente concordia e di dialogo col Comune era già divenuta un mito a pochi anni di distanza dal Sacco». La bolla di Leone X rimase sempre punto di riferimento delle richieste dei romani (vedi, per i capitula dei romani dopo la morte di Clemente VII, formulate il 6 ottobre 1534, ASC, Camera Capitolina, cred. 4, t.36, c. 280 dove si lamenta la sua inadeguata applicazione).
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