Aspettative di genere nei tribunali dell’Italia tardo medievale
p. 393-423
Résumés
La documentazione dei tribunali penali è adatta all’analisi storica sul genere. Questo saggio espone due approcci servendosi di documenti medievali provenienti da Bologna e Firenze. Il primo approccio è quello di esaminare in che modo le aspettative di genere possano influenzare l’esperienza sociale. Negli archivi del tribunale penale di Bologna sono conservate sessanta accuse di stupro che coprono un arco di tempo di sei semestri, negli anni Ottanta del Duecento. È un numero sorprendentemente grande. Gli studiosi hanno ipotizzato che le donne e le loro famiglie fossero riluttanti a denunciare lo stupro per via delle connotazioni di genere del disonore, ma questi casi suggeriscono che la decisione fu influenzata anche dalla classe sociale e dalle opportunità: le donne indigenti, in particolare, approfittarono di una procedura giudiziaria poco costosa e accessibile per denunciare lo stupro, forse nella speranza di cacciare un uomo pericoloso dai loro quartieri. Il secondo approccio è quello di esaminare come le aspettative di genere si intreccino con le strutture del potere. Gli argomenti proposti dai trattatisti politici e morali suggeriscono che l’ascesa dei regimi popolari nelle città del XIII secolo fu legata al cambiamento delle aspettative sugli uomini della classe dominante, con enfasi sulla razionalità e sul decoro. Le denunce di nobili a un tribunale fiorentino, nella metà del XIV secolo, indicano che il cambiamento di idee sulla maschilità ebbe un impatto influente, ottenendo consenso anche al di fuori del discorso politico.
Criminal court records are well-suited to analysis in terms of gender. This essay sets out two approaches, using records from medieval Bologna and Florence. The first approach is to examine how gender expectations can affect social experience. 60 rape accusations survive in the accusatory registers of Bologna’s criminal court from six semesters in the 1280s. This is a surprisingly large number. Scholars have assumed that women and their families were reluctant to charge rape because of gendered understandings of dishonor, but these cases suggest that the decision also was influenced by class and by opportunity: poor women in particular did take advantage of an inexpensive and accessible court procedure to charge rape, probably in hopes of driving a dangerous man out of their neighborhoods. The second approach is to examine how gender expectations intersect with the structure of power. Evidence from political and moral theorists suggests that the rise of popular regimes in the thirteenth century towns was linked to changing expectations for elite men, with emphasis on rationality and decorum. Evidence from mid-fourteenth century denunciations of nobles to a Florentine tribunal indicates that these changing ideas about honorable masculinity were influential, gaining acceptance beyond political discourse.
Entrées d’index
Keywords : accusatory court procedure, gender expectations, legal denunciations, magnates, male decorum, masculinity, rape charges
Parole chiave : procedura accusatoria, aspettative di genere, denunce, magnati, decoro maschile, maschilità, accuse di stupro
Texte intégral
1La documentazione dei tribunali penali può essere una fonte rivelatrice delle aspettative medievali di genere perché offre un modo per vedere come le norme legali e sociali si sono intersecate con le rappresentazioni della pratica sociale. Come ha suggerito di recente Androniki Dialeti, il cambio di attenzione dalle strutture del potere alle esperienze, strategie e pratiche delle persone ha portato a «una crescente esplorazione di materiale archivistico, in particolare documenti giudiziari che possono fornire l’accesso, seppur fortemente sfumato, alle “voci perdute” degli individui».1 Gli atti dei tribunali offrono un accesso indiretto alle esperienze e alle scelte delle persone, anche di quelle persone povere che raramente appaiono nei documenti medievali.
2In questo saggio userò la documentazione dei tribunali penali di Bologna e Firenze per esaminare due aspetti molto dibattuti dell’analisi di genere. Anzitutto bisogna capire come le aspettative legate al genere possano influenzare l’esperienza sociale. Infatti, i casi di donne e famiglie che denunciarono il crimine di stupro presso il tribunale penale di Bologna, negli anni Ottanta del Duecento, dimostrano la correlazione tra aspettative di genere e ceto sociale. Nel caso specifico di questa ricerca, le accuse di stupro erano agevolate anche da una procedura giudiziaria facilmente accessibile. Il secondo aspetto è la relazione tra genere e strutture del potere. Gli argomenti dei trattatisti politici e morali indicano che l’ascesa dei regimi popolari indipendenti nel XIII secolo era collegata alle mutate aspettative sul comportamento degli uomini. I trattatisti criticarono la cultura maschile precedente e sostennero la necessità di adottare nuove forme di condotta per mantenere una comunità in armonia. I documenti dei tribunali penali indicano che questo tipo di comprensione della virilità guadagnò approvazione: nella metà del XIV secolo gli autori delle denunce di nobili presso un tribunale fiorentino attinsero proprio da queste idee.
Genere ed esperienza sociale: accuse di stupro
3Un esempio importante dell’utilità degli atti giudiziari per l’analisi di genere deriva dalle accuse di stupro nella Bologna del tardo XIII secolo. Gli studiosi, me compresa, hanno sostenuto che le donne che subirono uno stupro o un tentativo di stupro avevano scarsa possibilità di azione. Vincolate da strutture del potere, sotto forma di procedimento giudiziario e famiglia patriarcale, molto raramente iniziavano cause per stupro presso i tribunali. L’accusa era difficile da dimostrare e poteva danneggiare facilmente la reputazione di una donna. Sulla scia di James Brundage, Trevor Dean in uno studio sul crimine nell’Europa medievale ha sostenuto che «di tutti i reati perpetrati contro le donne, lo stupro si distingue per l’inefficacia della legge».2 Ruth Mazo Karras, storica di spicco della sessualità medievale, ha spiegato che non esistono statistiche sulla prevalenza dello stupro: «Abbiamo alcuni casi giudiziari, ma possiamo presumere che il crimine non sia stato denunciato molto più spesso di quanto non si faccia oggi, quindi il numero di casi non è una buona indicazione dell’incidenza del reato».3 Le accuse di stupro erano rare perché l’onore familiare era strettamente legato alla sessualità femminile e una violenza sessuale poteva influenzare non solo lo status e la reputazione della donna, ma anche quella dei parenti.
4I casi di stupro del tribunale penale di Bologna, sul finire del XIII secolo, sollevano interrogativi su questo quadro di subordinazione e vittimizzazione femminile. Segnalano infatti che la possibilità che una donna scegliesse di intentare una causa di stupro variava a seconda delle strutture del potere locali e delle condizioni sociali personali. Negli anni Ottanta del Duecento, in un numero di casi sorprendentemente elevato, le donne o i loro rappresentanti approfittarono dei costi irrisori della procedura di denuncia e della facilità del suo avviamento per dare corso alle accuse di stupro o tentato stupro.4 I documenti ad oggi conservati e relativi alle accuse inoltrate al tribunale penale di Bologna nell’arco di sei semestri – negli anni 1286, 1287 e 1289 – comprendono sessanta casi di incriminazioni di stupro o tentato stupro.5 Samuel Cohn, che invece ha lavorato sulla documentazione del tribunale penale fiorentino, ha rintracciato cinque casi di stupro eterosessuale tra 1344 e 1345 e due negli anni 1374-75.6 Trevor Dean aveva esaminato i casi del tribunale penale bolognese per gli anni Novanta del Trecento trovando solo cinque casi di stupro o tentato stupro.7
5L’analisi dei casi di stupro richiede una certa consapevolezza di come le vittime compresero la loro esperienza emotiva e fisica e le sue conseguenze. È una sfida notevole per uno studio basato su fonti del XIII secolo. I documenti sono concisi, scritti secondo una formula legale e non menzionano le emozioni o il dolore della vittima. Tuttavia, nella fase inquisitoria di quei processi, quando il giudice interrogava le presunte vittime, quelle donne a volte rispondevano menzionando il loro trauma. Un esempio bolognese viene da un’inchiesta condotta in risposta a una denuncia notificata nell’ottobre del 1285. Si afferma che un sarto di nome Tommasino violentò e poi rapì una donna sposata, Giacobina, tenendola reclusa per diverse settimane. La donna in seguito riuscì a tornare a casa dal marito e fu testimone dell’inchiesta. Il giudice le fece una delle domande di rito: chi conosce la verità su queste cose? Giacobina rispose quod multi concurrunt ad rumorem tunc set eos non cognovit propter dolorem et tristitiam quam passa fuit de eo quod dictus Thomasinus ei fecit («che molte persone accorsero in quel putiferio ma non le riconobbi a causa del dolore e della sofferenza che avevo patito per quello che mi aveva fatto Tommasino»).8
6In un’altra inchiesta il notaio registrò dettagliatamente il resoconto ripetitivo e angosciante dell’esperienza di una presunta vittima. Domengina, sicuramente un’orfana la cui età uno dei testimoni aveva stimato fosse di undici o dodici anni, aveva acquistato dei fichi al mercato e li stava riportando a casa. Bartolomeo, il figlio di un pescatore, la afferrò e la trascinò in una bancarella del mercato sotto il palazzo civico e
per violentiam carnaliter posuit membrum suum in sessu suo volendo ipsam carnaliter cognoscere, et eam cognovit, disvirginando eam et corrumpendo virginitatem suam, faciendo sibi tantum dolorem quantum sustinere posset sicut uno cultello vel gladio incideretur, et quia sustinere non poterat fortiter clamabat. Quando posuit membrum suum in sessu suo multus sanguis exivit et tantum dolorem habuit quam si occideret eam, et tunc quia consentire nolebat eam fortiter et fortissime percutiebat de manibus in facie et in persona et [...] eam squarzabat, non habendo de ea aliqua misericordia [...]
(con violenza mise carnalmente il suo membro nel suo sesso, volendo conoscerla carnalmente, e la conobbe, sverginandola e corrompendone la verginità, facendole tanto male quanto ne riusciva a tollerare, come se l’avesse tagliata con un coltello o una spada e, poiché non poteva più sopportarlo, gridò a gran voce. Quando mise il suo membro nel suo sesso uscì una grande quantità di sangue e lei provò un dolore così forte come se l’avesse uccisa e poi, siccome non voleva acconsentire, la picchiò violentemente con le mani sul viso e sul corpo [...] e la massacrò, non dimostrando per lei alcuna pietà [...]).9
7Domengina andò avanti a descrivere di come tornò a casa insanguinata «quasi dalla testa ai piedi». La sua testimonianza rievoca vividamente l’esperienza fisica ed emotiva di cui serbava memoria poco dopo lo svolgimento dei fatti. Che io sappia non c’erano ragioni legali che ne giustificassero la messa agli atti, oltre alla necessità di dichiarare che l’uomo aveva agito violentemente, contro la volontà di Domengina, e che lei aveva urlato e aveva perso sangue. La scelta del notaio di riportare la sua storia suggerisce che forse, a differenza di Bartolomeo, provava simpatia per la fanciulla.
8L’ipotesi che le donne fossero molto riluttanti a denunciare uno stupro presume che la vittima fosse una ragazza o una donna rispettabile, con dei parenti preoccupati di come l’accaduto potesse influenzare il loro onore. Ma come insegna la testimonianza di Domengina, a Bologna negli anni Ottanta del Duecento non andò sempre così: sicuramente molte vittime erano di bassa estrazione sociale. Domengina, un’orfana di undici o dodici anni che forse era una domestica, volle descrivere nel dettaglio la perdita brutale della sua verginità. Tra i casi bolognesi oggetto di questo studio ci sono trentadue accuse da parte di donne non sposate, con padre deceduto, e solo in sette di questi casi si parla di parenti maschi.10 In quindici dei trentadue casi totali le donne agirono con il consenso di un curatore (tutore legale o fiduciario) dimostrando, come ha sottolineato Sarah Blanshei, la loro vulnerabilità.11 In dieci casi, sui quindici di donne con curatores, non è fatta menzione alcuna di un padre vivente, di un marito o di altri parenti maschi.12
9La conoscenza della procedura giudiziaria locale è fondamentale per capire le motivazioni dietro la scelta di presentare delle accuse di stupro o tentato stupro. Massimo Vallerani ha dimostrato che i processi accusatori erano ampiamente diffusi a Bologna alla fine del XIII secolo e ha definito il tribunale un «luogo privilegiato di mediazione dei conflitti, incomparabile per ampiezza e raggio d’azione a qualsiasi altro metodo esistente».13 Perché? La fase iniziale di un processo accusatorio richiedeva solo il consenso della vittima e un breve libellus che dichiarasse l’accusa, il che significava riportare il nome di una persona e raccontare un fatto giuridico specifico. Avviare un procedimento era poco costoso. Se l’accusatore ne interrompeva il corso dopo la presentazione del libellus e dopo aver giurato di dire la verità, quindi prima delle prove, era punibile semplicemente con una multa modesta di 12 o 20 «soldi». Se un processo passava alla fase probatoria, diventava rapidamente molto più dispendioso e difficile, richiedendo testimoni e garanzie costose. Vallerani ha scoperto che circa il 30 percento dei processi accusatori nella Bologna di fine XIII secolo furono interrotti prima della fase probatoria. Una ragione comune era la contumacia: l’accusato non compariva in tribunale, una scelta che era considerata una confessione di colpa. Terminata la procedura di convocazione il tribunale emetteva un bando, specificando l’entità dell’ammenda nel caso l’imputato fosse stato catturato. Un’altra possibilità era che l’accusatore non avesse le risorse per procedere e che quindi non potesse produrre testimoni e fideiussori, uno sforzo costoso e potenzialmente abbastanza complicato.14
10Negli ultimi decenni gli storici del diritto hanno dimostrato che spesso i procedimenti giudiziari facevano parte degli sforzi per risolvere conflitti più ampi.15 Un’accusa di stupro, ad esempio, poteva essere una strategia per sollecitare un accordo privato tra le parti. Poteva assumere forma di un accordo di pace formalizzato in un documento notarile, oppure presentato direttamente al giudice in forma orale.16 Alcuni casi di stupro potevano anche risolversi mediante conciliazioni basate sul matrimonio tra l’accusato e la vittima, incluso un caso nel mio campione d’indagine.17 Per quale ragione una donna indigente o il suo tutore legale avrebbero inoltrato un’accusa di stupro, o avrebbero perlomeno considerato di farlo? Certamente una donna povera poteva valutare il proprio onore e reputazione in modo diverso rispetto a una donna con dote e proveniente da una famiglia prosperosa. L’accesso facile ed economico alla fase iniziale della procedura giudiziaria rendeva possibile un’accusa, e potenzialmente poteva rappresentare una vera minaccia per il suo aggressore. La donna poteva sperare in un accordo, perfino una dote e un matrimonio. Poteva anche sperare in una multa, in un risarcimento, o forse in una somma di denaro da parte dell’accusato, di un suo parente o sostenitore che la convincesse a ritirare l’accusa.18 Però nessuno di questi risultati era usuale. Può darsi che si aspettasse un risultato molto più frequente: l’imputato non sarebbe comparso in tribunale per rispondere all’accusa iniziale, il che lo avrebbe condannato in contumacia e messo al bando. In quel caso l’atto di accusa aveva come conseguenza l’allontanamento dell’uomo dal quartiere. A questo punto la donna poteva ritirare l’accusa e pagare una piccola multa. Il risultato sarebbe stato la risoluzione di un conflitto: avrebbe protetto sé stessa e i suoi vicini da un uomo violento. Serviva anche come forma di punizione. La mia considerazione più generale è che nel XIII secolo le aspettative di genere si diversificavano secondo la classe sociale della donna. Il numero relativamente alto di accuse di stupro a Bologna negli anni Ottanta del Duecento dimostra che le donne di questa città potevano fare e fecero uso della procedura accusatoria per denunciare uno stupro o un tentativo di stupro. Ma non tutte le donne condividevano le stesse idee delle classi più abbienti su reputazione sessuale e onore.
11Le donne indigenti, però, erano a rischio di allontanamento. Il regime popolare bolognese richiedeva all’esecutivo della città, ossia il podestà, che un notaio leggesse ai ministrales, i rappresentanti delle parrocchie, gli statuti inerenti determinati reati, incluso lo statuto sulle persone considerate infami dalla legge, e domandasse se fossero a conoscenza di eventuali autori di reati.19 Lo statuto includeva un elenco che veniva aggiornato spesso. Nel 1286 comprendeva ladri, banditi di strada, chiunque fosse già stato proscritto per reato, contraffattori, assassini, eretici, sodomiti, indovini, avvelenatori, protettori e prostitute.20 Dovevano lasciare la città. Anche una donna indigente senza dote era vulnerabile all’etichetta di prostituta, il che in pratica poteva significare la sua espulsione, una multa pesante o una punizione pubblica. Tuttavia, come ha sottolineato Rosella Rinaldi nel suo saggio in questo volume, i giudici erano spesso indulgenti nei confronti delle donne accusate di prostituzione. In realtà era lo stesso meccanismo giudiziario ad accogliere o escludere le donne povere. Queste potevano presentare accuse di stupro per aiutare e proteggere loro stesse, il vicinato e persino il regime nei suoi sforzi per bandire i malfattori, ma allo stesso tempo erano a rischio di essere etichettate come infamatas.
Genere e potere: il cambiamento di idee sulla maschilità
12Un secondo approccio alle aspettative di genere nei tribunali penali è quello di analizzare il modo in cui le idee sul governo erano collegate a quelle sulla natura maschile e femminile. Questo approccio deriva in definitiva dal saggio seminale di Joan Scott, del 1988, sul genere come categoria di analisi storica.21 Linzi Manicom, una storica del Sud Africa moderno, elaborò questo approccio in un saggio del 1992. Manicom suggerì un cambiamento di angolazione nel guardare non tanto ciò che lo stato fa alle donne, ma come la stessa formazione dello stato sia «un processo di genere e genderizzante». In particolare, secondo Manicom, «Nel tentativo di capire “lo stato” come qualcosa di genere, ciò che è importante è il modo in cui, storicamente, le nuove istituzioni di governo si appropriano e trasformano forme di potere e relazioni di genere precedenti [...]».22 La domanda non è più chi governa, chi beneficia o chi viene vittimizzato dall’autorità, ma come il governo stesso viene conseguito.
13Un modo per rispondere a questa domanda è quello di esaminare come diversi modi di concepire l'identità maschile dei ceti dominanti si rapportino alla politica. Gli storici di genere hanno dimostrato che la maschilità, intesa sia come esperienza soggettiva sia come rappresentazione ideologica, non è statica e ha assunto forme storiche estremamente diverse.23 Recentemente Ben Griffin ha consigliato un modo di riflettere su questi concetti: i ragazzi imparano a essere uomini attraverso modelli di socializzazione caratteristici delle loro comunità. Ne ha discusso seguendo l’idea di habitus di Pierre Bourdieu, cioè di un sistema di disposizioni acquisite. L’habitus
[...] ‘modella il portamento, la postura, la presenza, la dizione e la pronuncia, le maniere e gli usi delle persone’ e dà loro le conoscenze pratiche di cui hanno bisogno per partecipare alla vita sociale, adattate alle condizioni in cui le conoscenze sono state acquisite. A livello base queste disposizioni sono di genere.24
14Inoltre, Griffin suggerisce che le comunità in cui ha luogo la socializzazione conferiscono maggiore legittimità ad alcune forme di virilità rispetto ad altre.
Discorsi sul decoro maschile: introduzione
15Le città italiane del tardo medioevo sono particolarmente adatte all’analisi del mutamento di idee sulla maschilità, perché i trattatisti discussero esplicitamente di come gli uomini dovevano comportarsi per vivere in pace in una comunità urbana o per governarla bene.25 Come ha scritto Ronald Witt, il fazionalismo delle aristocrazie cittadine della fine del XII secolo «ha messo bene a fuoco, per la prima volta in un contesto italiano, la questione della natura e delle attribuzioni della cavalleria [...] determinando un periodo di grandi interrogativi sullo status del ceto superiore».26 C’è una letteratura ricca e ben nota su questi temi, in parte perché i trattatisti si rivolsero alla filosofia classica, motivo per cui gli studiosi hanno considerato i loro scritti come testi essenziali per il primo umanesimo. Può essere rivelatore leggere questi scritti come un dibattito esplicito sulla maschilità dei ceti dominanti. Gli intellettuali attinsero dalle idee stoiche e aristoteliche per esaminare la cultura degli uomini al potere e per dimostrare che un governo saldo e pacifico richiedeva loro di cambiare. Con le parole di Manicom, i regimi di «popolo» di fine XIII e di XIV secolo, basati sulla corporazione, raggiunsero l’egemonia in parte cambiando le aspettative di genere. Infatti, i trattatisti criticarono aspramente quegli aspetti del comportamento maschile del ceto dominante che da tempo permetteva loro di governare le comunità.
16Una sfida nel perseguire questo approccio è la natura della documentazione disponibile. Gran parte sono discussioni normative e intellettuali su come gli uomini o le donne avrebbero dovuto comportarsi. Alcune sono molto dettagliate, ma non è facile trovare una prova di come le persone recepirono questi modelli, specialmente le persone esterne ai gruppi egemoni. Gli statuti civici ne sono un chiaro esempio. I regimi comunali imposero delle norme comportamentali introducendo regole che limitavano una serie di pratiche sociali come l’esternazione teatrale del dolore ai funerali, gli abiti lussuosi, i matrimoni sontuosi, e che punivano le espressioni blasfeme.27 Gli statuti sono una fonte importante per capire sia le nuove norme di comportamento, sia il punto di vista dei gruppi dirigenti che le elaboravano o copiavano dagli statuti di altre città. Ma raramente ci restano prove di come le nuove regole furono accolte. Gli atti con l’applicazione delle leggi possono essere una fonte indiretta, ma rilevante, di ciò che la gente pensava degli statuti. Un ottimo esempio è quello di uno statuto Orvietano mirato a contenere il comportamento ostentato ai funerali, di cui ho già scritto. Come ho dimostrato altrove, mentre il testo dello statuto del 1277 non è sopravvissuto, la versione promulgata nel 1307 individuava le donne come bersaglio specifico: «Nessuna donna o qualsiasi altra persona può uscire di casa piangendo e gridando [...]».28 I verbali del Consiglio dello stesso periodo riportano che i magistrati della città, i Signori Sette, erano allarmati dai pianti lamentosi (luctus) e dall’usanza di strapparsi i capelli (capillationes) durante i funerali, pratiche che andavano contra bonam consuetudinem et bonos mores quasi omnium maiorum civitatis Ytaliae [...] («contro le buone usanze e i buoni costumi di quasi tutte le più grandi città d’Italia [...]»).29 L’esibizione scomposta del dolore era poco raccomandabile in pubblico. Le condanne giudiziarie degli anni 1287-95 rivelano che mentre lo statuto bersagliava le donne, le misure disciplinari colpivano soprattutto gli uomini: duecentodiciotto uomini e solo due donne furono multati per pratiche illegali di lutto.30 Inoltre, molti erano membri dell’élite cittadina, inclusi uomini appartenenti esattamente alla classe di coloro che servivano nella magistratura dei Signori Sette. Questi uomini in sostanza scrissero lo statuto, inviarono custodes perché accertassero le violazioni durante i funerali, infransero le regole producendosi in ostentazioni illecite e si autoinflissero delle multe. La conduzione comunale fu conseguita, parzialmente, attraverso il rafforzamento delle qualità maschili che ci si aspettava di trovare in un uomo onorevole e in un buon cittadino e la penalizzazione delle usanze che ormai erano considerate antitetiche alla conduzione pacifica di una città. Tuttavia, gli uomini potevano essere ambivalenti riguardo a pratiche che solo recentemente erano state etichettate come poco raccomandabili: quando un amico era in lutto per la perdita del figlio, la manifestazione chiassosa del dolore era ancora una tipica dimostrazione di solidarietà e rispetto.
17Un altro corpus di fonti in grado di rivelare qualcosa degli atteggiamenti nei confronti della trasformazione delle idee sulla maschilità è quello delle denunce ai tribunali penali. Le denunce di nobili presentate dai popolani al tribunale speciale fiorentino dell’esecutore degli Ordinamenti di giustizia, a partire dalla metà del XIV secolo, sono particolarmente preziose perché a volte gli accusatori, molti dei quali erano contadini, scrivevano lunghi resoconti sui cattivi comportamenti degli uomini delle classi elevate. Gli scritti possono rivelare qualcosa di ciò che pensavano coloro che non facevano parte dell’élite. A partire dalla metà del XIII secolo, i teorici della morale e della politica dibatterono sul comportamento maschile del ceto dominante in termini di passioni che quegli uomini dovevano controllare per poter vivere insieme in comunità pacifiche o per governarle onestamente. Le loro idee sulla legittima virilità influenzarono moltissimo gli uomini che crearono e sostennero i regimi popolari. Ma quanto si era diffusa la ricezione di quelle idee al di fuori della cerchia politica? A volte le denunce all’esecutore fanno loro eco, calcando l’accento su gesti e minacce visti come atteggiamenti impulsivi e irrazionali. Quest’enfasi suggerisce che le idee dei moralisti sulla moderazione del comportamento maschile iniziavano ad essere condivise da un pubblico più ampio. Discuterò molto brevemente della cultura dell’aristocrazia militare e delle critiche nei confronti di quella stessa cultura reperibili nella letteratura prescrittiva della metà del XIII secolo, nonché dell’analisi in termini di controllo delle passioni che ne fecero i teologi scolastici. Tratterò poi del tribunale dell’esecutore e delle denunce che descrivono l’impulsività maschile e le emozioni incontrollate, in particolare la collera.
La cultura degli uomini di governo e le sue critiche
18Nel suo Cavaliers et citoyens, del 2003, Jean-Claude Maire Vigueur ha analizzato meticolosamente i modelli di comportamento che gli uomini dei gruppi egemoni del XII secolo usarono per costruire ricchezza e potere. Maire Vigueur si è occupato dei milites, i combattenti a cavallo delle milizie urbane. Nella maggior parte dei casi non erano cavalieri addobbati, ma appartenevano lo stesso a famiglie con una lunga tradizione guerriera. Questo dieci-quindici percento della popolazione comprendeva la classe consolare, con famiglie impegnate in una competizione intensa e spesso violenta per cariche e risorse comunali. Maire Vigueur ha descritto la loro cultura come fondamentalmente predatrice: erano capaci di destreggiarsi agevolmente nelle campagne militari per le loro città e in spedizioni condotte per conto proprio. La guerra, ha scritto lo studioso, era una manifestazione naturale della competizione familiare:31 «In realtà, le regole di condotta dei lignaggi militari scaturiscono da un sistema di valori in cui l’odio, il conflitto e lo spirito di competizione prevalgono su qualsiasi altro tipo di considerazione».32 Per mezzo delle incursioni i milites miravano a incassare il riscatto dei prigionieri e a fare un buon bottino: armi, cavalli e animali, in particolare il bestiame. Rolandino da Padova, la cui cronaca Enrico Faini ha caratterizzato come il canto del cigno dei milites, dipinse vividamente la loro violenta distruttività nel resoconto di una spedizione militare del 1258 a Villanova condotta dai seguaci di Ezzelino da Romano: terram totam viriliter invaserunt, comburentes domos, capientes homines, fugantes alios et alios occidentes, rapientes predam quamlibet, quam rapere poterant et conducere et portare («invasero l’intera terra, bruciando case, catturando uomini, cacciando alcuni e uccidendo altri, afferrando qualunque bottino potessero portare via»).33 Rolandino dichiarò che stavano agendo viriliter, ossia virilmente. Erano guerrieri che apprezzavano l’orgoglio, l’esibizione, la grande lealtà nei confronti della famiglia e degli alleati e la punizione feroce in caso di affronti o ingiurie.
19La cultura dei milites fu delineata e criticata dai cronisti, in particolare nei resoconti della vendetta su Buondelmonte del 1216, a Firenze. Nella prima versione, la cronaca dello pseudo Brunetto Latini, la storia della vendetta inizia con una reazione eccessiva a un affronto: un tagliere di carne in faccia durante un banchetto che celebrava l’investitura di un cavaliere.34 I cronisti descrivono in modi diversi cosa successe in seguito, ovvero che ci furono un accoltellamento, la rottura di un accordo matrimoniale, un omicidio e una guerra civile. Enrico Faini ha analizzato il contesto sociale e politico, nonché l’influenza della faziosità nel modo in cui i cronisti raccontarono questi eventi. Ha fatto notare che le guerre civili, tra 1239 e 1267, posero interrogativi su come l’inimicizia privata potesse avere conseguenze così gravi, e che i primi sforzi del popolo al governo in quel periodo portarono all’affermazione di una visione politica che pretendeva di limitare l’uso della violenza privata. Entro l’inizio del XIV secolo, sostiene Faini, il racconto della vendetta su Buondelmonte e le sue terribili conseguenze erano diventati fondamentali per l’educazione politica di un cittadino.35
20A metà del XIII secolo gli autori di testi prescrittivi sollecitarono il cambiamento di questa cultura maschile e lo fecero in dettaglio. Uno dei più noti è Albertano da Brescia. Albertano era un miles, un cavaliere cittadino che in passato si era distinto nella difesa di un villaggio durante il lungo assedio di Brescia ad opera di Federico II. In quella occasione fu catturato e imprigionato. Era anche un predicatore laico, un avvocato e un giudice che servì come amministratore alle dipendenze del podestà e del comune di Brescia. Secondo Ronald Witt, Albertano articolò «un vasto programma per cittadini sempre più consapevoli della necessità di una rigenerazione morale delle loro città».36 I suoi tre trattati morali sono una critica a tutto tondo della cultura dei milites, un quadro della moralità civica da opporre all’etica militare e al fazionalismo.
21Il punto di vista di Albertano fu influenzato dallo stoicismo nell’uso di «rigorose disamine razionali» per scrutare le proprie convinzioni e idee, e per tentare così di staccarsi da tutto ciò che è esteriore estirpando gli appetiti dei sensi e le emozioni.37 La sua opera più popolare, l’Ars loquendi et tacendi (L’arte del dire e del tacere), scritta per il figlio Stefano, è del 1245.38 Gran parte del trattato è composta di consigli dettagliati sull’arte oratoria, incluso il suo scopo, stile, esposizione e pubblico. Albertano inizia esortando un aspirante oratore a cercare la conoscenza di sé: «Ricerca dunque in animo tuo e in te stesso chi sei tu che vuoi parlare, se quel discorso si addice a te e non piuttosto ad un altro».39 Appena dopo si occupa della cognizione stoica circa la necessità di frenare le passioni dell’anima:
In secondo luogo ricerca te stesso e in te stesso, domandandoti se ti trovi in uno stato d’animo calmo e pacifico o se invece sei agitato dall’ira o da qualche turbamento interiore. Se infatti il tuo animo è turbato, devi astenerti dal parlare e, finché sussiste l’ira, tenere a freno i turbamenti del tuo animo. Dice infatti Tullio: «La virtù consiste nel frenare le passioni che turbano l’animo e nel rendere soggetti alla ragione gli appetiti».40
22Albertano si sofferma a lungo sull’importanza di non parlare mossi dall’ira o dall’orgoglio.
23L’anno successivo Albertano scrisse il Liber consolationis et consilii (Libro di consolazione e consiglio) per istruire un altro suo figlio su come un uomo dovrebbe rispondere a un affronto violento.41 It testo è un dialogo tra Melibeo e sua moglie Prudenza. Melibeo vuole trovare il modo migliore di reagire all’attacco dei suoi nemici contro sua moglie e sua figlia. Quindi convoca i suoi alleati e parenti a consiglio per decidere se contrattaccare e vendicarsi o se cercare la pace. Prudenza sollecita la pace e persuade il marito con l’esame stoico delle idee sull’autocontrollo e il distacco razionale, così come sulla base dei precetti cristiani. Melibeo, dopo una lunga riflessione stoica, capisce che la cosa giusta da fare è controllarsi. Decide di non buttarsi a capofitto in una vendetta o in una guerra, ma di scegliere una pace dignitosa e condivisa, resa possibile da un distacco calmo e razionale. L’autocontrollo conferisce a Melibeo maggiore autorità e onore di quanto sarebbe stato possibile se avesse deciso di condurre una rappresaglia passionale e violenta. La storia di Melibeo raccontata da Albertano era estremamente popolare e nel 1300 circolavano almeno cinque versioni in dialetti italiani. Entrambi i trattati esaminano attentamente le aspettative sugli uomini della classe di Albertano, le aristocrazie cittadine della metà del XIII secolo, perorando con fermezza il contenimento dei temperamenti associati ai milites a favore proprio di quelle qualità maschili che i teorici contemporanei della politica consideravano essenziali per un governo giusto e per un comune pacifico e retto da razionalità, controllo delle passioni, decoro.
24Brunetto Latini fu un contemporaneo influente, un retore che ebbe una lunga carriera nella politica fiorentina in cui prestò servizio come cancelliere e poi priore.42 Durante il suo esilio dalla Firenze ghibellina, tra il 1260 e il 1267, scrisse Li Livres dou Tresor (Tresor), un compendio enciclopedico popolare e d’impronta classica, scritto in francese e molto influenzato da Aristotele, dagli stoici e da Agostino. Nel terzo libro Brunetto si occupò notoriamente del governo delle città, fornendo un lungo elenco delle qualità richieste al buon signore e una discussione dettagliata su come governare. Citò il brano dell’Ars loquendi et tacendi di Albertano sulla necessità di esaminare sé stessi e di assicurarsi di non essere schiavi delle passioni prima di parlare.43 Nel capitolo 75 trattò di come scegliere chi eleggere signore della città. Secondo Brunetto, non si doveva considerare «la sua potenza, né il suo lignaggio, ma la nobiltà del suo cuore, l’onorabilità dei suoi costumi, della sua vita e delle sue opere virtuose [...]».44 Inoltre, «[...] che non sia troppo irascibile, che non duri troppo nella sua ira e nella sua cattiva volontà, perché l’ira che dimora nel governo è simile al fulmine e non lascia conoscere la verità, né dare un retto giudizio».45 Il capitolo 98 stabilisce che il signore si guardi «dall’ubriachezza, dall’orgoglio, dall’ira, dal dolore, dall’avarizia, dall’invidia e dalla lussuria. […] Ma si deve guardare molto dal parlare troppo, perché se parla poco e bene lo si ritiene più saggio e parlare molto non è senza peccato».46
25Brunetto scrisse il suo compendio di condotta sociale, il Tesoretto, sotto forma di consigli elargiti da virtù personificate. Evocando Il romanzo della rosa di Guillaume de Lorris, Brunetto descrisse una visita alla Corte di Virtù, la quale «È capo e salute / D’adorna costumanza / E de la buona usanza / E de buon reggimenti».47 Brunetto ascolta quattro donne «Cu’io credo e adoro», Cortesia, Lealtà, Generosità e Prodezza, che consigliano «un bel cavalero».48 Come hanno sottolineato gli studiosi, mentre le donne personificano i valori della cultura cavalleresca, i loro consigli concreti sembrano più adatti al ceto urbano dominante che ai cavalieri, e possono essere piuttosto specifici. Generosità consiglia il «bel cavalero» su come comportarsi nella sua professione, raccomandando generosità misurata e autocontrollo.49 Un uomo non dovrebbe sperperare per colpa di una vanità sconsiderata. Dovrebbe evitare bordelli, taverne e banchetti troppo costosi. Cortesia considera vile la spesa sontuosa per capponi, pernici e grandi pesci. Inoltre, dovrebbe evitare di comprare a interessi.50
26Di certo la gente di città poteva essere ambivalente su queste critiche alle tradizioni di lunga data relative all’onore e alla posizione sociale – la cultura maschile dei cavalieri cittadini – esattamente come furono ambivalenti gli orvietani che infransero il loro stesso statuto per mettere in scena un’esibizione chiassosa di dolore, secondo loro dovuta, per la morte di un loro parente o alleato. Era davvero virile comportarsi come suggerito da Albertano, rispondendo a un attacco non con una ritorsione, ma controllandosi e cercando una riconciliazione? Questa ambivalenza può essere vista nelle discussioni sul podestà. Trattatisti, statuti e letteratura didattica premevano per mettere freni ai podestà: una volta in carica dovevano vivere come monaci, senza donne, feste o banchetti, e senza mescolarsi alle aristocrazie locali o fare riunioni con la famiglia e gli alleati. Come ha dimostrato Maire Vigueur, nella realtà i podestà di solito venivano proprio dall’élite cavalleresca e spesso ovviamente non si attenevano a quelle regole comportamentali. Vigueur ha sostenuto, inoltre, che quando i podestà praticavano le abitudini e i riti della cavalleria, il loro prestigio ne usciva rafforzato.51
27Quando Dante discusse la natura della vera nobiltà nel quarto libro del Convivio, scritto tra il 1304 e il 1307, attinse dalla terminologia scolastica degli appetiti dell’anima. La nobiltà non è ricchezza o discendenza. In termini aristotelici, è la perfezione della natura di una cosa. Nell’uomo ciò richiede la coltivazione dell’appetito naturale della mente: l’intelletto e la volontà. Dante usò la metafora di cavallo e cavaliere:
Veramente questo appetito conviene essere cavalcato da la ragione; ché, sì come uno sciolto cavallo, quanto ch’ello sia di natura nobile, per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, a la ragione obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere. Lo freno usa quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza […] lo sprone usa quando fugge, per lo tornare a lo loco onde fuggire vuole, e questo sprone si chiama fortezza, o vero magnanimitate.52
28Un vero nobile userà la ragione per frenare i suoi appetiti concupiscibili e irascibili, proprio come usa una briglia e gli speroni per controllare il suo cavallo.
Denunce di magnati da parte dei popolani
29I regimi popolari crearono leggi per imporre restrizioni giuridiche a un gruppo di famiglie del ceto dominante, definiti magnati, con un’enfasi sul contenimento di comportamenti violenti specifici. Quelle leggi possono anche essere lette, in parte, come uno sforzo per cambiare le aspettative legate agli uomini della classe egemone. Le prime redazioni furono scritte a Bologna e poi copiate in molte città. Gli Ordinamenti di giustizia fiorentini basarono lo status di magnate sulla presenza di un miles nella famiglia, al quale attribuirono una serie di temperamenti, in particolare una propensione alla violenza. Andrea Zorzi ha sostenuto che le leggi fiorentine servivano a demonizzare i magnati e a giustificare il regime popolare.53 I magnati, identificati come cavalieri e considerati con una predilezione per la violenza, sfidavano la condizione pacifica del comune. Gli Ordinamenti prescrivevano sanzioni severe per i crimini che i magnati infliggevano ai popolani.54 Dovevano garantire sicurezza perché prevedevano la possibilità di un crimine futuro.55 In un saggio fondamentale sui magnati e sui popolani fiorentini, Silvia Diacciati ha dimostrato in modo convincente che le casate identificate come magnatizie derivavano dai milites dei primi decenni del XIII secolo. Ha sostenuto che si trattava di un gruppo ben distinto e caratterizzato da perizia militare, dignità cavalleresca e dall’habitus incline alla violenza e all’oppressione, nonché dall’ostentazione pubblica di «grandigia» e orgoglio.56 Anche Sarah Rubin Blanshei ha usato il concetto di habitus per analizzare ottantatré processi sulla condizione magnatizia presso il tribunale del Capitano del popolo di Bologna, alla fine del XIII secolo. Ha scoperto che i criteri discussi dai testimoni includevano il lignaggio, l’avere un parente cavaliere e lo stile di vita. I magnati infatti indossavano speroni d’oro e pellicce, cavalcavano egregiamente e possedevano cani e uccelli da caccia.57
30La prima redazione degli Ordinamenti di giustizia fiorentini, del 1293, stabilì elaborate disposizioni per la loro applicazione, a volte legate esplicitamente al genere. I popolani potevano essere chiamati a prendere parte alla distruzione della proprietà di un magnate colpevole, un compito che poteva risultare abbastanza pericoloso. Lo statuto richiedeva esplicitamente di agire in modo virile: se il podestà mandava uno o più dei suoi giudici e cavalieri insieme al gonfaloniere di giustizia e ai suoi soldati a distruggere completamente la proprietà del magnate, gli uomini dovevano farlo viriliter et potenter, virilmente e con forza. Allo stesso modo i gonfalonieri di tutte le corporazioni e i loro appartenenti dovevano armarsi e prepararsi a comparire davanti al capitano per obbedirgli viriliter et potenter.58 La versione del 1295 degli Ordinamenti ripete queste ingiunzioni ad agire in modo virile e potente.59
31Nel 1306 il regime popolare fiorentino cercò di applicare le leggi e difendere la costituzione popolare creando l’ufficio dell’esecutore degli Ordinamenti di giustizia. L’esecutore doveva essere un forestiero, non nobile, nominato per un semestre, e doveva portare con sé i propri funzionari, tra cui un giudice e due notai.60 Chiunque poteva scrivere una denuncia, inserirla in un «tamburo», una scatola di legno posta nel palazzo dell’esecutore, e usare il «tamburo» per denunciare funzionari comunali e magnati per aver commesso dei torti. Se un’accusa soddisfaceva i requisiti legali, il tribunale era tenuto a condurre un’indagine, il che significava convocare e interrogare i testimoni. Se il tribunale avesse trovato sufficienti testimonianze, l’esecutore avrebbe riferito il caso al tribunale del podestà. Sono conservati soltanto i documenti a partire dal 1343, a causa dell’incendio nella camera del comune durante l’espulsione del duca di Atene. La maggior parte delle denunce proveniva dal contado e non ebbe successo. Nel 1345 l’esecutore diede corso solamente a una denuncia su quattro.
32Come nei procedimenti accusatori bolognesi, anche in questi casi la procedura legale influenzò la pratica delle denunce. Coloro che depositavano un’accusa dovevano scrivere il loro nome, ma gli accusatori potevano rimanere anonimi e scrivere ciò che avevano scelto di riferire con il minimo rischio di conseguenze. Come risultato, ovviamente, alcune denunce erano false e alcune erano tattiche di pressione. Se la denuncia veniva accettata il tribunale teneva un’inchiesta ex officio. Nella procedura accusatoria l’intera accusa doveva essere dimostrata, ma in un’inchiesta ex officio il tribunale poteva condannare per alcune accuse e assolvere per altre. Gli accusatori dovevano fornire solo le informazioni essenziali: la vittima, l’imputato, dove e quando era accaduto l’evento e un elenco di testimoni. Molti seguirono questa prassi, e molti utilizzarono invece le formule standard derivate dai manuali procedurali, ad esempio descrivendo la gravità degli assalti a seconda che fossero stati compiuti con o senza armi, con o senza spargimento di sangue. Tuttavia, la procedura di denuncia permetteva alle persone di raccontare storie più complesse, drammi che manipolavano gli atteggiamenti nei confronti della politica e del comportamento sociale. Spesso riportavano discorsi di magnati che usavano un linguaggio aspro e rozzo: «che popolari di merda sono questi».61
33Letti attentamente, i testi delle denunce e le testimonianze nelle inchieste possono rivelare aspetti della pratica sociale. Joseph Figliulo-Rosswurm li ha esaminati in relazione ai cartolari di notai del contado per rintracciare il contesto sociale di alcuni casi, consentendogli di costruire un’analisi dettagliata di come la gente del contado interagiva con lo stato fiorentino. Lo studioso sostiene che le persone obbedirono agli statuti depositando le accuse, ma esitarono a comparire come testimoni a causa dei rischi potenziali.62 La maggior parte delle denunce non ebbe seguito o perché i testimoni non comparirono, rendendosi passibili di un’ammenda, o perché comparirono ma affermarono di nihil scire, di non sapere nulla. Non potevano restare anonimi: i testimoni maschi venivano interrogati al banchum iuris nel palazzo dell’esecutore. Il tribunale si atteneva al divieto inserito negli statuti fiorentini di fare entrare le donne nei palazzi municipali. Le testimoni, persino le presunte vittime, venivano interrogate fuori dalla porta, nella piazza, il che rendeva la loro testimonianza estremamente pubblica.
34Anche senza conoscere il contesto, le accuse possono essere lette in termini di strategie retoriche: cioè provando a capire come il querelante cercava di convincere il tribunale a intraprendere l’azione legale.63 Come faceva la gente del contado a conoscere la legge? Alcune denunce sono in latino e, come hanno suggerito Christiane Klapisch-Zuber e Joseph Figliulo-Rosswurm, sono state redatte probabilmente da preti e notai di campagna.64 La maggior parte sono scritte in volgare e alcune sono sicuramente il prodotto della diffusione dell’alfabetizzazione nelle campagne documentata da Robert Black.65 Figliulo-Rosswurm ha dimostrato in modo convincente che per la popolazione rurale i «canali del diritto comunale» erano essenzialmente i loro rettori parrocchiali in carica, i quali dovevano denunciare i crimini locali al tribunale podestarile.66
35Alcuni accusatori conoscevano bene la retorica del regime popolare e ne fecero uso, come dimostrato dai modi in cui caratterizzarono i nobili. I magnati sono definiti tiranni, come quando membri della famiglia dei Bardi «per tirannia e per forza con piu et piu fanti» attaccarono una chiesa di campagna.67 Gli accusatori citavano anche lo scopo e il ruolo dell’ufficio dell’esecutore. Un’accusa inizia con la frase «Dinanzi atte che se sostengno del popolo di Fiorenze misericordia per dio soccorete i popolani [...]».68 Un’altra per sequestro e rapina comincia «Dinanzi a voy messer losequitore de la giustitia el quale siete tenuto e devete refrenare lengiurie e le violenze che I grandi de la citta contado di Fiorenza fanno e anno fatte a popolari di Fiorenze [...]».69 Un’altra fa appello all’onore della corte: «si dispone ala segnoria vostra che voi piaccia per pieta e per lonore de la vostra corte recoverare la verita e secondo che retrovarete ne ponite i dicti due fratelli». In questo modo, ha aggiunto l’autore dell’accusa, l’esecutore può mostrare la bellezza e la benevolenza del suo lavoro.70
36Nel suo studio magistrale sui magnati, Christiane Klapisch-Zuber ha sostenuto che indipendentemente dal fatto che il loro lignaggio fosse urbano o rurale e che fossero principalmente banchieri o commercianti, nelle denunce gli abitanti del contado li descrivevano come signori feudali che agivano con «grandigia», «maggioranza», «superbia», e che richiedevano servizio e obbedienza.71 Inoltre, Klapisch ha sottolineato che alcuni accusatori citarono espressioni di odio dei magnati nei confronti del popolo fiorentino. Per fare due esempi tra molti, quando un Rossi prese a pugni e ferì un bambino, urlò «[...] io t’ò fato questo per inimitione del comune e del popolo e dela soa Signoria [...]».72 Un altro magnate aggredì un uomo dicendo «Cane, io te farò rinegare la fede del popolo di Fiorenza».73 I magnati, stando alle parole che sono loro attribuite, infrangono tutte le regole di Albertano relative all’eloquio pubblico e agiscono in modo illecito perché insultano grossolanamente e rabbiosamente il regime mentre infliggono violenze ai deboli. Gli Ordinamenti di giustizia includevano una rubrica sulla diffamazione verbale dei magistrati comunali: un magnate che li diffamava o disonorava verbalmente doveva essere punito a discrezione del podestà e del capitano.74
37Gli accusatori descrivevano talvolta la violenza impulsiva come qualcosa di irrazionale. Come ha sottolineato Klapisch, i magnati mancavano di autocontrollo.75 I querelanti delineavano esattamente il tipo di comportamento maschile che Prudenza aveva insegnato a Melibeo come evitare: una reazione irrazionale, impulsiva e violenta a un affronto. Questo ovviamente non significa che avessero letto Albertano, ma che le aspettative di genere per i maschi dei ceti superiori stavano cambiando. Le loro storie evocavano il tipo di qualità maschili che per i trattatisti rendevano un uomo inadatto a governare: impulsivo, spinto da rabbia ardente o avidità, senza controllo della ragione. Si offende facilmente ed è pronto a reagire con violenza e brutalità sproporzionate rispetto all’affronto che ha scatenato la sua collera. Stando alla metafora di Dante, non sa come controllare il suo cavallo. Una denuncia menziona una donna di San Jacopo a Trecento che mosse delle accuse a un certo Rossi per aver portato grano da Firenze per poi rivenderlo ai poveri abitanti del villaggio: «Si li disse c’egli […] facea reccare el pane del comune da Firenze e poscia e’ rivendea ale povere persone».76 La donna non solo lo descrisse come avaro, perché portava grano da Firenze per rivenderlo ai poveri in un momento di carestia, ma anche come incline alla vendetta impulsiva, rabbiosa e brutale: infatti gettò la donna a terra e la bastonò a sangue.
38Molto spesso chi accusava sottolineava il furor, la rabbia irrazionale che Ambrogio Lorenzetti impersonò come un Minotauro negli affreschi coevi del Buon Governo, nel Palazzo Pubblico di Siena.77 Alcuni descrissero direttamente delle forme di dominio che evocavano le cavalcate dei milites del secolo precedente, incluso le incursioni di bande armate di fanti ai danni di chiese e mulini rurali.78 Ma un accusatore poteva anche descrivere il movente del magnate accusato come collera per un piccolo affronto. Un caso che sopravvive sotto forma di sentenza del tribunale podestarile descrive un raid di rappresaglia compiuto da un uomo che era di fatto un signore feudale. Chele Nutini da San Godenzo nel Mugello, a nord di Firenze, accusò e denunciò il conte Guido Domestico, dei conti Guidi, una famiglia feudale molto antica con estese proprietà nel contado. I Guidi avevano ceduto San Godenzo a Firenze nel 1344, due anni prima di questo caso.79 Chele accusò il conte Guido di avergli imposto ingiustamente obblighi e dato un ordine con la forza e la violenza sebbene fosse un popolano libero della città e del popolo di Firenze.80 Il conte Guido aveva intimato a Chele di andare a sue spese a proteggere un castrum a Romandola, vicino alle terre dei Guidi, come se fosse l’uomo del conte, il suo fidelis. Chele si rifiutò e il conte reagì:
[...] quia ipse Chele popularis predicte noluit accedere ad dictum castrum nec ut fidelis servire eidem, ipse Guido Domesticus, videns quod ipse Chele a dicto suo divertebat mandato, furore spiritus instigatus una cum pluribus malendrinis et masnaderiis suis domesticis et fidelibus numero 50 et ultra per vim et violentiam et in detractionem juris comunis et populi Florentini et ipsius Chelis offensam, accesit ad domum dicti Chelis [...]
([...] siccome Chele, il popolano sopra menzionato, non voleva andare al castrum né voleva servirlo come fidelis, Guido Domestico, vedendo che Chele avversava il suo ordine, con lo spirito istigato dal furore andò a casa di Chele con più di cinquanta dei suoi malandrini, masnadieri, domestici e fedeli, con la forza e la violenza e con disprezzo della legge del comune e del popolo di Firenze e in oltraggio a Chele [...]).
39Gli uomini del conte gli rubarono tutto il grano, il vino, i beni di casa e persino i suoi animali. Non contenti gli bruciarono anche la casa. In furore perseverans («perseverante nel suo furore») il conte Guido fece tagliare tutti gli alberi e le viti sulla terra di Chele e distruggere le castagne. Questo è il tipo di rappresaglia pesante che ci si può aspettare da un signore feudale irritato dalla disobbedienza. L’esibizione dell’ira di un signore è stata per molto tempo una strategia di dominio.81 Questa forma di devastazione, come ha scritto Maire Vigueur, seguiva le «azioni e riti di distruzione tipici della guerra mediterranea».82 Probabilmente la vera questione era terrorizzare i vicini di Chele affinché obbedissero a degli ordini illeciti. Ma Chele scelse di includere una frase nella sua denuncia che spiegava diversamente la motivazione di Guido: il conte era infuriato perché Chele gli negava il diritto di dargli un ordine. Chele era un libero popolano fiorentino che non era più tenuto a obbedire, perché i Guidi avevano ceduto il suo villaggio a Firenze, un fatto che intese rimarcare. Il testo di Chele pone più enfasi sulla furia del conte per la sfida verbale piuttosto che sul gesto di disobbedienza. Non c’era una logica legale per questa spiegazione della motivazione del conte. Chele tuttavia descrisse Guido come completamente furioso perché aveva perso potere. È questo il furor che lo spinse a una rappresaglia totalmente sproporzionata. Il conte Guido non si presentò in tribunale e pertanto fu dichiarato colpevole in contumacia, condannato a risarcire i danni, restituire la proprietà, pagare una multa di 600 lire al comune e, se catturato, a bruciare sul rogo.
40Gli accusatori spesso descrivevano magnati che reagivano in modo eccessivo a un affronto minore mostrando un’arroganza puerile e una violenza meschina. Quando tre uomini del casato Maneri rubarono mele e pere dalla terra di una coppia, la donna che li vide cominciò a urlare e loro reagirono chiamandola «sozza troia» e tirandole pietre. Una le colpì il viso facendole sanguinare il labbro.83 Il caso fu inoltrato al tribunale del podestà. In un’altra denuncia Leonino degli Agli è accusato di aver afferrato Monna Diana in un campo e di averle preso e gettato via le castagne che portava sulla schiena. Quando lei reagì angosciata lui le diede pugni sul petto, sulle spalle, sui reni e sulla testa.84
41Una denuncia del luglio del 1349 descrive un magnate che aveva commesso un reato minore e che alle rimostranze della vittima reagì con violenza impulsiva e con una minaccia. Il tribunale dell’esecutore aprì un’inchiesta quando gli fu notificato che Domenico di Jacopo de Tornaquinci, con due compagni armati, avevano rubato un maiale. Il proprietario dell’animale, Mazone di Campi, aveva chiesto aiuto («accor uomo»). Domenico reagì colpendolo ripetutamente e minacciandolo: l’anonimo querelante riferì di aver sentito Domenico dirgli «se tu gridi io t’ucidero».85 L’immagine di un magnate che ruba un maiale e poi risponde alla proteste del proprietario con una minaccia di morte ritrae una reazione esagerata disdicevole. Furono convocati undici testimoni ma se ne presentarono solamente quattro. Gli altri furono banditi con multe sostanziali per mancata comparizione. Chiaramente il risultato finale fu che Domenico si tenne il maiale e che sette dei vicini di Mazone furono puniti per non aver rispettato la legge.
42Alcune denunce descrivono violenze irragionevoli e apparentemente inutili commesse nelle taverne. In una si legge di un magnate che in una taverna di Calenzano picchiò un uomo a morte colpendolo alla testa con la brocca del vino irato animo et malo modo et propter superbiam et mangnanimitatem contra impotenti («con animo iracondo e in malo modo a causa dell’orgoglio e dell’ira contro i deboli»).86 Nessun testimone si fece avanti.87 Un’altra racconta una lunga storia di una lite per una richiesta di cibo che in realtà era stato preparato per qualcun altro. Francesco di Girozzo de Bardi andò con un cugino in un alloggio a San Miniato al Monte e lì vide un cappone arrosto e chiese all’oste, un certo Giorgio, di servirlo per il loro pasto serale. L’oste rispose che non poteva perché doveva servirlo a Monna Francesca. A quel punto Francesco se lo prese ugualmente e aggredì l’oste.88
43Le confische per debiti provocavano reazioni violente contro i funzionari civili. Detto brevemente, la riscossione del debito era funzione statale. Un creditore poteva chiedere che fosse inviato un messo ufficiale, chiamato nuncio, per confiscare i beni di un debitore come pagamento di un prestito scaduto.89 Un certo numero di casi descrivono magnati che subirono confische e che per risposta non cercarono di negoziare con i loro creditori o di contestare la confisca in tribunale, ma aggredirono all’istante il nuncio. Due casi riguardano liti per confische di cavalli. Un cavallo era un bene di grande valore che un nuncio si poteva portare via rapidamente perché poteva muoversi. La confisca di un cavallo era senz’altro particolarmente esasperante perché un cavallo da sella era un simbolo di classe. Ancora una volta, Blanshei ha mostrato che nelle testimonianze di processi bolognesi sulla condizione magnatizia vengono menzionati spesso gli speroni d’oro e le selle. Quando un nuncio confiscò un cavallo che apparteneva a Simone della Tosa per una gabella non pagata, Simone andò al palazzo dell’esecutore, si riprese il cavallo e colpì per due volte il nuncio. La reazione di Simone è descritta come impulsiva e furiosa. Il testo la definisce un’azione compiuta in dedecore et obprobrium comunis («ad onta e oltraggio del comune»), presumibilmente perché non solo aggredì un nuncio, ma anche perché violò la legge che vietava ai magnati l’ingresso nel palazzo civico.90 La sua fu una reazione particolarmente poco saggia, per via delle grandi probabilità di finire sotto accusa in tribunale e di avere contro, come testimoni oculari attendibili, degli ufficiali pubblici.
44Quando a Zanobio de Rossi fu confiscato il cavallo, anch’egli se lo riprese e colpì il nuncio almeno sei volte, anche se non nel palazzo civico a quanto pare.91 Un’altra denuncia descrive forse una ritorsione molto più brutale. In essa è dichiarato che due membri della famiglia Gherardini e i loro seguaci armati uccisero un nuncio con lancia e spada in un villaggio della Val di Greve e che dissero agli astanti di non aiutare l’uomo, quia opportet quod iste latro moriatur («perché è giusto che questo ladro muoia»). Chiamarlo ladro suggerisce che i due Gherardini erano furiosi per via della confisca operata dal nuncio.92
45Infine, due denunce riguardano Giovanni di Lottino de Gherardini, soprannominato Bugliassa. I Gherardini sono il casato con il maggior numero di denunce all’esecutore.93 Bugliassa aveva una reputazione odiosa e fu denunciato ripetutamente, incluso il caso di una lunga e intermittente battaglia giudiziaria sul rapimento di un uomo di nome Cino Fave avvenuto nel luglio del 1343. L’uomo fu imprigionato nel castello dei Gherardini a Vicchiomaggio, nel comune di Greve in Chianti, dopo che gli fu rubato il cavallo e il denaro. Cino perse un primo processo ma denunciò nuovamente Bugliassa nel luglio del 1348, sostenendo che l’esecutore responsabile del processo precedente era di parte, perché «mala persona», e che aveva commesso sodomia con Bugliassa nel palazzo.94
46Dopo il testo della denuncia di Cino, nel registro c’è un’altra denuncia che descrive Bugliassa mentre picchia brutalmente un soldato durante una riunione dei Gherardini in occasione di una celebrazione nuziale. Il resoconto è scioccante perché le nozze erano feste che celebravano alleanze matrimoniali, occasioni per mostrare orgoglio familiare, onore e ospitalità. Bugliassa e suo fratello Niccolò furono denunciati nel gennaio del 1348 per un’aggressione avvenuta quasi cinque anni prima, nel maggio del 1343.95 Lorenzo di Ventura, un «fante» al servizio di Cece Gherardini, si trovava in una casa in piazza Santa Croce dove erano riuniti i Gherardini per celebrare un matrimonio. Niccolò disse a Lorenzo di portare fuori il suo cane per fargli fare i bisogni. L’animale, stizzoso, morse due volte Lorenzo sulla gamba, facendolo sanguinare e urlare. Una soluzione sarebbe stata quella di zittire sia il soldato sia il cane per non disturbare ulteriormente la celebrazione. Niccolò, invece, disse a suo fratello Bugliassa di cacciare l’uomo fuori di casa. Bugliassa colpì Lorenzo in faccia ripetutamente e lo spinse fuori, nella piazza. Lorenzo, sanguinante per i morsi del cane e per i pugni di Bugliassa, denunciò l’offesa al duca di Atene, «che era aloro tiranno in questa città». Un uomo del duca intervenne con Cece Gherardini, di cui Lorenzo era al soldo, e lo fermò. 96 L’accusatore, probabilmente Cino Fave, la vittima del rapimento, fece di tutto per identificare dei testimoni oculari nel quartiere di Santa Croce. In effetti Bugliassa fu denunciato all’esecutore per due reati commessi cinque anni prima. È presumibile che Cino fosse abbastanza determinato da depositare entrambe le accuse. Le descrizioni di Bugliassa nei testi sono drammaticamente brutali. Responsabile di rapimento e reclusione, furto di cavalli e sodomia, e nondimeno del pestaggio di una guardia, solo perché urlava per i morsi del cane di suo fratello. Entrambe le accuse, però, non ebbero seguito.
47Questa analisi della politica delle aspettative sui comportamenti maschili si applica anche alle donne della medesima classe sociale? Negli archivi le denunce riguardanti donne del ceto magnatizio sono rare e di solito sono accuse relative ad aggressioni a mani nude, come nel caso di una vedova dei Pazzi che prese a pugni una donna e la buttò violentemente fuori di casa; oppure l’aggressione manesca di una donna ai danni di un uomo a Panzano. Entrambi i casi furono deferiti al tribunale penale. Alcune donne furono denunciate perché si servirono degli uomini al loro servizio per commettere dei furti, e in un altro caso per appiccare un incendio doloso.97 Tuttavia, in una denuncia clamorosa del 1348/9, l’autore fece menzione di aspettative sulle donne che divergevano da quelle riscontrate nelle denunce di uomini del ceto magnatizio. L’accusa era relativa a un dramma consumato tra le mura domestiche: una donna aveva avvelenato e ucciso il marito, il tutto in combutta con uno degli uomini al servizio di lui. Monna Margarita era una Buondelmonti che viveva con suo marito popolano, Guidalocto Bernardi, nella parrocchia urbana di Santa Maria sopra Porta. La donna fu accusata di aver mandato Bonaccio, il fante di suo marito, a comprare dell’arsenico, di averlo aggiunto al cibo che aveva cucinato per Guidalocto e di averglielo fatto ingerire. Guidalocto si sentì subito male fino a credere di star per morire, per cui mandò un membro della sua famiglia a chiamare un dottore. Margarita e Bonaccio, temendo che il dottore potesse scoprire il crimine, strangolarono Guidalocto e gli rubarono tutti i soldi custoditi in casa. L’inchiesta non provò nulla.98 Vale la pena notare che l’accusa non era plausibile perché nel medioevo il veleno raramente agiva all’istante. Questo caso è simile ad altri accaduti a Bologna nel tardo XIII secolo in cui uomini che diffidavano delle mogli, o che forse le odiavano, le accusarono di aver tentato di ucciderli con il veleno. Gli statuti bolognesi, come la legge romana, prescrivevano il rogo per un condannato per veneficio. Ho sostenuto altrove che si tratta di qualcosa di strutturale: le abitudini coniugali del ceto superiore potevano alimentare tensioni all’interno della famiglia.99 Il veleno richiedeva una pianificazione subdola, era qualcosa di ingannevole e, a differenza di altre forme di omicidio, richiedeva poca forza fisica e poteva essere nascosto perché raramente causava sanguinamento.100 Era l’arma per eccellenza dei deboli, o perlomeno i potenti immaginavano che le loro mogli o gli ebrei, ovviamente, stessero cercando segretamente di avvelenarli. In realtà, una rara accusa all’esecutore che evoca le aspettative di genere per le donne mi sembra collegata più alla politica domestica che alla politica civica.
Conclusioni
48Ho suggerito due approcci all’analisi di genere nei documenti dei tribunali penali italiani del medioevo. Entrambi esaminano le caratteristiche delle aspettative di genere attraverso l’esplorazione dell’intersezione delle norme sociali e legali con la pratica. Il primo è relativo al modo di guardare l’intervento femminile. Le accuse di stupro o tentato stupro del tribunale penale di Bologna, negli anni Ottanta del Duecento, sono particolarmente rivelatrici perché confutano alcune ipotesi sulle aspettative di genere relative alle donne. Gli studiosi hanno creduto che le donne e le loro famiglie fossero riluttanti a muovere delle accuse di stupro perché poteva danneggiare l’onore e la reputazione, inoltre i benefici erano pochi perché le condanne erano piuttosto rare. I casi bolognesi mostrano che le scelte fatte dalle donne erano legate anche al tipo di procedura giudiziaria e variavano altresì a seconda del loro ceto sociale. Le donne, in gran numero secondo gli standard contemporanei, approfittavano di una procedura accusatoria molto accessibile e poco costosa nelle sue fasi iniziali. Circa la metà di loro erano donne che probabilmente mancavano di una dote e non potevano sposarsi e che evidentemente avevano una cognizione diversa dell’onore rispetto alle donne di famiglie più facoltose. I possibili benefici includevano patteggiamenti, offerte di denaro e forse anche un matrimonio. L’obiettivo più probabile, tuttavia, era quello di cacciare un uomo pericoloso fuori dal quartiere. In realtà le donne vittime di stupro o di un tentativo di stupro potrebbero essere state meno reticenti di quanto congetturato dagli studiosi. A volte scelsero di usare il tribunale per rispondere aggressivamente all’oltraggio subito.
49Il secondo approccio è quello di guardare al genere e allo stato, inteso come istituzione. Citando ancora Manicom, in questo approccio «[...] ciò che è importante è il modo in cui, storicamente, le nuove istituzioni di governo si appropriano e trasformano forme di potere e relazioni di genere precedenti [...]».101 Ho sostenuto che le città italiane settentrionali del XIII e XIV secolo furono un chiaro esempio del ruolo che le aspettative di genere possono svolgere nella crescita dello stato. I trattatisti del tredicesimo secolo criticarono la cultura elitaria maschile precedente e sostennero che razionalità e controllo delle passioni erano necessarie per stabilire e mantenere la condizione pacifica del comune. Alcuni cronisti insegnarono la stessa lezione. Le loro opinioni influenzarono lo sviluppo dei regimi popolari, in particolare attraverso programmi legislativi come quelli sulla creazione e limitazione dei magnati. Queste opinioni furono accettate diffusamente? Le denunce di magnati all’esecutore degli Ordinamenti di giustizia fiorentini suggeriscono che negli anni Quaranta del Trecento queste idee circolavano abbondantemente. I crimini di solito più denunciati erano violenze gravi: aggressione, rapimento, stupro, assassinio e furto. E quando gli autori delle denunce indicavano le motivazioni e gli stati emotivi dei magnati accusati, spesso riportandone i discorsi, non descrivevano un uso strategico della violenza finalizzata al dominio, ma un’emozione irrazionale e sfrenata, l’ira per un’offesa di poco conto.
Bibliographie
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Archivi
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ASFi = Archivio di Stato di Firenze
ASO = Archivio di Stato di Orvieto
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Notes de bas de page
1 Dialeti 2018, p. 333.
2 Dean 2001, p. 82.
3 Karras 2012, p. 146.
4 Lansing 2018.
5 Tutte le indagini condotte a Bologna durante gli stessi sei semestri includono almeno altre venticinque denunce per stupro o tentato stupro. Non sono conteggiate in questa analisi perché raramente furono presentate dalle presunte vittime e dalle famiglie. Nella maggioranza dei casi il tribunale condusse un’inchiesta perché qualcuno – spesso un funzionario locale o un vicino – notificò il reato.
6 Cohn 1996, p. 30.
7 Dean 2007, p. 140.
8 ASBo, Libri inquisitionum et testium, Mazzo 6, fol. 160r.
9 ASBo, Libri inquisitionum et testium, Mazzo 8, Registro 1, fol. 5r.
10 Casi che identificano la vittima come nubile, con padre deceduto e dove si fa menzione di parenti maschi sono in ASBo, Accusationes, Mazzo 5a, Registro 1, fol. 23v; Registro 2, fol. 11r, 65r, 121r; Registro 3, fol. 26r; Registro 5, fol. 1v; Registro 8, fol. 6r; Registro 10, fol. 10v; Mazzo 5b, Registro 18, fol. 17v, Registro 19, fol. 8r, Mazzo 6a, Registro 1, fol. 36v, 89v; Registro 3, fol. 13v; Mazzo 6b, Registro 10, fol. 52v, 68r; Registro 11, fol. 2v; Registro 14, fol. 2; Registro 15, fol. 4v, 5v, 22r; Mazzo 8a, Registro 1, fol. 79r; Registro 8, fol, 20v; Mazzo 8b, Registro 10, fol. 1r, 40r; Registro 11, fol. 6v, 14v, 16r; Registro 14, fol. 6v, 7v, 38r.
11 Comunicazione e-mail del 9 settembre 2017.
12 Per i casi di donne con un curatore che probabilmente non avevano né genitori né risorse: ASBo, Accusationes, Mazzo 5a, Registro 2, processo dell’8 maggio, 1296 (la paginazione è incerta); Mazzo 5b, Registro 17, fol. 22v; Mazzo 6a, Registro 1, fol. 17r; Mazzo 6b, Registro 15, fol. 24r; Mazzo 8a, Registro 12, fol. 20r. Per i casi di donne con un curatore che non fanno menzione di un marito o di parenti maschi: ASBo, Accusationes, Mazzo 5a, Registro 2, fol. 11r; Mazzo 6a, Registro 1, fol. 36v, 89v; Mazzo 8a, Registro 1, fol. 78v; Registro 7, fol. 16v; Registro 10, fol. 1r; Registro 11, fol. 14v; Registro 14, fol. 6r, 7v, 38r.
13 Vallerani 2005, p. 121.
14 Vallerani 2005, p. 144.
15 C’è una ricca letteratura sulla risoluzione delle controversie discussa da Dean 2001, p. 18-20; si veda Blanshei 2010, p. 495-97.
16 Vallerani 2005, p. 178-80.
17 ASBo, Accusationes, Mazzo 8a, Registro 3, fol. 79. La sposa era una pastorella di basso livello. Per un caso di questo periodo risolto con un matrimonio e che portò a un processo inquisitorio si veda ASBo, Libri inquisitionum et testium, Mazzo 12, Registro 5, fol. 15r-18v. Si vedano inoltre Brundage 1987, p. 396-98 e Brundage 1982, p. 141-48.
18 C’è una testimonianza di una somma offerta per questi fini in un’inchiesta ex officio del 1295 per uno stupro perpetrato da un Bentivoglio. La presunta vittima dichiarò di non essere stata violentata e testimoni del quartiere dichiararono che le erano state pagate 50 lire per negare l’accusa. Il caso è conservato in ASBo, Libri inquisitionum et testium, Mazzo 35, Filza 6, fol. 32r-42r. Si veda la discussione in Lansing 2018.
19 Migliorino 1985.
20 ASBo, Libri inquisitionum et testium, Mazzo 7, fasc. 4, fol. 1r.
21 Scott 1988, p. 28-50.
22 Manicom 1992, p. 457.
23 Arnold – Brady 2011, p. 3.
24 Griffin 2018, p. 385, che a sua volta cita Bourdieu 1977, p. 72 e Bourdieu 1984, p. 91. L’articolo di Griffin è un riassunto delle critiche al modello di maschilità egemonica avanzate da Connell 1995.
25 Dialeti 2018, p. 332 sottolinea che la maschilità non è stata un argomento importante nella storiografia italiana sui primi secoli dell’età moderna, un’osservazione che vale anche per il tardo medioevo.
26 Witt 2008, p. 103.
27 Kovesi Killerby 2002; Muzzarelli – Campanini 2003.
28 ASO, Statuti 26a, fol. 1r-v.
29 ASO, Statuti 26a, fol. 10r-v. Per la maggior parte delle frasi e degli statuti si veda Petrocelli – Riccetti – Rossi Caponeri 2005, p. 989-97. Si veda anche ASO, Giudiziario, Busta 2, fasc. 8, fol. 75r.
30 Lansing 2008, cap. 2.
31 Maire Vigueur 2004, p. 52.
32 Maire Vigueur 2004, p. 19.
33 Rolandino 1905, p. 147-48. Faini 2014, p. 133.
34 Pseudo-Brunetto 1894, p. 233.
35 Faini 2006.
36 Witt 2008, p. 449; Artifoni 2004.
37 Nussbaum 1994, p. 335-41 [tr. it. p. 355-61].
38 Albertano 1998; Graham 2000.
39 Requiras ergo in animo tuo a te ipso quis es, qui dicere vis, utrum dictum illud ad te pertineat an potius ad alium. Albertano 1998, p. 4.
40 Secundo requiras te ipsum et a te ipso utrum in plano et quieto sensu permaneas an vero ira vel aliqua perturbatione animi motus existas. Nam si turbatus est animus tuus, a locutione cessare debes et motus tui animi turbatos cohibere ira durante. Ait enim Tullius: «Virtus est cohibere motus animi turbatos et appetitiones efficere rationi». Albertano 1998, p. 4. La citazione si basa sul De Officiis 2.18 di Cicerone.
41 Si veda Lansing 2008, p. 160-171.
42 Sull’educazione di Brunetto e l’apprendimento classico e tecnico a Firenze agli inizi del Duecento si veda Faini 2017.
43 Brunetto Latini 1947, Libro 2, pt. 62.
44 Brunetto Latini 1947, Libro 3, pt. 75.
45 Ibid.
46 Brunetto Latini 1947, Libro 3, pt. 98.
47 Brunetto Latini 1981, l. 1240-43.
48 Brunetto Latini 1981, l. 1338 e 1367.
49 Brunetto Latini 1981, l. 1367-69.
50 Brunetto Latini 1981, l. 1449-1512.
51 Maire Vigueur 2001.
52 Dante 1999, 4.76, p. 664. Si veda King 2012, p. 229.
53 Zorzi 1995.
54 Arrighi 1995.
55 Le complesse fonti testuali per le leggi sono state analizzate e curate da Diacciati - Zorzi 2013. Sulla giustizia penale fiorentina in generale si veda Zorzi 1988.
56 Diacciati 2011, p. 397.
57 Blanshei 2010, cap. 4, pt. II.
58 Diacciati – Zorzi 2013, Statuti I, rubrica 5, p. 25-26.
59 Diacciati – Zorzi 2013, Fondo nazionale II, 1 153, rubrica VI, p. 74-75.
60 Zorzi 1988.
61 Klapisch 2006, p. 124. L’autrice cita ASFi, Capitano del Popolo (in seguito Capitano), 53, fol. 14 e 20.
62 Figliuolo-Rosswurm 2019.
63 Figliuolo-Rosswurm 2019.
64 Klapisch 2006; Figliuolo-Rosswurm 2019.
65 Black 2007.
66 Figliuolo-Rosswurm 2019.
67 ASFi, Esecutore degli Ordinamenti di giustizia (in seguito EOG) 21, fol. 54r-55v. Si veda Capitano 35, fol. 11v-12v.
68 ASFi, EOG 21, fol. 82r.
69 ASFi, EOG 96, fol. 27r.
70 ASFi, EOG 96, fol. 24r-v.
71 Klapisch 2006, p. 109; Caduff 1993, p. 33.
72 Klapisch 2006, p. 124. L’autrice cita ASFi, Capitano 108, fol. 29.
73 Klapisch 2006, p. 124. L’autrice cita ASFi, Capitano 53, fol. 31v.
74 Diacciati 2013, p. 34-35.
75 Klapisch 2006, p. 121.
76 ASFi, Capitano 53, fol. 13v. Si veda Klapisch 2006, p. 125.
77 Frugoni 1988, p. 63-66.
78 Per due esempi si vedano ASFi, EOG 1, fol.16r-19r, un’incursione degli Adimari ai danni di un mulino; EOG 51, fol. 39r-v ed EOG 84, fol. 72-74, l’attacco ad una chiesa.
79 Su San Godenzo si veda Pirillo 2005, p. 503-504.
80 La frase è in ASFi, Podestà 135, fol. 260v-261r.
81 Lansing 2010; Rosenwein 2010; Rosenwein 1988; Barton 1988.
82 Maire Vigueur 2004, p. 43.
83 ASFi, EOG 51, fol. 31r-32r.
84 ASFi, EOG 21, fol. 57r.
85 ASFi, EOG 122, fol. 8r-v; si veda anche Capitano 103, fol. 24r-v.
86 Da magnanimus, in questo caso nell’accezione di incline all’ira e non di magnanimo. Si veda Du Cange 1885.
87 ASFi, EOG 51, fol. 46r-47r.
88 ASFi, EOG 51, fol. 43v-45r.
89 Sulla confisca a Lucca, Smail 2016, p. 160-171.
90 ASFi, EOG 21, fol. 51r-v.
91 ASFi, EOG 21, fol. 67r.
92 ASFi, EOG 1, fol. 22r-24r.
93 Klapisch 2006, p. 336n.
94 ASFi, EOG 51, fol. 2r-v; 54, fol. 31r-34r; 56, fol. 15r-16r; 96, fol. 27v.
95 ASFi, EOG 96, fol. 24r-v.
96 ASFi, EOG 96, fol. 24r-v; 95, fol. 20r-22r.
97 Per l’aggressione commessa dalla vedova si veda ASFi, EOG 21, fol. 60r-62r. L’aggressione avvenuta a Panzano si trova in EOG 33 fol. 43r. Per una vedova che invia uomini a bruciare una fattoria e una colombaia e poi cerca di corrompere un uomo perché confessi il crimine si veda EOG 96, fol. 59r-60v.
98 La denuncia si trova in ASFi, Capitano 53, fol. 7v-8v, e ASFi, EOG 119, fol. 34r-35v.
99 I casi e i loro contesti sociali e culturali sono discussi in dettaglio in Lansing 2013.
100 Si vedano gli studi numerosi di Franck Collard, specialmente Collard 2003.
101 Manicom 1992, p. 457.
Auteur
University of California, Santa Barbara - clansing@ucsb.edu
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